Giocare con il Bilderatlas. Due casi e una questione teorica
Tavole 56 e 53
Giovanni Careri
English abstract
Nell’autunno del 2013 stavo per pubblicare La torpeur des ancêtres. Juifs et chrétiens dans la Chapelle Sixtine (Careri [2014] 2020) quando una coincidenza ha fatto sì che mi venisse restituita la scatola blu dell’edizione Artemide del Bilderatlas Memosyne di Aby Warburg (Spinelli, Venuti 1998). L’avevo data in prestito cinque anni prima ad Adel Abdessemed, un amico artista che l’aveva portata con sé a Berlino poi a New York, prima di tornare a Parigi dove ci siamo di nuovo incontrati. Sfogliando le tavole ritrovate, mi sono reso conto che vi compariva due volte la riproduzione della lunetta che reca il nome di Naason appartenente al ciclo degli Antenati di Cristo [Fig. 1]. Nella Tavola 56 la lunetta è situata in prossimità di altre tre immagini della cappella: una vista di insieme, il Giudizio Universale e un dettaglio del Giudizio dove si vedono gli angeli che portano in cielo la colonna della Flagellazione [Fig. 2]. Nella Tavola 53 la stessa lunetta (riprodotta in modo differente, senza il cartiglio con il nome di Naason) è collocata accanto alla Scuola di Atene di Raffaello [Fig. 3]. Il mio stupore è stato grande: il rapporto, che avevo messo in luce nel mio libro e che credevo inedito, tra il Giudizio e gli Antenati e tra questo ciclo e il “ritratto di Michelangelo” come Eraclito (il Pensieroso) nella Scuola di Atene di Raffaello era suggerito in queste due tavole senza che fosse possibile trovare nei testi editi e inediti di Warburg e della sua cerchia traccia alcuna delle ragioni di questa inclusione, se si fa eccezione a un commento nel diario, il Tagebuch del gruppo di Warburg, dove egli descrive la donna della lunetta come una “musa” (nota del 7 luglio 1927, GS Tagebuch, Band 3/7, 112, ringrazio Giulia Zanon per avermela segnalata).
Nelle righe che seguono riproporrò alcune ipotesi avanzate nel mio libro a proposito di queste due tavole con qualche nuova connessione e alcuni approfondimenti inediti, ma vorrei anche affrontare una questione metodologica di portata più generale sull’uso al quale si prestano le tavole, nella misura in cui la loro struttura associativa sollecita due modalità diverse e non esclusive tra loro: la prima, storico-filologica, consiste nel tentativo di ancorare le immagini alle documentazione lasciata da Warburg e della sua cerchia per determinare le ragioni e il senso che ogni montaggio aveva per lo storico dell’arte e i suoi collaboratori. La seconda prende invece le sue mosse dall’indeterminazione costitutiva del lavoro di associazione tra due o più immagini e funziona allora in un modo simile all’associazione in opera nell’analisi freudiana dove rivela il lavoro sotterraneo del sogno e dell’inconscio. Nella sua conferenza romana del 1929 Warburg parla dell’esposizione delle tavole come di una “officina” e di se stesso come di un “fabbro”, invitando i presenti a prendere parte al lavoro di associazione al quale le immagini lo hanno sollecitato (si veda l’edizione del testo della conferenza a cura di De Laude 2014, nell’introduzione l’autrice insiste particolarmente sulla conferenza come performance). La premessa di quella straordinaria performance era che il pubblico fosse al corrente dello stato dell’arte, delle scoperte della filologia e delle discussioni di metodo che animavano allora la disciplina. Insomma, per giocare era richiesta una competenza, ma anche una libertà che la storia dell’arte si è accordata di rado. L’idea di performance, di gioco o di esperimento non dovrebbe mai essere dimenticata da chi lavora sulle tavole dell’Atlas che non sono enigmi destinati a una definita inoppugnabile interpretazione ma conservano sempre il margine di indeterminazione senza il quale non ci si potrebbe giocare.
La vicenda della restituzione della riproduzione dell’Atlas dopo alcuni anni di prestito mi pone davanti a varie domande: la prima, meno rilevante, è quella di tentare di capire se il mio approccio era determinato dalla riflessione, cominciata per me nella seconda metà degli anni Ottanta, sul lavoro di Warburg e più generalmente sulla nozione di montaggio se mi avesse guidato a costruire associazioni identiche a quelle delle tavole che avevo prestato (ho situato il mio approccio nell’ambito di un’euristica del montaggio fin dai primi lavori, si veda Careri [1991] 2018; Careri 2005; Careri [2014] 2020, 95-120). La seconda è quella di comprendere se queste associazioni sono davvero “identiche”, se sono di Warburg o mie, oppure, per dirla con più precisione, se mi sono trovato in una condizione che rende leggibili queste associazioni rimaste oscure fino ad allora (sulla nozione di “leggibilità” nell’opera di Walter Benjamin si veda Pic, Alloa 2012). Se si accetta la legittimità di questa ipotesi si riconosce all’associazione tra immagini e alla loro organizzazione in “costellazione” la funzione di rivelazione che Walter Benjamin considerava come il compito più importante della storia dell’arte:
La storia dell’arte è una storia di profezie. Può essere scritta solo a partire dal punto di vista di un presente direttamente attuale, poiché ogni età possiede la propria nuova, benché non ereditabile, ossessione di interpretare proprio le profezie che l’arte delle epoche passate racchiudeva in sé. Il compito più importante della storia dell’arte è quello di decifrare le profezie, ritenute tali per l’epoca nella quale sono state formulate, contenute nelle grandi opere del passato. Nessuna di esse in realtà, ha mai determinato pienamente il futuro, nemmeno quello imminente. Nell’opera d’arte, anzi, nulla è più sfuggente dell’oscura e nebulosa dimensione proprio di quei rinvii al futuro, che le profezie – mai una unica, ma sempre una serie, per quanto intermittente –, in modi che differenziano nettamente le opere ispirate da quelle meno riuscite, hanno messo in luce nel corso dei secoli. Affinché queste profezie possano diventare comprensibili debbono però giungere a maturazione quelle circostanze che l’opera d’arte spesso ha precorso di secoli o anche solo di anni. Da un lato certe trasformazioni sociali che cambiano la funzione dell’arte, dall’altro certe invenzioni meccaniche (Benjamin [1939] 2011, 311).
Benjamin considerava la fotografia – senza la quale l’Atlas non sarebbe stato concepibile – un’invenzione meccanica che sottraeva la grande arte del passato all’aura cultuale dell’originale e la rendeva disponibile a una nuova vita (Benjamin [1936-1939] 2011). Il Bilderatlas Mnemosyne è una forma esemplare di questa nuova vita dell’immagine riprodotta, una forma capace se non di liberare le immagini dai testi che ne programmano la lettura, di ridurre la dominanza del testo sull’immagine che si rende così disponibile all’associazione con altre immagini senza altra mediazione che quella, tutta visiva, del montaggio. La nuova vita che l’immagine riprodotta meccanicamente dispiega nelle tavole dell’atlante ci presenta quella che Warburg chiamava appunto “la vita delle immagini” ovvero le modalità delle loro migrazioni, quelle delle loro metamorfosi e delle loro condensazioni, quelle del loro oblio e del loro ritorno indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Questo modo di concepire la storia delle opere e delle immagini al di là dalle intenzioni dei loro autori come se fossero dotate di vita – capaci di migrare, condensarsi, far ritorno – rese viventi da un lavoro collettivo in gran parte inconscio, abbatte le frontiere della disciplina della storia dell’arte che si lascia invadere e si mescola ad altri approcci in particolare quello delle discipline antropologiche dove si accorda la massima importanza al nodo che lega l’immagine al mito, al rito, al gesto rituale e alla memoria e dove vigono regimi di temporalità differenti rispetto a quelli della storia.
La prima caratteristica dell’euristica del montaggio messa in opera dalle tavole, abbiamo detto, è quella di non isolare le immagini ma di esporle all’associazione con altre immagini spesso lontane nel tempo e in base a principi di pertinenza fra i più diversi. Nel mio lavoro sulla Cappella Sistina ho messo in sospeso la distanza storica tra le tre parti appartenenti a epoche diverse che compongo gli affreschi, situandomi a partire dal momento in cui l’aggiunta del Giudizio alla Volta e alle Storie di Mosé e di Cristo si compone in una costellazione dove il senso degli elementi già esistenti viene riconfigurato in una visione escatologica globale, che con il Giudizio, conduce all’esplosione le forme tradizionali del racconto visivo della storia: la prospettiva e la Istoria albertiana (Careri [2014] 2020, 21-94).
Nella Tavola 56 il Giudizio di Michelangelo viene messo al centro di un montaggio dove opera il principio costruttivo dell’inversione energetica della polarità: a destra si moltiplicano le immagini della tragica caduta di Fetonte che finisce con lo sfondare il soffitto affrescato da Caccianiga [Fig. 2]. A sinistra si affiancano varie immagini del Giudizio universale dove alla caduta dei dannati si oppone l’ascesa degli eletti che culmina nell’esaltata danza degli angeli che portano in gloria la colonna della Flagellazione, rovesciando così un simbolo di umiliazione in un segno di gloria comparabile alla colonna che viene elevata per celebrare l’imperatore nella Gemma Augustea, collocata in alto a sinistra, accanto agli angeli michelangioleschi. A destra, sullo stesso registro, viene elevata la croce di San Filippo: attraverso l’inversione energetica si esprime un’inversione semantica che colloca all’apice del movimento di innalzamento, accanto alla colonna dell’imperatore, la croce del martire umiliato, ma destinato alla gloria della redenzione. Questo motivo cristiano contrasta a sua volta con la caduta del pagano Fetonte che provoca fra le Eliadi un “dolore senza redenzione” (l’espressione è in Gombrich 1970, 300).
Nel diario che accompagna la realizzazione delle tavole Warburg ha scritto che Fetonte ha imposto la sua presenza esigendo “di essere inserito come un anello importante della catena”. Una nota del 19 maggio dello stesso anno rivela come il principio del montaggio non operasse solo nelle tavole attraverso le immagini, ma anche nella stessa scrittura concitata di Warburg:
Tragödie der Heliotropie, die wir ahnen dürfen. Dazu jetz noch der griechische Kosmos von Beth-Alpha, mit dem Substitutionsopfer für Isaac!
Religiöse Leidschaft als Mutterboden für die Ausdruckswerte der seelischen […].
Und mit der “claratio” auf “einen Stamm geimpfet” der Absturz: Phaeton (den abgestürzten Sonnensohn) den Mithras überwindet prägt die Formen des Seelensturzes bei Michelangelo vor wie es sich andrerseits es die römische kaiserliche Tropaion gefallen lassen muß zum Schandpfahl und Märtyrerinstrument zu werden.
Gemme in Wien. Energetische Inversion kat’exochen.
La tragedia dell’eliotropismo, che possiamo percepire. E ora il cosmo greco di Beth-Alpha, con il sacrificio sostitutivo per Isacco!
La passione religiosa come terreno di coltura dei valori espressivi dell’anima […].
E con la “claratio” innestata su “uno stesso tronco” la caduta:
Fetonte (il figlio caduto del sole) che vince Mitra, caratterizza le forme della caduta dell’anima in Michelangelo, così come, d’altra parte, il tropaion imperiale romano deve sopportare di diventare strumento di vergogna e martirio.
Gemme a Vienna. Inversione energetica kat’exochen (GS Tagebuch, Band 8/53, 19 maggio 1929, 457)
Nel montaggio della Tavola 56, Warburg e i suoi collaboratori sperimentano una forma di sequenzialità cinetica “proto-cinematografica” ottenuta tramite la giustapposizione e l’ingrandimento di tre immagini della Sistina: nella foto dell’insieme della cappella, il Giudizio è a stento visibile ma il montaggio con le altre due immagini procede a un ingrandimento progressivo che culmina con gli angeli con la colonna (a proposito del rapporto tra le tavole del Bilderatlas e il cinema primitivo si veda Michaud 1998). Siamo quindi coinvolti in un movimento ascensionale, portati vicino e in alto, sperimentando, a nostra volta, la dimensione energetica illustrata nell’insieme della Tavola. La fotografia con i due Antenati di Cristo appare come un’interruzione del gioco di forze contrarie che anima le rappresentazioni del giudizio non partecipando peraltro neanche al montaggio cinetico che culmina con gli angeli.
Quali sono le ragioni che hanno imposto che queste singolari figure fossero inserite “come un anello importante della catena”? Un indizio utile per provare a formulare una risposta è la prossimità che associa le due lunette, quella degli antenati e quella degli angeli, nella cappella stessa, dove entrambe condividono parte della cornice con il pennacchio che illustra l’episodio del serpente di bronzo [Fig. 3]. Per comprendere l’incongruità della presenza degli Antenati nella Tavola bisogna allora capire le ragioni della loro incongrua presenza nella Sistina stessa dove appaiono estranei al racconto monumentale del progresso inesorabile della storia cristiana che inizia con la Genesi e culmina nel Giudizio. Il termine incongruo (Das Unstimmige) riferito al sistema figurativo della Volta, compare in una nota del diario datata 22 dicembre del 1928 (GS Tagebuch 7/75, 22 dicembre 1928, 386), ma non ci sono altre indicazioni che lo motivino. La ragione del mio stupore davanti alla Tavola restituitami quando il mio libro era ormai finito è che l’incongruità della presenza degli Antenati nel disegno escatologico globale della cappella era stato il motivo che mi aveva spinto a osare una rilettura dell’insieme proprio a partire dal margine occupato da quelle strane famiglie dove le donne sono sopraffatte dalla fatica della cura dei figli, impegnate in liti con i propri mariti o colte attraverso gesti che ne rivelano la carnalità, la triste e lussuriosa vanità, come la figura femminile della lunetta della Tavola 56, assorta nella contemplazione della propria immagine allo specchio. Il personaggio maschile viene invece raffigurato semisdraiato davanti a un leggio con un foglio la cui lettura sembra annoiarlo e affaticarlo oltre misura. È difficile dire se stia leggendo o se abbia abbandonato, si tratta, comunque, di un modo di confrontarsi alla pagina scritta che appare tanto più inerte in quanto si trova in prossimità della lettura ispirata dei profeti e delle sibille circostanti. In altre lunette e nelle vele, insieme a simili tratti di fatica, troviamo espliciti rinvii allo stereotipo della figura dell’ebreo, a volte persino il signum, la rotella circolare gialla o la fascia, sempre gialla, che gli ebrei romani dovevano portare sul petto o sul braccio al tempo di Giulio II (la scoperta del signum sull’abito di un Antenato di Cristo è tardiva e si deve a Wisch 2003). La connessione tra gli Antenati michelangioleschi e gli ebrei mi ha spinto ad attribuire al personaggio della lunetta 6 il senso di una sforzo di lettura ridicolo e insensato delle scritture che i cristiani attribuivano agli ebrei, capaci di comprendere la lettera del testo ma non di coglierne il senso figurale: gli annunci e le prefigurazioni che collegano il Vecchio e il Nuovo Testamento, l’accusa di “leggere e non capire era rivolta agli ebrei dal papa durante la cerimonia del Possesso” (Careri [2014] 2020, 153-157). Nelle loro multiformi manifestazioni e attraverso una straordinaria plasticità che tiene insieme l’ebreo tipico, l’ebreo dei tempi biblici e l’ebreo che dopo la rivelazione ritarda il momento della conversione, le figure degli Antenati sono a vario titolo escluse dal grande racconto visivo della storia cristiana negli affreschi sistini, o più precisamente sono inclusi in quanto esclusi. Nei loro atteggiamenti si riconoscono le caratteristiche di una vita tutta terrena e domestica, distratta dalla vita dello spirito: una vita secondo la carne, secundum carnem nel senso che San Paolo attribuisce a questa categoria fondamentale della sua teologia. La loro presenza nella Tavola 56 sembra allora essere legata a quella che ne motiva l’esistenza nella Sistina: rendere visibile ciò che fa ostacolo all’accelerazione della storia verso il suo compimento, l’impedimentum che per molti autori cristiani era associato alla figura dell’ebreo. Nell’economia energetica di Tavola 56, gli Antenati occupano la posizione dell’“assorbimento meditativo depressivo” che stabilisce con la “frenesia estatica” degli angeli, quel rapporto dialettico che Warburg definisce come l’espressione emblematica della “schizofrenia della cultura occidentale”. Nella Cappella, l’accesso alla visibilità di questa forza di inerzia è davvero notevole perché in esso si manifesta il “principio di realtà” contro il quale viene a cozzare l’ideologia sottesa da ogni lettura idealizzante del destino dell’umanità cristianizzata.
Attribuendo a Warburg e ai suoi collaboratori un’intuizione sul ruolo degli Antenati nella Sistina che prima del mio lavoro nessuno ha interpretato in questo modo, compio un’operazione discutibile destinata a legittimare il mio lavoro o riattivo il ‘gioco’ che la Tavola permette ma che era fin qui rimasto indeterminato? In un primo tempo ha prevalso la prima delle due ipotesi, nel libro infatti, le tavole sono riprodotte e brevemente commentate alla fine dell’analisi del capitolo intitolato La vita secondo la carne in funzione di conferma a quanto fin lì avevo provato a dimostrare. È solo adesso, molti anni dopo, che mi è parso importante seguire la seconda ipotesi non tanto per riaprire l’analisi della volta Sistina, quanto per suggerire che la tavola contenga un invito a un ‘gioco’ che si è riaperto molti anni dopo la sua realizzazione e che ne ridisegna la ‘leggibilità’.
La mia interpretazione – che ho dovuto drasticamente riassumere – e quella della Tavola non sono identiche e si incontrano solo sul terreno della costruzione polarizzata che Michelangelo stesso ha attivato affiancando agli Antenati il Giudizio. Warburg e i suoi collaboratori hanno esteso questa polarizzazione all’insieme della Tavola 56 coinvolgendo altre immagini e introducendo la “caduta tragica greca” laddove nel Giudizio si manifesta solo la tragedia della dannazione cristiana. La mia provvisoria conclusione è che la parziale coincidenza che mi ha tanto colpito non sia l’espressione di una interpretazione simile ma della condivisione di un modo di concepire un livello di relazione tra immagini, quello energetico e polarizzato, che nella Tavola è indifferente al livello iconografico che associa gli Antenati ad altre figure “carnali”, mentre nel mio lavoro questo livello viene considerato, come è normale che sia, visto che la mia domanda è di natura diversa e non poteva esimersi da un’accurata indagine iconologica benché questa non fornisca tutte le risposte. La nozione di polarità, come quella di inversione energetica sono state concepite e messe in opera da Warburg molto prima della composizione della Tavola 56, è tuttavia possibile immaginare che l’incontro con il Giudizio lo abbia condotto a una formulazione nuova dove il movimento non si chiude nella cornice di ogni fotografia ma si estende nelle circostanti così come nell’affresco il senso delle figure non si comprende isolandole, ma considerandole come forme attraversate da forze che le dispongono in una straordinaria coreografia (a proposito della coreografia come paradigma interpretativo del Giudizio universale, si veda Careri 2024). In altri termini questa Tavola ha uno statuto paradigmatico perché esplicita, estendendolo, il principio morfogenetico soggiacente al Giudizio e al suo rapporto con l’inerzia degli Antenati. In questa esplicitazione del modello, tuttavia, le potenzialità di alcune connessioni restano implicite e rendono possibile, proprio in quanto implicite, il ‘gioco’ ermeneutico che ho provato a giocare.
La lunetta di Naason è posta a fianco del Parnaso di Raffaello, nella Tavola 53, sormontato a sua volta da una riproduzione della Scuola di Atene di identiche dimensioni [Fig. 3]. Nella sua conferenza dedicata a Franz Boll del 1925 (in Spinelli, Venuti 1998, 83), Warburg scrive che nelle Stanze “non v’è più traccia dei valori espressivi raffigurati da mostruose configurazioni di lotta”. Nelle sue note del 1928 leggiamo che:
Raffaello trasforma questi demoni astrologici del destino in sereni dèi dell’Olimpo, nella cui regione superiore non v’è più posto per le pratiche superstiziose. […] Un sistema di sfere a più livelli viene così a formarsi tra l’umano e la forza celeste del destino. Chi è in grado di innalzarsi riceve un grido di incoraggiamento, quando vuole opporre alla banalità quotidiana che divora l’anima il desiderio d’innalzarsi fino all’idea (A. Warburg, Handelskammer, 1928, in Spinelli, Venuti 1998, 38).
Nei due Antenati della Tavola 53 si può senz’altro riconoscere la rappresentazione della sfera della “bassezza umana” di coloro che non riescono ad “opporre alla banalità quotidiana che divora l’anima il desiderio d’innalzarsi fino all’idea”. I due personaggi, in effetti, assumono anche in questo caso un valore posturale contrastivo, una posizione dialettica ed energetica di “melanconia” rispetto alla “serenità” degli dèi dell’Olimpo e dei filosofi della Scuola [Fig. 5]. La lunetta viene qui integrata in ragione del suo valore d’inerzia saturnina, indipendentemente dalla sua appartenenza al più vasto insieme della Cappella Sistina, a differenza di quanto avviene nella Tavola 56.
Esiste tuttavia un’altra associazione che mi sono lasciato sfuggire nel mio libro, ma che mi appare oggi in tutta la sua evidenza: quella tra la lunetta con gli Antenati e il ritratto di Michelangelo nelle vesti di Eraclito nella Scuola di Atene. Una connessione si annoda infatti tra l’inerzia melanconica del filosofo che ha sospeso la penna e quella del personaggio che ha abbandonato la lettura, entrambe figure di chi “non è in grado di innalzarsi”. Nel mio libro ho sostenuto l’ipotesi che la scoperta della volta Sistina, e in particolare del ciclo degli Antenati, da parte di Raffaello non sia estranea alla straordinaria operazione che lo ha spinto a integrare una figura di Michelangelo nel suo affresco allora già quasi completato come mostra il grande disegno dell’Ambrosiana [Fig. 6].
Deoclecio Redig de Campos ha mostrato come questo ‘ritratto’ di Michelangelo sia anche il ritratto del suo modo di comporre e di dipingere:
Lo scarto rispetto al resto della composizione è pronunciato: lo sfumato delle ombre, accarezzato con paziente preziosismo, cede il posto a una tormentata ricerca di rilievo plastico; il tratto minuzioso ereditato dal Quattrocento viene sostituito da una pennellata liquida che spande il colore per ampie aree; all’allegria cromatica ereditata dal Perugino si sostituisce un’austera semplicità che si accontenta di tre soli toni: i movimenti dall’eleganza facile e melodiosa sono sostituiti da una costruzione chiusa e raccolta in una sola figura, come circoscritta in un marmo solo, un’armonia intensa e inquieta, nata dalla concatenazione di forze in mutuo contrasto: la grazia serena del pittore di Urbino cede il campo alla forza triste di Buonarroti. L’aggiunta di questa massa non colma soltanto il vuoto eccessivo lasciato in primo piano nel disegno dell’Ambrosiana, ma stringe intorno ad essa tutta la vasta e complessa scena, attraverso un dispositivo tipicamente michelangiolesco (Redig de Campos 1942).
L’introduzione della maniera di Michelangelo in un insieme caratterizzato dal “tratto minuzioso ereditato dal Quattrocento” e “dall’allegria cromatica” del Perugino è presentata come la soluzione di un problema compositivo: la massa del Pensieroso viene a colmare “il vuoto eccessivo lasciato in primo piano nel disegno dell’Ambrosiana” ma denuncia un cedimento da parte di Raffaello che “cede il campo alla forza triste del Buonarroti”. In quest’ultima frase echeggia l’affermazione messa in bocca a Leone X da Sebastiano del Piombo che gli avrebbe detto:
Guarda l’opere de Rafaelo, che come vide le hopere de Michelagniolo, subito lassò la maniera del Perosino et quanto più poteva si acostava a quella de Michelagnolo (Poggi, Barocchi, Ristori 1967, 246-247).
L’analisi di Redig de Campos presenta l’affresco come un campo di forze polarizzato dall’inclusione del corpo massiccio del Buonarroti. L’operazione o il “dispositivo” messo in atto da Raffaello interviene, in effetti, sulla polarità che oppone lo sfumato delle ombre al rilievo plastico, il tratto minuzioso alla pennellata liquida, l’allegria cromatica alla riduzione a tre soli toni, i movimenti aperti, facili e melodiosi alla chiusura di una figura statica, ma internamente agitata da forze in mutuo contrasto. La descrizione delle forme come espressione di forze in conflitto ha il merito di rendere visibile il rischio assunto da Raffaello quando disequilibra l’armonia serena della sua Scuola per far posto a una figura eterogenea alla costruzione spazio-temporale che pure la accoglie (Careri 2021).
Redig de Campos non si interroga, tuttavia, sugli effetti di senso del conflitto di forze e di forme che ha saputo ammirevolmente descrivere. L’aggiunta della massa del Pensieroso nel corpo di un affresco già terminato secondo stilemi differenti, determina, in effetti, una profonda riconfigurazione del senso della Scuola di Atene: alla messa in tensione di forze contrastanti sul piano plastico corrisponde in effetti l’attivazione di un insieme di opposizioni sul piano semantico. La più evidente si manifesta nella polarizzazione che contrappone la figura slanciata di Platone, col braccio levato verso il mondo delle idee, al pensieroso, pesantemente seduto, la testa bassa e gli occhi nell’ombra. Una seconda polarizzazione ruota intorno alla figura di Aristotele, che tiene la sua Etica con la mano sinistra e si guarda intorno, introducendo così nell’affresco la dimensione orizzontale della filosofia della vita in comune. Il Pensieroso è invece una figura asociale, chiusa ad ogni contatto con gli altri, così da rendere appunto visibile il nodo figurativo che riduce a “una massa compatta e opaca” la verticalità della filosofia teoretica e l’orizzontalità della filosofia politica.
In quest’opera, che ha per oggetto il pensiero filosofico, Raffaello sembra aver prodotto una trasposizione nel campo della filosofia dell’operazione che aveva indotto Michelangelo a introdurre gli Antenati nella volta Sistina. La prossimità della lunetta di Naason alla Scuola di Atene attiva allora l’associazione tra Michelangelo/Eraclito e la figura maschile della lunetta che reca i nomi di Azor e Sadoch nella quale Fabrizio Mancinelli ha riconosciuto un autoritratto di Michelangelo proprio sulla base di un confronto con il Pensieroso della Scuola di Atene di Raffaello [Figg. 7 e 8] (Mancinelli 1986, 236). Questa ipotesi è sostenuta dall’esistenza di un disegno attribuito a Baccio Bandinelli che ritrarrebbe, appunto, secondo Redig de Campos (Redig de Campos 1942-1943), Michelangelo nelle vesti di un altro Antenato ritratto nella lunetta che reca i nomi di Jacob e Joseph [Figg. 9 e 10].
Per comprendere le ragioni che hanno spinto Michelangelo ad assumere i tratti negativi di uno o forse di due Antenati bisogna considerare la sua produzione poetica. Di questa immagine di sé come incapace di fede e di conversione abbiamo, infatti, abbondante testimonianza nelle Rime, dove il pittore poeta denuncia la propria tiepidezza e il proprio attaccamento all’abitudine, concetto agostiniano che descrive l’attaccamento alla vita secondo la carne. Il “vecchio uso” (madrigale 143), il “tristo uso e folle” (sonetto 297), la “triste usanza” (sestina 33) lo allontanano dalla grazia, che dal ciel “piove in ogni loco” ( sestina 33) sicché è già sempre troppo tardi per convertirsi (Mussio 1997, 341). Nel sonetto 294, Michelangelo riconosce il suo “soperchio indugio”, non dobbiamo quindi meravigliarci se ha deciso di prendere posizione tra i melancolici Antenati (la numerazione dei sonetti fa riferimento a Girardi 1960).
Il disegno di Bandinelli è descritto come “satirico” da Redig de Campos, in maniera simile, secondo Rona Goffen, il ritratto di Michelangelo nelle vesti di un Eraclito melanconico e inattivo potrebbe implicare un’attitudine ambivalente; ricordare i fallimenti del rivale che non riuscì a portare a compimento alcune delle sue opere maggiori, ma anche rendergli omaggio imitando il suo stile (Goffen 2002, 222-226). In entrambi i casi non si può escludere un intento aggressivo ma questo non toglie che, da un lato, Bandinelli abbia intuito la possibilità che l’autore degli affreschi Sistini abbia assunto i tratti ‘carnali’ degli Antenati, e dall’altro Raffaello abbia ripreso e trasformato la tensione energetica che oppone l’inerzia di queste figure all’entusiasmo dei profeti introducendo la figura di Michelangelo/Eraclito nel suo affresco. Nella Tavola 53, Warburg e i suoi collaboratori, fanno a loro volta un’operazione simile a quella compiuta da Raffaello affiancando l’inerzia dei due Antenati alla Scuola di Atene.
Il ‘gioco’ che ho giocato con questa Tavola è più complesso e speculativo di quello giocato con la Tavola 56, innanzitutto perché la figura scelta da Warburg e dai suoi collaboratori non è quella nella quale Mancinelli ha riconosciuto un autoritratto dell’artista. L’associazione implica il tentativo di considerare la Volta, la Scuola di Atene e la Tavola come sistemi polarizzati comparabili dove un polo d’inerzia entra in tensione con un polo energetico. Diventa allora possibile immaginare che Raffaello abbia intuito il senso della polarizzazione introdotta dalla presenza ‘incongrua’ degli Antenati nell’affresco sistino e l’abbia trasposta nel proprio non senza suggerire che si tratta appunto di un ‘trasporto’ tramite la ripresa della maniera di Michelangelo e il conseguente contrasto ‘incongruo’ che la sua figura produce. Nella Tavola 53 assistiamo a un altro ‘trasporto’ che connette esplicitamente la figura dell’Antenato che legge a quella di Eraclito/Michelangelo nel contesto più ampio di una costellazione che associa l’esercizio della filosofia a quello della musica e della poesia [Figg. 11 e 12].
La lunetta di Naason appare allora come un elemento che con la sua notevole dimensione sostiene e rinforza il polo dell’assorbimento ‘depressivo’ incarnato dalla figura di Michelangelo/Eraclito e contribuisce in modo considerevole alla polarizzazione della tavola. Come la Tavola 56, la 53 ha uno statuto paradigmatico nella misura in cui l’introduzione del ‘corpo estraneo’ di Eraclito/Michelangelo nell’affresco di Raffaello serve da modello all’importazione del ‘corpo estraneo’ della lunetta degli Antenati nella tavola. Questo modello di incorporazione, di innesto e di incastro di elementi eterogenei costituisce uno dei principi costruttivi del Bilderatlas Mnemosyne.
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Careri raises some issues with regard to Panels 56 and 53 of the Menemosyne Bilderatlas, but also raises a more general methodological question about the use to which the Panels lend themselves, insofar as their associative structure calls for two different and not mutually exclusive modes. The first mode is historical-philological and consists in the attempt to anchor the images in the documentation left by Warburg and his circle in order to determine the reasons and meanings each montage had for them. The second mode, on the other hand, takes as its starting point the constitutive indeterminacy of the association between two or more images, and then functions in a way similar to the association in Freudian analysis, where it reveals the subterranean workings of dreams and the unconscious.
keywords | Aby Warburg; Mnemosyne; Michelangelo; Sistine Chapel; Raffaello; Walter Benjamin; Redig de Campos.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all’international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Careri, Giocare con il Bilderatlas. Due casi e una questione teorica. Tavole 56 e 53, “La Rivista di Engramma” n. 211, aprile 2024, pp. 205-222 | PDF