Nel segno di Pinocchio
La Tendenza giocosa e i giocattoli Radical
Fernanda De Maio
English abstract
È certo che Pinocchio era un personaggio troppo grande
per scegliere o per collocarsi in una propria architettura.
Come nei Wanderjahre di Goethe egli dava un carattere
allo sfondo di cui era un gioco…
Aldo Rossi
Negli ultimi tre anni alcune mostre, con i libri e i cataloghi a esse riferibili, dedicate a Aldo Rossi, Andrea Branzi, Riccardo Dalisi, Carlo Aymonino, fanno esplicito riferimento – con diversa scala, quantità e ragione – a oggetti di chiara origine ludica con cui, questi maestri si sono cimentati in virtù del loro talento visionario*. I motivi di questa attenzione verso i giocattoli, in ciascuno di questi autori, sono svariati e sono ascrivibili sia a vicende personali, sia all’approccio al mestiere di architetto. La ragione più ovvia, apparentemente, è di realizzare dispositivi con intento pedagogico per costruire un rapporto, talvolta a distanza, con i propri figli e questo è un aspetto peculiare dell’impegno privato di Carlo Aymonino nella realizzazione dei Giornalini per i figli; un altro motivo di questo interesse per la realizzazione di giocattoli è quello in cui prevale l’afflato di un impegno sociale per il recupero di infanzie a rischio, come parte di un più ampio progetto di riqualificazione di contesti urbani degradati, come con perseveranza ha fatto, nel corso della sua carriera, Riccardo Dalisi; un’altra ragione ancora è da rinvenire nell’uso del giocattolo come medium tra cultura aulica e cultura popolare o tra culture differenti e questo è sicuramente il caso di Aldo Rossi. In ogni caso in nessuno di questi architetti, l’approccio al progetto del giocattolo è stato evasione da questioni, letture e analisi contingenti dell’architettura e della città, benché finora l’attenzione al giocattolo sia stato, da parte della critica, interpretato come uno degli approcci per incorniciare l’attività di questi architetti in un ambito specifico della loro attività, quello del design o come personalissimo strumento educativo.
A chi scrive sembra, viceversa, che volgere la propria attenzione ed energia al giocattolo, sia piuttosto uno dei modi attraverso cui questi architetti rendono evidente una certa relazione tra architettura, città e memoria; in altre parole continua, nella manipolazione del giocattolo, la ricerca di quel fondamento scientifico dell’architettura che, come osserva Moneo a proposito di Rossi, è il suo più ambizioso progetto (Moneo 2007) – e per estensione, guardando alle opere e agli scritti, potremmo dire che questa ricerca appartiene a una precisa generazione di architetti italiani. Pur attingendo alle tecniche del collage e dell’analogia postmodernista, per realizzare un oggetto più o meno perturbante di architettura e design, lo scopo ultimo di questa ricerca è offrire una lettura precisa di una certa realtà urbana, in qualche modo trasfigurando e tradendo le teorie sul gioco da Huizinga a Caillois e avvicinandosi piuttosto a quanto scrive Savi a proposito del ruolo dell’infanzia nello sguardo dell’intellettuale, accostando il Benjamin di Infanzia Berlinese al Rossi de l’Architettura della città (Savi 1976). Ma anche quando il ricorso al giocattolo è mero strumento per avvicinare i propri figli alla cultura del proprio tempo e di quello passato, questo strumento è da osservare con attenzione per il taglio ‘militante’ o meglio ‘impegnato’ che tale giocattolo mette in campo. Nell’opera di questi architetti italiani alcuni di questi giocattoli emergono, poi, in modo non generico e ricorrente. Essi sono: Pinocchio, il Paese dei Balocchi, il Giornale per bambini. Questi tre oggetti di gioco sono tra loro strettamente connessi e se è facile collegare il Paese dei balocchi alla eccentrica e ambigua marionetta italiana, val la pena ricordare che Le avventure di Pinocchio comparve a puntate come Storia di un burattino, a partire proprio dal numero di esordio del primo Giornale per bambini di cui lo stesso Carlo Lorenzini, in arte Collodi, diventò poi, poco dopo, direttore.
Pinocchio va in città
Pinocchio, come figura eternamente sospesa tra la propria natura di burattino di legno impertinente e bambino in carne e ossa, nell’immaginario di Aldo Rossi non è solo un riferimento per la sua attività di architetto designer; come ebbe a dichiarare:
Quando disegno un mobile mi ricordo sempre di quello strano pezzo di legno che poteva diventare un mobile, poi fu destinato a essere un burattino, e infine divenne Pinocchio. Certo si trattava di un legno geniale, ma non è escluso che queste cose succedano. (Rossi 1990)
Lo stesso si potrebbe dire per Dalisi. Pinocchio, infatti, in entrambi gli architetti attraversa le città e diventa, come si è detto, una sorta di ponte tra culture differenti. È anche vero però che, in particolare nel caso di Aldo Rossi, l’architettura del giocattolo, almeno quella più nota e pubblicata, non mira a catturare l’attenzione specifica dell’infanzia; né può essere liquidata come un gioco per adulti, poiché degli infiniti esempi che possono venire alla mente a nessuno di questi assomiglia. Lo Yatai di Pinocchio, realizzato in occasione della Japan Design Expo ’89 a Nagoya per una mostra dedicata a questi particolari carri giapponesi, in piena era postmodern, è un’architettura mobile che imita, o meglio adotta le forme e le sembianze del giocattolo; inverte in altre parole il tradizionale rapporto che vi è tra la realtà e la realtà deformata che il giocattolo in genere rappresenta. Essa viene realizzata mettendo a fuoco due tipi di giocattoli molto tipici dell’infanzia della generazione di Aldo Rossi: il trenino e il personaggio nato e illustrato dapprima attraverso il giornale e poi diventato il burattino di legno snodabile e senza fili, molto diffuso tra le mani dei bambini del secondo dopoguerra e degli anni del boom economico: Pinocchio appunto.
Ma cosa lega Pinocchio, allo yatai e poi a un personaggio della VIII novella della V giornata del Decamerone che Rossi ritrova in un pannello del polittico di Sandro Botticelli su Nastagio degli Onesti, visto al Prado di Madrid? Sicuramente un ruolo rilevante nell’accostamento di questi elementi della cultura aulica italiana a un elemento della tradizione popolare giapponese nella preparazione e consumo di cibi che si ritrova nella descrizione del burattino di legno parlante associata al disegno intitolato Lo yatai di Pinocchio – assunto anche come copertina di Aldo Rossi. I miei progetti raccontati (Ferlenga 2021) – lo ha la realizzazione del primo boutique hotel nipponico, Il Palazzo, a Fukuoka e le occasioni che da quell’opera discendono, insieme a tutta l’attività in Giappone che impegna lo studio americano di Rossi in quegli anni.
In verità alcune di queste occasioni possiamo solo immaginarle; per altre troviamo elementi che aiutano a risalire all’eccentrico accostamento ne I quaderni azzurri 1968-1992, pubblicati da Electa in anastatica (Dal Co 1999). Ma partiamo dalle occasioni ipotizzabili. L’edificio di Aldo Rossi a Fukuoka sorge nell’area Chuo ward (letteralmente Dipartimento di Chuo) a pochi passi dal ponte che porta direttamente sulla strada Nagasu Yatay Yokocho, sull’omonimo isolotto in cui tuttora è presente la tradizione degli yatai gastronomici, una volta molto diffusi in tutto il Giappone e oggi presenti esclusivamente in questo tratto di strada della piccola isola di Fukuoka, nota in passato per l’intrattenimento serale trasgressivo, a dispensare cibo solo in certe ore del giorno trasformando completamente l’immagine di questa strada nelle ore preserali e notturne. Si può così supporre che tra gli avventori di questi yatay vi sia stato anche il maestro della Tendenza insieme ai suoi collaboratori e possiamo immaginare, forse, questa esperienza come primo elemento alla base della proposta per l’architettura mobile progettata in occasione dell’Expo di Nagoya, nella cui descrizione, per spiegare la passione insieme astratta e vitale delle sue architetture, egli collega appunto Pinocchio al protagonista delle storie di Nastagio degli Onesti di Botticelli, derivato dalla novella di Boccaccio.
Ma è ne I quaderni azzurri, in particolare quelli individuati dai numeri compresi tra il 36 ARCHITETTURA 16 luglio 88 – 28 agosto e il 39 ARCHITETTURA 28 febb 89/30 aprile 89, dove più volte sono contenute descrizioni del viaggio nell’arcipelago nipponico, che si ritrova la genesi della collocazione di Pinocchio in Giappone. Si comprende così che questa associazione in parte è generata dall’impressione ricevuta dalla visita di Nagoya, descritta nel quaderno 36 in cui compare il castello di questa città che lo colpisce “con tutta la violenza di una immagine nota che non abbiamo ancora sperimentato” e che molto di più della villa imperiale di Katzura o dei templi di Kyoto, appare come ciò che si aspettava “dalla antica architettura giapponese […] simile alla fantasia o sogno del castello”, e in cui si fa strada anche la convinzione che “lo stupore per questo paese comincia a mescolarsi con una discreta confidenza e posso inserire la mia esperienza su uno scenario diverso. Al punto che non mi sembra più molto diverso e vi ritrovo cose conosciute come il Budda/San Carlo o i paesaggi della fantasia dell’infanzia” (Rossi 1999). Un ulteriore indizio lo si ritrova appunto nel quaderno 39 in cui viene dedicata una pagina allo yatai con il titolo Yatai delle marionette europee.
Ma come può essere venuto in mente a Rossi di interpretare il tema dei carri e della evoluzione della tecnica in quella fiera di Nagoya, usando l’accostamento tra le marionette europee e il carro giapponese, con Pinocchio che guida il treno dei carri tradizionali a bordo di una nuovissima locomotiva-trattore? Qui si propone una ipotesi che è suggerita dal titolo della pagina in questione; infatti in Giappone, nella città di Takayama, compresa nella prefettura di Gifu, dove pure Rossi stava seguendo negli stessi anni di Fukuoka il progetto per l’Edificio commerciale Centro Città, di cui accenna appunto anche in questi quaderni, si svolge una delle feste tradizionali più note e suggestive del Giappone, due volte all’anno, il Takayama matsuri, in cui un ruolo fondamentale è svolto dai grandi carri delle marionette che sfilano per la città in percorsi definiti.
Questi yatai, sono delle raffinatissime architetture su ruote o trasportate in spalla, in legno laccato con parti in metallo sempre intagliate e lavorate in modo parossistico, mentre le marionette sono in legno e riccamente vestite con broccati e sete e sono mosse da fili e pulegge contenute nel carro. Rossi, dunque, doveva conoscere questa festa tradizionale, a cui è dedicato anche un museo a Takayama, così simile nell’impianto organizzativo e scenografico alle processioni dei carri di carnevale delle nostre città europee e, d’altra parte, come viene esplicitato anche in questi diari, nel viaggio in Giappone, egli ritrova molti elementi di quella componente teatrale delle città che gli consente attraverso l’architettura mobile dello Yatai di Pinocchio di reinterpretare in chiave europea un tema della tradizione nipponica.
D’altra parte nella tradizione italiana delle marionette, e con questa architettura mobile Rossi rappresenta l’Italia e per estensione l’Europa, la più moderna ma anche la più diffusa oltre i confini italiani è proprio Pinocchio, e quindi non sorprende che nella dialettica tra tecniche tradizionali e tecniche innovative egli affidi proprio alla marionetta senza fili di Collodi il ruolo dell’innovatore che guida il trattore. Ma come si è anticipato il ragionamento intorno a Pinocchio con cui ancora negli anni Ottanta, indipendentemente dal genere a cui appartenevano, giocavano i bambini italiani e non solo, nel pensiero rossiano non è frutto di un’attenzione specifica ai bambini, come avviene viceversa in Dalisi e Aymonino o anche in Bruno Munari e Enzo Mari, solo per restare ad alcuni dei più noti architetti che si dedicarono a specifiche collaborazioni con aziende produttrici di giocattoli. Il burattino e il trenino in cui il burattino è posto alla guida, pur mantenendo le caratteristiche esteriori del giocattolo, si fanno carico di rappresentare una certa idea nel campo delle costruzioni, della tecnica e del linguaggio apparentemente elementare dell’architettura fatta di pochi “pezzi e parti” dello stesso Rossi (Bonfanti 1970), così come raccontato in quello che è forse il miglior saggio sulla sua opera.
Così Pinocchio, quel bambino caratteriale presentato di recente in modo brillante anche in alcuni articoli (Belpoliti 2024, Moro 2020, Bartezzaghi 2014), che fa bella mostra di sé, in una fotografia scattata da Stefano Topuntoli, su uno degli armadi Convento dello studio Rossi di via Santa Maria della Porta a Milano, nella interpretazione di Fortunato Depero (Spangaro 2022) – rappresentato da Rossi attraverso schizzi e disegni, opera costruita e una breve ma intrigantissima trattazione scritta – carica sul suo trenino l’essenza stessa dell’architettura del maestro milanese. In tal modo il giocattolo costruito per una festa, quale la Japan Design Expo del ’89 di fatto fu, trascende le proprie ragioni di giocattolo e diventa anche una occasione per interpretare la tecnica del restauro giapponese che permette di “mantenere perfettamente il progetto originario quasi come se il corpo fosse eterno” affidando l’evoluzione ai “piccoli cambiamenti che anche nella perfezione della copia dovevano prodursi” (Rossi 1999), portando Rossi a compiere, una volta ancora, quella attività di autocitazione così congeniale alla sua essenza di architetto poeta.
Tuttavia, se il Pinocchio di Rossi non tradisce apparentemente, con il lungo naso e le fattezze lignee, l’originale di Collodi, il Pinocchio di Dalisi viene completamente deformato dalla città in cui viene concepito: Napoli. Riccardo Dalisi potentino di nascita e napoletano d’adozione, costruisce sul nucleo originario del pezzo di legno di Collodi, l’atlante culturale della città partenopea. Esploratore urbano alla ricerca delle antiche botteghe di artigiani presenti in città, Dalisi subisce la fascinazione della latta, di cui trova ancora tracce di lavorazioni nelle botteghe di Rua Catalana, liddove installa il proprio studio laboratorio, e così, richiesto da Officina Alessi negli anni Settanta di progettare una caffettiera, propone la reinterpretazione della tipica ‘napoletana’ e si esercita in una ricerca, sia prima che dopo aver prodotto la straordinaria caffettiera di lucido acciaio che gli porta in premio il Compasso d’Oro nel 1981, per coniugare il perfetto funzionamento della caffettiera con le tipiche pose dei personaggi dei teatrini di marionette che seleziona. La mimica entra nella progettazione delle parti di cui si compone la caffettiera e senza cedere alla perfezione funzionale, ogni caffettiera diventa il prototipo di un preciso carattere tratto dai personaggi-maschere della commedia dell’arte e dell’opera buffa napoletana e non solo, a cominciare da Pulcinella, per approdare poi alla interpretazione, nella latta, del celeberrimo Pinocchio di Totò a colori, film del 1952. La versione deformata di questo Pinocchio in lamiera viene battezzata con il nome che è una crasi di Totò e Pinocchio, Totocchio (Totocchio 2003), e la novella di Collodi diventa il palinsesto su cui il maestro del Radical povero e ultrapoverissimo trascrive nuove fiabe per i bambini.
La marionetta di Dalisi, come si è detto, fuoriesce dal corpo in lamiera della caffettiera napoletana piuttosto che da un tocco di legno, assume fattezze da scultura urbana e si incammina in città o lungo le coste campane, popolando con vari multipli, in pose sempre diverse, il quartiere Sanità a Napoli, il porto di Acciaroli nel Cilento, il borgo di Ponte ai piedi del Castello di Ischia, riuscendo in anni recenti nell’operazione, fallita nel 1981, allorché le sculture giganti non riuscirono a varcare le soglie dello studio dell’architetto (Dalisi 1981). Che una delle fonti d’ispirazione nel concepire la relazione tra l’architetto/artista/artigiano e la materia da plasmare, per il maestro dell’architettura radicale a Napoli, possa essere stata l’invenzione iniziale di Collodi del ceppo di legno animato, dunque dotato di energia vitale propria, regalato da Mastro Ciliegia a Geppetto, molto più che una suggestione inconsapevole è viceversa una ipotesi realistica implicitamente confermata da un breve passaggio di una video intervista dello stesso Dalisi, intitolata Riccardo Dalisi e lo spirito folletto, in cui, per descrivere del proprio rapporto con il foglio di lamiera e del suo modo di plasmarlo da architetto, il maestro racconta dell’energia potenziale racchiusa nel foglio di lamiera e di come attraverso i processi di battitura, piegatura, bucatura ecc. il materiale si gonfia e si trasforma da superficie in spazio cavo, producendo sì delle sculture di varie dimensioni, ma con un procedimento che ha una chiara origine architettonica e che si muove sul confine tra possibile e impossibile, tra certo e incerto, tra previsto e imprevisto.
Il Paese dei balocchi dai Giornalini di Carlo Aymonino al quartiere Traiano di Riccardo Dalisi
Tuttavia il ruolo impegnato/impegnativo del gioco nella realizzazione di quello che oggi chiamiamo ‘freespace’ e che negli anni della sperimentazione conseguente alla rivoluzione studentesca del ’68 letteralmente esplode con deciso piglio politico nello spazio pubblico della città – con la realizzazione di veri e propri giocattoli di architettura ma anche con una architettura di giocattoli – si ritrova dapprima tra le pagine dei giornalini intitolati a ciascun figlio di Carlo Aymonino, mescolato alla tenerezza con cui il padre si rivolge ai figli per esortarli a leggere, studiare, disegnare e, poi, nel lavoro di Riccardo Dalisi al rione Traiano di Napoli. In entrambi i casi si tratta di una sorta di opera partecipativa, nel senso più autentico assegnato da De Carlo a questo concetto nel caso di Dalisi, mentre è metaforico, perché rimane in ambito privato, riferito ad Aymonino. I due architetti – agli antipodi certamente per il modo d’intendere il mestiere di architetto e il loro ruolo di docenti universitari ma accomunati dalla passione per il disegno e per l’afflato politico che investe la loro attività – ingaggiano con i bambini un confronto quasi alla pari nel progetto ante litteram di una città del futuro allegra, vivace, poliedrica, che usa il gioco e tutte le imprevedibili mosse che da questo scaturiscono come dispositivo creativo. E in fondo poco importa che nel gioco siano coinvolti i figli propri o i figli del sottoproletariato urbano, poichè in entrambi i casi questi progetti di giocattoli hanno influito in modo decisivo sullo sviluppo di questi bambini diventati adulti (Aymonino L., Aymonino S. 2021; Casciani 2010).
In verità, più o meno negli stessi anni in cui si dipanano le vicende di Aymonino e Dalisi, che qui ci si appresta a ripercorrere, un Paese dei balocchi che traspone in un progetto di paesaggio la favola di Pinocchio comincia a costruirsi a Collodi ad opera di Piero Porcinai, autore dell’architettura del paesaggio, Marco Zanuso, autore dei padiglioni, e Pietro Consagra che realizza le sculture in bronzo dei personaggi che popolano la novella e il parco di Pinocchio, la cui realizzazione si compie tra il 1963 e il 1976 ed è tutt’oggi, dopo un ampio restauro, funzionante. Si tratta di un progetto di estremo interesse nell’organizzazione dello spazio del gioco che potrebbe essere utilmente messo a confronto con il parco giochi Filothei di Dimitri Pikionis, per esempio, però resta come un esempio di spazio ludico, costruito dagli adulti progettisti, per i bambini che vi interagiscono solo una volta realizzato.
In altre parole il progetto Porcinai/Zanuso/Consagra non mette in atto quelle dinamiche compositive che nascono dall’osservazione dei bambini quando giocano con processi alternati di costruzione e decostruzione del giocattolo che hanno tra le mani. In fondo nemmeno i Giornalini di Aldo e Livia, come il giornalino di Silvia e quello di Adriano, così come gli Album di viaggio inviati ai piccoli Aymonino, operano in tal senso. Tuttavia questi giornalini ricostruiscono un atlante di luoghi e città ‘esotici’ come Mosca o il Congo di Lumumba alternati ad altri ‘mediterranei’, come la mappa della Sicilia e l’itinerario verso Corfù; di opere appena costruite, per esempio la torre Velasca di BBPR, o in fase di realizzazione o di progetto, alcuni dello stesso Aymonino, quali il Padiglione Franco Vandone dedicato ai bambini poliomielitici, la casa di Via Arbia e il Palazzo di giustizia di Lecce, ma anche una proposta molto ‘organica’ della crescita nel tempo di una tipica casa inglese,in cui, in ogni momento si sente la presenza dei bambini come attori che partecipano agli eventi descritti. Del Paese dei balocchi, questi luoghi reali, nei giornalini assumono i variegati colori ma anche il tipico accostamento, apparentemente incongruo e casuale, a disegni di giocattoli, a scenette di vita, a ritratti e autoritratti incollati nelle pagine, a luoghi e fatti di violenza o privazione di libertà, come il corpo di Lumumba assassinato o il carcere di Perara a Corfù dove venivano imprigionati gli antifascisti. Il campo delle associazioni tra testi e immagini rende le pagine di questi Giornalini e Album dei veri e propri dispositivi di risonanza tra aspetti pop e aulici della cultura contemporanea, in cui si tratteggiano paesaggi analoghi e si costruiscono le città del boom economico ma dove anche echeggia la classicità di Roma antica e stratificata.
Ciò che più rapisce di questi giornalini è proprio il gran respiro di libertà che da essi promana, una libertà in cui il disordine apparente trova una sequenza ordinata nella storia realizzata grazie, appunto, al dialogo sotteso tra adulti e bambini, un dialogo alla ricerca della bellezza della libertà che si intuisce tra le righe e che in modo non dissimile da quanto avveniva nel Giornalino per i bambini in cui comparve per la prima volta Pinocchio, si costruisce come una favola a puntate. Val la pena segnalare l’osservazione che in questi giornalini il mondo descritto è quello di una élite aristocratica ancorché tutta orientata a sinistra poiché indubbiamente, guardati e letti con gli occhi di oggi, essi documentano un pezzo di storia italiana attraverso lo strumento del giornalino-giocattolo. Parafrasando il famoso titolo di Natalia Ginzburg essi possono ascriversi al genere di Lessico familiare: dove vi era un linguaggio fatto di frasi e modi di dire privati tra genitori e figli, resi universali dal libro della narratrice che traccia la storia epica e per lei stessa dolorosa della propria famiglia ai tempi del fascismo – famiglia egualmente elitaria nella cornice alto-borghese in cui si consumava la vicenda – si sostituisce, nei giornalini e album di Aymonino, il disegno, il collage, il tono intimo e discorsivo della epistola tra i figli, personaggi sullo sfondo, e i genitori, interpreti del gioco a favore dei figli, nell’Italia che stava risorgendo con il Piano Marshall sottoposto alla serrata critica comunista, di cui Carlo Aymonino fu uno dei protagonisti.
Tuttavia per trovare un altro Paese dei balocchi realizzato, dopo quello del Parco di Pinocchio, bisogna rivolgersi al progetto sul campo di Riccardo Dalisi al rione Traiano di Napoli di cui si è accennato, un esperimento di architettura partecipata svolto dal 1971 al 1974 che coinvolse il progettista-docente universitario, gli studenti del suo corso di allora della Facoltà di Architettura di Napoli e i bambini del quartiere; un esperimento non solo documentato dalle pubblicazioni coeve dell’autore ma di cui molto si scrisse, in particolare all’epoca, da parte di molti esponenti del movimento radical e dalle pagine della “Casabella” di Alessandro Mendini, e oggi ripreso anche da alcuni recenti articoli di critica dell’arte contemporanea e di design, a cui si rimanda per maggiori approfondimenti (Parlato, Salvatore 2019; Catenacci 2015).
Ai fini di quanto si sta scrivendo preme invece segnalare che Riccardo Dalisi, approdò, anzi per certi versi fu uno dei fondatori e sicuramente tra i principali e più autorevoli interpreti del Movimento Radical, muovendo da critiche e da interessi culturali analoghi a quelli dei maestri della Tendenza; la critica fondamentale, val la pena ripeterlo, era rivolta al meccanicistico rapporto forma-funzione dell’architettura razionalista e alla estetica che ne derivava nello sviluppo della città contemporanea attraverso la realizzazione di quartieri ghetto, mentre gli interessi culturali volgevano all’antropologia, alla semiotica e alla semiologia, all’urbanistica, all’arte e al più vasto contesto culturale a cui gli architetti potevano attingere in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, per ampliare e approfondire i deboli contenuti disciplinari della teoria della progettazione architettonica uscita dai Ciam. In Dalisi, dunque, l’oggetto d’interesse, di critica e di progetto, è, non meno che per gli architetti della Tendenza, la città; ciò che cambia sono quelle che noi oggi chiamiamo le parole-concetti chiave attraverso cui scardinare i binomi dicotomici (centro/periferia, nuovo/antico) con cui si attiva il processo conoscitivo-descrittivo e quindi progettuale sulla città, la quale viene identificata, in assoluto anticipo anche rispetto alle attuali tendenze pedagogiche, come un ambiente didattico. Disordine, Incertezza, Imprevedibilità, sono le parole-concetti adatti a descrivere la relazione tra le cose, il cosiddetto ‘intervallo’ che sta tra le cose dove il disordine diventa per Dalisi “un dato storico, naturale, non classificabile nelle sue manifestazioni attraverso giudizi di valore, ma piuttosto fertile terreno di indagine”(Catenacci 2015). Ed è in occasione della presentazione di un progetto di scuola a Bologna che il tema della natura della relazione/intervallo tra le cose si precisa:
Ciò che sembra più concreto, più vero, più misurabile è la relazione (o la relazionabilità) di una cosa con altre. Ma la relazione è proprio ciò che sta in mezzo, un ponte tra due fatti, attraverso un ‘vuoto’, un inconoscibile. La relazione rappresenta pertanto una sorta di miscuglio tra il certo ed il non certo; ed è proprio il suo carattere di dinamicità, di non concretezza che lo fa immaginare come una capacità che ha l’oggetto di diventare un rapporto con un altro (Dalisi 1967).
Dalla definizione di relazione-intervallo, dal concetto di disordine creativo, dalla città-ambiente pedagogico e dal progetto di scuola, nasce, per Dalisi, un’attenzione mai più abbandonata per il mondo dell’infanzia, sia chiaro non quella borghese di Aymonino, ma quella del sottoproletariato urbano di un quartiere ghetto, come si è detto, in quella che è, dal secondo Dopoguerra fino al duemila, la città dalla bellezza invisibile per il resto del mondo: Napoli. È in questa realtà fatta di cittadini bambini che Dalisi scopre e usa, guidandolo con la sua competenza di progettista e artista flessibile, tutto il portato di una rivoluzione creativa dal basso la quale è due volte più rivoluzionaria, perché e attuata dai bambini, perché è figlia di Povertà. È negli scantinati del rione Traiano trasformati in laboratori che il nostro, trova la prolifica creatività che gli interessa per smuovere l’esistente, in definitiva per promuovere un progetto architettonico e di vita alternativo, basato sulla ‘animazione’. Come è noto, anche in questo caso, il primo approccio al rione Traiano si fonda su un progetto di scuola per i bambini di questo quartiere, da realizzare in legno e frutto della geometria generativa da cui già si era sviluppato il progetto per la scuola di Bologna. Nessuna delle due scuole fu realizzata, ma da quelle esperienze maturò in Dalisi un metodo progettuale che coinvolgeva i bambini attraverso il gioco e la realizzazione di giocattoli di città che letteralmente aggredivano come parassiti gli spazi abbandonati, non finiti del rione Traiano: architetture temporanee fondate su quella geometria generativa che
[...] non è altro che un tentativo di controllare il gioco delle trasformazioni nello spazio, di registrarle in senso progressivo, di dirottarle, di maturarle, di tradurre le pressioni che vengono da altri tipi di processi in opportunità creative dello spazio; è la metodologia delle progettazioni interpersonali (Dalisi 1970).
Architetture parassite effimere sviluppate dall’imprevedibile fantasia dei bambini, certo, ma architetture che, come una volta raccontò Dalisi stesso, consentirono a quei bambini di non partecipare ai pericolosi giochi della camorra e del malaffare (Casciani 2010). Il rione Traiano è, così, un Paese dei balocchi in cui la rotta verso il male è invertita proprio grazie al ruolo che i bambini assumono nella pratica progettuale.
Da allora fino al suo ultimo giorno di vita, Dalisi ha continuato a praticare il suo mestiere borderline tra architettura, design e arte, promuovendo soprattutto la dimensione del design partecipativo come strumento di riscatto da condizioni di estrema difficoltà; l’ultimo esperimento è stato con gli ultimi più ultimi dei bambini, con i migranti all’interno dell’associazione Avventura di Latta. Che oggi egli sia ricordato più come designer che come architetto, più che una scelta libera dello stesso Dalisi, è il segno della ricerca, al contempo artistica, lavorativa e performativa, di un approdo sicuro all’interno della dimensione progettuale; in fondo anche l’unico approdo che il vivere in una città al margine dei grandi movimenti produttivi poteva offrirgli. Napoli, città in perenne tempesta, è stata allo stesso tempo il suo limite come architetto stricto sensu ma forse anche la sua occasione per inventare nuove forme e un nuovo mestiere di architetto; insieme e grazie ai suoi bambini e ai suoi giocattoli poveri, anzi ultrapoverissimi.
Infine, ma questa è solo una nota finale molto marginale, varrebbe la pena riflettere che intrecciando, attraverso la dimensione ludica intorno a Pinocchio e al suo mondo, descritta in queste pagine, le città vissute e raccontate da questi tre maestri dell’architettura italiana del secondo novecento, Milano, Roma e Napoli emergono tra memorie e contraddizioni nel caleidoscopico panorama delle favole come grandi e rigenerati frammenti-palinsesti.
*Per le mostre ci si riferisce a Aldo Rossi. L’architetto e le città; a cura di A. Ferlenga, Maxxi, Marzo-Novembre 2021; Carlo Aymonino. Fedeltà al Tradimento, Da un’idea di Livia e Silvia Aymonino, a cura di Manuel Orazi, Triennale di Milano, maggio–agosto 2021; Aldo Rossi. Design 1960-1997, a cura di C. Spangaro, Museo del Novecento, aprile–novembre 2022; Riccardo Dalisi. Radicalmemte a cura di Gabriele Neri, Maxxi, novembre 2023–marzo 2024; Carissimo Pinocchio, designer e grafici italiani ridisegnano il burattino più famoso del mondo, mostra dedicata a Andrea Branzi, a cura di Gi. Iacchetti, ADI Design Museum, novembre 2023–aprile 2024. Per i libri si rimanda alla nota bibliografica
Riferimenti bibliografici
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- Galateo, Costa s.d.
V. Galateo, C. Costa (a cura di), Riccardo Dalisi e lo spirito folletto, video-intervista, s.d. - Saccoccia 2023
R. Saccoccia, AniKult – 140 anni di Pinocchio: Italia e Giappone legate dai fili del dispettoso burattino [consultato il 5 maggio 2024].
In the last three years, some exhibitions, with the books and catalogs relating to them, dedicated to Aldo Rossi, Andrea Branzi, Riccardo Dalisi, Carlo Aymonino, make explicit reference to objects of clear playful origin with which these masters have experimented by virtue of the their visionary talent. The article investigates the way in which the architecture of toys is interpreted by these three masters and proposes that this interest cannot be exclusively linked to their practice as designers, but that it should be reread in the light of their criticism of the banal functionalism that produced mediocre architecture and their criticism of the urban development of the post-war years in Italy.
keywords | Pinocchio; Riccardo Dalisi; Carlo Aymonino; Aldo Rossi; Postmodern Architecture; Radical Movement.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: F. De Maio, Nel segno di Pinocchio. La Tendenza giocosa e i giocattoli Radical, “La Rivista di Engramma” n. 213, giugno 2024.