Kit di montaggio per l’architettura sovietica (1959-1980)
Metodi di progettazione con modelli fisici componibili. Una forma di BIM analogico per un nuovo stile di vita
Christian Toson
English abstract
Velocizzare la progettazione delle strutture complesse
A partire dal 1960, in alcuni studi in Unione Sovietica si cominciarono a sviluppare nuovi metodi di progettazione basati sull’uso di modelli componibili in scala. In breve tempo, da sette, gli studi che utilizzavano questo metodo diventarono tredici nel 1961, sessantasette nel 1963, novantasette nel 1964 (Zinov’ev 1965, 10). Il successo di questo nuovo sistema è dovuto principalmente al fatto che era stato sviluppato per superare alcuni limiti del tradizionale sistema grafico di progettazione. Nel corso degli anni Cinquanta lo sviluppo delle tecnologie produttive aveva aumentato notevolmente la complessità degli stabilimenti industriali, soprattutto quelli chimici, che si sviluppavano in intricate geometrie tridimensionali. Il disegno bidimensionale, e in particolare la sezione, richiedeva grandi sforzi di astrazione e per questo motivo spesso introduceva errori in fase di progettazione, oltre a rendere di difficile comprensione la documentazione in fase esecutiva e di collaudo. Inoltre, la staticità del disegno sul supporto cartaceo rendeva difficile l’integrazione fra i vari reparti della progettazione, soprattutto fra il progetto strutturale e impiantistico, e la lentezza nell’aggiornamento delle modifiche creava problemi sia in fase preliminare che in corso d’opera.
Per superare queste difficoltà, alcuni studi di progettazione ritornarono al modello in scala come metodo progettuale, che consentiva una visione completa degli intricati macchinari, e riduceva gli errori nell’organizzazione spaziale delle strutture. Questo ritorno al modello, tuttavia, presentava un’innovazione fondamentale rispetto ai plastici-progetto dei secoli passati, che ne determinava la popolarità e l’adozione in larga scala: era composto da elementi modulari e intercambiabili.
L’enorme sforzo che a partire dal Dopoguerra l’Unione Sovietica fece per industrializzare l’edilizia e, dopo le riforme di Chruščëv (1954-63), per definire degli standard universali per i tipi costruttivi, consentiva, in buona parte, di usare lo stesso set limitato di elementi (travi, pilastri, pannelli, ecc.), e di conseguenza di gruppi di misure (passi strutturali, interpiani, ecc.) per progettare virtualmente qualsiasi edificio, industriale, civile o militare. Da qui il passo verso una riproduzione in scala di quegli stessi elementi, per la maggior parte prefabbricati, era breve.
Più nello specifico, una spinta decisiva verso l’adozione dei plastici progettuali avvenne a seguito del Congresso dei Soviet del 19 novembre 1962, nel quale si fece il bilancio dell’esperienza del primo piano settennale di industrializzazione voluto da Chruščëv. Come ricorda l’architetto Jurij Lebedev, il turbolento sviluppo industriale di quegli anni aveva prodotto un enorme varietà di tipi, di elementi strutturali prefabbricati, di progetti, di sistemi costruttivi (Lebedev 1963, 23). Questo portava ovviamente a gravi inefficienze. Il lavoro, negli anni a venire, sarebbe stato quello di ridurre e ottimizzare i risultati di quella grande stagione creativa-produttiva. Misura puntualmente eseguita, con l’uscita delle nuove “Norme Tecniche di Costruzione e Progettazione” (SnIP) a partire dal 1963 (e in seguito dagli standard GOST, elencati nei riferimenti bibliografici).
Lebedev, nel suo articolo a favore dell’uso dei modelli, introduceva un altro aspetto importante, che era quello della riforma dell’architetto e dei suoi metodi di progettazione, che dovevano adattarsi a un nuovo mondo dove produzione, scienza, educazione e cultura erano strettamente connessi. Stare al passo con il progresso tecnologico significava abbandonare il tavolo da disegno dove l’architetto-intellettuale concepiva le sue idee isolato, aiutato dalla sua schiera di aiutanti (il riferimento ai grandi architetti accademici dell’era staliniana è evidente), e immergersi invece nella condivisione del progetto con gli altri specialisti.
In questo modo, i tecnologi (impiantisti) insieme con i [ingegneri] meccanici, gli architetti, gli [ingegneri] elettrici e idraulici all’inizio cercano una soluzione volumetrica-planivolumetrica per l'edificio. Tutti gli specialisti che partecipano alla progettazione possono giudicare insieme sul modello la razionalità delle superfici usate, dei volumi dell’edificio, dello schema costruttivo, dei costi, dei caratteri estetici, della scelta dei sistemi di ventilazione, delle reti energetiche, la disposizione dei laboratori e degli spazi di servizio (Lebedev 1963, 23).
Il modello-progetto si configura quindi non solo come un sistema per rappresentare e orientarsi nelle selve di tubazioni e macchinari delle nuove fabbriche ma anche come uno spazio per il dialogo e la formazione del progetto, dove i singoli specialisti lavorano insieme in ciascun campo della costruzione, anche e soprattutto in quelli non di propria competenza. Gli “aspetti estetici” non sono più prerogativa del singolo architetto ma parte di un lavoro collettivo.
L’ultimo argomento di Lebedev insisteva nella lentezza della redazione della documentazione grafica rispetto alla rapidità dello sviluppo di nuovi prodotti, che produceva progetti già vecchi, e soprattutto, distoglieva il progettista dalla sua vocazione principale, ovvero quella di comporre, di cercare la disposizione ottimale, le proporzioni ideali (Lebedev 1963, 26). Ritorna quindi, in questo sistema, un tema molto caro agli architetti, quello dell’immediatezza dell’atto progettuale, della riduzione dello spazio fra l’idea e la sua rappresentazione.
Fra modello, gioco da costruzione e progetto
Quello che nella letteratura scientifica veniva chiamato “Metodo plastico-modellistico di progettazione” (Model’no-maketnyj metod proektirovaniya) sembrava una promettente soluzione per avvicinarsi all’ideale della “progettazione complessiva” e allo stesso tempo ridurne i tempi (Lebedev 1963, 23; Chazin 1968-69; Kasatkina 1966; Leibman 1965; Tichonjuk, Šlygin 1966; Lur’e 1966). Tuttavia, a fronte degli indiscutibili vantaggi che abbiamo elencato, progettare usando modelli fisici aveva delle difficoltà pratiche, che i progettisti sovietici provarono a risolvere in vari modi.
Il problema fondamentale risiedeva nel fatto che il plastico doveva avere la stessa funzionalità di un gioco da costruzione, ma allo stesso tempo rappresentare l’oggetto in scala reale. Come i giochi, doveva essere componibile e scomponibile velocemente, gli elementi potevano connettersi in vari modi, ed essere robusti e facili da maneggiare. Se osserviamo alcuni dei giochi più comuni, come i LEGO, notiamo che le parti dei giunti sono sovradimensionate, le zone sollecitate sono più grosse, i dettagli più sottili sono rimossi. Prevale, sul bisogno di realismo, la manipolabilità e la giocabilità.
Le necessità della rappresentazione e della documentazione, invece, richiedevano che il progetto fornisse tutte le informazioni necessarie per calcolare, contabilizzare e costruire l’edificio. Questo significava poter includere nel modello la stessa densità di informazioni che si trova all’interno di un disegno tecnico: quote, specifiche tecniche, allineamenti, ecc. Era necessario quindi inventare un nuovo sistema di rappresentazione tecnico-simbolica, oltre che preoccuparsi del mantenimento delle corrette geometrie in scala ridotta.
Queste due istanze sono fortemente in conflitto fra loro. Raramente capita di trovare nei negozi di giocattoli un modello dettagliato di un oggetto che sia anche smontabile e giocabile. C’è una grande differenza, ad esempio, fra la riproduzione in scala di un modellino ferroviario, fedele nella rappresentazione di ogni elemento, anche centimetrico, e la casa delle bambole, dove in virtù della funzionalità molti dettagli sono rimossi, i bordi arrotondati, le proporzioni cambiate.
Per esemplificare un problema tipico, la riproduzione in scala di una trave in acciaio prefabbricata ha per sua natura dettagli e giunti sottili, che si rompono facilmente e sono inutilizzabili se realizzati in balsa o plastica. Come deve avvenire il suo posizionamento nel plastico? Se venisse incollata, si perderebbe il fondamentale vantaggio della modularità e se, al contrario, le si aggiungessero elementi per maneggiarla più facilmente, si rischierebbe di perdere tutta una serie di riferimenti geometrici essenziali, come il posizionamento degli interassi e gli allineamenti. Si pone quindi, nel design di un modello per la progettazione, un continuo lavoro di mediazione fra la necessità della rappresentazione del progetto e la manipolabilità dei suoi elementi costitutivi.
Il Metodo plastico-modellistico di progettazione
Il Metodo di progettazione modellistica nella pratica sovietica degli anni Sessanta risolveva il problema usando, non uno, ma due modelli, secondo questo flusso di lavoro:
I Fase, detta di “progettazione aperta” o “ciclica”
Scelta di una griglia modulare per la disposizione planimetrica;
Lavoro congiunto su un modello componibile fra architetto, strutturista e principale progettista di impianti per la creazione di un layout;
Reiterazione e ricomposizione del modello fino al raggiungimento di una soluzione ottimale;
Inserimento degli elementi secondari (tubazioni, travi, ecc.) al fine di verificare e dettagliare il progetto.
II Fase, di documentazione e lavoro
Costruzione del plastico in forma integrale;
Ripresa di fotopiani del modello tramite apposite apparecchiature;
Integrazione dei fotopiani con documentazione grafica;
Revisione e presentazione del modello.
La distinzione fra le due fasi consentiva nella maggior parte dei casi di usare due modelli diversi. In questo modo si riducevano i conflitti fra giocabilità e fedeltà di rappresentazione. Il primo modello, che subiva la maggior parte delle modifiche, era realizzato con elementi progettati per essere facilmente maneggiati, e per questo motivo veniva detto zborno-razborno (montabile-smontabile). I progettisti si riunivano intorno a una base piana universale, dotata di una complessa forometria. Ne esistevano di vari tipi, ma la più popolare era quella sviluppata dallo studio Gospromchimproekt, denominata UKM (Universalnij Komponovočnij Maket, ovvero Maquette Componibile Universale [Fig. 2]). La disposizione dei fori seguiva i principali passi strutturali (5, 6, 10, 12 metri), e dettaglio importante, aveva altri fori ravvicinati per consentire la disposizione degli elementi a filo interno, esterno, in asse, a seconda delle necessità strutturali (giunti termici, sdoppiamenti, ecc.).
La scala della base, e di conseguenza del modello, era 1:50, il che consentiva di avere elementi grandi e dettagliare gli impianti, ma allo stesso tempo occupava una parte considerevole dell’ufficio. Sulla base si posizionavano i modelli dei macchinari, inseriti in scatole trasparenti che ne definivano gli spazi di rispetto minimi, e le strutture principali, componendo via via le linee di montaggio e gli impianti industriali. I pezzi erano realizzati principalmente in legno, plastica, e lamiera piegata [Fig. 3].
Questo modo di comporre consentiva di smontare e muovere le parti dell’edificio rapidamente, aggiungere e togliere piani, aprire fori e cambiare le luci, sempre restando dentro la griglia prescelta e mantenendo una visione complessiva del progetto. I progettisti avevano a disposizione un catalogo esteso di elementi costruttivi standardizzati che avevano un codice corrispondente alle componenti prodotte in scala reale negli stabilimenti di prefabbricazione [Fig. 4]. In questo modo gli architetti e gli ingegneri non dovevano preoccuparsi di recuperare le specifiche tecniche ogni volta che disegnavano una struttura e di riprodurre le complesse geometrie dei singoli elementi industriali. Bastava che cercassero, ad esempio, la trave corrispondente per quella luce e quelle condizioni di carico, e la installavano nel modello di lavoro. Una volta raggiunta una forma completa, si facevano le verifiche e i calcoli preliminari di costo.
Possiamo notare come i pezzi del catalogo dei plastici siano dotati di perni e scanalature che non esistono sempre negli elementi reali. È in queste soluzioni che si nasconde la difficoltà del design di questi oggetti: sono le deviazioni dall’originale a creare quei dispositivi che permettono al modello di essere montabile e smontabile rapidamente, ovvero giocabile. La sfida era quella di realizzarli in modo che, quando le parti erano serrate insieme, sembrassero reali. Questo era particolarmente evidente nei nodi fra pilastro e travi, che presentano giunzioni a perni a incastro i quali nella realtà si risolvevano con semplici appoggi, spesso tenuti in posizione con la ripresa delle armature e un getto locale di calcestruzzo. In molte situazioni, tuttavia, la geometria dei pezzi era assolutamente fedele a quella degli originali, come nel caso di alcuni pilastri e dei pannelli in precompresso dei solai.
Il modello di lavoro veniva smontato e rimontato fino a che l’equipe di specialisti non riteneva di aver raggiunto una soluzione soddisfacente. Da questo momento in poi il modello diventava la base per la costruzione del modello di documentazione. Il modello montabile-smontabile, infatti, non poteva essere direttamente tradotto in progetto esecutivo per varie ragioni. La prima è che non tutti gli elementi venivano montati nel modello di studio, ma solo quelli fondamentali, per consentire un rapido spostamento delle parti. La seconda è che spesso non si montava tutta la struttura, ma sezioni notevoli di essa, spesso senza la copertura e quasi mai con le facciate. Il modello di lavoro serviva soprattutto per risolvere le parti complesse e di difficile visualizzazione. Era necessario quindi costruire un secondo modello, più dettagliato e preciso, meno modificabile ma altrettanto modulare, che fosse utilizzabile come documento tecnico. Per questo scopo nella grande maggioranza dei casi si ricorreva a figure professionali apposite, i modellisti, che integravano e sostituivano il disegnatore tecnico. Come quest’ultimo, il loro scopo era quello di interpretare la documentazione preliminare di progetto e trasferirla nel plastico definitivo. Una volta trasferite tutte le informazioni, il modello di lavoro veniva smontato e le sue parti riutilizzate per il prossimo progetto, mentre il nuovo modello passava alla fase successiva.
Questi modelli erano diversi dai precedenti. Il loro obiettivo era quello di fornire tutte le informazioni necessarie alla verifica e alla costruzione dell’edificio. Le informazioni spesso si ottenevano tramite lo strumento del fotopiano. Questi modelli sono pertanto smontabili e sezionabili, per consentire le riprese fotografiche, ma non sono altrettanto facilmente manipolabili. Prevale, sull’usabilità, la ricerca di fedeltà delle linee, l’uso di elementi simbolici stilizzati (spesso bidimensionali), la ricerca del contrasto visivo. Anche in questo caso esisteva una quantità numerosa di espedienti, di collegamenti nascosti con viti, perni e incastri, per mantenere l’aspetto esteriore e allo stesso tempo far funzionare l’oggetto in scala [Fig. 6]. In questo caso i modellisti spesso si fabbricavano da soli alcuni componenti, e il modello aveva un aspetto più realistico di quelli di studio.
Il passaggio finale consisteva nella tecnica del fotopiano, che a sua volta richiedeva nuove competenze e soluzioni. Il modello doveva essere curato nella scelta dei materiali e dei colori, in modo che nelle fotografie ci fosse un contrasto adeguato, paragonabile ai disegni. Per le foto erano necessari speciali tavoli di ripresa che garantissero la perfetta planarità e il rispetto delle proporzioni oltre che un’illuminazione precisa. I manuali suggeriscono l’uso della fotografia a colori per migliorare la leggibilità. Le fotografie, una volta sviluppate e riprodotte in scala, venivano spesso modificate con ulteriori segni grafici e annotazioni.
Di questo metodo di progettazione, per quanto diffuso fosse fino all’inizio degli anni Ottanta, sono rimaste poche tracce nella contemporaneità. La fine dell’era dei grandi standard e dell’Unione Sovietica e l’introduzione dei sistemi digitali di progettazione ha reso obsoleto questo modo di progettare. Le testimonianze che ci rimangono sono nelle riviste e nei manuali, molti dei modelli probabilmente si trovano ancora abbandonati negli uffici e nei magazzini delle grandi organizzazioni di progettazione. L’uso di questi sistemi è stato adottato anche nella progettazione di edifici civili, come dimostrano alcune pubblicazioni (Madrasov, Pugač 1980); pare con minor successo, forse per la relativa semplicità delle costruzioni. Si tratta tuttavia di un aspetto ancora inedito, da approfondire.
Conclusione: un metodo di progettare per una civiltà che voleva rimettersi in gioco
Per concludere, ci sono due considerazioni che si possono fare su questo metodo di progettazione con i modelli. La prima è la modernità di questo sistema e la sua affinità con quello che oggi è il BIM (Building Information Modeling). Se proviamo a confrontare i diagrammi di flusso che rappresentano il miglioramento del processo progettuale con il metodo dei modelli rispetto a quello grafico tradizionale (Lebedev 1963, 31) con i più recenti diagrammi che confrontano il processo di progettazione 2D tradizionale con il BIM possiamo notare una notevole somiglianza (a titolo esemplificativo, Hattab, Hamzeh, 2013 [Fig. 9], ma si potrebbe fare riferimento anche alle prime formulazioni moderne del BIM, vedi Eastman et al. 1974). Si potrebbe dire che il sistema UKM fosse una versione analogica del contemporaneo BIM. I sovietici erano all’avanguardia in quegli anni in cui si sviluppavano le principali teorie cibernetiche, anche nel campo dell’architettura (per un approfondimento, si veda Vrachliotis 2022). Il concetto di base, dal punto di vista della teoria dell’informazione, è molto simile: invece di disperdere le informazioni in numerosi documenti redatti dalle singole specialità, si fa riferimento a un singolo modello tridimensionale, fisico o digitale che sia, sul quale tutti sono tenuti a collaborare. Constatata la superiorità da un punto di vista del flusso di lavoro, la questione a questo punto si sposta nella realizzabilità, la qualità e la versatilità di tale modello unificato.
Il plastico di progetto dei sovietici richiedeva diverse professionalità, uno spazio adeguato e in più era costoso. I pezzi dovevano essere standardizzati e corrispondere a sistemi costruttivi industrializzati. Inoltre, poteva essere utilizzato solo se i progettisti lavoravano nello stesso luogo in collettivi, come avveniva in Unione Sovietica.
L’era digitale ha invece permesso di smaterializzare i modelli, mantenendone la funzione e i vantaggi economici e aumentandone la flessibilità e la velocità di modifica. Manca, tuttavia, in questi ultimi, uno degli aspetti fondamentali che hanno reso così speciale questi oggetti: la giocabilità.
È difficile confrontare la facilità e l’immediatezza con la quale i progettisti sovietici riuniti in una stanza potevano comporre insieme l’architettura, smontando e rimontando pezzi in tutto e per tutto simili a quelli reali, con la dimensione completamente a-tattile del progettare usando modelli virtuali, visualizzati solo attraverso rappresentazioni a schermo e modificati attraverso l’indiretta pressione di tasti. Attraverso il modello fisico, gli architetti sovietici sembrano cercare, nel contesto di modernizzazione del paese, una nuova forma di creatività, di vicinanza con il progetto. Un modo di lavorare per standard, ma che non rinuncia alla gestualità dell’atto creativo, e in questo modo mantiene il collegamento con le più antiche tradizioni costruttive.
Il tema della gestualità del progettare introduce alla seconda considerazione conclusiva, che ha a che vedere con una dimensione giocosa e infantile che appartiene al mondo delle riforme di Chruščëv, e che si riflette nei modi del progettare e del costruire. L’infanzia e la giovinezza sono stati a lungo usati come valori di riferimento nella campagna di destalinizzazione. Il ritorno alla spensieratezza, alla fiducia nel futuro, e al desiderio di crescere si proposero come chiavi per superare i traumi della guerra, delle persecuzioni politiche e delle politiche di isolamento internazionale. La fiducia nei confronti della junost’, la gioventù, intesa come energia creatrice capace di portare la civiltà sovietica verso un nuovo modo di esistere, si realizzò con la costruzione di numerosi edifici per i bambini: colonie estive e invernali, attrezzature sportive e Palazzi dei Pionieri. In questi luoghi ricreativi i bambini imparavano attraverso il gioco, molto spesso nei laboratori dove imparavano il fai-da-te. Questi edifici, realizzati a partire dalla fine degli anni Cinquanta, sono stati fra le prime strutture pubbliche a integrare le nuove tecniche costruttive e soluzioni progettuali. E progettare per il gioco dei bambini in qualche modo si rifletteva in un rinnovato entusiasmo per il gioco adulto del progetto. Se osserviamo le rappresentazioni della campagna di industrializzazione edilizia di quegli anni, vediamo che le città si assemblano come grandi giocattoli da costruzione. I pannelli prefabbricati delle pareti volano trasportati dalle gru e si posano come i pezzi di un gioco (si veda la mostra Panel: Alonso, Palmarola 2019). In quegli stessi cortili, ancora in costruzione, scorrazzavano i bambini.
Difficile non fare quindi il confronto fra i modelli da progettazione descritti in questa sede e i popolari giochi da costruzione del mondo est-europeo e sovietico, che cominciano a circolare negli anni Settanta: il “Der kleine Grossblock Baumeister” prodotto in DDR e l’equivalente “Konstruktor Architektor” in URSS [Fig. 10]. Gli elementi di plastica sono in tutto e per tutto simili agli elementi usati nelle costruzioni reali. I pannelli prefabbricati si uniscono gli uni agli altri tramite cordoli di collegamento (colore blu), i solai sono a pannelli. Persino i cataloghi dei pezzi somigliano a quelli reali.
Più di recente, sull’onda della moda decadente per il cosiddetto Brutalismo sovietico, si assiste a una tendenza nel ludicizzare e miniaturizzare l’architettura degli anni Sessanta e Settanta. I siti specializzati sono pieni di puzzle, modellini in scala, abat-jour, che giocano sul contrasto fra il degrado di queste grandi strutture di cemento e l’aspetto confortevole dell’oggetto domestico, facendo leva, inconsciamente, sui caratteri intrinsecamente componibili e giocosi di queste architetture.
È in questa modalità dell’assemblaggio che si era concepita una nuova dimensione dello spazio e del progetto di città, altamente serializzato, ma allo stesso tempo, almeno nelle intenzioni, facilmente componibile e scomponibile, dove gli edifici perdevano quei caratteri di autorità e amovibilità tipica del periodo stalinista. La motivazione economica aveva consentito l’adozione in grande scala di questi metodi ma, inevitabilmente, nel gioco adulto della composizione, si insinuava lo spirito infantile di chi voleva costruire da sé il proprio mondo.
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English abstract
In the early 1960s, design firms in the USSR began to develop new design tools to cope with the increasing complexity of industrial architecture. Traditional graphic documentation and technical drawing workflows were struggling to keep pace with the rapid development of Soviet cities. The unification and standardisation of construction elements created the opportunity to adopt a modular design system based on the creation of physical models assembled from true-to-scale serial elements. In this way, different experts could collaborate on a single three-dimensional physical model, improving communication, reducing design errors, visualising extremely complex three-dimensional structures and speeding up the overall workflow. Despite its benefits, model-based design has serious drawbacks, namely the complexity of constructing the physical model itself, which requires specialised labour. Furthermore, the lack of flexibility required non-trivial adaptations to match the level of detail of the graphical documentation.
This article argues that the modelling method of designing buildings can be seen as an early attempt to create what we commonly refer to today as BIM modelling, not with digital but with physical means, at a time when the first theories of cybernetics were spreading. But designing with models wasn't just a new tool – it reflected the new Soviet way of life. By the end of the seventies, built environments, design objects and even toys began to look more and more like the tools they were designed with.
keywords | Soviet Modernism; Design methods; Models; BIM.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Christian Toson, Metodi sovietici di progettazione con modelli fisici componibili.Una forma di BIM analogico per un nuovo stile di vita (1959-1980), “La Rivista di Engramma” n. 213, giugno 2024.