"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

210 | marzo 2024

97888948401

CCCP. Felicitazione

Ovvero: il postmoderno spiegato agli anziani

Mario Farina

English abstract

C’è un grande chiostro del Cinquecento e al centro è parcheggiata una Trabant. A fianco all’auto, un pezzo del Muro di Berlino corredato dai canonici graffiti spray e un palo sormontato da vecchi altoparlanti. A proteggere la scena, una serie di cavalletti di metallo che tendono del filo spinato. È un diorama quello che accoglie lo spettatore alla mostra, simile a quello che Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl hanno escogitato per un Godot prodotto dallo Stabile di Genova una quindicina di anni fa. A risuonare dagli altoparlanti è la musica dei CCCP: al momento del mio ingresso nel chiostro, c’è solamente la traccia voce di Giovanni Lindo Ferretti che canta le strofe di Rozzemilia:

provincia di due imperi
provincia industrializzata
provincia terzializzata
provincia di gente squartata:
¼ al benessere,
¼ al piacere,
¼ all’ideologia,
l’ultimo quarto se li porta tutti via.

La DDR sopravvive lì: in quel diorama racchiuso nel filo spinato all’interno del quale è conservata in vitro l’ultima cellula del socialismo reale novecentesco. La Repubblica Democratica Tedesca, assieme alla sua versione basso padana, è il paesaggio plastificato contenuto in una palla di vetro. Al suo interno scaglie di cemento, acciaio incandescente, “cataste di maiali sacrificati”, volantini strappati, capelli verdi, giornate inerti, accordi secchi e tesi. I CCCP, dismessi i panni della band attiva, si trasformano in dispositivo della memoria. E uso il termine “dispositivo” non in senso strettamente foucaultiano, altrimenti occorrerebbe imbarcarsi in una analisi del modo in cui il potere agisce e si riproduce per loro tramite (vedi Foucault [1977] 1994). Uso il termine “dispositivo” con un senso volutamente ampio, come fa chi parla oggi il gergo canonico del pensiero radicale. Che cosa sono i volti dei segretari dei partiti comunisti orientali che pendono nella sala della mostra? Cosa sono i flyers staccati da un muro dopo un concerto? Cos’è il tavolo ottagonale della segreteria del Pci? Cos’è il telefono nero con la cornetta, il filo, la ghiera, i numeri? 

Che ne è degli oggetti depositati nella memoria? Questo sembra chiedere la mostra dei CCCP. Una domanda, verrebbe da dire, molto modernista. Domanda proustiana, joyciana. La sedimentazione nella memoria non lascia intatto l’oggetto introiettato: lo conserva al prezzo di una sua scarnificazione, donando poi al materiale un nuovo senso (vedi Proust [1913] 2011, 132).

In questo, la mostra dei CCCP a Reggio Emilia ricade, con una certa didascalica precisione, nell’ambito della fruizione nostalgica. Nostalgia di cosa, però? Jon Fosse, in un romanzo che comprime straordinariamente l’io all’interno della propria claustrofobica camera oscura, descrive l’ossessione per l’altra persona dicendo “io sono la mia nostalgia di te”, con una frase che potrebbe benissimo stare in un pezzo dei CCCP. E poi: “io sono la mia mancanza di te”, “io sono il mio desiderio di te”, “non sono altro che te, che te che non ci sei” (Fosse [1995] 2009, 113). Con la voce di Annarella: “Un freddo più pungente, accordi secchi e tesi, segnalano il tuo ingresso nella mia memoria”. La nostalgia messa in mostra dai CCCP, che sta all’interno di questo complesso meccanismo della memoria, non è la nostalgia per la DDR e per i circoli ARCI disseminati lungo la Strada Statale 9. O meglio, lo è, ma solo molto indirettamente. I CCCP nostalgici lo erano già all’epoca in cui erano la cosa presente e non la cosa passata della quale si parla. La verità è che è sempre stato difficile capire di cosa i CCCP fossero nostalgici: “Aspetto un’emozione sempre più indefinibile”.

Sui CCCP, e soprattutto sull’ingombrante figura di Giovanni Lindo Ferretti, pesa da sempre un equivoco, che è poi un equivoco che deriva dall’equivoco di fondo del punk stesso. Il punk è pop? Il punk ricerca una forma di autenticità? Di primo acchito, verrebbe da rispondere in modo negativo ad ambedue le domande. Il punk non è pop perché vive ai margini, sui marciapiedi di cemento di Londra, nelle periferie di New York, fra il marcio dei cassonetti e i cani che dormono sui materassi pulciosi. Ma tutto questo è ovviamente pop nei mezzi, nell’essere moda, nel trasferirsi rapidamente in oggetto di mercato: tshirt, adesivi, toppe, borchie, la grande moda che ne introietta gli stilemi. Il punk non ricerca l’autenticità perché sporca tutto quello che tocca, modifica il corpo con tatuaggi e creste, buca la pelle con aghi e orecchini. Ma è proprio in questo modo che rievoca l’autentico, esattamente al modo in cui l’umano puro esiste solo per chi ricerca il post-umano e l’antropocentrismo perfetto è il prodotto di quando “scopriamo di essere cyborg, ibridi, mosaici, chimere” (Haraway [1985] 1995, 79).

Una parte consistente del pubblico dei CCCP ha reagito in modo decisamente negativo, a tratti scomposto, a quella che è stata percepita come la svolta catto-conservatrice di Giovanni Lindo Ferretti. Il ratzingerismo è stato vissuto come un tradimento dei sacrosanti valori del punk filosovietico. “Lindo, dalle pere a Pera”, questa la scritta comparsa vicino alla casa dove vive attualmente Ferretti. Il quale risponde: “Non mi sono mai fatto le pere e non conosco il senatore Marcello Pera”. Ma se si guarda a quanto i CCCP hanno sempre dichiarato era forse stata frettolosa l’iscrizione di Ferretti al club dei compagni. In un libro intervista del 1998 dichiarano: “Di conseguenza scegliamo l’Est, e non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo, alla plastica l’acciaio, alla freddezza il calore, ma al calore la freddezza. Ognuno ha l’immaginario che si merita” (Marinoni, Cuoghi [1989] 1998).

“La stabilità” non era allora vissuta come quella specifica stabilità offerta dal Patto di Varsavia, basata su di una certa interpretazione del marxismo-leninismo e che aveva di mira una certa forma di emancipazione delle classi subalterne. Si trattava piuttosto della sola stabilità allora a disposizione. L’Ovest cambiava, ballava su ritmi fluidi e plastificati, mentre a Est il granito era ancora duro e cubico. L’Est era la stabilità che i CCCP potevano permettersi e l’hanno scelta, così come oggi Ferretti ne sceglie un’altra, abbracciato a Giorgia Meloni alla festa della cultura di destra. Si tratta a ben vedere di un complesso reattivo che aveva già fatto la sua comparsa nella storia del gruppo. Nel momento in cui i CCCP hanno firmato per una major, per la precisione Virgin Records, il pubblico non la prende bene e storpia il nome del gruppo da “Fedeli alla linea” in “Fedeli alla lira”. La risposta arriva nel 1989 nell’album Canzoni preghiere danze del II millennio – Sezione Europa con la traccia Fedeli alla Lira?:

E poi mi vuoi fedele a te, all’avanguardia, alle novità,
adorante il progresso, le mode, la modernità.
Mi sono sviluppato già abbastanza non ne posso più,
mi sono sviluppato anche troppo, anche di più.
Ma tu cosa mi dai?
Ma tu cosa mi dai?
Ma tu cosa mi dai?
Cosa mi dai di te?

Proprio in questo strano rapporto con la nostalgia e con l’autenticità trovo che i CCCP esprimano un tratto spesso messo in secondo piano di quella pastoia culturale che cade sotto il nome di ‘post-moderno’ (con o senza trattino, e indipendentemente che si tratti di uno stile per come lo pensava Roberto Venturi o di una diagnosi epocale, per come l’hanno declinata Lyotard e Jameson). Se i CCCP sono nostalgia, sono nostalgia di un’autenticità che manca (“io sono la mia nostalgia di te […], non sono altro che te, che te che non ci sei”) e che può essere rievocata solamente in quella mancanza. Sono nostalgia di qualcosa che non esiste, che non è mai esistito e che non esisterà in futuro. La loro Unione Sovietica non è l’Unione Sovietica del 1954. È quella del 1987 che dice semplicemente quel che essa non è: non è più quella del 1954. È una nostalgia di un’assenza e questo tipo di assenza si riflette nell’uso del mantra, del salmo, della sura, molto comune a tutta la ripresa dell’oriente e dell’arcaico a cui si è assistito nel Dopoguerra inoltrato. La ripetizione rituale e liturgica di una forma verbale che man mano si svuota del proprio contenuto per diventare suono fortificante e convincente, ma privo di oggetto e valore.

Perché post-moderno? Perché non è più moderno, non è più storico, non è più lineare, non è più escatologico, non è più critico. Ma soprattutto perché la ripetitività a cui allude il canto liturgico di Punk Islam, Spara Jurij e tanti altri pezzi è una ripetitività che si svuota a tal punto di contenuto da essere la pura forma energica espressa dal mantra di Per me lo so: “Sei tu, sei tu, sei tu chi può darti di più”, uno dei più begli slogan pubblicitari mai inventati applicabile a ogni epoca, ogni prodotto, ogni marca e che pubblicizza la mancanza a sé di ogni compratore, nostalgia assoluta della propria assenza colmabile solamente con l’acquisto di qualcosa di inadatto a colmare alcunché. E allora: Enjoy CCCP!

Riferimenti bibliografici
  • Fosse [1995] 2009
    J. Fosse, Melancholia [Melancholia I, Oslo 1995], trad. di C. Falcinella, Roma 2009.
  • Foucault [1977] 1994
    M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Id., Dits et Écrits, vol. III, Paris 1994, 299-329.
  • Marinoni, Cuoghi [1989] 1998
    L. Marinoni, D. Cuoghi, CCCP – Fedeli alla linea, Viterbo [1989] 1998.
  • Proust [1913] 2011
    M. Proust, Dalla parte di Swann [Du côté de chez Swann, Paris 1913], in Id.Alla ricerca del tempo perduto, trad. di P. Pinto e G. Grasso, Roma 2011.
  • Haraway [1985] 1995
    D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [A Cyborg Manifesto, London 1985], a cura di L. Borghi, introduzione di R. Braidotti, Milano 1995.
English abstract

The article proposes a reading of the CCCP exhibition as a device of memory and as a project of aesthetic allusion to lost forms of authenticity.

keywords | CCCP – Fedeli alla linea; Michel Foucault; Marcel Proust; John Fosse. 

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.210.0020