Ideologia come stile, stile come ortodossia
La costruzione di un immaginario spettacolare nel progetto artistico dei CCCP
Alessandro Bratus
English abstract
Ideologia come stile. In questa formula si potrebbe sintetizzare il progetto comunicativo alla base della storia artistica dei CCCP, specialmente nel suo periodo iniziale quando questa si caratterizza per una particolare coesione, rivendicata peraltro dall’espressione ‘Fedeli alla linea’ con la quale il gruppo accompagna il suo nome. Una coerenza che va di pari passo con la constatazione della sclerotizzazione della comunicazione nel contesto a loro contemporaneo per tradursi in una prassi spettacolare fondata, debordianamente, sull’analisi critica delle “condizioni reali, delle condizioni pratiche dell’oppressione attuale” e, in parallelo, dalla presa di coscienza che “il costituirsi stesso e la comunicazione di una teoria del genere non possono ormai concepirsi senza una pratica rigorosa” (Debord 1995, 126-127).
Una simile impostazione viene presentata a partire dal primo comunicato stampa che accompagnava l’invio di Ortodossia alla stampa e ai media. Più che raccontare il disco in sé, il documento si concentrava infatti sulla situazione del settore musicale, definito in:
[...] crisi profondissima, che in Italia incide ancora di più visto il già bassissimo livello di diffusione musicale di base. L’effetto è che le già esigue vendite dei dischi calano paurosamente e ciò comporta che le labels ufficiali e pseudoalternative non rischino più su nomi nuovi e nuove forme d’espressione (casomai l’avessero mai fatto), determinando perciò un calo qualitativo generale delle loro produzioni, mentre le etichette alternative, le uniche a poter/voler gestire un discorso di innovazione e perciò di qualità (forma/contenuto) non riescono più, causa le scarse vendite, a recuperare i fondi per continuare. Ne risulta una situazione di stagnamento, e una conseguente involuzione culturale (Ferretti et al. 2023, 40).
Se si considera il richiamo a un lavoro sui meccanismi della comunicazione e una profonda riflessione sull’industria culturale, si può sostenere, sulla scorta di Alberto Campo, che quella dei CCCP fu “l’unica esperienza italiana capace di appropriarsi dell’essenza intima del punk per ricollocarla nel contesto nazionale, inevitabilmente diverso da quello angloamericano” (Prefazione, in Ferretti, Zamboni 1997, 5). È vero che il gruppo seppe riconfigurare in termini estetici la preminente interpretazione in senso politico del punk nazionale, ovvero il proporsi come “laboratorio di reinvenzione dell’attivismo radicale negli anni Ottanta” (Masini 2018, 203) ispirato a modelli quali “Crass e Dead Kennedys, fautori di un punk anarchico, antagonista e autogestito” (Campo 1995, 25). La loro strada, una via non opposta ma alternativa, prende come elemento cardine l’immaginario connesso all’Unione Sovietica e ne rielabora i contenuti con modalità analoghe a quelle che il primo punk britannico e americano aveva attuato con i simboli del consumismo e della società di massa occidentale. Nel proporsi in questo modo l’operato del gruppo:
Signalled a constitutive ambivalence. At the same time, Sovietism represented a voluntary ‘conviction’ – “Faithful to the line, even when there is no line” (a line from the song CCCP – which was both a source of salvation from capitalism and a source of voluntary oppression. This inauthentic authenticity led CCCP to use irony in citing and reframing communist symbols (Romania 2016, 67-68).
È lo stesso Giovanni Lindo Ferretti, nel 1985, a puntualizzare in che modo il rapporto con il punk sia stato determinante per indirizzare verso la musica le attività di una piccola comunità animata da istanze e sensibilità comuni:
Al principio c’era un piccolo nucleo di persone piuttosto ben assortito per differenze e affinità. Riuscivamo a produrre e avevamo la possibilità di impegnarci anche in altre cose: cinema sperimentale, cooperative teatrali, tentativi di nuova letteratura. Scegliemmo la musica perché è l’espressione artistica che più ti coinvolge sul piano emotivo: questo dopo l’esplosione del punk in Europa. Prima di quel momento, non ci sarebbe mai venuto in mente di suonare (Campo 1995, 32).
Così come il filosovietismo, il punk per il gruppo pare funzionare come referente – concretissimo nelle esperienze londinesi e soprattutto berlinesi dei suoi protagonisti, astratto per il grado di appropriazione che richiese l’adattamento al contesto emiliano –, mezzo per la costruzione di un immaginario di cui si riprendono i meccanismi comunicativi senza doverne necessariamente condividere le premesse ideologiche. Lo evidenziano bene i rapporti – di stima e sostegno quanto di distanza dalle tendenze più marcatamente politiche – tanto con la bolognese Attack Punk, a cui il gruppo si lega per ragioni di opportunità e stima personale, quanto con la Crass Records che distribuirà il loro primo disco nel Regno Unito (Ferretti Zamboni 1997, 52) e, più in generale, con l’ambiente delle occupazioni e degli spazi gestiti dalle realtà più militanti.
Costruire immaginari tra il blocco orientale, l’Oriente e la Via Emilia
Non che questo porti a un allineamento o a un’acquiescenza con le istanze della cultura di massa a loro contemporanea: nel progetto dei CCCP l’affinità con l’estetica e l’immaginario sovietico è parte di un’esplorazione del potenziale sovversivo del punk in quanto richiamo a istanze antagoniste rispetto allo status quo del contesto in cui nasce, di cui fanno parte anche la volontà (o la necessità data dall’assenza di circuiti culturali e assetti produttivi già esistenti) dell’autoproduzione come metodo di lavoro, così come la critica alle diverse forme di alienazione sociale (Dunn 2011, 27). Sono piuttosto le conclusioni e la prassi del gruppo a distinguere in modo particolarmente marcato le sue prese di posizione rispetto al contesto contemporaneo, in quanto frutto di una ricerca volta, in primo luogo, alla costruzione di immaginari alternativi tanto alla realtà socio-culturale dell’Italia dell’epoca, quanto alle alternative che riprendevano stilemi ed esperienze dai contesti angloamericani.
In questo senso va inteso l’aggettivo ‘spettacolare’ nel titolo di questo contributo, non solamente in quanto riferito alla dimensione visiva e performativa, bensì in relazione alla definizione di punk in quanto ‘sottocultura spettacolare’ che esprime “an imaginary set of relations” le cui componenti possono essere tanto reali quanto ideologiche (Hebdige 2002, 81). Tale dimensione punta tanto ad attrarre l’attenzione attraverso la giustapposizione di elementi disparati, quanto a far riflettere sul valore semantico implicito nella trasformazione degli elementi tratti dal contesto culturale di origine. Un lavoro sull’immaginario che, come ricorda Dave Laing, nel punk più che in altri generi è difficilmente separabile da una riflessione specifica sul dato sonoro e musicale, a partire dalla considerazione che:
In ogni altro caso le sottoculture giovanili adottarono uno tipo di musica già esistente. Quest’origine musicale del punk ebbe conseguenze a lungo termine, la più importante delle quali fu l’inevitabile legame del punk con l’industria della musica pop. Il punk nacque come una specie di ombra illegale di quell’industria, e il suo destino dipese ugualmente dalla reazione dell’industria nei suoi confronti (Laing 1991, 4-5).
Queste linee di ragionamento, per quanto costruite con in mente il contesto britannico, possono essere riapplicate in maniera abbastanza lineare alla situazione italiana nella ricostruzione critica della posizione dei CCCP nel novero dell’ambiente culturale in cui il progetto nacque e si affermò. A partire da una centralità del dato stilistico in senso musicale e lirico (uno ‘spettacolo’ inteso, quindi, nei termini di costruzione di un immaginario), si può risalire alle circostanze che determinarono, se non praticamente richiesero, un progressivo arricchimento della dimensione performativa e visiva del loro progetto artistico. Tale sviluppo, per quanto non totalmente implicito o programmato fin dalle premesse, è favorito sia dalla circostanza legata alle diverse individualità man mano aggregatesi all’interno del gruppo sia dalla presenza di una rete sociale che aveva tutte le potenzialità per far crescere un progetto artistico declinato su diverse forme artistiche.
La stessa interpretazione del filosovietismo in senso ‘estetico’ o ‘paesaggistico’ è organica a un progetto in cui l’apparenza diventa sostanza, in un movimento in cui i simboli dell’Oriente si contrappongono a quelli dell’Occidente per rivendicare una propria alterità:
L’idea era che il mondo fosse diviso in due: l’Impero del Bene, rappresentato in quegli anni da Reagan, e l’Impero del Male. Noi facevamo parte dell’Impero del Male per un semplice problema di equilibrio e il nostro scopo era fare propaganda a quel pezzo di mondo. Allora la frase chiave era ‘dalla provincia più filosovietica dell’Impero Americano’. Non che fossimo soddisfatti dell’Emilia di quegli anni, tutt’altro; vivevamo male e non ci piaceva per niente, ma nello stesso tempo volevamo stare lì, e l’unico modo per farlo era riequilibrare la situazione (Ferretti, Zamboni 1997, 46).
Si tratta, in sostanza – continua Ferretti –, di una fascinazione estetica che si trasforma in una visione del mondo in cui “l’unico slogan politico era il no future del punk, ossia la conclusione che questo stile di vita porta alla morte, non ha futuro” (Ferretti, Zamboni 1997, 46).
Riportando un’osservazione di Stefano Bonaga, Pier Vittorio Tondelli individuava in questo spostamento dall’asse politico a quello estetico la cifra fondamentale per interpretare il filosovietismo del gruppo, e allo stesso tempo contestualizzava tale fenomeno all’interno di una pluralità di altri esempi nella cultura popular (musicale, cinematografica, letteraria) degli anni Ottanta: “una forma che non funziona più a livello etico-politico (in questo caso la figura ‘socialista’ del rigore, del consumo e della povertà comunicativa) viene recuperata e stilizzata in senso estetico come se fosse dell’ordine di una bellezza archeologica” (Tondelli 1984, 191). In questo senso la composizione ‘immaginaria’ di riferimenti geografici comprende un orizzonte centrato un’Europa che ha come punti estremi Berlino così come l’Oriente e l’Asia, da cui discende la definizione stessa di ‘punk filosovietico’: “All’effimero occidentale preferiamo il duraturo, alla plastica l’acciaio. Che futuro per un’Europa che non può ammettere che Pankow, Varsavia, Praga sono città europee a tutti gli effetti?” (Tondelli 1984, 189). E, poco più avanti: “Le culture arabe e asiatiche sono a noi vicine e la cultura europea si scontra e incontra con queste due civiltà da sempre. Questo è il nostro retroterra culturale e fisico. Noi facciamo quindi punk filosovietico” (Tondelli 1984, 189).
In altre parole, la parabola artistica dei CCCP può essere inquadrata retrospettivamente all’interno del fenomeno del punk per le modalità operative con le quali opera, più che per l’aderenza a una comunità socio-culturale che in Italia assume precise connotazioni in senso politico e controculturale. L’interpretazione “spettacolare”, che vede la band come rappresentazione concreta di una coerente progettualità estetica, permette altresì di inscrivere la storia del gruppo all’interno del più generale movimento di rinnovamento della popular music in ambito italiano tra gli anni Ottanta e Novanta, così come riconosciuto dalla critica e dalla ricezione retrospettiva del fenomeno definito ‘nuovo rock italiano’ (Campo 1995). Nel volume fondativo di tale definizione, inoltre, la posizione di leadership morale e operativa degli ormai ex-membri dei CCCP – all’epoca impegnati anche nell’ambito produttivo con l’etichetta indipendente I Dischi del Mulo – viene testimoniata dalla scelta di assegnare a Giovanni Lindo Ferretti la prefazione del libro. Per altri versi, la posizione di preminenza del gruppo all’interno di un più generico scenario del ‘rock’ italiano viene confermata retrospettivamente dalla vicinanza, nei network semantici di YouTube relativi alla musica italiana degli anni Ottanta, tra i cluster ‘CCCP-CSI’ e ‘Litfiba-Diaframma’ (Airoldi, Beraldo, Gandini 2018).
Nel ricordare l’aderenza e i motivi di continuità rispetto alla situazione socio-culturale dell’epoca, va altresì considerato il ruolo dei CCCP nel rendere visibile, grazie al successo della propria proposta, una pluralità di altre esperienze che fino a quel momento non avevano mai raggiunto un pubblico di caratura nazionale. Rileggendo le classifiche di vendita di quegli anni la presenza dei CCCP è certamente ancora episodica ma allo stesso tempo significativa, perché prelude a una nuova valorizzazione della produzione nazionale, a un nuovo flusso di investimenti su prodotti discografici nazionali di cui il fenomeno del ‘nuovo rock italiano’ rappresenta il primo segnale. La presenza della band nello scenario dell’industria musicale italiana rendeva palese se non l’esigenza, almeno il potenziale economico di una produzione musicale nazionale che si poneva programmaticamente tanto al di fuori dei circuiti più tradizionali della canzone ‘sanremese’ (in tutte le sue accezioni), quanto delle estreme propaggini del prog e del cantautorato. Peraltro, l’ingresso del gruppo sullo scenario del mainstream musicale nazionale, così come testimoniato dalle fonti, coincide con l’ultima parte della carriera dei CCCP: Musica e dischi (al momento attuale la fonte documentaria più affidabile per una ricognizione del mercato discografico in prospettiva storica) dedica per la prima volta la copertina annunciando l’imminente uscita di Canzoni preghiere danze del II millennio: sezione Europa nel numero dell’aprile 1989. L’album entrerà all’85° posto della classifica redatta dalla rivista nel giugno dello stesso anno, per uscire di scena con la classifica del numero successivo (luglio-agosto, in 94° posizione); seguirà l’anno successivo Epica Etica Etnica Pathos, con una sola occorrenza all’83° posto nella Borsadisco del novembre 1990.
In tale prospettiva la vicenda del gruppo è eccezionale per risultati raggiunti ma replica alcune dinamiche comuni a diverse aree della Penisola negli stessi anni, in cui si trovavano diverse scene che – sfruttando una serie di sincroniche condizioni favorevoli in ambito locale e nazionale – allargano progressivamente il proprio raggio d’azione ben al di là delle zone di origine. La particolarità a livello storico è che la culla di tali fenomeni non si radica nelle principali città industriali ma in diversi centri della provincia dell’Italia settentrionale e centrale, in particolare in quelle situazioni in cui il benessere economico si accompagnava a una certa povertà di stimoli per le fasce d’età adolescenziale e giovanile:
Per quanto si tenda a leggere il fenomeno del nuovo rock italiano e del successivo indie rock come ben distinti dal rock mainstream degli anni Ottanta e Novanta, è in realtà facile riconoscere una radice comune a entrambe le ideologie del genere. Per quanto, cioè, agli antipodi possano essere percepiti i CCCP e Vasco Rossi, è evidente che entrambi costruiscono la propria peculiarità su un certo tipo di immaginario provinciale (in entrambi i casi – non incidentalmente – emiliano), che affiorerà a più riprese nella canzone italiana degli ultimi vent’anni del Novecento, anche in alcuni dei suoi fenomeni di maggiore successo – da Luciano Ligabue agli 883 (Tomatis 2019, 684).
Se tale consapevolezza poteva, all’epoca, risultare in modo meno palese, emerge certamente a livello retrospettivo, consentendo di uscire dalla retorica dell’unicità propugnata da un legittimo afflato comunicativo del gruppo per rileggerne l’operato in quanto parte di uno scenario più ampio e non ancora – a differenza di oggi – capillarmente interconnesso.
Indubbia è la tensione verso la costruzione dei CCCP come progetto dai connotati operativi e pragmatici precisamente delineati. Una strategia, peraltro, rivendicata non solo dal gruppo con il riferimento ai propri ‘piani quinquennali’ ma che procede da una precisa analisi della situazione di stagnazione del mercato musicale nazionale, al quale si cerca fornire un’alternativa proponendosi come fenomeno concepito per sollecitare un particolare coinvolgimento pubblico. Nel comunicato stampa diffuso dall’Attack Punk Records per presentare Ortodossia, si legge ancora:
Ciò che manca è un punto di riferimento preciso, qualcosa a cui mirare, che non sia da seguire caprescamente, ma sia stimolo di riflessione, proiezione di desideri e stimolo all’azione, ciò che in gergo si chiama ‘cult band’, CCCP – FEDELI ALLA LINEA può esserlo; ne ha il carisma, una linea precisa, qualcosa di sincero da comunicare. Ferma volontà di non essere parte né causa della disgregazione (riportato in Ferretti et al. 2023, 41).
Lo status di ‘band di culto’ è ciò che da subito alza la posta nel discorso culturale costruito intorno al gruppo, per il quale la musica è un centro di aggregazione e di coinvolgimento ma non necessariamente il fine ultimo, identificato con chiarezza con il tentativo di contribuire attivamente alla trasformazione positiva dello scenario culturale contemporaneo. In tale prospettiva si può leggere anche la persistente presenza dei principali componenti del gruppo in ruoli legati all’ambito della produzione discografica indipendente. Inoltre, l’inserimento delle musiche di CCCP e CSI in alcuni film “di culto” della generazione X degli anni Novanta, tra cui Tutti giù per terra (Davide Ferrario, 1997) o Jack Frusciante è uscito dal gruppo (Enza Negroni, 1996), segnala il successo di tale piano in termini di memoria culturale della generazione perlomeno successiva a quella che vide il debutto del complesso sulla scena musicale italiana. Si vedano a questo proposito Boschi (2010, 205-216) e Soldani (2020).
La dimensione multidisciplinare e la rete sociale del progetto CCCP
Concorre a questo risultato anche la dimensione propriamente performativa che il gruppo elabora e rivendica in quanto parte della sua identità artistica, che si esplicita nell’attenta pianificazione degli interventi coreutici e teatrali di Annarella Giudici e Danilo Fatur durante i live del gruppo. Se ne ritrova le traccia, ad esempio, nelle scalette corredate da indicazioni sceniche raccolte come appendice al memoir di Annarella Giudici, che riportano in serie cronologica una serie di scalette con indicazioni sulla connessione tra canzoni e momenti performativi (Giudici, Ferretti, Tagliati 2014, 265-8). Tale elemento contribuisce ad approfondire e rendere sempre più manifesta quella dimensione ‘spettacolare’, sovversiva in questo caso nei confronti della ricerca di immediatezza e dell’assenza di artificio propria della retorica del rock e del punk di matrice angloamericana. Risulta determinante in questa prospettiva l’integrazione con una componente scenica ermetica ed espressionistica, dedita alla ripresa e alla commistione di simboli, costumi, capi di abbigliamento dal Vicino o lontano Oriente, giocando sulla linea della parodia e la celebrazione dell’estetica delle culture della parte orientale dell’Europa, del Vicino Oriente e dell’Asia.
In questo senso Allerghía, atto unico di confusione umana rappresenta il tentativo del progetto CCCP di non limitarsi a esplorare, anche nel momento di maggiore successo della band, una dimensione esclusivamente musicale, così da mantenere i legami con una spettacolarità diversa nella quale la musica aveva un ruolo decisamente più periferico. Il centro del palco viene lasciato ai numeri di ‘rivista est-europea’ di Annarella e Fatur, in cui – secondo il programma di sala – si esplora: “la miseria di una rivista est-europea, costretta da problemi materiali a stupire con ciò che ha: la parola (in libertà? all’Est?). Ricco solo di proponimenti, interessi e richiami ostenta non il lusso, ma le proprie ferite” (Ferretti et al. 2023, 233). Unica concessione alla discografia, il singolo cantato da Annarella Una ragazza emancipata, che circolerà solo limitatamente alla prima pubblicazione monografica sui CCCP, uscita per i tipi di Stampa Alternativa nel 1990 (Marinoni-Cuoghi 1990). Il progetto CCCP si rimodula qui per la scena, rinunciando al protagonismo della componente performativa in senso musicale per rigiocare su altro terreno – nel quale, però, risultano in maniera ben più rilevata le istanze della provocazione, tanto da trovare accoglienza solo episodica nelle sale – le medesime componenti sul piano dei contenuti e della comunicazione.
Le radici di una prassi artistica multidisciplinare, d’altronde, erano parte del patrimonio genetico di quel collettivo di attivisti e artisti reggiani le cui attività portano alla nascita della band. Il 4 maggio 1984, durante un evento nella discoteca Tarantola di Reggio Emilia intitolato ‘Cernienko Party’ in onore del neo-eletto segretario del Partito Comunista sovietico, i nascenti CCCP organizzano prima del loro concerto una ‘parata di moda filosovietica’ con corredo di proiezioni di video, diapositive e colonna sonora del gruppo anarco-punk britannico Rudimentary Peni: è qui che per la prima volta interagiscono sul palco con Annarella Giudici, Silvia Bonvicini, Francesca Costa, la scultrice Eleonora Calestani, Federico Mattioli (Valdesalici 2014, 246; Negri 2023, 387). Già dall’estate successiva la componente visiva e performativa di Annarella e Fatur, intuitene le potenzialità, diventerà parte integrante della proposta live del gruppo (Negri 2023, 231). Diverse recensioni dei concerti degli anni successivi si concentrano sulla scelta di fornire una “elevante dimensione teatrale ai loro show. Con l’intento di fare cultura moderna, come disse una volta il loro cantante Giovanni Ferretti, i CCCP hanno mischiato elementi di cabaret e citazioni marxiste, ritmi punk e liscio da balera con la determinazione e la convinzione di un marinaio della Potemkin”. Oppure ancora “I CCCP hanno offerto una sorta di ‘mix’ tra musica, mimo, danza, con l’uso della suggestiva simbologia ispirata al realismo sovietico, ‘contaminato’ da venature araboislamiche” (articoli riportati in CCCP – Fedeli alla linea 2023, 430-431). Compilando a posteriori il profilo del gruppo nella post-fazione italiana al volume di Laing sul punk, Vincenzo Perna individua nella programmatica rinuncia a quella spontaneità fondamentale nel suggellare l’autenticità del punk angloamericano nei confronti degli stili precedenti della popular music. Al contrario: “gli spettacoli sono una sorta di negativo di quelli dei gruppi demenziali dei tardi anni Settanta, una sorta di demenziale congelato. Sono esibizioni estremamente calcolate, dove i musicisti evitano i gesti plateali rock e operano in una cornice altamente teatralizzata, in cui gli interventi di un danzatore-attore e di una cantante-soubrette-indossatrice gettano una luce inquietante sulle musiche” (Perna 1991, 195).
Nell’ambiente della Reggio Emilia di quel tempo, a quanto risulta dai frammenti di cronache che è ancora possibile collazionare, si muovevano peraltro una serie di personalità preziose per la sperimentazione del gruppo con incroci tra diverse forme artistiche. Furono ad esempio in contatto, grazie alla mediazione di Francesca Costa, con il fotografo Toni Contiero, che chiese al gruppo una versione “dilatata” di Trafitto per accompagnare la sua mostra Equilibrismi, organizzata nell’ottobre del 1984 presso il Centro Giovani Rosta Nuova di Reggio. Insieme progettarono anche un fumetto per “Frigidaire”, intitolato Eroici veleni (Contiero 2015, 81-87). Nonostante questa intenzione non si sia mai concretizzata, è un altro segnale della densità di collegamenti tra generazioni e arti diverse che la dimensione limitata di un centro provinciale permetteva ai membri del gruppo e alla piuttosto ristretta comunità di individui che si riconoscevano in valori alternativi, meno allineati, sperimentali in senso artistico quanto nelle pratiche della vita quotidiana. Va ricordato, d’altro canto, che la vocazione artistica e militante delle avanguardie artistiche della città si era nutrita, nei decenni precedenti, di esperienze di ricerca e sperimentazione alimentate localmente ma anche tramite le frequentazioni di collettivi di rilevanza non solamente locale, come quello del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, che si trova in città a più riprese tra gli anni Sessanta e Settanta (Carosso 2016). Francesca Costa, nominata in precedenza, era la figlia di Corrado Costa del Gruppo 63. Anche senza voler ipotizzare un’influenza diretta di questi ultimi nell’esperienza dei CCCP, il dato restituisce l’immagine di un terreno, magari sotterraneo e non certo di maggioranza, ma non certo sterile per quanto riguarda la possibilità di nutrire percorsi innovativi da parte delle generazioni più giovani.
Se progressivamente i CCCP assumono l’identità di in una entità unica, è pur vero che la natura multidisciplinare del loro progetto artistico si esprime nella collaborazione con una pluralità di individui ben più ampia di quella rappresentata dal loro nucleo più conosciuto e oggi riconoscibile, rappresentato in primo luogo dall’interazione tra una componente musicale (i cui principali artefici sono riconosciuti in Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni) e una scenica (di cui sono protagonisti Annarella Giudici e Danilo Fatur). Questi ultimi entrano nel gruppo prima con una funzione accessoria sotto il profilo musicale quanto fondamentale sotto quello comunicativo e spettacolare, quello più appariscente e d’impatto nel progetto artistico del gruppo:
Penso che Ferretti patisse di una carenza del nostro set dal punto di vista spettacolare, con questi tre musicisti fermi immobili sul palco senza il supporto di una batteria e questa musica scarna e disarmonica, il suono che usciva sempre male nei concerti, con problemi tecnici infiniti… Così sono iniziate le sfilate all’interno dei concerti, in un modo assolutamente estemporaneo. Gli abiti venivano costruiti da Annarella, da Silvia e da Giovanni a Fellegara; avevano una stanza piena di vestiti usati comprati dai frati di Carpi, cose di ogni genere, forma e tipo, che con l’aiuto di un’amica, Rossana Tagliati, venivano mischiati, tagliati, coordinati, cuciti, creando veri e propri splendori (Negri 2023, 391).
Annarella viene attratta all’interno dei CCCP grazie ai rapporti di amicizia già in essere con i componenti della band, l’entrata di Danilo Fatur è conseguente a una proposta diretta da parte del gruppo, alla ricerca di nuovi stimoli per arricchire il proprio spettacolo (Fatur 2023, 69). Tramite lui arriveranno a gravitare intorno al progetto Sandrina e Mirka, colleghe di Fatur alla Bon Bon Confezioni di Carpi, mentre Daniela Algeri e Daniela Giaroni appartenevano al corpo delle conoscenze di Massimo Zamboni (Fatur 2023, 70-71).
D’altro canto, come puntualizza Marco Belpoliti, il ruolo della componente spettacolare permetteva al gruppo di rivendicare la sua posizione di ‘kitsch dell’avanguardia’, la “scena estetica meditata e rifatta” “della televisione berlusconiana nell’epoca del suo trionfo inarrestabile” (Belpoliti 2014, 15). E, poco prima:
Mi era evidente che quella di Annarella, come di Danilo, era una performance che riguardava il ‘genere’. Erano istantanee, scatti fotografici, non solo film che scorrevano sotto i nostri occhi. Lei era in passerella per mostrare ‘qualcosa’ che nelle canzoni di Ferretti e Zamboni non era direttamente visibile. La femminilità nei CCCP? Anche questo, e allo stesso tempo qualcosa d’altro che non è facile dire, perché la gran parte della forza dei CCCP non era nel detto, bensì nel non-detto (Belpoliti 2014, 15).
Ad esempio, Belpoliti richiama il travestimento da suora-sposa-infermiera della Giudici durante Emilia paranoica come esplicitazione del senso struggente, affettivo di quello che – lungi dall’essere un ritratto nichilista di quella terra – si rivela nel suo valore più profondo e contraddittorio di sofferta dichiarazione di appartenenza. Entrambe le categorie, quelle della componente femminina del progetto CCCP e quello del kitsch sono richiamate, nello stesso volume in cui scrive Belpoliti, nella postilla ‘filologica’ di Benedetto Valdesalici, che riconduce queste categorie all’influenza degli scritti di Gillo Dorfles, KITSCH antologia del cattivo gusto (1976) e Mode e modi (1979): “dalle sue pagine abbiamo assorbito il concetto di kitsch, di camp e di pop indispensabili, come l’amica ironia, per un gruppo di punk filosovietivo e musica melodica emiliana” (Valdesalici 2014, 248).
Nel complesso delle individualità circostanti alla formazione del gruppo un posto di primo piano è certamente occupato proprio da Benedetto Valdesalici. Personalità poliedrica e di ampi interessi, amico di vecchia data di Ferretti poi ritrovato nell’ultimo periodo del suo lavoro come operatore psichiatrico; è lui a sperimentare nel contesto della città e della provincia emiliana forme di terapia psichiatrica che prevedono la partecipazione diretta alle pratiche creative. Valdesalici è anche regista di quel film Ahimè! Il congresso del mondo in cui fanno la loro prima comparsa su un supporto registrato i Mitropa NK – pur se in una versione sonorizzata a posteriori per la scarsa qualità dell’audio originale –, oltre a coinvolgere negli anni successivi i CCCP in diverse iniziative di ambito teatrale e performativo. Fu, infine, il principale animatore della “Sezione Lombroso, un ramo sostanzialmente sconosciuto dei CCCP delle origini che pur produsse comunicati, volantini, pezzi di fanzine, gadget […] e firmò la perizia [psichiatrica] per RAIDUE di Ortodossia […] (Valdesalici 2014, 244; si veda anche CCCP – Fedeli alla linea 2023, 386-399)”. Scrive Negri descrivendo il rapporto del gruppo con Valdesalici:
Benedetto era un po’ il nostro psicanalista, quello che ci metteva di fronte alle contraddizioni, che ci faceva parlare quando avevamo dei problemi. […] Abbiamo sempre collaborato anche in seguito e lo sentivamo come un quarto membro del set, sul palco con lo spirito se non fisicamente. Per noi è stato un ispiratore, in qualche modo lo abbiamo sempre considerato come un elemento del gruppo, anche se non suonava e non componeva canzoni. Ci ha ispirato sulla Weltanschauung, sulla visione del mondo (Negri 2013, 207).
Emerge ancora una volta la qualità collettiva, plurale in quanto declinata su più fronti sociali e artistici – fortemente connessi al contesto geografico di origine e alla sua rete sociale –, del progetto artistico all’origine dei CCCP, che nel momento della sua formazione sembra assumere la forma di un collettivo esteso e ramificato, per quanto saldamente aggregato intorno alle conoscenze, interessi e progetti di Ferretti e Zamboni.
Il racconto per immagini e testi di Umberto Negri, primo bassista della band, allarga ulteriormente la prospettiva dei collaboratori artistici a una rete più ampia in cui erano comprese anche Silvia Bonvicini – autrice della risata all’inizio di Emilia paranoica, prima ‘soubrette’ insieme ad Annarella e musicista alle tastiere in Radio Kabul (Negri 2023, 400) e Mirca ‘Il Capo’ – presidente del circolo culturale Tuwat di Carpi, batterista per un solo concerto, ma soprattutto curatrice delle luci e del palco di un gruppo in cui la dimensione spettacolare diventava sempre più caratterizzante e determinante (Negri 2023, 218-226; Ferretti, Zamboni 1997, 39). Dal punto di vista squisitamente musicale entreranno poi successivamente nell’orbita del gruppo individui che arrivano al gruppo dall’area bolognese: Ignazio Orlando, figura tecnica e artistica essenziale per la realizzazione dei primi lavori discografici e bassista titolare dopo l’uscita di Negri dalla band, e Carlo Chiapparini, in precedenza chitarrista con i RAF Punk e co-fondatore dell’Attack Punk Records che dei CCCP produrrà i primi due EP. Rispetto all’insieme di azioni coordinate e multidisciplinari, collettive in quanto prodotte da una rete di persone aggregate dal nucleo propulsore di Ferretti e Zamboni a partire dalla rete delle proprie conoscenze reggiane, l’allargamento della rete in senso geografico corrisponde a una sempre maggiore concentrazione sulla musica non tanto come forma espressiva ma in quanto filiera produttiva privilegiata all’interno del campo culturale in cui le attività del gruppo si vanno progressivamente a sviluppare.
Aspetti stilistici della prima produzione dei CCCP, tra ricerca estetica e limite tecnico
Dopo aver considerato la dimensione relazionale che determina i connotati fondamentali del progetto CCCP nel suo insieme, in questa sezione verranno delineati una serie di elementi determinanti nella configurazione stilistica della produzione musicale del gruppo. Coerentemente con le premesse pluridisciplinari che animano l’aggregazione di un insieme di individualità intorno al nucleo costituito da Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, la musica costituisce per il complesso un mezzo espressivo privilegiato e un vettore imprescindibile per la costruzione di una dimensione performativa; in un primo momento l’attenzione riservata a questo aspetto appare più come una necessità condivisa di allineare e perfezionare le proprie capacità strumentali e vocali in un’ottica di sinergia con altre arti, non necessariamente l’ambito di espressione e interesse principale per tutte le individualità che ruotano intorno al progetto collettivo. D’altro canto, le limitazioni imposte dalla pertinenza a un preciso progetto estetico che funziona come vera e propria cornice pragmatica (ideologica e ortodossa, in riferimento alla ‘fedeltà’ a una linea) al proprio agire permetteva ai diversi ambiti espressivi che si muovevano nell’alveo del gruppo (musica, parola, scena, audiovisivo) di muoversi con relativa indipendenza. A livello musicale l’elaborazione dei brani avveniva sperimentando una prassi collaborativa che permetteva di far crescere insieme le canzoni, a partire da un’esperienza cristallizzata sul campo:
io e Zamboni stavamo in sala prova a suonare, spesso a ruota libera, a volte ognuno proponendo dei riff che aveva in mente. […] Dopo un po’ che suonavamo, entrava Ferretti con i suoi foglietti in mano e iniziava a canticchiare, provando a inserire i suoi testi sulle cose che io e Massimo stavamo suonando. Naturalmente nessuno ha mai detto a Ferretti cosa cantare, o declamare: ognuno dei tre andava avanti “seguendo le proprie voglie” e creando interferenze con gli altri. Di fatto, le musiche dei CCCP sono una creazione collettiva, i testi quasi tutto un’elaborazione di Ferretti (Negri 2023, 152).
Inoltre, lo stesso primo repertorio del gruppo si stratifica ulteriormente grazie alle esperienze dei diversi soggetti che lo precedono: i Frigo nei quali Umberto Negri suonava insieme a Massimo Zamboni, i MitropaNK dei soli Ferretti e Zamboni, l’apporto di amici e conoscenti che approdano alle prove del gruppo in maniera più o meno estemporanea, alcuni anche lasciando tracce importanti, ad esempio, il testo di Trafitto è originariamente opera di Ludovico Zamboni, cugino di Massimo (Negri 2023, 153).
La coerenza e originalità espressiva del gruppo si esprime anche nella presenza di ben riconoscibili ‘filoni’ di canzoni tra loro assimilabili, nelle quali trovano spazio una serie di temi caratterizzanti l’identità della loro produzione, e lungo le quali si costruisce il loro immaginario, tra filosovietismo e carattere emiliano (Ferretti, Zamboni 1997 e Negri 2023). Riferiscono di questa suddivisione in “filoni”, a testimoniare la condivisione di una simile tassonomia, tanto Ferretti-Zamboni (1997), quanto Negri (2023). Tra questi – che poi diventano anche le coordinate di una geografia che si declina in primo luogo in senso spaziale – ci sono le canzoni più direttamente dedicate ai temi ‘locali’ (da Emilia paranoica alle varie declinazioni della musica da balera in Valium Tavor Serenase, Amandoti, Allarme, o Oh! Battagliero), quelle in cui si manifesta la presenza di un Oriente più o meno vicino (ad esempio Islam Punk, Radio Kabul, Hong Kong, Sura), oltre a quelle concepite in uno scenario sovietico, ortodosso nell’orientamento materialista al punto di manifestare una tensione verso la trascendenza (Live in Pankow, CCCP, Militanz, Manifesto, Spara Jurij). A una simile riconfigurazione dell’esperienza del mondo fa da contraltare il tema “psichiatrico” – in testi come quelli di Io sto bene, Valium Tavor Serenase, Curami –, in cui si elaborano tanto le esperienze di Ferretti in qualità di operatore psichiatrico, quanto la possibilità lirica di costruire prospettive alternative sul reale che rientrano appieno nell’orizzonte discorsivo messo in campo dalla band.
Il secondo elemento distintivo dello stile musicale del gruppo è l’uso della batteria elettronica: una scelta ricondotta dagli stessi protagonisti alla sfera della necessità, il gruppo non riusciva a trovare un batterista stabile ma anche elemento cardine nella caratterizzazione delle sonorità distintive dello stile originario dei CCCP. Negri scrive, a questo proposito: “nessuno sembrava voler suonare insieme a noi, o comunque non eravamo in grado di trovare un batterista che avesse delle idee comuni alle nostre. […] Ho sognato spesso un batterista come un ragazzino povero sogna la bicicletta” (Negri 2023, 241, 245). Ricorda Zamboni:
Per un po’ abbiamo usato la batteria elettronica che avevo ereditato dai Frigo [il gruppo in cui militava prima di conoscere Ferretti, insieme a Umberto Negri], un aggeggio rudimentalissimo, di quelli con i tasti ‘valzer’, ‘cha cha cha’, ‘rumba’ eccetera, e infatti con quella, mischiando ‘shuffle’ e ‘mambo’ abbiamo fatto Sexy Soviet, che poi è diventata Brucia baby burn. Stati di agitazione era un altro di quei ritmi da balera messo a tutta velocità e Militanz era un altro ‘shuffle’ accelerato in qualche maniera strana (Ferretti, Zamboni 1997, 33).
Quest’uso non solo caratterizzava in senso puramente timbrico l’identità musicale del gruppo ma risponde perfettamente a quell’idea di bricolage estetico di elementi preesistenti, sovvertiti a uso e consumo di un progetto comunicativo che li trasforma istituendo collegamenti tra punti disparati del campo culturale che è propria di un’interpretazione originale dell’attitudine punk. Inoltre la batteria elettronica, con la sua regolarità meccanica, riproponeva all’orecchio la connotazione industriale, isocrona, inesorabile della catena produttiva di stampo sovietico, mentre la relazione con i ritmi da ballo della batteria elettronica riportava - perlomeno a livello ideale se non pratico - a quell’idea di ‘musica melodica emiliana’ di cui la produzione del gruppo voleva essere uno specchio, a volte più fedele, spesse volte distorto (le scalette delle esibizioni live testimoniano l'inclusione di Allarme e Valium Tavor Serenase – che comprendeva un inserto con la parodia di Romagna mia - fin dal 1985 e di Oh! Battagliero dal 1986).
Un terzo ambito di indagine sulla dimensione propriamente musicale della produzione dei CCCP, che ne dimostra il riferimento a un nucleo ristretto e ben individuabile di elementi linguistici – punto di partenza per quella coerenza estetica che del progetto è caratteristica determinante – è relativo a un dato specificamente sonoro. I risultati di una sistematica analisi algoritmica della produzione fonografica del gruppo, infatti, restituiscono un ritratto piuttosto preciso del percorso che si articola da Ortodossia a Canzoni preghiere danze del II millennio – sezione Europa in termini di risorse espressive. Nei grafici che qui riportiamo [Figg. 1-6] sono rappresentati i risultati di un’analisi delle canzoni di questi album tramite il plugin Chroma Means del software Sonic Visualiser, che restituisce per ogni brano la serie di valori percentuali relativi alla presenza delle formanti contenute in una traccia registrata, raggruppate all’interno dello spazio di un’ottava (si veda la documentazione degli autori del plugin, a questo link).
In altre parole, ciò che emerge da questi dati statistici è la fotografia del tipo di intelaiatura scalare di un singolo brano, poi aggregato in prima istanza per album e in seconda istanza in una visualizzazione complessiva dei dati. Nei grafici, il valore sull’asse delle ordinate è il risultato dell’analisi applicata dall’algoritmo (più alto è, maggiore la presenza di quella serie di altezze nel brano), mentre su quello delle ascisse è possibile leggere l’altezza di riferimento rispetto alla scala cromatica, espressa da un valore da 1 a 12 (dove 1=do, 2=do#, 3=re, e così via).
Pur senza voler procedere in questa sede a un’analisi dettagliata dei dati, si possono individuare nella progressione cronologica che emerge da questi grafici alcune tendenze ben specifiche. Nelle prime uscite (i due EP e il primo album, 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età), si evidenzia il ricorso a un vocabolario melodico e armonico basato su un ristretto numero di altezze prevalenti, aggregate in primo luogo intorno alla nota mi (che ritorna, infatti, nel grafico finale come principale punto di riferimento). Inoltre, emergono come particolarmente ricorrenti alcuni cluster cromatici che ruotano intorno ai set di altezze re-re#-mi-fa e la-la#-si-do. La presenza di tali aggregati, in relazione reciproca di quinta, ben si attaglia tanto alla ricerca di movimenti melodici che possano distaccarsi dal linguaggio più consueto del rock, quanto andare a imitare – grazie all’insistenza su matrici cromatiche – la libertà melodica di frammenti ispirati alle atmosfere orientali e balcaniche ai quali il complesso aspirava. Infine, la centralità dell’altezza mi riporta immediatamente alla prassi dell’improvvisazione in sala prove da parte di Zamboni (chitarrista) e Negri (bassista), i cui rispettivi strumenti rendevano particolarmente semplice, dal punto di vista dell’accordatura, un’esplorazione delle risorse melodiche e armoniche a partire da quella particolare nota. La situazione inizia a mutare a partire da Socialismo e barbarie per poi trasformarsi ancor più profondamente con Canzoni preghiere danze, in cui una maggiore pluralità di soluzioni musicali si riflette in una serie di cromagrammi in cui è più difficile scorgere la presenza di una ristretta quantità di risorse a livello musicale. È certamente questo il segno di una qualità sempre più professionale della scrittura in senso tecnico e dei risultati artistici del gruppo ma anche l’immagine di una sempre maggiore concentrazione dei CCCP sulla produzione musicale, indicativa degli sviluppi che – di lì a poco – porteranno alla consunzione definitiva di questo progetto artistico nella sua configurazione originaria.
Un ultimo aspetto, tra quelli che meriterebbero un ulteriore approfondimento sistematico, è quello relativo alla coerenza di un materiale melodico, verbale e musicale che viene concepito in maniera modulare, almeno in due accezioni possibili del termine. In primo luogo, internamente ai singoli brani si manifesta – particolarmente nel primo periodo – la tendenza a una progressiva intensificazione (in primo luogo in senso di accelerazione agogica, quando non anche di letterale compressione in termini di valori ritmici delle stesse idee melodiche) nell’uso dei materiali musicali. Allo stesso risultato concorre anche il ricorso alla ripetizione sintagmatica di versi e frasi, che si propongono in questo modo come veri e propri slogan in grado di fermarsi nella memoria del pubblico con una staticità e una pregnanza particolarmente spiccate. Per lo sviluppo di tale aspetto risultano anche determinanti – con tutta probabiltà – i limiti, pragmatici e performativi, sottolineati nei paragrafi precedenti in merito all’uso della batteria elettronica e della ricorrenza di un limitato numero di elementi costitutivi dal punto di vista musicale.
Tra i diversi esempi che si potrebbero richiamare, un approfondimento su Militanz può rendere conto di questo approccio e delle sue modalità di applicazione alle strutture della canzone. Il brano si apre con un riff (x) che alterna accordi ‘vuoti’ sul si e sul sol della sola chitarra, alternati secondo una logica asimmetrica (Esempio 1a); ciascun accordo dura quanto il precedente ed entrambi occupano lo spazio di poco più di una battuta da 4/4 (esattamente 17 semicrome sul Si5 e 18 sul Sol5, con un passaggio diatonico sul La5). La batteria elettronica si attesta su una figura cassa-cassa-rullante che alterna due semicrome a una croma. Nella ripresa della stessa idea musicale sul finale della canzone (x’) la medesima struttura musicale viene presentata con un ritmo armonico doppio, in cui ogni accordo viene mantenuto per una durata di 8 semicrome. L’effetto di maggiore densità viene enfatizzato dall’ingresso del basso elettrico a raddoppiare le fondamentali della chitarra a un’ottava di distanza, e dalla maggiore presenza della cassa della batteria elettronica, ora presente su tutti e quattro i sedicesimi del beat, oltre che dal doppio colpo di rullante sul levare dell’ultimo beat di ogni battuta [Figg. a, b, c].
La stessa idea di compressione del ritmo armonico era stata presentata in precedenza con il riff qui chiamato y, ovvero l’unico elemento variante e a contrasto dell’intero brano. In questa breve presentazione di materiale alternativo si anticipa l’accelerazione di x, seppure su un diverso decorso melodico, e l’ingresso del basso in semicrome. La batteria scandisce gli ottavi alternando cassa e rullante mentre viene affidato al charleston il ruolo di suddividere la pulsazione in sedicesimi. Con le ultime due battute dell’Esempio 1c si assiste a un ulteriore esempio di diminuzione ritmica: i cambiamenti armonici si attestano sulla durata di una singola semiminima mentre, almeno inizialmente, basso e batteria si alternano nella scansione dei sedicesimi all’interno del beat, ma gradualmente intensificando il loro apporto fino ad arrivare sull’ultima battuta, rispettivamente, al ribattuto in sedicesimi sulle fondamentali degli accordi e a una rullata di otto sedicesimi che accompagna gli ultimi tre cambi di armonia della sezione. Questo genere di dinamica trova altre applicazioni nel primo repertorio dei CCCP, tanto da proporsi quale elemento distintivo del loro stile. Simili sviluppi di materiale in ottica di un’intensificazione di elementi già presentati altrove si ritrovano in maniera palese in brani come Sono come tu mi vuoi, Emilia paranoica, CCCP, Valium Tavor Serenase, Per me lo so, Manifesto, evidenziando come questa rappresenti una delle tecniche più usuali per il gruppo di sviluppare il decorso musicale dei proprio brani.
In secondo luogo, la concezione modulare della scrittura trova riflesso in una particolare enfasi strutturale sulle sezioni strumentali dei propri brani, preludendo alla funzione coreutica a cui la musica sembra aspirare fin dalle primissime fasi della vicenda del gruppo. Questo dato viene particolarmente in luce quando si vadano a osservare nel complesso le canzoni, nella loro cristallizzazione fonografica, fino almeno a Socialismo e barbarie: in questo limitato corpus si può già apprezzare la grande rilevanza quantitativa delle sezioni strumentali se comparate a quelle dotate di un testo verbale (o anche solo di una linea vocalizzata).
Tra gli estremi di Valium Tavor Serenase (il brano con la parte strumentale più breve) e Sura (quello con la parte vocale più contenuta), si può osservare una certa coerenza nei dati complessivi relativi a ogni singolo album, a sua volta riferito alla media complessiva per uscita discografica. In generale la proporzione tra sezioni strumentali e vocali si attesta su un rapporto di 2:3, andando ad avvicinarsi progressivamente all’equivalenza tra le due dimensioni, forse anche in ragione di un maggiore coinvolgimento di una progettualità performativa nella concezione dei brani stessi, che pure già riservano alla prima opzione più di un terzo della durata totale delle tracce fin dal primo EP [Figg. 8, 9].
Più che una identificazione con il canto e con la voce, quindi, le canzoni dei CCCP sembrano tendere verso l’attivazione di processi di identificazione collettiva, favorita in primo luogo dalla musica ed enfatizzata dalla presenza spettacolare nei loro concerti. In questo dimostrano di muoversi lungo linee simili a quelle riconosciute, in altri contesti, come caratteristiche delle culture musicali dei generi legati alla EDM (Electronic Dance Music):
Modes of dancing mirror an array of shared values which always articulate a social function. To submit to the beat is to become part of an egalitarian community entrenched in a type of religious mysticism. Stylized trends of address in club culture relate directly to the ways in which body movements interpret music in specific social spaces without any recourse to clarification through words. So, while dancers are able to focus on their own individuality, their physical motions function to establish a ‘communal ethos’ which, in turn, define the event, genre and context (Hawkins 2003, 100).
In questa prospettiva, la qualità modulare della musica dei CCCP permetterebbe la creazione di uno spazio condiviso (sociale nel caso dei concerti, socializzato a posteriori nel caso dell’ascolto fonografico) in grado di immergere gli ascoltatori in quella matrice discorsiva ed estetica che il gruppo disegna come separata e distintiva rispetto al contesto culturale circostante, oltre che determinante per la propria identità artistica.
Ortodossia come stile, componendo frammenti e macerie
La coerenza del progetto artistico portato avanti dai CCCP evidenziata in questo contributo non deve far pensare a una dettagliata pianificazione di tutti i dettagli. Come hanno più volte affermato i suoi protagonisti, si è trattato dello sviluppo di una precisa ipotesi artistica, i cui prodromi forse affondano in quella tesi in musicologia che Giovanni Lindo Ferretti racconta di non aver mai realizzato in ambito accademico durante i suoi anni di frequentazione al DAMS di Bologna (sulla genesi ed effettiva realizzazione della ricerca si accavallano e contraddicono diversi dettagli, riferiti in momenti diversi dallo stesso Ferretti ma la vicenda è richiamata più volte nelle interviste recenti, a testimonianza della sua rilevanza, perlomeno discorsiva, nella ricostruzione retrospettiva della storia del complesso). Il titolo avrebbe dovuto essere Ideazione di un ipotetico gruppo punk nell’Emilia degli anni Ottanta; il lavoro non vide mai la luce perché lo stesso studente riteneva “più interessante la realizzazione nella realtà che l’ideazione ipotetica “ (Fiumi 2024). I motivi per cui l’operazione ha avuto un impatto così profondo sono, ovviamente, non riducibili a una spiegazione unica ma si possono aggregare intorno a una parola-chiave:
La grandezza della storia dei CCCP stava più nei suoi aspetti inesplicabili che in quelli esplicabili, nel senso che a volte abbiamo toccato nervi scoperti senza averne consapevolezza. Vivevamo in un mondo frantumato, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia. Non eravamo altro che lo specchio di quella frantumazione e non potevamo che essere frantumati a nostra volta (Ferretti, Zamboni 1997, 54).
La possibilità di pacificarsi, di venire a patti con il cambiamento epocale che viene presagito e attraversa gli anni Ottanta a livello sociale, culturale, globale era, perlomeno apparentemente, ciò che il gruppo proponeva con una forza e una coerenza espressiva che, se presa alla lettera, prometteva una via alternativa alla condizione presente.
I fraintendimenti di fondo, legati a un’interpretazione ideologica e non estetica del progetto CCCP, sono indicativi di questo scollamento tra la realtà (e le possibilità) di un progetto artistico e tali aspettative da parte del pubblico, rendendo il percorso umano e artistico della band particolarmente incisivo sui suoi protagonisti e costellato di conflitti di varia natura. Questi determineranno il progressivo sfaldarsi del nucleo iniziale del gruppo e la decisione di terminarne la vicenda originaria con le registrazioni dell’album Epica Etica Etnica Pathos. L'intima contraddizione insita in quella che si proponeva come una celebrazione e, al contempo, una sottomissione a un’ideologia totalizzante permetteva al gruppo di concepire i propri spettacoli come psicoterapia collettiva, in cui l’altro presupposto fondante del punk – il comune sentire tra artisti e pubblico – si manifestava in anelito, condiviso ma anche destinato a rimanere inappagato, verso punti di riferimento ideologici che, dopo aver esercitato una funzione di controllo sociale per decenni, si stavamo velocemente sgretolando.
Del resto, non poteva essere altrimenti, per la qualità e la profondità totalizzante delle scelte comunicative ed esistenziali messe in campo dal gruppo:
La cosa che colpiva nei CCCP, allargati ai due danzatori e performer […], era la fitta rete di segni che li ricopriva. Non solo loro, le esibizioni e i dischi, ma anche la casa di Fellegara: le pareti, le scale, gli oggetti tutto era ‘segno’ e come tale vissuto. […] La stessa poetica del frammento, cui Ferretti faceva riferimento dopo la fine dell’esperienza del suo gruppo, era già operante allora. Frammento e meta-discorso erano la stessa cosa. I CCCP citavano, ma non in senso post-moderno (non erano Keith Haring), bensì in una forma che è poi diventata evidente nel decennio seguente: macerie. Frammento come maceria (Belpoliti 2014, 13).
La maceria è materiale inerte, e come tale non poteva dare avvio a sviluppi ulteriori, se non ripartendo da una ricostruzione complessiva degli obiettivi e dell’identità del gruppo.
La fine del progetto CCCP darà avvio a nuove iniziative, in uno scenario culturale e musicale inevitabilmente mutato rispetto agli anni Ottanta, differenti in primo luogo perché concentrate sempre più strettamente sulla dimensione musicale. All’allargamento delle risorse in termini compositivi e stilistici determinato dall’innesto di nuovi componenti del gruppo a partire da Epica Etica Etnica Pathos, così come ai diversi cambiamenti di nome del gruppo, corrisponde la definitiva ed esclusiva incorporazione del progetto nella filiera della produzione musicale, con poche incursioni al di là di tale dimensione. La diagnosi sullo stato di salute dello scenario musicale italiano proposta da Ferretti a metà degli anni Novanta da un lato si inscrive nel tentativo di fondare una realtà di produzione indipendente, con I Dischi del Mulo prima e successivamente con il Consorzio Produttori Indipendenti, dall’altro procede dal riconoscimento di una novità nello scenario dell’industria culturale nazionale:
Che esista un nuovo rock italiano lo cantano e lo suonano i gruppi e molto bene, lo conferma l’indotto industriale e artigianale che li sorregge e permette la loro esistenza. C’è un pezzo non indifferente di questo paese [sic!] che di questo vive, non metaforicamente, ma economicamente. Tecnici, agenzie, fotografi, club, manager, organizzatori, giornalisti, service, camionisti, etichette, studi. Ci sono per la prima volta produttori, competenze, mestieri di buon livello. Molti sono bravi, qualcuno eccellente (in Campo 1995, 7).
Il motivo di somiglianza tra l’inizio di questa vicenda e quella dei CCCP si situa al livello del discorso che informa l’analisi dell’esistente, nella convinzione di sviluppare un operato che possa risultare incisivo sul contesto nel quale si inserisce. La prospettiva, ancora una volta, rimane allo stesso tempo materialista – in quanto concentrata sulle condizioni di produzione dei beni nella società di massa – e provinciale – nella rivendicazione di una condizione inedita che procede dalla limitazione del proprio sguardo a ciò che sa e conosce. Da questo punto di vista è indicativa (ma coerente con l’impostazione retorica della comunicazione del gruppo) la constatazione che “per la prima volta” sono presenti una serie di professionalità che vanno ad aggregare una filiera all’interno del settore della produzione, organizzazione e distribuzione musicale, intendendo la novità come limitata all’alveo dei generi rappresentati dalla definizione-ombrello di “nuovo rock italiano”. La costruzione spettacolare del presente, esattamente come nella progettazione del percorso dei CCCP una decina di anni prima, risponde alla logica di una linearità del discorso e della narrazione che è, allo stesso tempo, programma artistico e lente per la lettura dello scenario corrente, tentativo di ordinamento attraverso la parola di una prospettiva sul mondo, tentativo di un controllo su un reale che inevitabilmente sfugge alle maglie di ogni definizione univoca e richiede un atto di fede (che sia professato per fascinazione estetica o per convinzione ideologica poco importa, in fondo) per essere condiviso.
Ortodossia come stile, dunque, nel collocarsi all’interno del proprio contesto difendendo la parzialità di un punto di vista come l’unico possibile, data l’ora, l’aspetto, la cattiva reputazione, le voglie sconfinate, la necessità d’infinito.
Riferimenti bibliografici
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The musical group CCCP, also known as "Faithful to the Line", has been characterised by a particularly strong consistency in its artistic project and image, drawing inspiration from many elements (Filo-Sovietism, Eastern cultures of the Middle and Far East, and the popular culture of Aemilia, their place of origin). In its early years, the band was part of a diverse group of activists, artists and bohemians influenced by the continental European punk subculture, all engaged in a multidisciplinary effort to realise the same idea of an alternative subcultural expression, deeply rooted in the intention to construct a distinction based on a reconfiguration of punk's communicative détournement in a different cultural context. CCCP's interpretation of punk can be described, in Dick Hebdige's terms, as a spectacular construction of disparate elements of contemporary popular culture, arranging a series of imaginary relationships in new and original ways. Such a reconfiguration finds in their music both an opportunity for aggregation and a privileged means of communication. In this article I will show how their artistic project and its coherence echoes in their songs, and how an expansion of their stylistic language corresponds historically to an increasing concentration on music as their primary interest within the overall industrial asset of contemporary popular culture, which - in the end - will also bring the project to its conclusion and end.
keywords | CCCP; Filo-Sovietism; Dick Hedbige; détournement; Reggio Emilia; Massimo Zamboni; Giovanni Lindo Ferretti; Annarella Giudici; Danilo Fatur; Toni Contiero; Benedetto Valdesalici.
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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Bratus, Ideologia come stile, stile come ortodossia. La costruzione di un immaginario spettacolare nel progetto artistico dei CCCP, “La Rivista di Engramma” n. 210, marzo 2024, pp. 93-213 | PDF