"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

Lacune, fratture, lacerazioni

Arte e testimonianza

Angela Mengoni

English abstract

Raccontare una storia significa, come sapeva Agostino,
ripercorrere i meandri della memoria, affrontare anfratti, buio, paradossi, lampi di luce:
Significa scoprirsi “senza termine”, una “moltitudine infinita”.
Significa scoprire sé come infiniti e dunque letteralmente indicibili.
Significa di fatto testimoniare l’inesprimibile.
Ma che rapporto ha la mia storia, le nostre storie, con la storia.
Cosa testimonia la storia? Come si intreccia alle storie?
Franco Rella, Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza

Pensare la portata testimoniale dell’opera d’arte, la sua capacità di prendere in carico il tratto costitutivamente eccedente del mondo o la dismisura dell’evento, significa anche, suggerisce Franco Rella nelle pagine di Dall’esilio, chiarire che l’orizzonte referenziale dell’evento e del mondo non è compatto e scevro da lacune, significa cioè chiarire anzitutto di quale storia l’arte può essere testimonianza.

È il Nietzsche della II inattuale a mettere in guardia sul modo in cui l’ipertrofia di storicizzazione, la “febbre storica” che ha assalito la sua epoca, comporti paradossalmente una omogeneizzazione del passato e una rassegna livellante degli eventi come nel dispositivo delle esposizioni universali, cosicché la narrazione storica diventa un produttore di coerenza laddove tutto è invece eterogeneità e frattura: “Questo eccesso di storia porta a saturazione le lacune, le fratture, le lacerazioni che hanno solcato il tempo che ci sta alle spalle, e che si prolungano nel nostro tempo” (Rella 2004, 90). Contro questa compattezza scevra da conflitti, per Nietzsche la relazione col passato deve essere presa in carico da “un sapere che volge il pungolo verso se stesso”, un sapere capace cioè di ripensare i modi della relazione tra presente e passato al di là di ogni continuismo storicista.

Quella di un pungolo che inaspettatamente si rivolge contro alla mano e al corpo che lo brandisce è una figura di pensiero che richiama l’idea di “storia a contropelo [gegen den Strich]” con cui in Über den Begriff der Geschichte Walter Benjamin – citato poche pagine più avanti da Rella – indicava la folgorante produzione di leggibilità storica composta nell’immagine dialettica da un ora, lo Jetztzeit, e un allora che si illuminano reciprocamente, in un lampo. Le nuove forme che questo sapere deve trovare per poter testimoniare delle lacune, fratture e lacerazioni del passato sono, per Nietzsche, le forme dell’arte; è proprio a partire da questo legame tra il riconoscimento della costitutiva resistenza e lacunosità degli eventi che tessono il passato e la capacità delle forme artistiche di far segno a quella resistenza che Franco Rella dipana il suo viaggio attraverso “la creazione artistica come testimonianza”, come riassume, in modo piano, il sottotitolo del volume.

Vorrei qui sottolineare brevemente due tratti di questa riflessione, che sono anche quelli che, per certi aspetti, possono avvicinarla – pur nelle ovvie e non trascurabili differenze rispetto a una tradizione di matrice strutturalista – all’orizzonte di una semiotica del testo e di uno sguardo ravvicinato alle dinamiche di senso dell’opera d’arte, che sono anche e sempre dinamiche immanenti alle logiche del sensibile delle opere. Anzitutto, la rivendicazione dell’orizzonte testimoniale come costitutivamente plurale: non è mai l’omogeneità compatta, immediata, dell’immagine-simbolo che può testimoniare della lacunosità dell’orizzonte memoriale e evenemenziale, giacché “fare storia è costruire una trama di storie” (Rella 2004, 97). In secondo luogo, il fondamentale riconoscimento che il nucleo resistente, inassimilabile dell’esperienza non è testimoniabile dalla rivendicazione di una sua supposta irrappresentabilità e di una resa all’inesprimibile, al contrario: le risorse della forma artistica, lungi dal limitarsi a una rappresentazione mimetico-referenzialista, sono capaci di iscrivere al cuore della forma sensibile proprio quel tratto di lacunosa resistenza alla rappresentazione “ruotando” attorno all’indicibile, come riassume la citazione di Benjamin a proposito delle Wahlverwandschaften: “L’indicibile, ciò che non trova espressione, è il centro di verità attorno a cui ruota ogni vera opera d’arte, che per ciò stesso spezza la falsa totalità […] e si dà come frammento” (Rella 2004, 97).

Sul primo punto, è significativo che Rella declini la neutralizzazione storicista delle lacune e delle opacità volte alla produzione di una “falsa totalità”, anche sul versante di quelle immagini che, come un diaframma distanziante, ipostatizzano il reale impedendo di esperirne l’alterità e la resistenza: “Pensiamo alla moderna tecnologia dei telefoni cellulari. Si fotografa ciò che accade davanti ai nostri occhi e in luogo di raccontare l’accaduto si spedisce in tempo reale una fotografia dell’evento”; si tratta di una ideale assenza di mediazione simile alla sostituzione del racconto con gli impulsi di una calotta cranica che, nel film Strange Days, “trasmette direttamente ciò che si è provato” (Rella 2004, 92). L’accento è qui da porsi su quella trasmissione “diretta” di un evento che sembra poter essere vissuto ormai soltanto come immagine, cosicché la resistenza del mondo e la sua alterità vengono messe a distanza e cristallizzate in una paradossale immagine memoriale del presente: “Quasi che tra noi e il nostro presente calasse costantemente l’ombra del passato”. L’evento può allora “essere vissuto soltanto come memoria, come passato, come storia” a patto però di intenderli nel senso compattante e neutralizzante che si è detto.

Invece di confrontarci con “ciò che ci colpisce”, dice Rella, ne costruiamo subito un’immagine memoriale, per esempio un’immagine in tempo reale, immagine unica e compatta, scevra da ogni opacità e ubbidiente all’imperativo di una totale trasparenza e immediatezza. La forma immaginale è qui, si potrebbe dire, isomorfa alla forma della (non)esperienza storica, un’esperienza che sembra “affondare muta nel passato” invece che “comunicarsi in un racconto”, ossia in una forma di intreccio plurale e opaco capace di restituire quella “costellazione carica di significato” che per Rella, seguendo Benjamin, definisce l’esperienza storica e l’esperienza sensata di “ciò che ci colpisce”. Ecco allora che l’esperienza, lungi dal ridursi a un orizzonte compatto e aproblematico da ‘rappresentare’, si configura come qualcosa che si trattiene “sul bordo del passato”, rianimando di quel passato le porzioni che si intrecciano con l’ora in una costellazione plurale (Rella 2004, 94). Non siamo per certi versi lontani dal modo in cui Foucault definisce l’evento come un “punto di intersezione di velocità, linee storiche e temporalità differenti”, percorsi che confluiscono in un presente denso, processuale, complesso e dunque testimoniabile solo come precipitato di questo intreccio.

Veniamo qui al secondo tratto cui accennavo sopra, ovvero all’appassionato riconoscimento di un potenziale testimoniale immanente alle opere d’arte, proprio laddove l’esperienza limite che ne è l’oggetto sembra ricadere nel mondo dell’irrappresentabile e dell’inesprimibile. Vi è qui una fedeltà all’immanenza dettata, per Rella, proprio da quel “pensiero che pensa contro se stesso” nel momento in cui esso si esprime “non nella storia, ma nelle storie, nelle narrazioni” (Rella 2004, 96). È un pensiero che necessita delle forme dell’esperienza estetica, delle ‘storie’ nell’accezione anti-universalistica e narrativa che quel plurale esprime.

Non solo, dunque, non vi è alcuna rassegnazione alla irrappresentabilità delle regioni limite dell’esperienza umana, ma la presa in carico del loro tratto eccedente, accecante, è anzi la possibilità specifica di forme estetiche che “possono parlare del disumano come nessuna narrazione storica o scientifica può fare” (Rella 2004, 96). Negli stessi anni in cui Rella scriveva queste pagine, uno dei dibattiti più vivaci e polemici nel campo della teoria delle immagini riguarderà proprio l’idea che le qualità formali e sensibili delle immagini, lungi dal ridursi ad aspetti meramente formalistici, possano restituire il tratto di dismisura delle esperienze più estreme, che siano cioè – per dirla con il titolo del libro di Georges Didi-Huberman – delle “immagini malgrado tutto”. Tra gli scatti che furono oggetto di quel dibattito – le quattro foto che un membro del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau riuscì a scattare vicino alle fosse esterne di incenerimento pienamente attive del campo – persino l’inquadratura mossa e sfocata dei rami di un albero di betulla, una foto che sembra non mostrare ‘niente’ – dice Didi-Huberman – testimonia, in realtà, della tragica posizione di chi ha voluto prendere quelle foto in condizioni estreme e lo fa attraverso il suo specifico tessuto visivo tremolante e quasi astratto, che ci mostra però l’affanno, il rischio, il disorientamento del corpo del testimone.

Anonimo (membro del Sonderkommando d’Auschwitz), Donne spinte verso la camera a gas del crematorio di Auschwitz (negativo n. 283), agosto 1944, Oswiecim, Państwowe Muzeum Auschwitz-Birkenau.

A sua volta, l’orizzonte estetico può assolvere al compito di testimonianza se si fa carico di un tratto di accecamento, di resistenza, che è proprio delle regioni estreme dell’esperienza e proprio di queste storie lo storico deve farsi “guardiano”, poiché esse testimoniano, “nei loro interstizi, lo spazio di un brusio che contiene mille voci e tra queste voci anche la voce del silenzio” (Rella 2004, 97). Si riafferma continuamente la necessità di una pluralità capace di creare frizioni, interstizi, aprire pieghe e accogliere una molteplicità di voci, e silenzi, esattamente il contrario dell’orizzonte compatto della storia come produzione di coerenza. Ma anche il contrario di qualsiasi immagine-simbolo, che pretende di dire tutto dell’orizzonte evenemenziale. A questa compattezza Rella oppone un’estetica della differenza tenue, sottile, dello scarto, del delicato riconoscimento delle molteplici possibilità che costituiscono il reale e l’evento: se esiste una “sorta di salvezza estetica contro il ‘male’ del mondo” essa viene piuttosto dalla “saggezza dell’incertezza del romanzo”, o dal rigore con cui la poesia oppone al buio le tracce più tenui, la differenza di minuscoli fatti o cose – come la cipria di Piccolo testamento di Montale o il topo bianco d’avorio di Dora Markus. Da questi minuscoli scarti emerge “la coscienza propria della letteratura che il reale è di fatto un fascio di molteplici possibilità e che dunque proprio questa coscienza può essere opposta alle macchine da guerra del potere”.

Gran parte dei lavori che si sono occupati del rapporto tra arte, letteratura e trauma hanno sottolineato come i soggetti debbano esprimere una non-storia, “they have an unstory to tell”, come riassume Cathy Caruth. Quell’indicibile che non può trovare espressione diretta si dà come sincope del senso, ma pur sempre una sincope iscritta nel senso, nelle forme e nelle infinite possibilità con cui i testi significano l’insignificabile e con cui sono capaci di “far giungere al senso ciò che lo nega [faire advenir au sens ce qui le nie]”, come dice Denis Bertrand a proposito della scrittura sfigurale di Robert Antelme ne L’espèce humaine. Se, dunque, torniamo alle già citate parole di Benjamin su Goethe per cui “l’indicibile […] è il centro di verità attorno a cui ruota ogni vera opera d’arte”, la riflessione di Rella chiarisce come la portata testimoniale delle forme estetiche consista proprio nelle strategie di senso che costituiscono quel “ruotare attorno”, un far-segno capace di rinviare alla dimensione altra di un’eccedenza: “L’opera testimonia questo inesprimibile frantumandosi, aprendo in se stessa le crepe che manifestano questo oltre che deve in qualche modo essere reso visibile e testimoniato” (Rella 2004, 104).

Mi sembra, infine, che possa qui aprirsi il contatto possibile con quella parte del pensiero semiotico che ha esplorato le possibilità di questo “oltre-senso [outre-sens]”, penso ad esempio a quella ‘estetica della frattura’ che Algirdas Julien Greimas esplora in un piccolo libro intitolato significativamente De l’imperfection, nel quale ci ricorda come la figuratività non sia altro, in fondo, che “questo schermo dell’apparire la cui virtù consiste a intr’aprire [entr’ouvrir], a lasciar intravedere, grazie o a causa della sua imperfezione, come una possibilità di oltre-senso”.

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella 2004
    F. Rella, Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza, Milano 2004.
English abstract

In his text devoted to the relationship between artwork and testimony, Franco Rella investigates the ways in which art can bear witness to the extreme horizons of experience and history. The paper traces his arguments, with particular reference to two aspects: the plural horizons of testimony and the consequent critique of any “false totality” and production of coherence; the exploration of testimonial power at the very heart of artworks through their immanent production of sense, against any resignation to the idea of a radical “unrepresentability”.

keywords | Franco Rella; Testimony in Art; Concept of Trauma; Aesthetics; Visual semiotics; History and narration.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Mengoni, Lacune, fratture, lacerazioni. Arte e testimonianza, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 73-77  | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.209.0019