Giocare è una cosa seria
Dai giocattoli degli architetti a una grammatica ludica per il progetto di architettura*
Valerio Perna
English abstract
Verso una realtà ludica. Architetti in gioco
Il gioco e l’atto del giocare rappresentano una delle attività fondamentali dell’esistenza. Tutti almeno una volta nella vita siamo stati giocatori e la nostra infanzia è costellata di ricordi legati al gioco: sia che si tratti di un semplice calcio a un pallone o di una ritmica danza su dei quadrati grossolanamente disegnati in terra e abitati da numeri. Il mondo accademico, tuttavia, e quello della scuola in larga parte, hanno relegato il gioco, come attività puerile e priva di significato (Saggio 2012), in una zona completamente separata dalla creatività adulta e quindi di scarsa utilità per quanto riguarda la nostra quotidianità. Eppure, proprio in quelle azioni apparentemente così prive di significato, sottoposte a quel “compatto dispositivo dequalificante” (Fink [1958] 2008) che interpreta socialmente il gioco in chiave negativa e spinge molti ad affrancarsi dal ruolo di giocatori, gettiamo le basi della nostra crescita come esseri umani a livello cognitivo, sociale e creativo. Da bambini siamo in grado non solo di cogliere il senso ludico di ogni situazione, ma soprattutto di osservare ciò che viviamo con una chiave di lettura fortemente basata sul concetto di playfulness[1], in grado di sfumare i contorni della realtà e di trasportarci in un mondo parallelo che costruiamo secondo i nostri sogni e desideri. Inoltre, cosa ancora più importante, attingiamo a un immaginario condiviso di giochi che, con piccole modifiche e rielaborazioni, contribuiamo a trasformare e trasmettere senza interruzioni al prossimo. Il gioco, quindi, rappresenta non solo un’azione il cui svolgimento genera divertimento o piacere, ma un vero e proprio dispositivo culturale, dove per cultura intendiamo non un accumulo di nozioni a cui attingere, ma una proposizione creativa in costante ridefinizione, una capacità di orientamento che, basandosi sulla comprensione critica del passato, guarda alla costruzione del futuro (Saggio 2016).
È anche grazie alla pratica ludica, infatti, che la cultura si forma e ogni volta si rimescola, intessendo nuovi rapporti tra gruppi sociali differenti e oltrepassando i limiti dell’attività biologica. Sia che del gioco si studi la componente creativo-archetipica (Vogler [1998] 2004; Durand [1960] 1972), quella transizionale che la lega al mondo dell’arte (Winnicott 1971) o quella autorappresentativa che ne distrugge il primato antropocentrico (Gadamer [1960] 1983), è interessante scoprire come giocare sia sempre ‘in relazione a’, a un altro soggetto che accetta il livello di meta-comunicazione ludico che gli viene proposto, e come sia una esperienza che appartiene a una sfera tanto pubblica quanto privata, in grado di prestarsi continuamente a interpretazioni fortemente personali e differenziate. In relazione alla sua componente creativa, è la lingua latina a venirci in soccorso: giocare rappresenta prima di ogni altra cosa un in-ludere – ‘entrare nel gioco’ o anche ‘illudere’ – e cioè la possibilità di creare ogni volta una inlusio, una nuova realtà possibile, differente da quelle in cui siamo immersi quotidianamente e che siamo in grado di plasmare continuamente proiettandovi un punto di vista ludico e giocoso. Quando giochiamo, quindi, non facciamo altro che procedere in una continua opera di decontestualizzazione e riscrittura spaziale e, semioticamente parlando, operiamo delle dinamiche di ‘enunciazione’ (Volli 2005) che contribuiscono ad arricchire i nostri spazi urbani di una nuova serie di segni e tracce, come se si equiparasse la città a un palinsesto medievale continuamente inciso e trasformato dall’accumularsi di nuovi interventi. Queste ultime sono in grado di donare agli spazi che viviamo e attraversiamo significati nuovi, di stimolare processi creativi che consentano al giocatore (l’architetto) la costruzione del proprio ambiente, muovendo dall’idea che l’attività ludica sia da intendersi non come azione a sé stante, ma come una funzione dell’architettura capace di cambiare radicalmente il rapporto tra uomo e spazio e trovare una propria forma in spazialità differenti da quelle del passato.
Alla luce di quanto detto finora, il testo si propone di investigare le potenzialità dell’attività ludica come strumento atto a sviluppare nuove direzioni creative per l’operare del pensiero e della pratica progettuale, e in grado di dischiudere dimensioni altrimenti difficili da intercettare, e di rispondere al quesito ‘perché i giochi sono importanti per l’Architettura?’. Per fare ciò, si compone di due momenti distinti: il primo investiga il rapporto tra attività ludica e artefatto ludico (il giocattolo), dove quest’ultimo – in quanto medium – incoraggia il bambino all’espressione, alla fantasia, alla costruzione e allo sviluppo cognitivo tramite operazioni di composizione, scomposizione, risemantizzazione, ecc.; il secondo vuole invece dimostrare come sia possibile insegnare a progettare nuove spazialità urbane tramite l’innesto di ‘enzimi ludici’ all’interno di un corso universitario di progettazione architettonica attraverso il metodo iterativo/processuale della scacchiera, con l’obiettivo di condividere con lo studente delle esperienze significanti nel suo percorso di studi e professionale.
I giocattoli degli architetti: verso la definizione di una grammatica ludica nel progetto di architettura.
I giocattoli sono oggetti transizionali[2] e appartengono sia al mondo delle illusioni che delle imitazioni e dell’esperienza. Questa prima fase dello sviluppo è garantita dalla capacità della madre di adattarsi ai bisogni del bambino, attraverso l’illusione che quello che l’infante crea sia reale. Questa area intermedia dell’esperienza, indiscussamente appartenente sia alla realtà interna che esterna (entrambe condivise con altri), consiste nella principale fase di sperimentazione che il bambino vive, e in tutto il corso della sua vita è conservata nei vissuti esperienziali che appartengono all’arte, alla religione, e al mondo dell’immaginazione e della creatività (Winnicott 1953).
Come si è cercato di spiegare nel paragrafo precedente, giocare è una cosa seria e tutto ciò a esso legato non è quindi da intendersi opposto all’impegno e alla serietà, ma è una delle molteplici sfaccettature all’interno della complessità del nostro agire come esseri umani. Eppure, è solo a partire dal Romanticismo che l’attività ludica subisce un processo di rivalutazione – primo tra tutti, da parte di Friedrich Wilhelm August Froebel – e che si comincia a parlare del gioco come di un’attività che educa. Nella visione romantica, il bambino giocando cresce e impara a confrontarsi col mondo esterno, ad accettare l’imprevedibilità degli eventi e a entrare in relazione col diverso da sé e, tramite processi simbolici, polisemici, ambivalenti, genera una conoscenza contradditoria e trasformativa (Antonacci in Bertolo, Mariani 2014). Molto spesso tali processi vengono catalizzati in un oggetto – un medium – che non solo ne rappresenta la reificazione fisica ma, come una bacchetta magica, incoraggia il bambino all’espressione, alla fantasia, alla costruzione e allo sviluppo cognitivo (Axline 1974; Peretti, Sydney 1984; Butterworth, Harris 1994). Stiamo parlando del giocattolo. Sin dall’infanzia, infatti, siamo circondati da una infinità di giocattoli, su cui proiettiamo una serie di valori affettivi, simbolici e strumentali; essi rappresentano una delle prime modalità di conoscenza e scoperta del mondo e anche di relazione, dato che ci consentono nell’interazione con gli altri di superare il limite prossemico (Hall 1966)[3] nel quale spesso ci sentiamo immersi. Inoltre, grazie a essi i bambini creano un mondo immaginario in cui agiscono come se si trovassero in quello reale senza i rischi e le frustrazioni di eventi inaspettati.
Esiste quindi una stretta relazione tra l’attività ludica e l’artefatto ludico e quest’ultimo aiuta i bambini a imparare, guadagnare stima di sé e vivere esperienze attraverso l’esplorazione, la creatività e il divertimento. Esso è quindi uno strumento in grado di attivare nuove dimensioni cognitive e strutturare il pensiero dapprima nel bambino e quindi, di riflesso, nell’adulto che sarà. A conferma di questo, un gruppo di architetti del XIX secolo evidenziò la fondamentale importanza degli ambienti educativi nello sviluppo del bambino, affermando che ciò che egli sperimentava nell’età dell’infanzia lo avrebbe accompagnato per tutta la vita (Seaborne, Lowe 1977). William Wordsworth, poeta britannico tra i protagonisti del Romanticismo, nella poesia My Heart Leaps Up (1807) afferma senza indugio che “il bambino è il padre dell’adulto” e crea una connessione diretta tra i giochi dell’età puberale e lo sviluppo successivo. Non è raro, infatti, sentire persone affermare che la scelta della loro futura professione sia stata – anche se implicitamente –influenzata dai giocattoli con i quali erano soliti giocare quando erano bambini. Se questo è vero per i medici (tutti ricordiamo il gioco da tavolo L’Allegro Chirurgo[4]), o per altre professioni, è possibile operare lo stesso tipo di speculazioni per gli architetti, e soprattutto considerare come determinati artefatti ludici abbiano in qualche modo influenzato, seppur in maniera inconscia, le loro architetture (Vale, Vale 2013)? In nostro aiuto viene Frank Lloyd Wright, uno dei maestri dell’architettura del XX secolo che, nella sua autobiografia del 1943, alla domanda su quale fosse stato un elemento di maggior influenza per la sua pratica architettonica afferma:
E poi, come fossero degli scacchi, giunse il gioco geometrico di queste affascinanti combinazioni di colori! Figure strutturali che possono essere costruite con piselli e piccoli bastoncini rigidi; costruzioni snelle, con i giunti accentuati dalle piccole sfere verdeggianti dei piselli. Il liscio e formoso blocco d’acero con il quale costruire, la cui sensazione poi non lascia mai le dita: così la forma diventa sensazione. E la scatola un’asta su cui avventarsi, su cui appendere con fili i cubi d’acero, le sfere, e i triangoli, ruotandoli per scoprire forme subordinate.
Le parole di Wright confermano un attaccamento romantico, e in qualche modo nostalgico, per i cosiddetti giochi froebeliani, un artefatto ludico (datato 1830) composto da una serie di blocchi geometrici atti a facilitare nel bambino l’apprendimento delle forme, della matematica e del design creativo. Stando alle sue parole, egli sin da bambino fu così appassionato di architettura che la madre si convinse a comprargli, durante la Centennial Exposition di Philadelphia, un set froebeliano che divenne da subito il suo passatempo preferito, tanto che si può tracciare un fil rouge tra le sue opere di maggior importanza per la storia dell’architettura e quegli esperimenti ludici dell’infanzia. I blocchi froebeliani, infatti, possono essere assemblati in maniera completamente libera e differente per stimolare il bambino alla comprensione di dinamiche di montaggio e composizione spaziale/tridimensionale; allo stesso modo, la carta pieghevole contenuta nella confezione facilita, tramite altre modalità combinatorie, l’apprendimento geometrico dei sistemi planari e la visualizzazione delle loro possibili intersezioni e sovrapposizioni nello spazio. Le opere dell’architetto sembrano riflettere quella chiarezza compositiva, permeata di giocosità, stimolata dai giochi froebeliani come nel caso della Winslow House del 1893 a Forest Hill. In questo caso, l’artefatto ludico inventato da Froebel rappresenta una chiave interpretativa molto interessante per capire la genesi di un’opera dall’esito originale per un tempo in cui molti altri architetti erano pervasi nel loro lavoro da uno stile revivalista con tendenze di chiaro stampo neoclassico.
Ma Wright non è l’unico esempio da tenere in considerazione per questo stretto rapporto tra giocattoli e forma architettonica, così come i giochi froebeliani sono solo uno dei possibili artefatti oggetto di studio. Le stazioni per trenini giocattolo della Märklin furono tra i primi giocattoli di produzione industriale ad arrivare nelle case dei bambini tedeschi a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Oltre alle locomotive, parte del marketing era dedicato alla vendita di modelli componibili rappresentanti una vasta gamma di stazioni – in stile tradizionale tedesco – nelle quali i trenini avrebbero dovuto sostare. Gli inglesi, affascinati dal prodotto, furono tra i primi a importarlo, con la conseguenza che una determinata parte della produzione fu spostata verso la realizzazione di un modello architettonico che fosse stilisticamente più incline ai gusti del popolo britannico, e soprattutto al gusto della famiglia reale, bucolico e rurale.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale interruppe questi rapporti e, per ottemperare alle richieste del pubblico inglese, Frank Hornby inventò un sistema di pezzi metallici basato su strisce metalliche forate che potevano essere imbullonate tra loro per comporre pezzi e forme nuove. La prima commercializzazione di questo prodotto avvenne sotto il nome Mechanics Made Easy, ma il nome ufficiale con cui è universalmente conosciuto è Meccano. Nonostante l’innovativa meccanica costruttiva, e soprattutto l’architettura di stampo industriale che questi giocattoli consentivano di realizzare, esisteva ancora una cesura tra il regno delle fantasia ludica e la realtà. La nascita di alcuni grand terminal non aveva sostituito nel cuore degli inglesi l’archetipo di stazione ferroviaria rappresentato da quella di Wolferton nel Norfolk, costruita attorno al 1862 e famosa poiché la regina Vittoria acquistò la vicina tenuta di Sandringham, tanto che il nome della fermata fu comunemente conosciuto come Sandringham Station.
Quindi, così come le prime strutture in acciaio erano solitamente rivestite anacronisticamente con motivi decorativi provenienti dal passato, anche quei giocattoli venivano utilizzati solamente per la replica di modelli già esistenti e totalmente contrari alle regole costruttive sulle quali essi erano basati: l’assemblaggio e la composizione spaziale di elementi astratti tramite giunti meccanici. Fu solo attorno al 1930 che la situazione cambiò. I set Trix Twin Railway furono i primi a non esibire uno stile rurale e bucolico ma uno stile modernista, realizzato attraverso l’uso di modelli in legno e metallo pressofuso, e ad anticipare realmente il modo di concepire architettonicamente le stazioni ferroviarie di inizio secolo, su modello di quella di Surbiton. In un territorio come quello inglese, dove si cercava il più possibile di non allontanarsi dallo stile bucolico preferito dalla famiglia reale, giocattoli come questo furono un vero e proprio dispositivo sintattico per esplorare soluzioni nuove, in linea con le tendenze architettoniche europee più avanzate, e per consentire ai bambini, e a molti padri-giocatori, di esplorare delle spazialità differenti dal passato e da quello che la realtà offriva.
Accanto ai trenini a vapore, i set da costruzioni sono uno dei più importanti artefatti ludici da prendere in considerazione in questa disquisizione sull’influenza dell’attività ludica nella pratica creativa quotidiana dell’iter progettuale. La filosofia dietro la loro realizzazione sottende molte volte un processo compositivo riscontrabile poi nelle opere adulte degli architetti-giocatori che hanno posseduto quei giochi durante l’infanzia. Caso esemplare è quello del Mobaco, un set olandese che lavora su un sistema molto semplice ma di grande potenzialità quando ci si riferisce alle variazioni sintattiche che consente. Il Mobaco si basa su una piastra forata di base su cui inserire i sostegni verticali dalla testa smussata e con scanalature laterali dentro cui è possibile far scorrere pannelli solidi (anche in diversi colori e forme) per realizzare i muri e il tetto. Questi, a loro volta, presentano sulla sommità un sistema di incastri e separatori per consentire l’assemblaggio di ulteriori piani. Quando parliamo di astrazione bidimensionale delle superfici in piani e di sistemi di costruzione e assemblaggio atti a tenerli insieme tramite scorrimento e incastro, la mente corre subito al De Stijl e alla sua importanza storica nell’avanguardia olandese e nell’architettura moderna. Nonostante un sistema costruttivo in sostegni di legno – in un paese dove questo materiale non è mai stato largamente diffuso – sembri disorientare, quando si pensa al suo rapporto con l’architettura olandese della corrente De Stijl l’aspetto su cui focalizzarsi per capire questo nesso è principalmente uno: la connessione tra il sistema libero di scorrimento degli elementi e la ricerca di una estrema flessibilità per gli spazi dell’architettura, in particolare quella residenziale.
Nel movimento fondato da Theo van Doesburg nel 1917, le forme si componevano secondo griglie rettangolari dove gli elementi verticali venivano suddivisi seguendo la regola dei tre colori primari: rosso, blu e giallo. Seppur in un breve arco di tempo, il De Stijl ci ha lasciato alcuni capolavori, come la Casa Schröder a Utrecht di Gerrit Rietveld. Quello che stupisce guardando i piani superiori della casa è che essi sono strutturati proprio come un set di Mobaco: gli elementi sono liberi di scorrere, la loro posizione può essere modificata per questioni di flessibilità e privacy ed è possibile aprirli o chiuderli secondo la volontà di chi si trova a giocare con loro. Le variazioni offerte sono molteplici e partono tutte dal sistema di sostegni tra i quali i vari pannelli (o pareti scorrevoli, se si parla della casa) vengono alloggiati e poi ‘chiusi e aperti’. Un altro aspetto che il De Stijl condivide con il Mobaco, e sul quale vale la pena soffermarsi, è quello dello spazio della città inteso come un continuum, dove la singola casa è un interno continuo in relazione con l’esterno e dove l’abitante non è estraneo rispetto al piano stradale ed è parte integrante della popolazione urbana. Proprio questa continua connessione tra quello che è ‘dentro’ e quello che è ‘fuori’ è una delle più interessanti caratteristiche architettoniche del gioco stesso: nei suoi modelli è costante la presenza di grandi aperture che consentono una permeabilità visiva totale che mette in stretta relazione l’interno e l’esterno, con quest’ultimo che viene quasi assorbito dal primo e introiettato. Se volessimo trovare un’altra conferma di questo intimo legame tra il giocattolo e l’architettura olandese, basterebbe pensare alla città di Amsterdam, dove nessun tipo di tenda oscura la vista del passante o di chi si trova in casa, in continuità spaziale tra spazio privato e spazio pubblico.
Gli esempi affrontati e gli architetti menzionati sono solamente alcuni tra i tanti in grado di dimostrare come i giocattoli rappresentino un imprinting creativo per l’architetto e che tracce mnemoniche degli artefatti ludici dell’infanzia si ritrovino nelle opere dell’età adulta. I set da costruzioni possono essere considerati dei veri e propri dispositivi sintattici per l’elaborazione del progetto architettonico che, grazie a essi, si arricchisce di nuovi significati e rende le motivazioni alla base delle sue scelte maggiormente ripetibili e trasmissibili. I giocattoli consentono di sperimentare senza alcun rischio e impedimento e di strutturare una forma di pensiero creativo assimilabile al Research Through Design, dove l’artefatto ludico diventa oggetto speculativo legato alla realtà quotidiana ma allo stesso tempo in grado di svelarne altri aspetti laterali e innovativi.
A questo punto, svelati alcuni dei passaggi attraverso i quali è possibile pensare al gioco in relazione all’architettura, vediamo come utilizzare le dinamiche e le meccaniche ludiche al fine di proporre azioni progettuali che si pongono l’obiettivo di giungere alla formalizzazione di modelli progettuali duplicabili, ripetibili non negli aspetti morfo-sintattici ma in quelli metodologico-processuali. Per far ciò, utilizzeremo il metodo della scacchiera.
La scacchiera. Tecniche di invenzione per il progetto architettonico
La scacchiera è un dispositivo ludico-sintattico con cui lo studente può costruire un suo sistema di variazioni plastico-spaziali – le regole del proprio gioco del progetto – per raggiungere le finalità del proprio operare, ottimizzandone così la componente contestuale, le qualità formali, di relazione e distributive. Il suo nome è un termine gergale utilizzato all’interno del Laboratorio di Progettazione IV, tenuto presso Sapienza – Università di Roma e diretto da Antonino Saggio[5]. Il corso si struttura in una serie di cicli di lezioni tematiche che vertono su parole chiave (strong concepts[6]) – ognuna delle quali trova la sua reificazione in una specifica azione progettuale – e dove la scacchiera è il prodotto principale di uno dei moduli didattici, quello legato all’inizio della fase progettuale vera e propria.
Dopo la prima sezione del corso, nella quale vengono stabiliti l’area, il programma funzionale, e le relazioni principali che il progetto dovrà intessere con il contesto, gli studenti, tramite la scacchiera, cominciano la fase di elaborazione e di investigazione delle principali caratteristiche volumetriche e spaziali del proprio edificio. Ai corsisti viene chiesto di scegliere dal libro di testo (Saggio 2012) una delle opere dei ‘maestri’ lì contenute che durante la lettura abbia colpito la loro attenzione o che pensano possa contenere degli ‘enzimi’ tali da poter essere utile alla costruzione del loro ‘gioco’ del progetto.
Questo è il momento in cui ognuno di loro, dopo aver studiato l’opera e aver identificato la caratteristica spaziale attorno a cui tutte le altre scelte dell’architetto si articolano (il cosiddetto Bang nella lingua del corso), costruisce la propria scacchiera. Gli studenti sono liberi di utilizzare qualsiasi materiale desiderino e non vengono posti limiti a dimensioni, forme e colori che essa può assumere. Vige una sola regola: la scacchiera deve avere un numero di pezzi tale che non solo si possa ricostruire l’opera originale ma che consenta di realizzare una serie di nuovi progetti a partire dal Bang dell’opera in questione.
Come i set da costruzioni nel paragrafo precedente, la scacchiera non solo si articola come un vero e proprio gioco progettuale, ma è l’esempio perfetto di come un artefatto ludico, un giocattolo, possa essere implementato nel progetto architettonico. Costruendola e giocandovi, gli studenti possono ideare un loro sistema di variazioni plastico-spaziali, coerenti con le regole di base dell’opera di architettura presa in esame, che possono poi scomporre e ricomporre in maniera iterativo-processuale fino a trovare direzioni nuove e inattese per quello che sarà poi il loro progetto finale.
Il metodo della scacchiera si compone di tre fasi – analitico-critica, generativo-processuale, sintetico-creativa – durante le quali la classe sviluppa una conoscenza sintetica dell’opera tale da poterla poi materializzare nella costruzione del proprio artefatto ludico.
Nella prima vi è la conoscenza delle parti che costituiscono l’opera oggetto di studio, la quale viene anatomicamente studiata al fine di identificarne le singole parti e le loro specificità in relazione all’organismo di cui fanno parte: lo scopo è quello di sviluppare nello studente una forte componente critico-analitica che lo renda in grado di ascrivere le scelte dell’architetto al momento storico-culturale in cui egli si è trovato a operare. In questa fase ci si deve domandare quale concetto l’opera reifichi e quali strutture cognitive incarni, come anche a quali istanze sociali e culturali cerchi di rispondere per opposizione o affinità, per comprendere il nesso tra i ‘come’ e i ‘perché’ che determinano le scelte progettuali. La questione preminente è perciò indagare quale sia l’aspetto cardine di tali decisioni, ovvero quale sia il germe formale (il Bang) da cui si diramano tutte le scelte successive e che costituisce la spina dorsale del progetto.
Il secondo step è il primo momento dell’operare progettuale, nel quale si chiede alla classe di mettere in luce le relazioni compositive sottostanti al progetto e di cominciare a realizzare la scacchiera, partendo dalla costruzione di un numero di pezzi che non solo possa servire a replicare l’opera oggetto di studio ma che possa garantire un numero infinito di variazioni a partire dal Bang identificato. L’obiettivo è quello di costruire un set di variazioni compatibili con le regole originarie trovate nella fase analitico-critica e generare una famiglia di forme congruenti con esse. Come se ci si trovasse in una sorta di set da costruzioni Meccano, lo studente giocando con il proprio giocattolo autonomamente costruito è in grado di comprendere la coerenza di alcune scelte e l’incoerenza di altre, di identificare le invarianti che strutturano la sintassi architettonica del progetto originale e i gradi di libertà in cui può muoversi con operazioni compatibili. Come si trattasse della costruzione di una vera e propria sintassi linguistica, lo studente è in grado di capire se logicamente alcune forme siano conciliabili o se si respingano, se le connessioni dei nuovi pezzi che ha creato possano sopravvivere all’interno di un modificato contesto spaziale rispetto all’opera originale e se le sue scelte siano ancora legate al genoma iniziale da cui è partita la costruzione della scacchiera.
Infine, la fase sintetico-creativa è quella in cui le intuizioni e deduzioni derivate dallo studio dell’artefatto ludico vengono messe in gioco e si procede alla scelta di quella ritenuta più promettente e che sarà la base su cui fondare il proprio progetto finale nell’ambito del laboratorio di progettazione. Quello che potrà stupire il lettore nella visione delle immagini è come, nella quasi totalità dei casi, la forma del progetto finale sarà completamente differente da quello dell’opera studiata. Questo perché il metodo non si basa sul concetto di ripetizione, ma sullo sviluppo da parte della classe di una idea sintetica[7] formalmente originale e indipendente dall’esempio di partenza con cui, comunque, condivide intime relazioni alla base dell’artefatto ludico che ne ha permesso la realizzazione.
Una corretta esecuzione della scacchiera da parte dello studente consente quindi a quest’ultimo di avere a sua disposizione un vasto campionario di alternative compatibili con l’opera analizzata da una parte e con la situazione specifica del proprio progetto dall’altro. E se da un lato consente di sviluppare nella classe una padronanza di tecniche di composizione, scomposizione, assemblaggio e variazione, dall’altro dimostra che le scelte, durante un processo di composizione architettonica, non sono astratte e casuali ma informate da una conoscenza profonda delle regole e delle relazioni che intercorrono tra le varie componenti del progetto. Il gioco della scacchiera è quindi un elemento liberatorio per la trasmissione e insegnamento della disciplina della progettazione architettonica, dove, tramite la reificazione delle relazioni sintattiche in un medium-giocattolo, il giovane architetto è in grado di costruire egli stesso il sistema compositivo alla base della propria idea spaziale.
Sceneggiare e progettare. Dietro la creazione di un metodo ludico per l’architettura.
“Sceneggiatura delle scelte concrete” è un’espressione usata da Leonardo Benevolo in una ricostruzione di San Pietro dove si soffermava sulla “mancanza di una critica specializzata, capace di riconoscere e discutere (‘sceneggiare’) le scelte concrete dei lavori di architettura” (Benevolo 1990). Il metodo della scacchiera, e più in generale il tentativo di implementare enzimi ludici nel processo del saper fare architettonico, fa parte di una serie di ricerche che si pongono l’obiettivo di ovviare a questa ‘mancanza’ identificata da Leonardo Benevolo nel saggio citato. Il fine è quello di insegnare agli studenti a non studiare le opere esistenti come se ci si trovasse alle prese con la compilazione di un regesto, ma a entrare dentro la materia del progetto per capire le motivazioni, i meccanismi e le ragioni delle scelte compiute da parte del progettista. L’approccio non è prescrittivo ma votato alla costruzione di una metodologia del ‘saper guardare’ per arrivare al ‘saper fare’. La scacchiera è quindi un processo ermeneutico che entra in relazione con tutti i principi di causalità interni ed esterni che hanno influenzano il progetto originario e che una volta compresi ne permettono una coerente estensibilità. Non una cieca copiatura ma una operatività consapevole dove le regole genetiche vengono attivate per rispondere alla componente ambientale, alle specifiche esigenze funzionali e di programma, agli aspetti orografici, etc…
Alla luce di quanto detto finora, si capisce come pensare al gioco in relazione all’architettura non sia mera supposizione, ma faccia parte di un processo inclusivo che apre le porte all’immaginazione, si costruisce su ripetute indagini, aperture e contraddizioni, in un rapporto sinergico tra teoria e prassi, nel processo della composizione architettonica e del suo insegnamento. Sia che si tratti di set da costruzioni utilizzati durante la nostra infanzia o di ‘giocattoli architettonici’ utilizzati durante un corso universitario, insegnare agli studenti a strutturare il proprio ‘gioco del progetto’ apre le possibilità di continui cambi di punto di vista nel proprio lavoro in relazione a sistemi multidisciplinari e originali, in grado di scatenare la fantasia e di sviluppare una conoscenza sintetica legata alla materia del progetto.
A oggi, enzimi ludici nel progetto di architettura sono stati disseminati tra Italia, Olanda e Albania e, in ognuno di questi casi, l’eterogeneità dei risultati ha confermato la possibilità di comunicare, di progettare, e di guardare al progetto tramite continui cambi di prospettiva garantiti dalla componente ludica presente sin dall’infanzia nello studente e riportata alla luce nelle differenti fasi del corso. La certezza che muove ogni volta queste nuove implementazioni è che esista una componente isomorfica tra attività ludica e formazione dello spazio fisico che, tramite l’azione architettonica, può concorrere alla creazione di paesaggi mentali che acquistano forma e materia in nuove spazialità e, soprattutto, che la composizione architettonica sia un processo comunicabile e trasmissibile all’interno di un corso universitario e non, come avviene in molti casi, un semplice esercizio di calligrafia sulle orme di un maestro.
* Il presente testo è versione sintetizzata e riveduta di una precedente ricerca svolta dall’autore durante il suo percorso dottorale e pubblicata nella monografia V. Perna, L’attività ludica come strategia progettuale. Regole e libertà per una grammatica del gioco in architettura, Macerata 2020, aggiornata grazie anche al lavoro svolto come docente di progettazione architettonica presso la POLIS University di Tirana.
Note
[1] La lingua italiana, come in molti altri casi quando si parla di ludologia, non offre un adeguato termine corrispondente per la traduzione del concetto di playfulness. Dal momento che buona parte della letteratura dedicata (cfr. Maestri, Polsinelli, Sassoon, 2015) utilizza il termine giocosità, i due termini si considereranno intercambiabili all’interno del testo.
[2]Un oggetto transizionale, nello sviluppo infantile umano, è, solitamente, un oggetto fisico che prende il posto del legame madre-figlio. Introdotto dal pediatra Donald Walter Winnicott, con il termine ‘transizionale’ intendiamo una fase di sviluppo intermedia fra quella psichica e della realtà esterna, ovvero tra l’erotismo orale del bambino e il rapporto oggettuale vero e proprio. In questa ‘area transizionale’ possiamo individuare gli ‘oggetti transizionali’.
[3] Per prossemica si intende la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio, e le distanze all’interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale. Questa parola fu coniata da Edward T. Hall nel 1963 e poi sviluppata nel suo La dimensione nascosta del 1966. Nei suoi studi Hall ha individuato quattro distanze che delimitano altrettante zone di comunicazione: la zona intima (tra 0 e 45 cm); la zona personale (tra 45 e 120 cm); la zona sociale (tra 120 e 350 cm); la zona pubblica (oltre i 350 cm).
[4] L’Allegro Chirurgo è la versione italiana del gioco Operation, commercializzato da Milton Bradley a partire dal 1965. Il gioco è costituito da una plancia metallica con la raffigurazione fumettistica, litografata, di un paziente sdraiato; sul corpo del paziente ci sono un insieme di fori attraverso cui si possono estrarre ossa e altri oggetti in plastica. L’operazione viene eseguita con un apposito paio di pinzette metalliche; un eventuale contatto fra le pinzette e il bordo dei fori attiva un segnale sonoro e fa illuminare una lampadina posta nel naso del paziente, e segnala il fallimento dell’operazione.
[5] La scacchiera è definita dal docente come “insieme di componenti disassemblate, smontate in piccole parti, che possono consentire sia di ricreare l’originale architettonico da cui erano desunte ma anche, proprio perché smontate, consentire di creare infinite variazioni sul tema” (Saggio 2012).
[6] Strong concept è una dizione appartenente alla Design-Oriented Research con la quale si intende un livello di conoscenza intermedia (intermediate-level knowledge) che si struttura attorno a una serie di concetti chiave generativi e flessibili che possano essere applicati e modificati dal designer a seconda delle condizioni contestuali che è chiamato a interpretare. Per maggiori delucidazioni sul tema si veda Höök, Löwgren 2012, 23.
[7] Per idea sintetica si intende l’idea di avvio del processo progettuale che in seguito viene dipanata dal progettista, tramite una serie concatenata di scelte logiche: “Il progetto è un processo che serve per costruire un’idea” (Rossi 1996, 29).
Riferimenti bibliografici
- Antonacci 2014
F. Antonacci, L’immaginazione ludica, un potere che trasforma, in M. Bertolo, I. Mariani (eds.), Game Design. Gioco e giocare tra teoria e progetto, Milano 2014. - Axline 1975
V.M. Axline, Play Therapy, New York 1975. - Benevolo 1990
L. Benevolo, La percezione dell’invisibile: piazza San Pietro del Bernini, “Casabella” 572 (1990). - Butterworth, Harris 1994
G. Butterworth, M. Harris, Principles of Developmental Psychology, London 1994. - Durand [1960] 1972
G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario [Les Structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris 1960], traduzione di E. Catalano, Bari 1972. - Fink [1957] 2008
E. Fink, L’oasi del gioco [Oase des Glücks. Gedanken zu einer Ontologie des Spiels, Freiburg / München 1957], traduzione di A. Calligaris, Milano 2008. - Gadamer [1960] 1983
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The essay aims to investigate the potential of playful activity as a tool for developing new creative directions for the operation of thought and design practice, revealing dimensions that would otherwise be difficult to intercept. To do this it moves on two different directions linked by the same thread: on the one hand, it investigates the relationship between playful activity and the playful artefact (the toy), where the second – as a medium – encourages the child to express himself, his imagination, his cognitive construction and development: toys can represent a creative imprinting for the future architect; on the other hand, the essay intends to demonstrate how it is possible to teach design through the insertion of “playful enzymes” within a university course of architectural design through the “chessboard” method: a playful device through which the students can construct their own system of plastic-spatial variations – essentially the project's game rules – to achieve the work's objectives: optimizing the contextual component, as well as the formal, relational, and distributional qualities. Thinking about play in relation to architecture is therefore not mere supposition, but is part of an inclusive process that opens the doors to the imagination and is guided by continuous investigations, openings and contradictions, in a continuous synergy between Theory and Practice for the purposes of the process of architectural composition.
keywords | architectural toys; architectural games; design pedagogy; architectural education.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: V. Perna, Giocare è una cosa seria. Dai giocattoli degli architetti a una grammatica ludica per il progetto di architettura, “La Rivista di Engramma” n. 213, giugno 2024.