Tra le carte dei Sette contro Tebe
La messinscena del 1937 nei documenti d’archivio
Federica Marinoni
English abstract
1. Per un inquadramento storico
Il 28 e 29 agosto 1937 vanno in scena presso il Teatro Olimpico di Vicenza i Sette contro Tebe di Eschilo, nell’ambito del Terzo Ciclo di Spettacoli Classici dell’Accademia Olimpica. Nei panni di Eteocle c’è Memo Benassi; in quelli di Antigone, Ernes Zacconi; il Nunzio, invece, è Carlo Ninchi. Il cast è diretto dal regista Guido Salvini, con l’attenta supervisione del Cancelliere dell’Accademia Olimpica, Antonio Dalla Pozza, e di Manara Valgimigli, formidabile traduttore eschileo che, in questa occasione, adatta la versione dei Sette di Domenico Ricci (Ricci 1925 e Ricci 1930).
Il sodalizio Dalla Pozza – Valgimigli – Salvini era iniziato due anni prima, nel 1935, quando proprio Valgimigli (professore di Letteratura greca all’Università di Padova dal 1926) era stato voluto dalla prestigiosa istituzione vicentina per guidare l’impresa di riportare sulle scene palladiane le antiche tragedie del V secolo (Nogara 1972, 50-52). In quello stesso ’35, l’ambizioso progetto aveva preso vita con la rappresentazione delle Coefore, dramma centrale dell’Orestea di Eschilo, unica trilogia del teatro classico ad essere giunta completa sino a noi (Nogara 1972, 51-54 e 318). La pressoché insuperata traduzione valgimigliana in prosa – pubblicata per i tipi di Laterza nel 1926 (Valgimigli 1926) – aveva fatto ottenere allo spettacolo un larghissimo successo, rinsaldando così il gruppo di lavoro, che collaborerà fino al 1948, con la messinscena dell’Edipo re di Sofocle, prima riduzione di Valgimigli approntata espressamente per il teatro (Valgimigli 1964, I, 159-206).
La “rinascita della tragedia” all’Olimpico avviene, dunque, in un periodo politico molto controverso, a ridosso dello scoppio del secondo conflitto mondiale (Zoboli 2004). In questo panorama, colpisce la scelta dell’Accademia – che equivale a una coraggiosa affermazione di indipendenza – di avvalersi della consulenza di Manara Valgimigli, dal 1898 iscritto al Partito Socialista e strenuo, ancorché sempre accorto, antifascista, al fianco del collega e affezionatissimo amico Concetto Marchesi (De Luca 1979; Canfora 2019).
La figura di Valgimigli è subito preferita a quella del grecista ufficiale del regime, Ettore Romagnoli, tra i principali protagonisti delle scene coeve, nonché, dal 1913, colonna portante dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. Altrettanto intenzionale si rivela la decisione di proporre nel 1937 – a brevissima distanza, tra l’altro, dall’emanazione delle leggi razziali – la guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, così come di avviare, per il 1939, i preparativi per l’Edipo sofocleo. Quando la compagnia è ormai prossima al debutto, la Germania invade la Polonia, decretando per la tragedia un forzato e doloroso rinvio di nove anni (Stefani 1980). Nella presentazione dell’opera – capitale per il teatro palladiano, avendolo inaugurato nel 1585 – Valgimigli dà una cruda descrizione del “dramma della cecità”, che non è soltanto quella del re di Tebe, ma anche quella metaforica della contemporaneità: l’“atmosfera cupa” della vicenda è squarciata dalla “luce della verità”, e allora “lo spettro frana, si decompone, si perde, l’incantesimo cade; il fascino di spegne. […] Edipo si ferisce le pupille, si strazia e si strappa le orbite. Ha veduto. Vede” (Valgimigli 1942). I rimandi alla progressiva presa di coscienza dinanzi al precipitare degli eventi in Europa sembrano espliciti (e, verrebbe da aggiungere, ancora oggi di estrema e sconfortante attualità).
Il progetto dei Sette contro Tebe – letto in questa prospettiva storico-teatrale – offre elementi di straordinario interesse e sotto molteplici profili. Si desidera prendere in esame alcuni aspetti dell’allestimento attraverso uno sguardo particolare, ovvero quello della ricerca archivistica, in questa circostanza singolarmente remunerativa, con acquisizioni talvolta piuttosto sorprendenti. L’Archivio storico dell’Accademia Olimpica di Vicenza (nella sezione Comitato Spettacoli Classici, 1935-1937, d’ora in poi AAVi) e il Fondo Guido Salvini presso la Biblioteca Museo dell’Attore di Genova (MBAGe) restituiscono una messe ricchissima di materiali che – dettaglio da sottolineare con forza – si integrano a vicenda e, posti opportunamente in dialogo, ricompongono in modo pressoché completo la genesi dello spettacolo.
2. La scelta della traduzione attraverso le lettere
Per comprendere al meglio le ragioni che motivarono l’adozione della versione di Domenico Ricci come testo-base su cui costruire il copione del 1937 è necessaria una digressione. Tra le molte traduzioni dal greco che contrappuntano l’operosissima carriera di Valgimigli e che contemplano, tra l’altro, l’opera di Platone con cinque dialoghi, quella di Aristotele con la Poetica, nonché Saffo e gli altri lirici (Valgimigli 1931; Valgimigli 1916; Valgimigli [1942] 1968), le riduzioni dai tragici spiccano per una caratteristica peculiare: il precoce e pionieristico uso della prosa. Dalla prima, giovanile prova sul Prometeo di Eschilo nel 1904, fino alla Medea di Euripide nel 1952, passando attraverso l’acme dell’Orestea nel 1948 (Valgimigli 1904; Valgimigli 1964, I, 209-244; e Valgimigli 1948), Valgimigli abbandona recisamente la strada della resa metrica: un’opzione in netta controtendenza rispetto alla prassi primonovecentesca e che si inquadra nel noto, e mai del tutto sopito, dibattito sulle traduzioni, appunto in prosa o in versi, degli antichi.
Nella Prefazione alle Coefore del 1926 è contenuta una delle più importanti e celebri riflessioni critiche sull’argomento:
Avrei voluto tradurre in versi: confesso che mi ci sono provato; e non mi è riuscito. O mi veniva fuori il solito endecasillabo, [che] non aderiva mai […] al mio animo, e, peggio, mi urtava e feriva; oppure un endecasillabo rotto, senza compagine, con tante sillabe numerate e disposte a gruppi […]. E così mi sono liberato da ogni presupposto tecnico, e ho tradotto in prosa. Ho tradotto come sempre si traduce quando si legge, anche se da scrittori e poeti di lingua non aliena; che uno si abbandona al suo poeta e lo segue, e tra sé lo ridice, e trova […] l’espressione propria. E contentarsi così, senza esser soddisfatti mai (Valgimigli 1964, II, 268).
La posizione valgimigliana – densissima di spunti di analisi – non può non richiamare, con il suo insistito indugio sull’endecasillabo, la monumentale impresa di Ettore Romagnoli, traduttore in versi – per “imprescindibile necessità” (Romagnoli 1917) – di tutte le 34 opere superstiti del teatro classico (Romagnoli 1909; Romagnoli 1921-1931). Ma anche l’esperienza, di poco successiva, di Ettore Bignone, docente di Letteratura greca a Firenze e, dal 1938, Accademico d’Italia (Bignone 1936-1938; Bignone 1939): non a caso i due furono i bersagli polemici privilegiati da Valgimigli (Pieraccioni 1979).
La scelta della prosa è certamente debitrice di uno studio attento e minuzioso della Poetica aristotelica; di un convinto allineamento all’idealismo di Benedetto Croce; nonché di una adesione pressoché totale al “modo di leggere i Greci” di Renato Serra (Gigante 1976; Valgimigli 1924). Ancora nel 1952, nel saggio-testamento Del tradurre da poesia antica, Valgimigli, infatti, spiega: “Tradurre in prosa, tradurre in verso, è distinzione insensata ormai da quando il modernissimo Aristotele, duemilatrecento anni fa, disse che non per il verso si è poeti ma per la mimesi” (Valgimigli 1964, II, 588). E si potrà anche ricordare che nel trattato aristotelico il trimetro giambico è classificato come “[il metro] che imita più da vicino il linguaggio parlato” (Arist., Po., 1449a, in Valgimigli 1964, I, 593).
Questa presa di distanza dalla poesia è poi uno dei molti modi attraverso cui Valgimigli dà forma alla tenace opposizione nei riguardi della supponenza, della chiusura e del filologismo del mondo accademico e dei suoi esponenti, avvezzi a travestire le riduzioni di “antico falso e bolso”, secondo una definizione che lo stesso Manara conia per l’opera di Bignone, in una tarda lettera del 1950 all’amico regista Salvini (MBAGe, 1279/289).
Proprio la corrispondenza custodita presso AAVi e MBAGe è di fondamentale importanza e soccorre a ricostruire tutte le fasi dell’allestimento dei Sette contro Tebe, inizialmente previsti – contravvenendo alla prefissata cadenza biennale dei Cicli – per il 1936. La prima epistola valgimigliana in cui è menzionato lo spettacolo porta la data “Padova, 7 maggio 1936” ed è spedita a Dalla Pozza: i Sette sono definiti “dramma mirabile” e seguono accordi per avviare il lavoro sul testo. L’urgenza imposta dall’Accademia impedisce una versione ex novo della tragedia. Per questo motivo, Valgimigli suggerisce al Comitato di servirsi dell’edizione di Domenico Ricci.
Si considerino altri documenti. Il 29 maggio 1936 Manara comunica a Dalla Pozza: “Al Ricci ho scritto io: è lietissimo e onoratissimo della scelta”. Ricci non solo si compiacque del favore accordato alla sua traduzione, ma partecipò attivamente all’adattamento per il palcoscenico; sono sempre gli scritti valgimigliani a provarlo. Il 29 giugno 1936, ad esempio, troviamo questo avviso: “Ho aggiunto alcuni mutamenti proposti dal Ricci, sopra tutto di stile” (AAVi, b. 5). Un’utile testimonianza arriva altresì da un plico di fogli con una serie di note per la scena redatte da Valgimigli all’indirizzo del regista Salvini e di Dalla Pozza:
I sei guerrieri scelti da Eteocle […] dovrebbero venire in scena con Eteocle, accompagnati ciascuno dai suoi soldati, e poi essere licenziati, uno per uno; partendo vanno a destra. C’è difficoltà per il terzo, dove i versi greci, nella interpretazione che dà il Ricci, dicono che Megareo è stato già mandato. Ma è difficoltà di facile soluzione. Sentirò anche il Ricci.
Entrando nel merito di queste importanti indicazioni, si noti che Valgimigli ne annuncia l’invio proprio nella sopraccitata lettera del 29 maggio a Dalla Pozza. Una copia fu spedita a Salvini; una, appunto, all’Accademia Olimpica. Si cita proprio da quest’ultima, conservata, in due redazioni, presso AAVi, nella medesima cartella che contiene i copioni dei Sette (cfr. più avanti il par. 3). La “difficoltà di facile soluzione” relativa a Megareo (nell’Episodio secondo, vv. 472-474) fu così aggirata: la versione di Ricci ha: “Potrei mandarlo, se, per buona sorte, / Megareo non avessi già inviato” (Ricci 1925, 36). Sul copione di Guido Salvini (presso MBAGe, tra poco preso in esame) il testo è cassato a lapis e corretto in: “Ho provveduto: gli contrapporremo / certo con buona sorte Megareo”.
Anche dopo il differimento della prima al 1937, i contatti e gli incontri tra Ricci e Valgimigli non vengono meno, così come la stima reciproca: “maestro di grande umanità in tempi molto duri” e in virtù della “sua genialissima attività di filologo e di scrittore”, è il ritratto di Manara tratteggiato dall’amico in due lettere al Podestà di Vicenza, Giambattista Cebba (AAVi, b. 7). Infine, al termine delle rappresentazioni – il 4 settembre 1937 –, proprio il Podestà si rivolge così a Ricci:
Sono lieto, lietissimo che il pubblico e la stampa unanimemente abbian potuto con tanto calore di consensi apprezzare l’opera Sua, che il prof. Valgimigli giustamente ebbe a definire l’“unico Eschilo che abbiamo in Italia” (AAVi, b. 7).
Che Valgimigli descrivesse la traduzione di Ricci “l’unico Eschilo” in Italia corrisponde – a quest’altezza cronologica – a un nuovo, implicito ma chiarissimo rifiuto dell’opera di Romagnoli. Non disponendo per i Sette di un testo in prosa, l’ostracismo non è nei riguardi dei versi tout court, ma di certi versi come quelli romagnoliani, artefatti, pomposi e pressoché irrecitabili. Lo lascia intendere, nel 1951 – apprestandosi a interpretare, di lì a due anni, Medea al Teatro Manzoni di Milano – la diva Sarah Ferrati: “Carissimo Professore, […] Sono certa che se ho avuto successo con la traduzione di Romagnoli, ne avrò ancora di più con una traduzione Sua! Come non si potrebbe recitar bene la sua prosa con tutto quel ritmo?!” (Tellini 2010, 169). Sulla più agile, ancorché aulica e ingessata, versione di Domenico Ricci è così avviato un labor limae che si connota come una vera e propria impresa collettiva, a riprova dell’illuminata apertura culturale di Valgimigli, sempre incline, nelle sue diverse esperienze teatrali, al lavoro d’équipe, ancora una volta in netta antitesi con l’ingombrante protagonismo di Romagnoli.
3. Dal libro al copione
Occorre partire nuovamente dalle due lettere valgimigliane a Dalla Pozza appena citate, del 29 maggio e del 29 giugno 1936, per mettersi sulle tracce dei copioni dei Sette contro Tebe. Il 29 maggio, infatti, Valgimigli scrive:
Caro Dalla Pozza, Il testo ch’Ella mi restituì l’ho tutto segnato anche di segni miei; perciò le rimando il suo venutomi oggi, sul quale ho riportato diligentemente i segni suoi relativi alle parti da musicare e cantare (AAVi, b. 5).
Esattamente un mese dopo, la dinamica si ripete:
Caro Dalla Pozza, Le rimando il volume. […] Per i tagli, d’accordo: benché in alcuni punti, per es. a p. 42-43, non vedo bene tagli e legami. Vedrà che a p. 37 il Ricci stesso ha mutato bene perché i sei guerrieri vengano in scena tutti. Ma non sarebbe opportuno che dessimo insieme, almeno io e Lei, una lettura definitiva del dramma? Mi telefoni. In una serata ci sbrighiamo […] (lettera del 29 giugno 1936 di Valgimigli a Dalla Pozza, AAVi, b. 5).
L’adattamento del testo avviene, dunque, sugli esemplari a stampa dei Sette, fittamente postillati e quindi scambiati a distanza tra gli organizzatori.
È possibile ipotizzare – pur con estrema cautela – che i volumi adoperati fossero tre. Quello maggiormente rimaneggiato e al centro degli invii non è stato ad oggi rinvenuto e si potrebbe credere sia rimasto nella biblioteca privata del Cancelliere Dalla Pozza. Il secondo, invece, può essere individuato nella copia personale di Valgimigli delle Tragedie di Eschilo curate da Ricci (Ricci 1930), oggi nel Fondo valgimigliano della Istituzione Biblioteca Classense di Ravenna (F. Valg. 003 001 006 02). A provarlo sarebbero gli interventi vergati a lapis da Manara sui Sette: i versi sono numerati; vengono registrate le varianti traduttorie introdotte da Ricci rispetto alla princeps del 1925; e sono inserite alcune didascalie e altre prescrizioni relative alla recitazione. A p. 8, ad esempio, accanto alla fine del Prologo, leggiamo: “Eteocle esce, seguito dai Tebani. Entra il carro delle donne”. A partire dal v. 103, per le battute del Coro, nella Parodo, si precisa: “Nota bene: I versi da cantarsi sono segnati con ●”.
Il terzo volume, infine, è conservato presso MBAGe (1746/806) ed è diventato il vero e proprio copione di regia. Ancora un libro personale di Valgimigli, questa volta la princeps dei Sette, con dedica autografa di Domenico Ricci: “Al grecista illustre / Manara Valgimigli, / Maestro, / Con viva ammirazione / DomRicci / Ancona, via Nazionale 36 / 1925”.
Valgimigli – nelle fasi più intense del lavoro di preparazione – dovette cedere il testo al regista: sulle pagine si stratificano un numero notevolissimo di informazioni, redatte a matita, tutte di mano di Salvini. Sono toccati gli aspetti più vari della messinscena, tra cui i movimenti degli attori (sempre in colore blu); l’intonazione delle battute (in rosso); e le caratteristiche della scenografia (con schizzi, schemi e piccoli disegni). Vengono poi riportate le correzioni alla riduzione stabilite dalla coppia Valgimigli – Ricci (a lapis, con una grafia ordinatissima, a differenza del resto degli appunti). Si incontrano finanche diversi particolari relativi alle luci, poiché (come sovente ricordato in sede critica) lo spettacolo del 1937 all’Olimpico fu il primo in Italia ad avvalersi dell’illuminotecnica: basti riportare, ad esempio, la soluzione scelta, a pagina 7, per il Prologo: “Prima il cielo blu / Esterni blu / Lentamente interni ed esterni gialli e raggi fino a 2/3. Durante tutta la scena”.
Lo studio del libro-copione di Genova porta a formulare due osservazioni. Innanzitutto, è probabile che da questo esemplare siano stati tratti i copioni ufficiali per il cast, oggi presso AAVi, in quattro identici dattiloscritti, rintracciati, in modo piuttosto fortuito, in una scatola di grosse dimensioni, non ancora inventariata dall’archivio, con la sola dicitura: “Copioni”; non è, pertanto, possibile fornire una segnatura precisa (la cartellina – rubricata: “I Sette a Tebe / Copioni ed estratti” – contiene anche un numero elevato di fogli sparsi relativi alle battute del Coro, con ‘doppioni’, e le “note sceniche” composte da Valgimigli, nel 1936, all’indirizzo di Guido Salvini e di Antonio Dalla Pozza, per cui cfr. il par. 2).
Nei quattro testi, accanto a nuove modifiche, sono assimilati in pulito i massicci tagli e le varianti annotate sulla copia di Salvini, frutto del lavoro ‘a otto mani’ di Valgimigli, Ricci, Dalla Pozza e del regista.
In secondo luogo, l’uso di un’edizione a stampa come testo-base su cui dare vita al copione teatrale – prassi comune e diffusa lungo tutto il Novecento – si connota come uno dei tratti distintivi del modus operandi di Valgimigli e dei suoi collaboratori, che nella necessità di un lavoro collegiale, ma condotto per via epistolare, dovevano trovare molto agevole il metodo.
Il caso dei Sette contro Tebe ha consigliato di approfondire lo scandaglio dei fondi e degli archivi alla ricerca di analoghe testimonianze. Si possono elencare ora i primi risultati dell’indagine: presso MBAGe – sempre nel Fondo Guido Salvini (Sal. T. II 969) – si conserva anche una princeps laterziana delle Coefore di Valgimigli, divenuta il copione di regia dell’allestimento vicentino ricordato in apertura. Inoltre: il dramma centrale dell’Orestea, nella versione valgimigliana, fu riproposto sulle scene in svariate occasioni, disgiunto dal resto della trilogia. Uno degli spettacoli più studiati (ma che molto ancora ha da rivelare) è quello del 1946 presso il Teatro dell’Università di Padova: rappresentazione assai rilevante, poiché inaugurò la prestigiosa e avanguardistica istituzione patavina, segnando il debutto alla regia di Gianfranco de Bosio, allora in procinto di laurearsi e allievo al Liviano proprio di Manara, che lo vorrà al suo fianco anche nell’entusiasmante e trionfale Orestea del 1948 (Bordignon 2012, 195-233).
La biblioteca privata di de Bosio custodisce entrambe le prime edizioni valgimigliane: quella delle Coefore, trasformata nel copione padovano del 1946; e quella dell’Orestea del 1948, con la dedica autografa: “Al mio caro Gianfranco / L’ultimo giorno della / nostra fatica siracusana / M. Valgimigli / Siracusa, 23 V 48”. Il libro – donato all’affezionato discepolo nei luminosi giorni siciliani – è poi servito al giovane regista, per il solo Agamennone, come copione per altre due messinscene: al Teatro Ruzante di Padova, nel febbraio 1952, e quindi, nell’agosto-settembre dello stesso anno, al Teatro Romano di Verona, durante la seconda Delfiade, il Festival Internazionale dei Teatri universitari aderenti all’Istituto Delfico Internazionale (Bentoglio 1995, 252; Simone 2020).
Una preliminare e rapida analisi di questi preziosissimi volumi è già in grado di riconsegnare un’immagine nitida del laboratorio teatrale di Manara Valgimigli e dei suoi fidati sodali scenici. Professore di solidissima formazione filologica, allievo diretto, tra il 1894 e il 1898, di Giosuè Carducci e di Vittorio Puntoni, Valgimigli – a partire dal suo esordio a Vicenza e fino al culmine dell’esperienza a Siracusa – affronta la sfida del palcoscenico con la consapevolezza di dover cucire una veste adatta per le sue traduzioni (o, nel caso isolato dei Sette, per una riduzione altrui). Egli stesso, mirabilmente, lo spiega nel saggio Poesia letta e poesia ascoltata: “[…] se andiamo a teatro, per l’attore andiamo e per lo spettacolo, più che per l’opera in sé. E questa diversità […] importa abiti speciali diversi, e forme e strutture e attitudini al tutto diverse della mente e dell’animo” (Valgimigli 1964, II, 563).
Le osservazioni teoriche sul vertere – sparse ora nei molti contributi critici, ora nella corrispondenza privata – si soffermano così, in modo programmatico, sul faticosissimo tentativo di imprimere alla tragedia greca la “rapidità concentrata di una azione cinematografica”, secondo la potente dichiarazione contenuta in una lettera del 1939 a Dalla Pozza a proposito dell’Edipo re (Stefani 1980, 41-42). Accanto a una prosa sempre asciutta e lineare, fatta di periodi brevi o brevissimi, con un insistito ricorso alla paratassi, il proposito di conferire al dettato vigore e accelerazione è perseguito – come già accennato – attraverso tagli profondi che sfrondano soprattutto i corali.
Nel caso dei Sette, il dialogo tra gli archivi, sull’asse Genova-Vicenza, si rivela paradigmatico per cogliere, attraverso un esempio concreto, il cruciale passaggio dalla “poesia letta” alla “poesia ascoltata”. La traduzione di Domenico Ricci conta 1206 versi (nella princeps, che amplifica i 1077 dell’originale; nel 1930 i vv. sono 1199). Sul libro-copione di Salvini presso MBAGe ne sono cassati in tutto 290: 189 (oltre il 65%) appartengono ai corali, con l’apice nello Stasimo secondo, di cui sopravvivono solo 12 vv. su 70. Nel copione definitivo di AAVi i versi sono ulteriormente ridotti a 765 (55 sarebbero i vv. musicati, in base a un non agevole calcolo sui fogli sparsi per il Coro). Valgimigli, dunque, in ossequio, ancora una volta, all’auctoritas di Aristotele, agisce applicando con rigidità il concetto di mimesis praxeos:
Se l’elemento fondamentale […] ha da essere l’azione, tutto ciò che ostacola o impedisce codesta azione sarà difetto […]. Il coro è un impaccio, con quella sua presenza obbligata e continua dell’orchestra (Valgimigli 1964, II, 330).
4. Un professore a teatro: la “diceria” per i Sette contro Tebe
“Ho sentito e visto solo gli attori e la rappresentazione”. È questa, al contrario, la preoccupazione principale del Valgimigli traduttore per le scene, confidata, nell’epistola del 1939 pocanzi citata, al Cancelliere Dalla Pozza appena chiuso il cantiere dell’Edipo re. La dichiarazione può essere senza dubbio eletta a manifesto del ‘come lavorava’ Valgimigli a teatro. Il cast e il pubblico sono costantemente messi in primo piano, dalle fasi iniziali della versione (o adattamento del testo), fino ai minuti che precedono l’inizio dello spettacolo. La propensione didattica è, infatti, radicatissima in Valgimigli, che non esita a sfruttare i metodi collaudati nella parallela e altrettanto eccelsa carriera di docente di Letteratura greca.
Regista e attori sono accompagnati con scrupolo sia attraverso la stesura di note esplicative, sia con incontri di persona che diventano autentiche lezioni. Nel caso delle note, si sono già citate quelle dei Sette indirizzate a Guido Salvini, ma si potrebbero aggiungere anche le “Note per gli attori” e la “Notizia generale sulla favola” allegate al copione della Medea spedito a Luchino Visconti, regista della rappresentazione milanese, al Teatro Manzoni, nel 1953 (Tellini 2010, 147 e 150). Le prime, su Eschilo, terminano con una pointe filologica:
È molto dubbio (io direi certo) che il IV episodio (o epilogo) e Esodo non siano di Eschilo. Molto probabilmente furono aggiunti da un poeta posteriore per reminiscenza dell’Antigone sofoclea. Se si accettasse questo dubbio e si volesse rappresentare solo quello che è sicuramente di Eschilo, bisognerebbe:
1) sopprimere il IV episodio (epilogo) e Esodo;
2) sopprimere i versi che annunciano […] l’arrivo di Antigone e di Ismene;
3) distinguere tra i due semicori il seguito del terzo stasimo […] e finire con le parole della quarta antistrofe, […] che questa è veramente la chiusa di Eschilo, ma se l’intervento delle due sorelle accresce pathos ecc. ecc., lasciamo così e Eschilo ci perdoni!
Mentre le seconde, per il dramma euripideo, racchiudono sia disposizioni sull’ingresso in scena dei personaggi, sia glosse sui luoghi più ambigui o sul tono di certe battute:
Il regista distribuirà come crede le entrate e le uscite dei personaggi. In ogni modo è bene ricordi che la casa o reggia di Medea […] non è più la casa di Giàsone, che ora abita nella reggia di Creonte, con la figlia di lui, Glauce. Quindi, dalla casa di Medea, potranno entrare e uscire: Medea, i figli di Medea, il pedagogo, la nutrice e il coro delle donne […]. Da altra parte, e cioè da una strada che venga dalla città, devono entrare e uscire Creonte, Giàsone e poi il nunzio. Anche Ègeo, che si può immaginare venga dal porto, deve entrare da destra o da sinistra, e non dalla casa di Medea.
[…]
613. contrassegni per ospiti. Erano come speciali tessere: oggi diremmo biglietti di presentazione.
[…]
780. Stare attenti in questa parlata a distinguere con la voce le parole che dice Medea al coro e quelle che dirà poi a Giasone (si cita dal copione Visconti, oggi presso la Fondazione Gramsci di Roma, nel fondo intitolato al regista, con la segnatura UA 29, doc. 14).
Per le spiegazioni in presenza al cast, valga, invece, – di passaggio – la battuta del direttore dell’Inda di Siracusa, Vincenzo Bonajuto, a ridosso dell’inizio delle prove per l’Orestea del 1948: “Terrei molto, […], che tu facessi una breve chiacchierata con gli attori nel giorno in cui sono qui riuniti” (il documento è oggi presso l’Archivio storico dell’istituzione siciliana, nella b. 150 della serie Organizzazione spettacoli, dedicata al “Traduttore Manara Valgimigli”). Non solo Manara fu presente all’incontro, ma è certo, dai molti riscontri della corrispondenza, che seguì passo passo gli attori lungo tutto l’allestimento.
Infine, le attenzioni nei riguardi del pubblico trovano proprio nei Sette contro Tebe l’esempio più articolato e interessante. In occasione della prima, infatti, Valgimigli stese un opuscolo destinato agli spettatori e stampato in 2000 esemplari numerati (Valgimigli 1937). AAVi conserva tutte le fasi compositive del testo: una redazione manoscritta; una copia dattiloscritta e la stampa (b. 5 e b. 11/1). MBAGe soltanto un dattiloscritto con firma autografa, mandato per conoscenza a Guido Salvini (1564/614).
Sembra opportuno un piccolo passo indietro, di nuovo alle Coefore vicentine del 1935, per contestualizzare questa operazione valgimigliana. Il 2 settembre ’35 Manara – nell’imminenza del debutto – scrive a Dalla Pozza: “[…] sta bene per la diceria di 10 minuti e non più e piuttosto meno […]” (AAVi, b. 5). L’allusione, che nello scambio rimane isolata, è chiarita da una recensione allo spettacolo apparsa sul quotidiano “La Sera” il successivo 23 settembre: “Sabato e ieri si sono avute al Teatro Olimpico […] due recite straordinarie delle Coefore di Eschilo […]. Prima che s’iniziasse la rappresentazione di sabato il prof. Manara Valgimigli […] parlò con calda eloquenza del contenuto spirituale e poetico delle Coefore” (MBAGe, Rassegna stampa). Il professore, dunque, salì in prima persona sul palco – verrebbe da dire facendosi a sua volta attore – per un breve discorso introduttivo, per istruire il pubblico sulla tragedia che stava per prendere vita al Palladio.
Questo speciale proemio avrebbe dovuto ripetersi anche per i Sette. Sin dalle primissime lettere in cui si passano in rassegna gli aspetti organizzativi, Valgimigli, più volte, chiede: “[…] l’ho da scrivere la diceria réclame?” (in questo caso siamo al 1° agosto 1936; AAVi, b. 6). Dopo una serie di aggiornamenti, e in seguito allo spostamento della messinscena al 1937, incontriamo un’ultima puntualizzazione diretta, come sempre, a Dalla Pozza:
Quello che io scrissi l’anno passato sui Sette lo scrissi, come Lei appunto ricorda, perché fosse pubblicato in un fascicoletto-richiamo: un richiamo di una certa nobiltà, che desse subito il tono e la misura delle nostre esigenze di arte, ma insomma di richiamo. […] Le confesso, leggerlo in pubblico prima dello spettacolo non mi piace. Né io so parlare senza leggere; salvo che non abbia da mettere insieme due o tre periodi appena. Ritornerei a quello che s’era detto: dei fascicoletti semplicissimi, in carta comunissima, con tutto il rimanente che riteniate opportuno dire per informazione e per istruzione; e, insieme, quelle pagine. […] Se no, niente (cartolina postale. Coreglia (Lucca), 8 agosto [1937], AAVi, b. 5).
Guidato dalla sua tipica ritrosia, dall’umiltà che lo portava a identificarsi come un semplice “maestro di scuola”, Valgimigli rifiuta una nuova ribalta e ottiene la stampa di “fascicoletti semplicissimi, in carta comunissima”. Una deminutio valida solo per gli aspetti tipografici della tiratura, poiché il contenuto risalta per profondità di analisi.
La Premessa alla rappresentazione si apre con un riassunto della trilogia “di argomento tebano”, cui i Sette appartengono, essendo Eteocle e Polinice la “terza generazione” di Edipo (Valgimigli 1937, 3-5). Il commento ruota attorno a due fuochi principali: la figura di Eteocle e lo stile di Eschilo. L’eroe è paragonato al Farinata e alla Francesca di Dante, o ai grandi personaggi di Shakespeare: Amleto, Jago, Lady Macbeth. La tecnica del tragediografo di Eleusi, invece, è “michelangiolesca”, come “la barba del Mosè”, dove “rifiniture, modellature, eleganze realistiche, non possono stare” (Valgimigli 1937, 5 e 9). E ancora:
Eteocle è veramente la più bella espressione di guerriero-eroe di tutto il teatro greco. Unicamente guerriero. Non ha altra voce che di guerra. […] Certa rigidità di forme, certa distribuzione di schemi, certe simmetrie in aggruppamenti di versi anche recitati, certa fissità e stilizzazione che sono proprie di tutta la poesia eschilea […] esprimono e costruiscono esse medesime, nella rigidità sua, arcaica e nobilissima, questa figura di re.
[…] Lo stile a blocchi di Eschilo fa la sua prova più alta. Ci sono versi che paiono di ferro. Non conosco altri versi comparabili a questi se non quelli del canto di Farinata, o della canzone di Legnano. […] Tutto qui è gigantesco. […] Qui [lo stile] si raccoglie, si addensa, si appunta. Qui le parole sono inconsuete […] le crea, le foggia, le compone Eschilo; […] mescolando immagini, accumulando metafore, con un’asprezza e una durezza che danno suono di armi percosse (Valgimigli 1937, 9-11).
In controluce, nelle 13 pagine, si percepisce poi la presenza costante di Benedetto Croce, uno dei maestri indiscussi – lo si è potuto solo abbozzare – della piena maturità valgimigliana. A più riprese, infatti, è rimarcata l’impossibilità di disgiungere – nell’interpretazione critica – la poesia (l’intuizione) dall’arte drammaturgica (l’estrinsecazione).
Si ha ragione di credere che la lettura proposta sia stata – almeno in alcuni dei passaggi più alti – piuttosto ardua per i numerosi spettatori delle due serate; all’opposto questa esegesi dei Sette risponde pienamente “al tono, alla misura e alle esigenze di arte” che l’Accademia Olimpica si era autoimposta e aveva inseguito a partire dalla nomina di Valgimigli, nel preciso intento di distanziare il proprio percorso dal monopolio culturale del regime. Il professore, con il suo ingresso a teatro, non solo innalza la qualità degli allestimenti, ma, addirittura, porta in scena – secondo l’abituale riuso ciclico dei propri materiali preparatori – i contenuti delle lezioni universitarie. È di nuovo lo scandaglio archivistico ad accertarlo.
Nell’anno accademico 1934-1935 – in concomitanza con l’avvio dell’esperienza vicentina – Valgimigli tenne a Padova un corso dedicato a Eschilo. La Biblioteca Classense di Ravenna ne conserva gran parte degli appunti in due faldoni (F. Valg. 9.3.23c, e F. Valg. 16.3.23a). Dalla lettura delle carte sui Sette contro Tebe veniamo a scoprire che l’opuscolo a stampa del 1937 è per intero stralciato da queste lezioni: una sorta di centone dei momenti più significativi (e meno marcatamente filologici), con prelievi letterali e pressoché senza alcuna variante. Di qui in avanti, la “diceria” – arcaismo per discorso, conferenza, carissimo a Valgimigli e alla sua cerchia (Marini-Raffaelli 2005, 10 e 24) – si consolida come Leitmotiv in occasione di ogni esperienza teatrale. Il 15 luglio 1939, ormai pronta la traduzione dell’Edipo re, Manara avvisa Dalla Pozza: “[…] sto scrivendo una nota iniziale a chiarimento e rilievo di quello che io ritengo il tema centrale del dramma” (AAVi, Comitato Spettacoli Classici, 1937-1939, b. 7, con riferimento a Valgimigli 1942); e anche nel corposo, e già citato, carteggio con l’Inda di Siracusa ci si imbatte in questo programma per l’Orestea: “[…] Per la mia diceria, come vedi, fino a marzo niente. […] In aprile, quando vengo giù, dovrò fare una diceria-réclame a Messina e a Catania!”.
Nel suo Ritorno a Valgimigli, Ezio Raimondi ha fotografato splendidamente il profilo sui generis di questo umanista politropo, che nell’intrattenere un “dialogo con il testo” ha sempre bisogno di “un uditorio attivo”, “dello spazio concreto e vitale di una scuola, dove si apprende, leggendo insieme” (Raimondi 1993, 13). Senza eccessive forzature, si può immaginare che anche il teatro si sia fatto una delle molte aule frequentate da Valgimigli, e che registi, attori e pubblico abbiano sostituito gli amati scolari quali compagni nello studio partecipato e appassionato della tragedia classica.
Desidero ringraziare Gian Domenico Ricaldone del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova; Giovanni Dal Lago e Vittorio Bolcato dell’Archivio storico dell’Accademia Olimpica di Vicenza; Floriana Amicucci della Istituzione Biblioteca Classense di Ravenna. Infine, i miei ringraziamenti vanno alla famiglia di Gianfranco de Bosio, al Comitato scientifico del Centenario e alla prof.ssa Maria Rita Simone per avermi permesso di consultare la biblioteca privata del Maestro.
Riferimenti bibliografici
Di preliminare importanza per un inquadramento generale risulta Zoboli 2004. Notizie dettagliate sulla messinscena dei Sette contro Tebe, presso il Teatro Olimpico di Vicenza, nel 1937, si ricavano da Nogara 1972, 54-56 e 319. Sembra poi opportuno ricordare che, il 21-23 settembre 2023, la tragedia eschilea è stata riproposta presso il Teatro del Palladio, per la regia di Gabriele Vacis, a inaugurazione del LVI Ciclo dei Classici (Centanni, Sacco 2023). L’allestimento è stato affiancato da una Giornata di Studi: Brucia il classico alla prova del tempo, con la partecipazione di Anna Beltrametti, Monica Centanni e Giorgio Ieranò.
Tutte le traduzioni di Valgimigli sono, di norma, citate a testo nell’edizione principe. Sono quindi confluite nella stampa ne varietur Valgimigli 1964, I. Si sottolinea, altresì, che Valgimigli 1948 è la prima Orestea completa pubblicata in Italia. Nel dare conto dei molti documenti d’archivio riportati, le sigle di riferimento delle istituzioni sono seguite dalle segnature (si adotta l’abbreviazione “b.” per busta).
- Bentoglio 1995
A. Bentoglio (a cura di), Gianfranco de Bosio e il suo teatro. Settimana del teatro (26-30 aprile 1993), Roma 1995. - Bignone 1936-1938
Le tragedie di Sofocle, tradotte in versi italiani da E. Bignone, Firenze 1936-1938, 4 voll. - Bignone 1939
Le tragedie di Eschilo, tradotte in versi italiani da E. Bignone, Firenze 1939, 2 voll. - Bordignon 2012
G. Bordignon, “Musicista, poeta, danzatore e visionario”. Forma e funzione del coro negli spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa (1914-1948), “Quaderni di Dioniso” 3 (2012). - Canfora 2019
L. Canfora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Roma-Bari 2019. - Centanni, Sacco 2023
M. Centanni, D. Sacco, Una presentazione dello spettacolo, in Lorenzo Tombesi e Erica Nava (PEM), Sette a Tebe: una dichiarazione necessaria, di amore e di guerra. Teatro Olimpico di Vicenza, LVI Ciclo di Spettacoli classici (2023). Sette a Tebe, regia di Gabriele Vacis / PEM, “La Rivista di Engramma” 205 (settembre 2023), 227-232. - De Luca 1979
I. De Luca (a cura di), C. Marchesi, Quaranta lettere a Manara (e a Erse) Valgimigli, con quattro lettere di M. Valgimigli, Milano 1979. - Gigante 1976
M. Gigante (a cura di), B. Croce-M. Valgimigli, Carteggio, Napoli 1976. - Marini, Raffaelli 2005
S. Marini, A. Raffelli (a cura di), B. Tecchi-M. Valgimigli, Epistolario, Firenze 2005. - Nogara 1972
G. Nogara, Cronache degli spettacoli nel Teatro Olimpico di Vicenza dal 1585 al 1970, Vicenza 1972. - Pieraccioni 1979
D. Pieraccioni (a cura di), M. Valgimigli, L’apollineo Ettore Bignone, in “Belfagor” XXXIV/1 (1979), 67-71. - Ricci 1925
Eschilo, I Sette contro Tebe, traduzione di D. Ricci, Livorno 1925. - Ricci 1930
Le tragedie di Eschilo, tradotte da D. Ricci, Lanciano 1930-1931, 4 voll. (per i Sette contro Tebe, II, 1-84). - Raimondi 1993
E. Raimondi, Ritorno a Valgimigli, in A. Catania, R. Greggi (a cura di), Le opere e i giorni di Manara Valgimigli, Classicità e umanesimo nella cultura italiana del Novecento, Bologna 1993, 13-16. - Romagnoli 1909
Le commedie d’Aristofane, tradotte in versi italiani da E. Romagnoli, Torino 1909. - Romagnoli 1917
E. Romagnoli, La diffusione della cultura classica, in Id., Vigilie italiche, Milano 1917, 65-140. - Romagnoli 1921-1931
Eschilo, Tragedie, 2 voll.; Sofocle, Tragedie, 3 voll; Euripide, Tragedie, 5 voll., Bologna 1921-1931 (“I poeti greci tradotti da E. Romagnoli”). - Simone 2020
M.R. Simone, Dalle Coefore alle Delfiche. Gianfranco de Bosio e il Teatro dell’Università di Padova, in “Il castello di Elsinore” XXXIII/82 (2020), 63-88. - Stefani 1980
A. Stefani (a cura di), Edipo re di Sofocle, nella traduzione di Manara Valgimigli del 1939 per uno spettacolo non rappresentato nel Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza 1980. - Tellini 2010
G. Tellini, Le tre “Medee” di Sarah Ferrati. Con lettere inedite, in “Annali dell’Università degli Studi di Firenze. Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo” XI (2010), 130-178. - Valgimigli 1904
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Aristotele, Poetica, traduzione, note e introduzione di M. Valgimigli, Bari 1916. - Valgimigli 1924
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Eschilo, Le Coefore, traduzione e commentario critico di M. Valgimigli, Bari 1926. - Valgimigli 1931
Platone, Dialoghi (Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Cratilo, Teeteto), tradotti da M. Valgimigli, Bari 1931. - Valgimigli 1937
[M. Valgimigli], I Sette a Tebe di Eschilo. Premessa alla rappresentazione, Vicenza 1937. - Valgimigli 1942
M. Valgimigli, Nota su l’Edipo re di Sofocle, in “Dioniso” IX/1 (1942), 32-34. - Valgimigli [1942] 1968
M. Valgimigli, Saffo e altri lirici greci [prima ed. Vicenza 1942], Milano 1968 (con nuovo titolo: Saffo, Archiloco e altri lirici greci). - Valgimigli 1948
Eschilo, La Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi), traduzione di M. Valgimigli, Firenze 1948. - Valgimigli 1964
M. Valgimigli, Poeti e filosofi di Grecia, Firenze 1964, 2 voll. - Zoboli 2004
P. Zoboli, La rinascita della tragedia. Le versioni dei tragici greci da d’Annunzio a Pasolini, Lecce 2004.
English abstract
By consulting documents from the archives of Archivio Storico dell’Accademia Olimpica (Vicenza), Museo Biblioteca dell’Attore (Genova), and Istituzione Biblioteca Classense (Ravenna), the essay reconstructs the staging of Aeschylus’ Seven against Thebes at the Teatro Olimpico in 1937. Starting from the scripts, and through the correspondence between Manara Valgimigli, Antonio Dalla Pozza, and Guido Salvini, the research focuses especially on the stage adaptation of Domenico Ricci’s translation by Manara Valgimigli.
keywords | Seven against Thebes; Manara Valgimigli; Teatro Olimpico; Domenico Ricci; Guido Salvini.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Marinoni, Tra le carte dei Sette contro Tebe. La messinscena del 1937 nei documenti d’archivio, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024