"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

210 | marzo 2024

97888948401

Forma e sostanza

Le copertine dai CCCP ai CSI

Diego Cuoghi, intervista a cura di Michela Maguolo

English abstract

CCCP – Fedeli alla linea, Ecco i miei gioielli, Virgin, 1992.

CCCP – Fedeli alla linea, Live in Punkow, Virgin, 1996.

CSI Consorzio Suonatori Indipendenti, Tabula rasa elettrificata, Polygram, 1997.

CCCP – Fedeli alla linea, Altro che nuovo nuovo, Universal, 2024.

Michela Maguolo | Diego Cuoghi, architetto e graphic designer, si è occupato della progettazione grafica degli album dei CSI fin dalla nascita del gruppo e, prima, di due copertine per i CCCP, un libro, CCCP Fedeli alla linea, uscito nel 1989 per Stampa alternativa, e la raccolta Ecco i miei gioielli. Cominciamo da questi, quale immagine si voleva trasmettere del gruppo e come questa veniva elaborata?

Diego Cuoghi | Seguivo il gruppo come appassionato di rock, poi ebbi modo di conoscerli personalmente e nel 1989, dopo il tour in Unione Sovietica, si presentò l’occasione di realizzare un volume che raccogliesse manifesti, volantini, ritagli, foto e testi delle canzoni: la loro storia, il loro immaginario. Mi fornirono l’immagine su cui impostare la copertina: la sigla CCCP in lingue e alfabeti diversi. Elaborai quell’immagine che in origine aveva un fondo bianco, trasferendola su di un fondo nero e introducendo manualmente i diversi colori per ogni lingua, ottenuti sovrapponendo diverse esposizioni sulla stessa diapositiva, trattate con filtri diversi. Il libro avrebbe dovuto avere il formato di un album, ma i costi altissimi della realizzazione fecero prima sospendere il progetto e poi lo ricondussero a un più abbordabile formato 45 giri. La prima edizione del 1990 conteneva i testi delle canzoni, invece per la ristampa del 1998 si dovette rinunciare ai testi i cui diritti erano stati nel frattempo ceduti. 

Il rapporto di collaborazione che si era stabilito in modo spontaneo per il libro rimase lo stesso per le copertine successive, dei CCCP e dei CSI. La loro idea iniziale – un oggetto, una fotografia, un’immagine – veniva discussa, elaborata in diverse versioni e proposte, manipolata insieme, in particolare con Massimo Zamboni, talvolta con Giovanni Lindo Ferretti.

Anche Ecco i miei gioielli, uscito nel 1992 dopo lo scioglimento dei CCCP, riassume, musicalmente questa volta, la storia del gruppo. Di nuovo, l’immagine intorno alla quale la copertina sarebbe stata costruita mi fu fornita da loro. Lo scatto di Ghirri, significativo di per sé, con quel graffito sul muro lungo la strada e, dietro, sullo sfondo, la Basilica dei Santi Medici di Bitonto, diventava imprescindibile per la morte improvvisa del fotografo, al quale l’album è stato dedicato. Vista l’impossibilità di estendere la foto a tutto il campo, perché si trattava di un provino, decisi di dare spazio alla tipografia, scegliendo un font graziato che rimandava alla tipografia del primo album, 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età, dove Carlo Chiapparini, chitarrista del gruppo e autore di molte copertine dei CCCP, aveva disegnato a mano un lapidario graziato. La dialettica tra quel lettering e la scritta nel graffito fotografato da Ghirri raccontavano l’intera storia dei CCCP. Grafica e tipografia, gli strumenti di cui disponevo, dovevano riuscire a trasmettere il significato di un certo disco senza prendere il sopravvento, ma accompagnandolo. 

MM | È questo il compito che attribuisce alla copertina di un disco, di un libro: entrare in sintonia con i contenuti, tradurre in elaborati grafici parole e suoni?

DC | La copertina è la veste con cui il disco si presenta, l’abito che indossa per poter comunicare visivamente. Disegnare copertine non può prescindere dalla conoscenza approfondita dei contenuti e dalla comprensione dell’estetica complessiva del gruppo. Il compito del grafico è lasciare che questi elementi trovino espressione e sintesi nell’immagine, senza sovrastarla, senza lasciare la propria impronta, la ‘firma’. Leggere, ascoltare, guardare, scrutare, cercare di capire il senso, anche al di là delle spiegazioni fornite dagli autori. E confrontarsi con questi, ascoltare e poi avanzare proposte e discuterle. Infine elaborare un’immagine in grado di suggerire, senza suggestionare, di raccontare senza cadere nella didascalia. Porsi in ascolto, e non solo della musica ma di tutto ciò da cui essa scaturisce, è l’atteggiamento che il grafico deve avere per restituire ciò che ha colto, in immagini, forme, colori, caratteri. Per questo motivo, credo, le mie copertine non sono identificabili come ‘mie’, ma richiamano, spero, l’identità del gruppo, la sua estetica, la prossemica sul palco, e suggeriscono quello specifico disco. L’atmosfera che ho cercato di creare nelle copertine degli Üstmamò, per esempio, è profondamente diversa da quella dei Disciplinatha, pur essendo i gruppi molto vicini tra loro e nati nell’ambito dei Dischi del Mulo: prima bucolica, poi naïve e pop, la prima, più dura, quasi da rock anni Settanta, la seconda.

MM | Giovanni Lindo Ferretti, ricordando la genesi di Tabula Rasa Elettrificata, racconta che lei arrivò con una proposta di copertina pressoché perfetta, prima di aver ascoltato l’album.

DC | Nel caso di T.R.E., uscito nel 1997, avevo in realtà visto i filmati del viaggio in Mongolia, ancora grezzi e in parte non montati, e avevo ascoltato una cassetta demo. C’era un grande interesse intorno a quel viaggio e volevo afferrarne i significati, prima che mi pervenisse il prodotto discografico concluso. Riguardai gli spezzoni più e più volte, fotografando scene e immagini che mi sembravano più significative nel confronto con i suoni abbozzati nella cassetta. Cominciai a sovrapporre quegli scatti, fondendone i contorni, per far emergere delle immagini in cui si depositassero la complessità di quei paesaggi, dei suoni e delle parole che da essi erano scaturiti. Trasformai infine quei fotogrammi in dipinti, realizzati con il programma Painter su un computer Apple. L’intento era di creare non tanto dei fotomontaggi, ma dei collage, dove la pittura amalgama gli elementi, se ne appropria, per dare luogo a paesaggi d’invenzione, in cui ogni dettaglio è reale ma viene reinterpretato e diventa parte di qualcosa di nuovo. E in questa rappresentazione dell’idea di Mongolia, i colori dovevano essere quasi puri, privi di sfumature, perché così, mi dissero, erano i colori di quegli spazi infiniti. I paesaggi, così come loro li avevano vissuti e raccontati e come poi li cantarono, dovevano apparire smisurati, quasi immobili e senza tempo, ma al contempo di un realismo estremo, come il bambino con il dito nel naso. O di molto contemporaneo, come i pali dell’elettricità, che danno a quella tabula rasa la familiarità dei nostri paesaggi.

MM | Ha accennato agli Üstmamò, ai Disciplinatha, ai Dischi del Mulo: il contesto in cui nasce il CSI, con il concerto Maciste contro tutti. Potrebbe raccontarci la vicenda dal punto di vista della grafica?

DC | Con la fine dei CCCP, c’è stato un ritorno alle terre emiliane, ai monti, al territorio e alla sua storia, le sue storie. I Dischi del Mulo, l’etichetta fondata da Ferretti e Zamboni – il cui buffo logo con il mulo e le stelle alpine in una grafica volutamente inizio Novecento richiamava la passione di Ferretti per i cori e i canti degli alpini –, volevano promuovere e produrre musica di gruppi locali. Al grande concerto al Centro Pecci di Prato, il 18 settembre 1992, parteciparono i due gruppi Üstmamò e Disciplinatha e Ferretti, Zamboni e gli ex-Litfiba Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli, che si erano dati come nome CSI, senza ancora sapere se sarebbero diventati un gruppo o meno. Nella copertina del disco che riproduce il concerto Maciste contro tutti, uscito nel 1993, ho voluto tenere insieme, in un’immagine forse un po’ troppo affollata, riguardandola ora, alcuni momenti del concerto, perché era questo il protagonista del disco, l’evento, non i singoli gruppi o le loro canzoni. Il grande falò finale, il pubblico, i riflettori e la grande scritta in caratteri cubitali, come nei kolossal americani anni Cinquanta. Tra gli album realizzati dal CSI, quello che ha avuto una genesi più complessa è forse stato Linea Gotica, del 1994. Il tema più evidente era la guerra che si svolgeva sull’altra sponda dell’Adriatico, e che il gruppo ha ribaltato sul territorio, richiamandosi alla Linea Gotica della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, la Resistenza. Ferretti inizialmente propose come immagine per la copertina la foto di un barcone con dei partigiani impiccati, che io non mi sentii di trattare graficamente. Troppo cruda, dolorosa per essere manipolata. Mi orientai invece verso i contenuti dei brani e il riferimento al gotico: una vetrata medievale squarciata (la Presentazione di Gesù al Tempio proveniente dalla cattedrale di Saint Denis) e la biblioteca di Sarajevo bombardata in fiamme. Ci furono dei passaggi intermedi, con ulteriori discussioni: il lavoro, come dicevo prima, era sempre basato sul confronto di idee, che venivano esaminate, provate, per poi prendere insieme la decisione finale.

MM | Vorrei ci parlasse della tipografia delle copertine: come interagisce con la grafica e i contenuti? 

DC | Mi ha sempre incuriosito sperimentare alterazioni dei font, trovare delle forme in grado di stabilire delle corrispondenze con i contenuti e trasmettere anche attraverso la tipografia la mobilità creativa, i cambiamenti cui ovviamente i gruppi sottostavano. Il primo logo del CSI, quello apparso sulla copertina di Maciste contro tutti, è stato pensato come richiamo ai tradizionali consorzi padani, con un’icona che teneva insieme la ruota dentata di una macchina e la musica. Ma già nel secondo album la rigidità, e forse anche l’ovvietà, di questo simbolo ha lasciato il posto a un New Caledonia che attraversa l’intera base del disco, lasciando che la scritta Ko de mondo, con caratteri arcaici, altomedievali, dialogasse con lo sguardo intenso di Ferretti. In Tabula Rasa Elettrificata il tentativo è stato quello di, a partire dal Garamond, giocare con le lettere, disallineandole e conferendo loro un andamento ondulato che in qualche modo contribuisse a suggerire il movimento lento, le ondulazioni delle praterie infinite. Un esperimento interessante è quello di Live in Punkow, dove ho utilizzato il font Cheap Signage type3, che ha come caratteristica la forma dei caratteri irregolare e sempre diversa: lo stesso carattere cambia di spessore e forma ogni volta che lo si utilizza. Un senso di precarietà, casualità, che entra in risonanza con gli edifici fotografati da Umberto Negri, sullo sfondo ‘rosso triste’ voluto da Ferretti.

Ho anche utilizzato il Trixie (un carattere che simula quello della macchina da scrivere) per l’album del concerto ad Alba, in memoria di Beppe Fenoglio, La terra, la guerra, una questione privata: tutta la tipografia della copertina ha l’aspetto di un dattiloscritto, la perentorietà delle lettere battute una a una, e quasi incise sulla carta. Il titolo separa le due parti dell’immagine, la foto di un letto su cui poggia un libro aperto, la finestra che si apre su un paesaggio dipinto, un quadro di Ugo Celada intitolato Il Cavatore, voluto da Ferretti.

Ancora al dattiloscritto, questa volta non da font digitale ma effettivamente battuto a macchina, ho fatto ricorso in Altro che nuovo nuovo, uscito poche settimane fa. Per l’album che riproduce il primo concerto dei CCCP a Reggio Emilia il 3 giugno 1983, da un nastro creduto perduto e ritrovato e digitalizzato, i credits e i titoli dei brani sono scritti a macchina, per potersi meglio accostare ai testi originali ritrovati e riprodotti all’interno. La copertina è composta dalla sovrapposizione di due volantini relativi al concerto, anche questi recuperati negli archivi di Annarella. L’intento era di ricostruire il clima del 1983 anche attraverso la grafica e le modalità compositive: costruire materialmente la copertina, usando gli evidenziatori per sottolineare i testi originali del volantino.

MM | Ha raccontato della copertina appena realizzata per il nuovo disco dei CCCP. Pensa dunque che le copertine non abbiano la sorte segnata, come da più parte si paventa? Storm Thorgenson, il fondatore di Hipgnosis, si rese subito conto, all’inizio degli anni Ottanta, che l’avvento dei video musicali e, poco dopo, dei CD avrebbe cambiato l’atteggiamento verso la copertina, ridimensionandone l’importanza. Oggi, Spotify e la musica digitale l’hanno resa superflua?

DC | Sicuramente l’era delle grandi copertine è tramontata. Da parecchio tempo ormai i dischi non sono più avvolti da involucri graficamente raffinatissimi, magari disegnati da Andy Warhol, concettualmente e visivamente complessi come quelli di Hipgnosis. Le magnifiche copertine dei Talking Heads o degli Smiths, con quei ritratti meravigliosi, le incredibili immagini surrealistiche realizzate da Paul Whitehead per i Van Der Graaf Generator e i Genesis. Copertine che richiedevano investimenti importanti, capacità creative notevoli e sensibilità nell’associare musica, artisti e immagini. Oggi, il disco in vinile o il CD sono minoritari rispetto alla musica digitale e purtroppo la copertina come è stata concepita e come l’ho disegnata per decenni non esiste più. Non c’è più nulla di fisico da vestire, coprire, proteggere. Le immagini digitali che accompagnano i brani musicali sulle piattaforme sono fatte per emergere tra migliaia di thumbnail tutti simili tra loro. I dischi non si comprano più nei negozi, dove si potevano guardare, toccare, ascoltare seduti all’interno di una cabina, rigirando tra le mani la copertina, studiandone l’immagine per ritrovare il nesso tra questa e i brani musicali; e spesso si sceglieva di ascoltare un disco perché colpiti dall’immagine, dalla grafica. Il rapporto fisico con l’oggetto disco è venuto meno. Certo, quando i CCCP escono con un nuovo disco, è la versione in vinile che va esaurita in poche ore: c’è indubbiamente una nuova attenzione per il disco in vinile, per l’oggetto, ma non so se questo è sufficiente per riaccendere l’interesse verso la copertina, per ristabilire quello stretto legame tra il disco e la sua rappresentazione visiva. Alcuni cercano di continuare a farlo.

English abstract

Diego Cuoghi, architect and graphic designer, designed the last three album covers of the band CCCP and all those of CSI – Consorzio Suonatori Indipendenti. In this interview he recalls how covers were conceived and the reasons of some of the choices made. He discusses the task of the cover for an album, its being a reflection, mainly suggestive and not explanatory, of the record’s contents and the band's aesthetics. 

keywords | CCCP; CSI; Diego Cuoghi; Album covers.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.210.0023