"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

215 | agosto 2024

97888948401

Il nomen Alexandri tra Giustino, Trogo, Livio e Timagene

Michele Nardelli

English abstract

Alessandro conquista l’Asia Minore (Iust. XI 6, 5). Ritaglio del manoscritto Vaticanus latinus 1860, f. 161 v. (copiato nel 1313).

Introduzione

Tema centrale nella descrizione di Alessandro Magno nell’Epitome di Giustino è l’impatto che il semplice nomen del Macedone ha sullo svolgimento della storia: un tema che emerge a livello testuale in più passi dell’opera, non necessariamente tratti dai libri XI e XII, incentrati sulle gesta del Macedone. Il nomen Alexandri suscita reazioni diverse in chi lo ascolta, e ora costituisce un sicuro punto di riferimento per aspiranti eredi al trono, ora suscita un terrore irrazionale in popoli che lo devono fronteggiare. L’obiettivo del presente articolo è quello di passare in rassegna le occorrenze di tale nomen nell’epitome di Giustino, al fine di individuare alcuni elementi contenutistici e stilistico-formali da riferire con ogni probabilità alla penna di Pompeo Trogo. In secondo luogo, è proposto un confronto tra due loci di Giustino (Iust. XI, 6.5 e XII, 13.1-3) e la pubblicistica relativa alla ‘vittoria pacifica’ di Augusto sui Parti, per avanzare un’ipotesi sul contesto culturale che potrebbe aver influenzato Trogo in questi passi delle Storie filippiche. Allo stesso milieu andrebbe infine riferita la nota polemica liviana contro i levissimi ex Graecis, alla quale è dedicata l’ultima parte del contributo.

Il nomen Alexandri nell’opera di Giustino

L’idea per cui un nomen di un eroe fosse sufficiente a volgere in fuga un avversario o a sbaragliare un esercito è un topos retorico che ebbe particolare fortuna in età imperiale nell’ambito dell’oratoria epidittica e nella produzione panegiristica (Oakley 1997, 408 e Atkinson 1998, 448), con importanti riflessi sulla storiografia su Alessandro[1]. Nell’Epitome giustinea, nessun altro nomen evocato dall’autore gode della stessa ricorsività di quello di Alessandro. Si tratta per lo più di casi isolati, come si legge nel libro V a proposito di Alcibiade, intervenuto in soccorso delle città ioniche contro Atene (412 a.C.):

Alcibiades quoque motum adversus patriam bellum non gregarii militis opera, sed imperatoris virtutibus adiuvat; quippe acceptis V navibus in Asiam contendit et tributarias Atheniensium civitates auctoritate nominis sui ad defectionem conpellit. (Iust. V, 2.2)

Anche Alcibiade diede un contributo alla guerra che veniva mossa contro la sua stessa patria, non militando come soldato semplice, ma con le sue doti di generale. Infatti, ottenuto il comando di cinque navi, andò in Asia e con il prestigio del suo nome, istigò alla rivolta le città tributarie degli Ateniesi.

Il nomen Alexandri compare per la prima volta nel libro XI, in riferimento alla rapida conquista dell’Asia Minore all’indomani della vittoria del Granico[2]:

Post victoriam maior pars Asiae ad eum defecit. Gessit et plura bella cum praefectis Darii, quos iam non tam armis quam terrore nominis sui vicit. (Iust. XI, 6.5)

Dopo quella vittoria [sc. del Granico], la maggior parte dell’Asia Minore passò dalla sua parte. Fece anche non poche guerre contro i satrapi di Dario, che a quel punto vinse non tanto con le armi, quanto col terrore del suo nome.

L’espressione terror nominis Alexandri riecheggia la definizione di terror gentium con la quale l’autore descrive il re Serse in apertura del libro III:

Xerxes, rex Persarum, terror antea gentium, bello in Graecia infeliciter gesto etiam suis comtemptui esse coepit. (Iust. III, 1.1)

Serse, re dei Persiani, un tempo terrore dei popoli, per aver malamente gestito la guerra in Grecia iniziò ad essere disprezzato anche dai suoi.

Nell’immaginario di Trogo il terror è dunque prima di tutto uno strumento di potere fondato sull’invincibilità militare, con il quale il re di Persia, e successivamente Alessandro, controllano i popoli dell’Asia. Inoltre, il riferimento al nomen Alexandri è inserito in una sezione particolarmente celebrativa nei riguardi del Macedone, come si evince da numerosi elementi testuali. Il locus giustineo segue infatti immediatamente la descrizione della battaglia del Granico, cioè la prima grande battaglia combattuta dai Macedoni sul suolo persiano. Nel racconto di Giustino la vittoria è attribuita a due fattori, cioè all’abilità di Alessandro (ars Alexandri) ed al valore dimostrato dai suoi soldati (virtus Macedonum). Non viene invece fatto cenno ad alcuno dei suoi compagni, né in particolare a Parmenione, che, come concorda il resto della tradizione antica (Diodoro, Plutarco e Arriano), svolse un ruolo decisivo nell’ideazione della strategia militare, nonché nella conduzione effettiva della battaglia. L’isolamento del sovrano macedone ne accresce i meriti sul campo di battaglia e lo rende il vero protagonista della vittoria del Granico (Bosworth 1993, 114-6; Prandi 2013, 25-30 e Goukowsky 2022, 33-40). Con lo stesso tono elogiativo l’autore menziona nel prosieguo del passo i provvedimenti generosi con cui Alessandro volle onorare le salme dei compagni caduti, destinando loro una sepoltura sontuosa e una statua equestre, e concedendo esenzioni fiscali ai parenti delle vittime (cfr. Iust. XI, 6.12-13).

A distanza di un libro il nomen Alexandri è inserito nel contesto delle ambasciate che da tutto il mondo arrivarono a Babilonia, per rendere omaggio al sovrano macedone:

Ab ultimis litoribus Oceani Babyloniam revertenti nuntiatur legationes Karthaginiensium ceterarumque Africae civitatium, sed et Hispaniarum, Siciliae, Galliae, Sardiniae, nonnullas quoque ex Italia adventum eius Babyloniae opperiri. Adeo universum terrarum orbem nominis eius terror invaserat, ut cunctae gentes velut destinato sibi regi adularentur. Hac igitur ex causa Babyloniam festinanti, velut conventum terrarum orbis acturo, quidam ex magis praedixit, ne urbem introiret, testatus hunc locum ei fatalem fore. (Iust. XII, 13.1-3)

Mentre ritornava a Babilonia dai più lontani lidi dell’Oceano, gli fu annunciato che a Babilonia il suo arrivo era atteso da ambascerie dei Cartaginesi, di altre città dell’Africa, ma anche della Spagna, Sicilia, Gallia, Sardegna e anche alcune dell’Italia. Il terrore del suo nome aveva tanto invaso tutta la terra, che ogni popolo lo adulava come un re a lui predestinato. Poiché per questo motivo egli si affrettava verso Babilonia come se stesse per tenere un’assemblea di tutto il mondo, uno dei magi lo avvertì di non entrare in città, dopo aver affermato che quel luogo sarebbe stato per lui fatale.

L’episodio costituisce il culmine del prestigio internazionale guadagnato da Alessandro al termine della spedizione in Asia[3]. Da un punto di vista letterario, va sottolineato innanzitutto il respiro cosmico della narrazione giustinea, individuabile in alcune scelte contenutistiche e formali:

• Nel testo si legge che Alessandro sta tornando a Babilonia dalle regioni più estreme dell’Oriente antico (ab ultimis litoribus Oceani), e riceve la notizia di ambascerie provenienti da tutto l’Occidente mediterraneo, cioè dall’Africa, dall’Iberia, dalla Gallia e dall’Italia. Secondo una prospettiva originale rispetto agli altri storici di Alessandro, l’autore riunisce in un’unica frase l’Oriente, assoggettato interamente dal Macedone e di cui si è occupato nei paragrafi precedenti, e l’Occidente, composto dai popoli che accorrono a adularlo, spaventati dalla grandezza delle sue imprese. Nel giro di poche parole Giustino abbozza, cioè, una carta geografica del mondo antico, mostrando al lettore la mondialità del potere raggiunto dal sovrano in soli dieci anni di spedizione.

• A livello lessicale, l’autore sottolinea da un lato la paura irrazionale che aveva invaso tutto il mondo in seguito alle vittorie ottenute in Asia (universum terrarum orbem), dall’altro l’aspettativa di Alessandro di tenere un’assemblea di tutto il mondo (conventum terrarum orbis acturo). Nel testo giustineo l’espressione enfatica universus terrarum orbs ricorre soltanto in un altro passo delle res Alexandri, in riferimento alla vastità delle conquiste ottenute dal Macedone, cui l’autore contrappone l’esiguità dell’esercito con cui egli era sbarcato in Asia.

Nella prospettiva di Giustino, Alessandro è diventato padrone del mondo, o forse lo sarebbe stato se non fosse rientrato a Babilonia, avverando così le profezie di sventura dei Magi. Inoltre, il terrore suscitato dalla fama di Alessandro richiama il terror che, all’inizio della spedizione, aveva spinto i popoli dell’Asia Minore a consegnarsi a lui quasi senza combattere. Un richiamo che non solo sancisce una chiusura ad anello del racconto delle res Alexandri in Giustino, ma che al contempo va letto come amplificazione e celebrazione del potere raggiunto da Alessandro al termine della spedizione in Oriente: il terrore che ha vinto i popoli dell’Asia Minore all’indomani della battaglia del Granico è diventato nel 323 a.C. una paura irrazionale che ha invaso tutto il mondo, inducendo all’adulazione tutti i popoli non conquistati dal Macedone. La forza del terrore mondiale di Alessandro è sottolineata dalla scelta lessicale del verbo invadere in riferimento al terror: nell’epitome tale verbo è utilizzato nella stessa accezione semantica soltanto in riferimento alla follia che aveva spinto i Galli di Brenno a devastare le terre conquistate, senza risparmiare donne e bambini (Iust. XXVI, 2, 3), e ai tormenti che assillavano il re Orode nella scelta del successore al trono del regno partico (Iust. XLII, 4.14). Contestualmente, mi sembra di cogliere un’amplificazione anche nel metro di paragone con il quale è misurata la paura del nome di Alessandro: se in Iust. XI, 6.5 l’autore sottintende che almeno alcune città avrebbero tentato una pur debole resistenza all’avanzata macedone, in Iust. XII, 13.1-3 i popoli del mondo assumono invece un atteggiamento remissivo e adulatorio, senza nemmeno considerare la via delle armi.

Allo stesso episodio si riferisce un passo delle res Karthaginiensium, nel quale l’autore mette a fuoco le ragioni e gli obiettivi della missione diplomatica cartaginese:

Inter haec Karthaginienses tanto successu rerum Alexandri Magni exterriti, verentes, ne Persico regno et Africum vellet adiungere, mittunt ad speculandos eius animos Hamilcarem cognomento Rodanum, virum sollertia facundiaque praeter ceteros insignem. Augebant enim metum et Tyros, urbs auctorum originis suae, capta et Alexandria aemula Karthaginis in terminis Africae et Aegypti condita et felicitas regis, apud quem nec cupiditas nec fortuna ullo modo terminabantur. (Iust. XXI, 6.1-4)

Nel frattempo, i Cartaginesi, spaventati dall’enorme successo delle imprese di Alessandro Magno, temendo che al dominio sui Persiani volesse aggiungere anche quello dell’Africa, mandarono a indagarne i progetti Amilcare, detto Rodano, il migliore di tutti per sagacia ed eloquenza. La loro preoccupazione era accresciuta dalla conquista di Tiro, la città dei loro fondatori, dalla nascita sui confini dell’Africa e dell’Egitto di Alessandria, rivale di Cartagine e dal successo del re, la cui ambizione e buona sorte non conoscevano limiti.

La reazione di Cartagine alla notizia delle vittorie di Alessandro è descritta da Trogo in termini di terror e metus, esattamente come si era letto in Iust. XII, 13.1-3. In questa sede sono però approfondite le ragioni del timore del popolo punico: accanto alla felicitas del re macedone, vero Leitmotiv dell’avanzata macedone in Oriente in tutta la tradizione antica, è menzionata la conquista di Tiro, di cui Cartagine fu un tempo colonia, e la costruzione della città di Alessandria non lontano dal confine africano dell’impero macedone.

Un’ultima descrizione del terrore provocato dal nomen Alexandri compare nella risposta che gli Etoli rivolsero agli ambasciatori romani, che intimavano loro di togliere i presidi dalle città dell’Acarnania:

Solos denique esse, qui Macedonas imperio terrarum semper florentes contempserint, qui Philippum regem non timuerint, qui Alexandri Magni post Persas Indosque devictos cum omnes nomen eius horrerent, edicta spreverint. (Iust. XXVIII, 2.12)

In fin dei conti [sc. gli Etoli] erano i soli ad aver disprezzato i Macedoni, anche quando il loro impero era all’apice, a non aver temuto il re Filippo e ad aver spregiato gli editti di Alessandro Magno dopo la vittoria sui Persiani e sugli Indi, quando tutti tremavano al suo nome.

L’insistenza sul tema del timore nei confronti della monarchia macedone, e in particolare di Alessandro, è coerente con quanto espresso nei libri XI e XII in merito al terror nominis Alexandri. A livello linguistico, il passo citato permette inoltre di osservare un diverso impatto emotivo che i due sovrani macedoni provocarono sui popoli conquistati: se Filippo fu oggetto di timore (timeo) da parte degli altri popoli, Alessandro o, meglio, il nome di Alessandro, era capace di far tremare (horreo) chiunque. Mentre il verbo timeo ricorre molto spesso nel testo dell’epitome (38 volte totali), il verbo horreo nell’opera è un hapax e può essere accostato alla sfera semantica del terror, già individuata nei passi dell’epitome sin qui esaminati (XI, 6.15; XII, 13.1-3 e XXI, 6.1-4).

Se in terra straniera il nomen Alexandri suscitò un sentimento di terrore, una paura irrazionale che spinse popoli anche illustri a adularlo, in territorio greco invece il richiamo al nome del sovrano venne prima di tutto associato alla maiestas regale e al prestigio del re agli occhi del popolo macedone e di chi voleva succedere al trono del sovrano. Nel libro XIV, nell’ambito delle guerre tra i diadochi, è descritta nei seguenti termini l’ambasciata di Eumene a Sardi presso la sorella di Alessandro, Cleopatra:

Inde Sardas profectus ad Cleopatram, sororem Alexandri Magni, ut eius voce centuriones principalesque confirmarentur, existimaturos ibi maiestatem regiam verti, unde soror Alexandri staret. Tanta veneratio magnitudinis Alexandri erat, ut etiam per vestigia mulierum favor sacrati eius nominis quaeretur. (Iust. XIV, 1.7-8)

Quindi partì per Sardi alla volta di Cleopatra, sorella di Alessandro Magno, per confermare con la propria voce gli animi dei centurioni e degli alti ufficiali, dal momento che costoro avrebbero ritenuto che la maestà regale stesse là dove si trovava la sorella di Alessandro. Tanta era la venerazione per la grandezza di Alessandro che si ricercava il favore del suo sacro nome anche nel ricordo lasciato nelle donne.

Il legame inscindibile tra il nomen Alexandri e il titolo regale è ribadito a poche pagine di distanza, laddove l’autore illustra la decisione dei diadochi di non assumere il titolo regale fino a che non fosse in vita un legittimo erede di Alessandro (in tal caso, il figlio Ercole):

Quibus auditis Cassander et Lysimachus et ipsi regiam sibi maiestatem vindicaverunt. Tanta in illis verecundia erat, ut cum opes regias haberent, regum tamen nominibus aequo animo caruerint, quoad Alexandro iustus heres fuit. (Iust. XV, 2.14)

Venuto a sapere ciò [sc. l’assunzione del titolo di re da parte di Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete], anche Cassandro e Lisimaco rivendicarono per sé la maestà regale. In loro vi era tanto rispetto che, quantunque avessero potere regale, tuttavia di buon grado evitarono il nome di re fino a quando fu in vita un legittimo erede di Alessandro.

Alla sacralità dei nomi di Alessandro e di Filippo si appella infine il popolo macedone a distanza di qualche decennio per scongiurare il pericolo dei Galli, scesi in Grecia al seguito di Belgio e vittoriosi sull’esercito del Cerauno (279 a.C.):

Haec cum nuntiata per omnem Macedoniam essent, portae urbium clauduntur, luctu omnia replentur: nunc orbitatem amissorum filiorum dolebant, nunc excidia urbium metuebant, nunc Alexandri Philippique, regum suorum, nomina sicuti numina in auxilium vocabant; sub illis se non solum tutos, verum etiam victores orbis terrarum extitisse; ut tuerentur patriam suam, quam gloria rerum gestarum caelo proximam reddidissent, ut opem adflictis ferrent, quos furor et temeritas Ptolemei regis perdidisset, orabant. (Iust. XXIV, 5.8)

Quando queste notizie si diffusero per tutta la Macedonia, le porte della città furono chiuse e ogni luogo si riempì di lutto: ora piangevano il vuoto lasciato dai figli caduti, ora temevano la distruzione delle loro città, ora invocavano in aiuto come numi i nomi dei loro re, Alessandro e Filippo. Sotto il loro regno, non soltanto i Macedoni erano stati al sicuro, ma erano anche diventati i vincitori del mondo. Li pregavano di proteggere la loro patria, resa quasi divina con la gloria delle loro gesta, e di portare aiuto agli afflitti, condotti alla rovina dal furore e dalla sconsideratezza del re Tolomeo.

Le gesta dei due sovrani vengono accomunate in virtù del comune merito di aver reso la patria proxima caelo, ma ad Alessandro soltanto è riferita la frase per cui i Macedoni sarebbero diventati victores orbis terrarum.

Dalla rassegna dei passi analizzati è possibile tracciare un profilo della fortuna del nomen Alexandri nell’opera giustinea, aggiungendo il caveat che una valutazione definitiva non è possibile, vista la natura compendiata del testo originale. I passi presi in esame rivelano una profonda coesione interna e uniformità di giudizio sul tema del nome di Alessandro, da ascrivere molto probabilmente all’autore delle Storie Filippiche:

• In patria il nomen Alexandri fu associato ben presto alla maestà del titolo regale, al punto che chiunque fosse parente di sangue del re era considerato come partecipe del prestigio del sovrano. Al contempo, il nome fu oggetto di sacralizzazione e di venerazione da parte del popolo macedone, che almeno in un’occasione si appellò ad Alessandro e al padre Filippo come a dei numi tutelari della patria.

• In terra straniera il nome del Macedone causò una paura irrazionale, un terror che indusse i popoli dell’Asia Minore a consegnarsi a lui quasi senza combattere, e che dieci anni dopo spinse i popoli di tutto il mondo a inviargli ambasciate per adularlo e assicurarsene il favore. Dietro a tale sentimento si intravvedono almeno in un caso delle serie preoccupazioni di politica estera: il popolo cartaginese scelse infatti di inviare un proprio ambasciatore per spiare i piani di Alessandro sia per timore della buona sorte del sovrano, che sembrava non conoscere stravolgimenti, sia per paura della posizione strategica di Alessandria, costruita in terminis Africae.

Inoltre, dal punto di vista stilistico, si è potuto cogliere almeno in due passi un’attenzione compositiva e una notevole padronanza dei mezzi retorici, volti ad amplificare la celebrazione del nomen Alexandri. L’espressione terror nominis Alexandri è infatti collocata rispettivamente all’inizio e alla fine del resoconto sulle gesta di Alessandro Magno, e nella sua seconda occorrenza risulta amplificata sia a livello espressivo, nella scelta del lessico e dello stile, sia a livello contenutistico, cioè in riferimento alla mondialità del potere acquisito dal Macedone, contrapposta ai confini più ristretti dell’Asia Minore. Anche in questo caso, mi sembra molto più probabile – ed economico – riferire tali elementi alla penna di Pompeo Trogo, la cui prisca eloquentia è motivo di lode da parte del suo epitomatore (cfr. Hoffmann 2018, 29-41; Borgna 2018, 25-30 e Mineo 2020, 150 n. 23-5), che non ad un abbellimento letterario posteriore, operato da Giustino (sul suo lavoro di epitomatore, si veda Mineo 2016, LIX-LX; Borgna 2018, 49-72 e Hoffmann 2018, 79-84).

Dal nomen Alexandri al nomen Gallicum nell’epitome di Giustino

La reazione di terror provocata dal nomen Alexandri può essere confrontata con quanto l’autore riferisce in merito all’avanzata dei Galli nella penisola balcanica (Iust. XXIV, 6). Dopo aver illustrato la migrazione ‘sacra’ di trecentomila Galli, che all’alba del IV secolo a.C. partirono dalla Gallia per insediarsi parte in Italia parte nella penisola balcanica, l’autore coglie l’occasione per fornirne una breve descrizione etnografica:

Gens aspera, audax, bellicosa, quae prima post Herculem, cui ea res virtutis admirationem et inmortalitatis fidem dedit, Alpium invicta iuga et frigore intractabilia loca transcendit. Ibi domitis Pannoniis per multos annos cum finitimis varia bella gesserunt. Hortante deinde successu divisis agminibus alii Graeciam, alii Macedoniam omnia ferro prosternentes petivere, tantusque terror Gallici nominis erat, ut etiam reges non lacessiti ultro pacem ingenti pecunia mercarentur. (Iust. XXIV, 4.4-7)

Era un popolo feroce, audace, bellicoso, il primo ad attraversare i gioghi invalicabili delle Alpi e i luoghi inabitabili per il freddo dopo Ercole, a cui quest’impresa procurò ammirazione per il suo valore e fiducia nella sua immortalità. Lì, sottomessi gli abitanti della Pannonia, per molti anni fecero diverse guerre contro i popoli confinanti. Poi, incoraggiati dai loro successi, dopo aver diviso gli eserciti, una parte si diresse verso la Grecia, una parte verso la Macedonia, abbattendo ogni cosa con le armi. Tanto grande era il terrore suscitato dal nome dei Galli, che anche i re che non venivano attaccati andavano di propria iniziativa a comprare la pace a caro prezzo.

Dopo aver descritto il popolo dei Galli con gli attributi asper, audax e bellicosus, in linea con le qualità comunemente loro attribuite dalla tradizione antica (cfr. ad esempio Diod. V, 31.3-4; 32.6 e Strab. Geog. IV, 4.5), Giustino si sofferma su due momenti significativi della loro migrazione, cioè l’attraversamento delle Alpi e l’invasione della Macedonia. Nel primo caso, l’impresa gallica è messa a confronto con il celebre viaggio di Ercole, dall’Iberia all’Italia. Posto che all’eroe greco “questa impresa procurò ammirazione per il valore e fiducia nella sua immortalità”, il primato dei Galli non può che essere letto in chiave celebrativa da parte dell’autore (cfr. Yardley, Heckel 1997, 29).

La seconda tappa della migrazione è l’invasione della Macedonia: la paura irrazionale (terror) suscitata dal nomen Gallicum riecheggia il già citato terrore suscitato dal nomen Alexandri in Iust. XI, 6.15 e XII, 13.1-3 (sul confronto tra i passi, cfr. Urban 1982, 1424-43; Yardley, Heckel 1997, 28-9 e Prandi 2015, 11 n. 3). Il legame tra la vicenda gallica e i due passi delle res Alexandri è peraltro rafforzato dal contesto geografico di tale passo, cioè la Macedonia: non è dunque un caso che la paura suscitata dagli invasori gallici nella terra natale di Alessandro ricordi nel testo dell’Epitome il prestigio e il terrore suscitato sui popoli da lui sconfitti. Da ultimo si può osservare una somiglianza nella descrizione degli effetti del terrore suscitato dal nomen del nemico: se i popoli dell’Asia e del mondo intero non imbracciano nemmeno le armi per contrastare il Macedone, i re locali della Grecia inviano ai Galli ingenti ricchezze per evitare di combattere, ed essere risparmiati dalla furia gallica.

A distanza di un libro, nella chiusa della sezione dedicata alle guerre e alle migrazioni dei Galli in Asia Minore, Giustino evoca il terrore ispirato dal nomen Gallicum, dopo la descrizione della battaglia di Lisimachia (277 a.C.), vinta da Antigono Gonata contro i Galli (Santi Amantini 1981, 409-10 n. 2 e Mineo 2020, 166):

Quamquam Gallorum ea tempestate tantae fecunditatis iuventus fuit, ut Asiam omnem velut examine aliquo inplerent. Denique neque reges Orientis sine mercennario Gallorum exercitu ulla bella gesserunt, neque pulsi regno ad alios quam ad Gallos confugerunt. Tantus terror Gallici nominis et armorum invicta felicitas erat, ut aliter neque maiestatem suam neque amissam recuperare se posse sine Gallica virtute arbitrarentur. Itaque in auxilium a Bythiniae rege invocati regnum cum eo parta victoria diviserunt eamque regionem Gallograeciam cognominaverunt. (Iust. XXV, 2.8-11)

Eppure, a quel tempo la gioventù gallica era tanto prolifica da riempire come uno sciame tutta l’Asia. In fin dei conti i re d’Oriente non condussero alcuna guerra senza un esercito mercenario di Galli, né – se scacciati dal loro regno – ricorsero ad altri se non ai Galli. Tanto grande era il terrore suscitato dal nome dei Galli e il costante successo delle loro armi, che ritenevano di non poter difendere altrimenti la propria maestà né – una volta perduta – di poterla recuperare senza il valore dei Galli. E così, chiamati in aiuto dal re di Bitinia, ottenuta la vittoria, spartirono con lui il regno e chiamarono quella regione Gallogrecia.

Come è stato giustamente osservato, l’elogio finale della virtus militare dei Galli contraddice il resoconto della rovinosa sconfitta di Lisimachia, culminata nella strage dello stesso popolo (Muccioli 2016, 108; Zecchini 2020, 167 e Landucci 2020, 109-11); come spesso accade nell’Epitome, il filo logico della narrazione originale è stato cancellato dai tagli e dalle giustapposizioni operate da Giustino (Mineo 2020, 167). Dal punto di vista letterario si possono osservare due elementi: la ripresa ad anello del tema del terrore ispirato dal nomen Gallicum sui popoli macedoni evocati in Iust. XXIV, 4.7; l’amplificazione di tale concetto, attraverso la menzione dell’armorum invicta felicitas, cioè la costante buona fortuna sul piano militare. Tali espedienti stilistici mirano a celebrare il carattere e l’invincibilità del popolo gallico, in una sezione che doveva essere particolarmente importante nell’economia generale dell’opera (Yardley, Heckel 1997, 28-9, Muccioli 2016, 108-9).

La collocazione dei due passi all’inizio e alla fine delle res Gallorum acquista maggiore rilievo se messa a paragone con la collocazione dei due passi citati sul terrore ispirato dal nome di Alessandro. Si è rilevato infatti come l’espressione terror nominis Alexandri ricorra rispettivamente all’inizio alla fine della spedizione macedone in Asia. Si è anche detto come l’invincibilità militare dell’esercito macedone fosse strettamente legata al sentimento di terrore suscitato dal nome di Alessandro. La simmetria compositiva delle due sezioni, nonché il recupero degli stessi elementi celebrativi, suggeriscono che l’autore, nella stesura delle res Gallorum, abbia attinto agli stessi topoi retorici utilizzati nei libri dedicati alle res Alexandri. Lo storico avrebbe, cioè, costruito il mito dell’invincibilità dei Galli attingendo a motivi e ad un linguaggio usato già collaudato per la descrizione dell’impresa asiatica di Alessandro.

In conclusione, è possibile sostenere che un’analisi linguistica dell’espressione terror Gallici nominis permetta di intravvedere il giudizio positivo di Pompeo Trogo nei confronti dei Galli, nonché soprattutto il suo tentativo di costruire il mito della loro invincibilità militare sulla base del paragone con Alessandro, attraverso la ripresa di un topos retorico e di una struttura compositiva già collaudate (Seel 1972, 7-79 e Yardley, Heckel 1997, 29; contra Urban 1982, 1424-43 e Borgna 2018, 196 n. 85). Tale è il giudizio di un autore originario della Narbonese ed educato alla prisca eloquentia greco-romana, che aveva senz’altro interesse a dare centralità alla storia dei Galli nel quadro della sua storia universale[4].

Il nomen Alexandri nella Roma di Augusto

Si richiama in questa sede un passo del libro XLII dell’Epitome, in cui Trogo riprende il tema del nomen di Augusto per celebrare i successi diplomatici ottenuti con Fraate, re dei Parti:

Itaque tota Parthia captivi ex Crassiano sive Antoni exercitu recollecti signaque cum his militaria Augusto remissa. Sed et filii nepotesque Phrahatis obsides Augusto dati, plusque Caesar magnitudine nominis sui fecit, quam armis facere alius imperator potuisset. (Iust. XLII, 5.12)

E così in tutta la Partia furono recuperati i prigionieri dell’esercito di Crasso o di Antonio, e insieme con questi vennero rimandate ad Augusto anche le insegne militari. Nondimeno furono consegnati ad Augusto anche i figli e i nipoti di Fraate e Cesare fece di più con la grandezza del suo nome di quanto un altro condottiero avrebbe potuto ottenere con le armi.

La restituzione delle insegne sottratte nella battaglia di Carre e la consegna dei figli del re partico come ostaggi sono qui celebrate da Trogo come una “vittoria pacifica”, in linea con l’iconografia e la monetazione di età augustea (Borgna 2015, 107-8): tale consonanza, sulla quale si tornerà in seguito, è addotta dagli studiosi come prova della paternità troghiana del passo e costituirebbe l’unico vero appiglio storico per datare la stesura delle Storie Filippiche (Santi Amantini 1981, 556 n. 6; Borgna 2015, 107-8 e Mineo 2020, 255-6).

Il passo presenta numerosi punti di contatto con Iust. XI, 6.15, relativo alle vittorie in Asia Minore di Alessandro, come emerge dalla contrapposizione tra il nomen di Augusto e di Alessandro e le armi usate in battaglia:

Iust. XI, 6.15: Gessit et plura bella cum praefectis Darii, quos iam non tam armis quam terrore nominis sui vicit.

Iust. XLII, 5.12: Sed et filii nepotesque Phrahatis obsides Augusto dati, plusque Caesar magnitudine nominis sui fecit, quam armis facere alius imperator potuisset.

In secondo luogo, i due loci sono collocati al termine di due capitoli particolarmente celebrativi delle res Alexandri e delle res Parthicae: da un lato il terrore del nome di Alessandro costituisce – come si è detto – l’epilogo della trionfale battaglia del Granico, dall’altro l’elogio del genio diplomatico di Augusto costituisce l’epilogo della lunga sezione dedicata alla storia dei Parti (libri XLI-XLII). In particolare, il nome del sovrano macedone, di cui Trogo ha appena decantato le qualità e la leadership in battaglia, è sovrapponibile alla grandezza del nome di Augusto, di cui sono descritte la furbizia e l’intelligenza nella conduzione delle trattative con il re Fraate (cfr. Iust. XLII, 5.5-11).

Ora, in Iust. XLII, 5.12, Trogo celebra la grandezza del nomen di Augusto, colui che aveva stretto l’alleanza politica con i Parti, ricevendo le insegne strappate in battaglia (20 a.C.) e successivamente i figli e i nipoti del re Fraate IV come ostaggi (intorno al 10 a.C.) (Pani 1972, 26-30). L’opposizione tra le armi di chi ha combattuto i Parti e la diplomazia condotta brillantemente dal princeps è tema ricorrente, in modi e forme diverse, nella pubblicistica del tempo. Tra le fonti letterarie, gli ipsissima verba dell’imperatore rappresentano al meglio l’immagine di garante della pace internazionale che egli voleva veicolare attraverso la propaganda ufficiale. In un passo delle Res gestae egli insiste sui risultati ottenuti in Oriente senza mai impegnarsi in guerra con Fraate IV:

Ad me rex Parthorum Phrates, Orodi filius, filios suos nepotesque omnes misit in Italiam non bello superatus, sed amicitiam nostram per liberorum suorum pignora petens. (Aug. RG, 32.2)

A me il re dei Parti Fraate, figlio di Orode, mandò in Italia i suoi figli e tutti i nipoti, senza essere stato vinto in guerra, ma per domandare la nostra amicizia offrendo come ostaggi i propri figli.

Il motivo del Parto che chiede l’amicizia ad Augusto in atto di supplica è ben attestato nella poesia del tempo[5]. Sul versante della prosa, il servilismo del re partico nei confronti di Augusto è messo a fuoco da Strabone, in una pagina particolarmente benevola nei confronti di Roma[6]:

Παρθυαῖοι δὲ ὅμοροί τε ὄντες καὶ μέγιστον δυνάμενοι τοσοῦτον ὅμως ἐνέδοσαν πρὸς τὴν Ῥωμαίων καὶ τῶν καθ’ ἡμᾶς ἡγεμόνων ὑπεροχὴν ὥστ’οὐ μόνον τὰ τρόπαια ἔπεμψαν εἰς Ῥώμην ἃ κατὰ Ῥωμαίων ἀνέστησάν ποτε, ἀλλὰ καὶ παῖδας ἐπίστευσε Φραάτης τῷ Σεβαστῷ Καίσαρι καὶ παίδων παῖδας ἐξομηρευσάμενος θεραπευτικῶς τὴν φιλίαν· οἱ δὲ νῦν μετίασιν ἐνθένδε πολλάκις τὸν βασιλεύσοντα, καὶ σχεδόν τι πλησίον εἰσὶ τοῦ ἐπὶ Ῥωμαίοις ποιῆσαι τὴν σύμπασαν ἐξουσίαν. (Strab. Geog. VI, 4.2)

I Parti stessi, benché fossero al confine con l’impero romano e benché avessero una grandissima potenza militare, fecero tuttavia tante concessioni alla potenza dei Romani e dei sovrani miei contemporanei che non solo inviarono a Roma i trofei che avevano un tempo innalzato contro i Romani stessi, ma Fraate affidò i suoi figli e i suoi nipoti a Cesare Augusto, per assicurarsi mediante ostaggi la sua amicizia, con atteggiamento servile; oggi i Parti vengono spesso dalle loro terre a cercare a Roma il futuro re, e poco manca che abbandonino ai Romani tutta la loro autorità.

Pur riconoscendo la potenza militare dell’impero partico, l’autore rileva l’atteggiamento deferente del re Fraate, il quale avrebbe nei fatti consegnato ai Romani il proprio regno (Lasserre 1967, 193; Dueck 2000, 113-4; Biffi 2002, 172-4 e Dabrowa 2015, 1-22). Con qualche leggera variazione lessicale, l’autore di Amasea dipinge nel libro XVI un Fraate particolarmente zelante (τοσοῦτον ἐσπούδασε) nel ricercare l’amicizia di Augusto:

ὁ δ’ ἐκεῖνον [sc. Ὀρόδην] διαδεξάμενος Φραάτης τοσοῦτον ἐσπούδασε περὶ τὴν φιλίαν τὴν πρὸς Καίσαρα τὸν Σεβαστὸν ὥστε καὶ τὰ τρόπαια ἔπεμψεν ἃ κατὰ Ῥωμαίων ἀνέστησαν Παρθυαῖοι, καὶ καλέσας εἰς σύλλογον Τίτιον τὸν ἐπιστατοῦντα τότε τῆς Συρίας, τέτταρας παῖδας γνησίους ἐνεχείρισεν ὅμηρα αὐτῷ, Σερασπαδάνην καὶ Ῥωδάσπην καὶ Φραάτην καὶ Βονώνην. (Strab. Geog. XVI, 1.28)

E Fraate, succeduto al trono (sc. di Orode), fu così zelante nella sua amicizia verso Cesare Augusto, che gli inviò anche i trofei che i Parti avevano innalzato contro i Romani. Non solo, ma venuto in abboccamento con Titio, che allora era a capo della Siria, gli consegnò in ostaggio quattro suoi figli legittimi: Seraspadane, Rodaspe, Fraate e Vonone.

A chiudere il quadro delle fonti, Velleio Patercolo, autore di poco più recente rispetto a Pompeo Trogo, tratteggia un Fraate che avrebbe inviato i suoi figli ad Augusto perché spaventato (territus) dalla presenza di Artavasde sul trono del vicino regno d’Armenia:

Quin rex quoque Parthorum tanti nominis fama territus liberos suos ad Caesarem misit obsides. (Vell. II, 94.4)

Atterrito dalla fama di un nome tanto importante (sc. di Artavasde), anche il re dei Parti mandò i suoi figli ad Augusto.

L’episodio sarebbe stato poi ripreso da Floro, Svetonio e Tacito in età traianea e adrianea (Flor. II, 35, Suet. Aug. 21; Tac. Ann. II, 1), da Cassio Dione nel III secolo (LIII, 33.2; LIV, 8.1-3) e da Eutropio nel IV secolo (VII, 9).

Il quadro fornito dalle fonti di età augustea tratteggia due temi principali della propaganda del princeps: da un lato l’immagine del re partico che cerca l’amicizia di Augusto e vi si sottomette, dall’altro la pace tra i due popoli, vista come soluzione più vantaggiosa ed efficace della guerra (Paratore 1966, 513 e Gabba 1991, 438). Da un lato un sovrano che con la forza del solo nome sottomette i popoli, senza dover ricorrere all’esercito; dall’altro un popolo supplice che ‘mendica’ la pace consegnando ostaggi e riconoscendo l’autorità del princeps: si tratta esattamente degli stessi temi descritti in Iust. XI, 6.15 e XII, 13.1-3 in riferimento al potere acquisito da Alessandro Magno sugli avversari. In altre parole, è possibile che Pompeo Trogo, o una delle fonti da lui consultate sulle res Alexandri, avesse attinto al repertorio retorico e celebrativo che era in auge al tempo di Augusto per celebrare i successi in politica estera del princeps. Alessandro, ad un tempo grande e terribile, sarebbe stato così descritto con espedienti e toni vicini alla propaganda ufficiale dell’imperatore, tesa a esaltare la grandezza e l’efficacia del nomen Augusti nel condurre brillantemente la politica estera con l’ingombrante vicino partico. In tal senso, si potrebbe cogliere un colore augusteo nei due passi citati relativi ad Alessandro (Iust. XI, 6.15 e Iust. XII, 13.1-3), ben ascrivibile al contesto culturale della vittoria ‘pacifica’ di Augusto sui Parti. Seguendo tale interpretazione, si potrebbe individuare nei due passi di Giustino dell’epitome un terminus post quem per la stesura dei libri XI e XII delle Storie Filippiche, vale a dire la data della consegna degli ostaggi da parte del re dei Parti Fraate IV (cioè il 10 o il 9 a.C.).

Il nome di Alessandro e i levissimi ex Graecis

In età augustea il nomen Alexandri ricorre nella nota polemica liviana contro i levissimi ex Graecis inserita nella lunga digressione del libro IX, nella quale lo storico patavino si chiede cosa sarebbe successo se Alessandro avesse rivolto le armi contro l’Occidente:

Id vero periculum erat, quod levissimi ex Graecis, qui Parthorum quoque contra nomen Romanum gloriae favent, dictitare solent, ne maiestatem nominis Alexandri, quem ne fama quidem illis notum arbitror fuisse, sustinere non potuerit populus Romanus, et adversus quem Athenis, in civitate fracta Macedonum armis, cernentes tum maxime prope fumantes Thebarum ruinas, contionari libere ausi sunt homines, id quod ex monumentis orationum patet, adversus eum nemo ex tot proceribus Romanis vocem liberam missurus fuerit! (Liv. IX, 18.6)

Questo davvero sarebbe stato il pericolo, come vanno ripetendo i più superficiali tra i Greci che contro il nome di Roma esaltano anche la gloria dei Parti, che cioè il popolo romano non riuscisse a sostenere la grandezza del nome di Alessandro, che ritengo non sia stato a loro noto nemmeno per fama. Contro di lui ad Atene osarono gli uomini parlare in pubblico, in una città abbattuta dalle armi dei Macedoni, quando addirittura vedevano da vicino il fumo delle rovine di Tebe, cosa che risulta chiara dalle testimonianze dei discorsi oratori, e contro di lui nessuno di tanti uomini politici romani avrebbe rivolto la sua voce libera!

Il passo è stato a lungo dibattuto dalla critica, che ha voluto cercare tra i Greci vissuti a Roma nell’età di Augusto i possibili bersagli della polemica liviana (Treves 1953, 20 ss.; Moreschini 1985, 27-57; Braccesi 1986, 20-3; Coppola 1993, 45-79; Dueck 2000, 113-5; Morello 2002, 62-85 e Oakley 2005, 229-61 e Muccioli 2007, 87-116). Si vuole in questa sede proporre qualche osservazione di natura linguistica sul passo in questione e un confronto con i passi citati dalle Storie Filippiche sul nome di Alessandro. La critica liviana è giocata principalmente sulla contrapposizione tra due nomina: da un lato il nomen Romanum, oscurato da coloro che celebrano la gloria dei Parti, dall’altro il nomen Alexandri, cui Livio attribuisce la prerogativa della maiestas, e contro il quale il popolo romano non avrebbe potuto far fronte, a dire dei levissimi. Tale opposizione anticipa uno degli argomenti principali della lunga digressione liviana: Alessandro era il solo leader di natura e doti eccezionali all’interno dell’esercito macedone, mentre a Roma non si contano i nomi dei generali di eguale valore che avrebbero potuto tranquillamente fronteggiare il sovrano macedone (Morello 2002, 77; Oakley 2005, 234 ss. e Landucci 2015, 28-30). Ora, il termine maiestas ricorre in Livio con due sfumature semantiche distinte: se riferita al mondo romano, essa descrive il prestigio del senato, delle cariche politiche o militari o del popolo stesso, inteso come istituzione e fondamento della res publica; se invece riferita ad altri popoli, essa è sempre associata alla figura di un rex e indica il prestigio di cui gode un sovrano rispetto al suo popolo o agli occhi dei popoli stranieri[7]. Nel passo citato, l’espressione maiestas Alexandri si riferisce dunque implicitamente al prestigio connesso al titolo regale di cui si poté fregiare il Macedone. In secondo luogo, il verbo sustinere assume due significati diversi nella prosa liviana: da un lato ricorre in contesti militari nel senso di ‘fronteggiare, sostenere’ un assalto o un combattimento (ad esempio, cfr. Liv. I, 25.12, 35.9, 41.4; II, 5. 4, 10.7, 10.10, 19.3, 20.1), dall’altro è utilizzato più raramente nel senso metaforico di ‘affrontare’ un’avversità, o una situazione sfavorevole (cfr. Liv. II, 27.2; XXIV, 18.13; XXVI, 41; XL, 26.6; XLIII, 18). Nel contesto del passo liviano, mi sembra probabile un richiamo all’azione militare, come mezzo per fronteggiare il Macedone: le argomentazioni che Livio adduce per sostenere la probabile vittoria dei Romani su Alessandro nascono infatti da considerazioni di natura militare, basate sul confronto tra i due eserciti avversari (cfr. Liv. IX, 18.4-5, 12, 18; XIX, 1-8; 15-17). L’opinione degli avversari di Livio sarebbe dunque quella che i Romani non avrebbero nemmeno imbracciato le armi contro un nomen tanto prestigioso e potente (Oakley 2005, 231).

Con questa precisazione sul vocabolario di Livio, è possibile individuare sul piano del contenuto un’importante somiglianza tra Liv. IX, 18.6 e i due loci dell’Epitome, nei quali il terror nominis Alexandri è considerato un deterrente più efficace delle armi (non tam armis quam terrore nominis sui vicit) e tale da indurre le popolazioni di tutto il mondo ad adulare il Macedone “come se fosse un re a loro destinato” (Iust. XII, 13.3). Come si è detto, Trogo enfatizza il prestigio universale guadagnato da Alessandro al termine della spedizione asiatica, attraverso la similitudine per la quale il re si accingeva a tornare a Babilonia “come se stesse per tenervi un’assemblea di tutto il mondo”. D’altra parte, quando Livio afferma con sarcasmo che “contro Alessandro nessuno di tanti uomini politici romani avrebbe rivolto la sua voce libera!”, egli sembra ammettere e silentio che la prassi normalmente adottata dai popoli che avevano a che fare col Macedone fosse la sottomissione e l’adeguamento supino alle sue decisioni politiche: tale atteggiamento corrisponde all’atteggiamento adulatorio e servile che Pompeo Trogo più di ogni altro autore antico attribuisce ai popoli dell’intera ecumene che si riunirono a Babilonia a omaggiare il sovrano macedone.

Ma dobbiamo intendere che per Trogo anche i Romani vi avessero mandato una propria missione? A dire il vero il testo di Giustino lascia più dubbi che certezze sull’identità dei popoli che avrebbero partecipato all’ambasciata del 323 a.C.: l’espressione nonnullae legationes, che l’autore riferisce alle ambascerie provenienti dall’Italia, non esclude e non conferma la presenza di una legazione romana presso il re macedone (Braccesi 1975, 47-67; Santi Amantini 1981, 279 n. 1; Sisti, Zambrini 2004, 619-22; Oakley 2005, 231 e Prandi 2013, 194-6). Al di là dell’attendibilità storica dell’evento, su cui molto è stato scritto, l’unico storico antico che parla esplicitamente di un’ambasceria romana presso Alessandro è Clitarco, in un breve passo della sua opera storica tràdito da Plinio il Vecchio (Plin. NH III, 57 = BNJ 137 F 31).

Si è detto tuttavia che il contesto culturale in cui Trogo scrive tali libri – e Livio almeno una parte della sua opera – è quello dell’esaltazione della vittoria pacifica di Augusto sui Parti, suggellata dalla restituzione delle insegne romane e dall’invio a Roma di ostaggi. Le somiglianze tra le parole di Livio e i due passi di Trogo permettono di ipotizzare che un autore greco vissuto in età augustea, sensibile al clima culturale romano degli ultimi due decenni del I secolo a.C., proponesse una lode aperta della maiestas nominis Alexandri, forse appoggiandosi proprio alla notizia dell’ambasceria romana alla corte del re macedone, attirandosi così la critica feroce di Livio. Sin dal secolo scorso, gli studiosi hanno identificato in Timagene di Alessandria il principale bersaglio della polemica liviana (per una rassegna delle principali tesi a riguardo, si legga Muccioli 2007, 87-89). Lo storico alessandrino, noto per i suoi burrascosi rapporti con Augusto, era stato autore di una monografia sulle monarchie ellenistiche, dove particolare spazio era riservato all’esposizione delle imprese di Alessandro Magno e dei suoi successori. Alla luce dell’analisi sinora svolta, è possibile approfondire l’ipotesi timagenica, sostenendo che Timagene avrebbe raccontato nella sua opera l’ambasciata babilonese dei popoli del mondo, insistendo sul motivo del terrore suscitato dal nomen Alexandri. Il testo timagenico sarebbe stato successivamente oggetto dell’aspra critica di Livio, citata in precedenza. Di seguito sono riportati alcuni indizi che orientano a tale identificazione:

• Timagene prima di essere storico fu maestro di retorica, come informano la Suda e due brevi testimonianze di Seneca Retore e filosofo. Da quest’ultimo apprendiamo inoltre che lo storico offriva letture pubbliche (recitationes) della sua opera storica nei circoli intellettuali dell'alta società romana. Ad un contesto retorico sembra riferirsi lo stesso Livio, in IX, 18.6, quando utilizza il frequentativo dictitare in riferimento ai levissimi ex Graecis: tale verbo è attestato nell'opera liviana solo nel senso di “ripetere, continuare a dire”, cioè in riferimento ai discorsi orali di personaggi storici[8]. È dunque probabile che Livio si riferisse a un autore greco del suo tempo, di cui poteva ascoltare i discorsi o le letture pubbliche del proprio testo letterario.

• È noto come Timagene utilizzasse quale fonte della sua opera storica le Storie di Clitarco, unico testimone antico dell’ambasciata romana ad Alessandro. Una traccia di tale dipendenza è in Curzio Rufo, secondo il quale Timagene, leggendo Clitarco, riportava la notizia per cui Tolomeo avrebbe presenziato alla battaglia di Alessandro contro i Malli, sulle rive dell’Indo (cfr. BNJ 88 F 4 = Curt. IX, 5, 21). Timagene aveva quindi probabilmente letto la descrizione dell'ambasciata romana a Babilonia, e successivamente sarebbe per questo divenuto bersaglio della polemica liviana del libro IX.

• Timagene visse a Roma probabilmente fino agli ultimi anni del I secolo a.C., e cioè fino agli anni in cui Fraate IV chiese l’amicizia di Augusto, offrendo i suoi figli e nipoti come ostaggi (Muccioli 2012, 365-88). È dunque probabile che l’Alessandrino sia stato testimone della propaganda ufficiale dell'imperatore relativa all’amicizia romano-partica.

Negli anni in cui l’imperatore celebrava la sua vittoria pacifica sui Parti, Timagene avrebbe usato il motivo della maiestas nominis per ricordare e celebrare le gesta di Alessandro Magno nella sua opera storiografica. Si potrebbe vedere in questa scelta volutamente anti-augustea un motivo di rancore personale dello storico nei confronti del princeps, che lo aveva interdetto dalla sua dimora per aver sparlato troppo liberamente della sua famiglia (Sen. Ir. III, 23.4), ma anche un’orgogliosa presa di distanza dello storico ellenistico dalla pubblicistica coeva, che celebrava il nomen di Augusto per la vittoria pacifica sui Parti.

Quanto a Pompeo Trogo, attingendo al medesimo repertorio retorico e al medesimo lessico, egli fonde temi della celebrazione del princeps e temi inerenti al dibattito su Alessandro, naturalmente senza cadere in contraddizione con sé stesso: anch’egli sottolinea la grandezza del nomen Alexandri, ma non dimentica di esaltare, con analoghe movenze espressive, il nomen Augusti. La scelta degli stessi topoi retorici va sicuramente legata alla visione troghiana di storia ‘policentrica’, nella quale cioè Alessandro, Augusto, ma anche i Galli e tanti altri popoli sono in momenti diversi protagonisti corali della storia totius orbis (Muccioli 2016, 138-9; Borgna 2019, XVII- XVIII).

Conclusioni

La figura di Alessandro campeggia sulla scena nei libri XI e XII dell’Epitome di Giustino, e rappresenta uno dei protagonisti principali della storia universale policentrica redatta da Pompeo Trogo. Attraverso il filtro giustineo, si coglie l’attenzione riservata dallo storico voconzio all’impatto che il semplice richiamo al nomen Alexandri ebbe sui popoli del mondo, a cominciare dai Macedoni stessi. In patria il nome di Alessandro venne sin da subito associato alla maiestas regia, cioè al titolo regale, al punto che chiunque fosse imparentato con il Macedone entrava di diritto nella rosa di nomi dei possibili eredi al trono. Inoltre, egli fu venerato insieme al nome di Filippo come nume tutelare della sua terra, e venne invocato in momenti drammatici della storia macedone (come l’invasione dei Galli di Brenno). Presso i popoli stranieri, il nome di Alessandro suscitò un terror, una paura irrazionale che spinse molti popoli dell’Asia Minore a non opporsi all’avanzata macedone, e popoli di tutto il mondo a inviargli un’ambasciata in segno di adulazione. Non si tratta di una paura incontrollata per un tiranno crudele e dispotico, bensì di una reazione motivata dall’invincibilità militare del Macedone, nonché dal prestigio di cui il suo nome era ammantato. Nel caso dell’ambasciata cartaginese, emerge infatti una paura ‘politica’ legata ai progetti di espansione di Alessandro in Occidente. A distanza di alcuni libri, il terror del nome di Alessandro è infine nettamente distinto dal timor suscitato dal dominio di Filippo. Si ravvisa dunque una coerenza di fondo – anche lessicale – nello sviluppo del tema del nomen Alexandri, riconducibile molto probabilmente al giudizio storico di Trogo. Un giudizio double face, che analizza la maiestas del Macedone ora come oggetto di ammirazione e venerazione in patria, ora come motivo di terrore e stimolo all’adulazione in terra straniera. È inoltre possibile cogliere, pur attraverso il filtro giustineo, il valore letterario del lavoro di Pompeo Trogo, che riprende e amplifica il tema del terror nominis Alexandri in contesti fortemente celebrativi, rispettivamente all’inizio e alla fine della spedizione asiatica.

Con toni egualmente elogiativi Trogo descrive nei libri XXIV-XXV il terror nominis Gallici. La migrazione del 279 a.C. dalla Transalpina alla penisola balcanica è infatti dall’autore confrontata con la traversata alpina di Ercole e con l’avanzata di Alessandro in Asia Minore. Lo stesso tema è ripreso circolarmente al termine della sezione gallica in un passo dedicato alla fortuna dei popoli gallici come mercenari al soldo dei sovrani ellenistici, e rafforza il collegamento intratestuale tra le res Alexandri e le res Gallorum. L’operazione di Pompeo Trogo sarebbe duplice nel caso dell’esposizione della storia dei popoli gallici: descrivere i Galli come soggetto politico autonomo nella storia ellenistica e dare una veste letteraria alla storia di uno dei popoli protagonisti della sua storia universale.

L’opposizione troghiana tra nomen Alexandri e la forza delle armi può poi essere messa a confronto con il passo relativo alla consegna delle insegne e degli ostaggi ad Augusto da parte di Fraate IV. È possibile che il motivo del terror nominis Alexandri sia ispirato alla propaganda augustea del secondo decennio a.C., volta a celebrare la magnitudo nominis Augusti di fronte al re partico supplice e deferente. Il tema sarebbe diventato un motivo panegiristico in età imperiale, come dimostrano alcuni loci delle storie di Curzio Rufo.

Infine, allo stesso clima culturale potrebbe riferirsi la celebre polemica liviana contro i levissimi ex Graecis, per i quali il popolo romano non avrebbe potuto sfidare la maiestas nominis di Alessandro. L’insistenza sul motivo del nomen e l’utilizzo di un exemplum che insiste sul tema della libertà di parola permettono di ipotizzare che il passo liviano fosse riferito a un autore greco che operava in quello stesso milieu culturale. Tale autore corrisponde probabilmente a Timagene di Alessandria, lo storico cacciato dalla domus di Augusto per la sua aciditas linguae e definito felicitati urbis inimicus da Seneca, a distanza di qualche decennio (Sen. Ep. 91.13).

Note

[1] Curzio Rufo ritorna spesso sul tema del nomen Alexandri all’interno della sua opera storica: per esempio, nella descrizione dell’inseguimento di Alessandro verso il carro dove era tenuto prigioniero Dario III, dopo la battaglia di Ecbatana (Curt. V, 13.13-4): “Namque et numero barbari praestabant et robore; ad hoc refecti cum fatigatis certamen inituri erant. Sed nomen Alexandri et fama, maximum in bello utique momentum, pavidos in fugam avertit” (“Come numero, infatti, e come forza i barbari erano superiori; a ciò si aggiunga che si sarebbero misurati freschi con gente affaticata. Ma il nome e la fama di Alessandro, elemento di rilievo, decisivo in guerra, li spaventò e li indusse a fuggire”). Cfr. anche Curt. VIII, 13.2 e IX, 5.6.

[2] Il passo risente dei tagli dell’epitomatore, poiché – come apprendiamo dal prologo – Trogo proponeva in questa sede una digressione sulle origini e sui re della Caria, e si doveva anche soffermare sulle città conquistate (Yardley, Heckel 1997, 118; Mineo 2018, 157).

[3] Da un punto di vista storiografico, il testo troghiano risulta ancora una volta più succinto e scarno di informazioni rispetto ai resoconti di Diodoro e Arriano (Diod. XVII, 113.2 e Arr. An. VII, 15.4): laddove i due storici si soffermano con dovizia di particolari su timori e speranze che spinsero ciascun popolo a cercare il favore della corona macedone, Giustino appiattisce invece le ragioni politiche dei singoli popoli sull’atteggiamento adulatorio che essi assunsero al suo cospetto, “come se si trattasse di un sovrano a loro predestinato”. In secondo luogo, a partire da una disamina del numero e dell’ubicazione dei popoli citati nell’Epitome, è stato giustamente rilevato da Zecchini come l’elenco di popoli menzionati da Giustino interessi soltanto la pars occidentalis dell’Impero Romano, e non riguardi per esempio i numerosi popoli greci menzionati sia da Diodoro che da Arriano (cfr. Mineo 2018, 183).

[4] Secondo Muccioli, i Galli sono “un soggetto politico, quasi meritevole di una trattazione a parte anche riguardo alle monarchie ellenistiche” nei libri XXIV-XXX dell’Epitome (Muccioli 2016, 108-9).

[5] Per esempio, Orazio nelle Epistole parla di Fraate che “costretto in ginocchio, ha accettato le leggi e l’autorità di Cesare”, mentre nelle sue Odi descrive le insegne strappate all’orgoglio partico (cfr. Hor. Epist. I, 12.27-8, 18.56; cfr. anche Prop. IV, 6.79-82).

[6] Sul versante latino, è possibile riscostruire dalle Periochae liviane che il libro CXLII era incentrato sulla pace con i Parti, culminata con la restituzione delle insegne da parte di Fraate.

[7] Per quanto riguarda la maiestas riferita a un contesto romano, cfr. a titolo d’esempio Liv. II, 7.7; 23.14; 27.10; 29.12; III, 6.9; 10.3; 69.3. Lo stesso termine è invece riferito da Livio ai re ellenistici in tre occasioni, cioè in Liv. XLII, 5.5; 12; XLV, 44.19.

[8] Il verbo dictitare ricorre in Livio in diciotto occorrenze, quasi sempre col valore enfatico di ‘andare dicendo, ripetere’ (cfr. a titolo d’esempio I, 49.1; III, 19.11; 20.8; 40.8; IV, 58.12; 59.8; V, 2.2; 8.10). Va notato peraltro come solo in IX, 18.6 il verbo sia accompagnato dal servile soleo, che sottolinea la ripetitività dei discorsi dei levissimi ex Graecis. Cfr. Morello 2002, 66, che parla di “repetiveness of Parthia-loving Greek intellectuals on Alexander’s chances against Rome”; utile è anche Oakley 2005, 231.

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English abstract

The article proposes an analysis of the theme of the name of Alexander (nomen Alexandri) in Justin’s Epitome of the Philippic Histories. In his homeland, Alexander’s name was associated with the majesty of the Macedonian kingdom (maiestas). In many regions of the Mediterranean, the very name aroused such fear (terror) that entire populations surrendered and sent embassies of admiration. This terror, linked to the myth of the invincibility of the Macedonian army, has relevant similarities with the descriptions of the terror associated with the Gauls in books XXIV-XXV of Justin’s Epitome. In particular, Trogue’s emphasis on Alexander’s name can be linked with the Augustan propaganda concerning the delivery of hostages to Augustus by Phraates. In the same cultural context, Timagenes of Alexandria probably used the same rhetorical pattern, albeit with a reversed meaning, to celebrate Alexander’s name in opposition to the Romans (Liv. IX, 18.6).

keywords | Alexander the Great; Justin; Trogue; Livy; Timagenes; Augustus.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Michele Nardelli, Il nomen Alexandri tra Giustino, Trogo, Livio e Timagene, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.215.0010