Pace è solo una parola
Come Platone decostruisce la fine della guerra del Peloponneso nel Menesseno
Elena Sofia Capra
English abstract
1. Introduzione
Nel 404 Atene cedette a Sparta; la guerra del Peloponneso – che per Tucidide (II 7.1) era iniziata ventisette anni prima sotto le mura di Platea – giungeva al termine. Come è ben noto, i vincitori, ossia Sparta e i suoi alleati, discussero la distruzione radicale di Atene e, al termine di penose trattative, abbatterono le mura dell’odiata nemica a suono di flauto, sostenendo di festeggiare così il ritorno della Grecia alla libertà (Xen. HG II 2.23). Sparta impose addirittura ad Atene un governo di suo gradimento e ben presto ebbe una propria forza armata sull’acropoli periclea. Apparentemente, non vi è domanda più oziosa di questa: chi vinse la guerra del Peloponneso?
Eppure, vi è un testo che dà una risposta eccentrica a questo ‘inutile’ interrogativo. Si tratta del più enigmatico dei dialoghi di Platone, il Menesseno; in esso, Socrate propone al giovane allievo eponimo un λόγος ἐπιτάφιος che – a quanto egli afferma – ha composto Aspasia con gli avanzi del più celebre λόγος ἐπιτάφιος di Pericle, presumibilmente quello riscritto da Tucidide in II 35-46 (cfr. p. es. Beltrametti 1997, 901, 928). Se Pericle, all’inizio della guerra del Peloponneso, affermava di non volersi soffermare sul passato della città (Thuc. II 36.6), l’immaginario oratore di Socrate/Aspasia dedica alla storia di Atene oltre metà del discorso, accennando brevemente alle vicende mitiche della città per poi partire dalle guerre persiane e arrivare alla Pace del Re del 386 (Pl. Mx. 239a-246b; sul lampante anacronismo non è il caso di soffermarsi qui). Si tratta di un riassunto estremamente condensato, a tratti sconvolgente, di cento anni di conflitti e tentativi frustrati di pace: una rassegna ‘bruciante’ che non passa sotto silenzio i peggiori errori e fallimenti di Atene e del mondo greco, con un uso sapiente del filtro dell’antifrasi sui prevedibili moduli autocelebrativi del λόγος ἐπιτάφιος ateniese.
Tra gli errori e i fallimenti di Atene la conclusione della guerra del Peloponneso occupa un posto di primo piano, e Platone nel Menesseno le dedica poche, provocatorie righe (Mx. 243c-d) che fanno trasparire una valutazione molto dura sulla responsabilità degli Ateniesi stessi nella propria rovina. Vedremo in che senso egli individua nella battaglia delle Arginuse l’ultima vittoria ateniese, la vera fine della guerra tra Atene e Sparta, e l’inizio (o l’emergenza) di un altro conflitto: quello di Atene contro se stessa. A questo brano si può accostare un passaggio successivo (Mx. 244b-c), da cui emerge la consapevolezza che la pace raggiunta, nel mezzo della guerra civile ateniese, tra Atene e i suoi nemici esterni non era che la preparazione di una nuova guerra. Questi due brani, in cui Platone si confronta direttamente con il più traumatico avvenimento della storia collettiva ateniese della sua giovinezza, ci mostrano il ‘filosofo delle idee’ nella sua veste di critico inflessibile della storia recente della sua città, nei suoi risvolti più scottanti e divisivi; ma anche di conoscitore lucidissimo dei meccanismi delle società umane, in grado di indurre una spregiudicata e amara riflessione sull’invincibile inclinazione degli uomini a fare la guerra, anche e soprattutto con chi è più vicino a loro.
2. La guerra del Peloponneso è finita alle Arginuse
La grande guerra dei Greci prevede, nel Menesseno, tre momenti: un primo conflitto che anche gli storici moderni talora definiscono “prima guerra del Peloponneso” (Mx. 242a-c), un secondo corrispondente alla guerra archidamica (Mx. 242c-d), un terzo che comprende la spedizione in Sicilia e la cosiddetta guerra ionica, fino alla battaglia delle Arginuse (Mx. 243a-d). Quest’ultimo scontro è collegato direttamente alla fine della guerra, con un’affermazione che è stata letta come la più paradossale dell’intero testo: “really astonishing” (Henderson 1975, 42), “énormité” (Nouhaud 1982, 280). A prima vista, infatti, Platone sembra sostenere qui che i vincitori della battaglia alle isole Arginuse hanno vinto la guerra del Peloponneso:
οὗ δὴ καὶ ἐκφανὴς ἐγένετο ἡ τῆς πόλεως ῥώμη τε καὶ ἀρετή. οἰομένων γὰρ ἤδη αὐτὴν καταπεπολεμῆσθαι καὶ ἀπειλημμένων ἐν Μυτιλήνῃ τῶν νεῶν, βοηθήσαντες ἑξήκοντα ναυσίν, αὐτοὶ ἐμβάντες εἰς τὰς ναῦς, καὶ ἄνδρες γενόμενοι ὁμολογουμένως ἄριστοι, νικήσαντες μὲν τοὺς πολεμίους, λυσάμενοι δὲ τοὺς φιλίους, ἀναξίου τύχης τυχόντες, οὐκ ἀναιρεθέντες ἐκ τῆς θαλάττης κεῖνται ἐνθάδε. ὧν χρὴ ἀεὶ μεμνῆσθαί τε καὶ ἐπαινεῖν· τῇ μὲν γὰρ ἐκείνων ἀρετῇ ἐνικήσαμεν οὐ μόνον τὴν τότε ναυμαχίαν, ἀλλὰ καὶ τὸν ἄλλον πόλεμον· δόξαν γὰρ δι’ αὐτοὺς ἡ πόλις ἔσχεν μή ποτ’ ἂν καταπολεμηθῆναι μηδ’ ὑπὸ πάντων ἀνθρώπων – καὶ ἀληθῆ ἔδοξεν – τῇ δὲ ἡμετέρᾳ αὐτῶν διαφορᾷ ἐκρατήθημεν, οὐχ ὑπὸ τῶν ἄλλων· ἀήττητοι γὰρ ἔτι καὶ νῦν ὑπό γε ἐκείνων ἐσμέν, ἡμεῖς δὲ αὐτοὶ ἡμᾶς αὐτοὺς καὶ ἐνικήσαμεν καὶ ἡττήθημεν (Pl. Mx. 243c-d).
Proprio allora divenne evidente la forza e il valore della nostra città. Mentre quelli credevano che essa fosse ormai sopraffatta e le navi erano bloccate a Mitilene, questi uomini mandarono in aiuto sessanta navi, si imbarcarono loro stessi e, uomini universalmente riconosciuti come eccellenti, sconfissero i nemici, liberarono gli amici, e, subendo una sorte immeritata, non vennero mai recuperati dal mare: ora giacciono qui. Di loro bisogna sempre ricordarsi e lodarli: grazie al loro valore abbiamo vinto non solo la battaglia navale di quel giorno, ma anche l’intera guerra. La nostra città ha avuto grazie a loro la fama di non poter mai essere sopraffatta, nemmeno da tutti gli uomini – ed è una fama che risponde al vero: per le nostre stesse divisioni siamo stati sottomessi, non dagli altri. Infatti eravamo allora e siamo ora invincibili da loro, noi stessi ci siamo vinti e sottomessi da soli.
Il riferimento all’ultima grande vittoria degli Ateniesi, quella conseguita al largo delle isole Arginuse nel 406, è abbastanza preciso, fatte salve alcune semplificazioni in linea con il trattamento di fatti storici lungo tutta l’orazione: sono obliterati i nomi propri dei protagonisti, il che peraltro è consueto nei discorsi funerari; il toponimo suggerisce, più che identificare lo scontro (non si tratta però di un errore come ritengono Pappas, Zelcer 2013, 2 n. 7), facendo riferimento alle navi di Conone, bloccate a Mitilene e in aiuto delle quali furono inviati i due contingenti ateniesi che si scontrarono con le truppe spartane alle Arginuse. Appare in linea con i racconti degli storici – in particolare Senofonte (HG I 6.24) e Diodoro Siculo (XIII 97.1) – l’insistenza sull’azione collettiva del popolo ateniese: il secondo invio di soldati, in particolare, fu caratterizzato da una partecipazione senza precedenti che coinvolse uomini di ogni classe, non solo cittadini di pieno diritto (complici le difficoltà nel reperire un numero sufficiente di cittadini da reclutare a seguito della spedizione siciliana: Thuc. VIII 1.2). L’espressione platonica che insiste sulla riscossa dei cittadini, αὐτοὶ ἐμβάντες, sembra (come propone Tsitsiridis 1998, 323) fare da contrappunto alla memoria di una contingenza storica in cui erano stati arruolati e addirittura insigniti della cittadinanza schiavi (per Senofonte, ma indizi in questo senso vengono anche da Aristoph. Ra. 33, 190-191, 693 ss.; per il problema storico cfr. Hunt 2001 e 2021, 282-283), meteci e stranieri (per Diodoro Siculo).
Ma non è questo l’unico motivo per cui la menzione, nel Menesseno, della battaglia delle Arginuse suona insolita e disturbante, nonostante si tratti di una vittoria; l’oratore del Menesseno è l’unico degli oratori attici a citare tale scontro (lo notano p. es. Nouhaud 1982, 279 – che include il Menesseno nel corpus degli oratori attici – e Pownall 2004, 54; cfr. anche Pappas, Zelcer 2015, 191). Ricordare la battaglia delle Arginuse significa ricordare un successo pagato a carissimo prezzo (come narrato da Xen. HG I 6.28-7.35), in quanto un gran numero di soldati perse la vita a causa delle cattive condizioni del mare, che resero impossibile il recupero dei naufraghi vivi e morti. Sei degli otto strateghi vincitori, rientrati in patria, furono condannati a morte per non aver provveduto al salvataggio dei soldati dal mare. Il Menesseno afferma esplicitamente che molti dei combattenti furono dispersi in mare (οὐκ ἀναιρεθέντες ἐκ τῆς θαλάττης) e sottolinea il contrasto stridente con gli usi funerari ateniesi per i caduti in guerra (κεῖνται ἐνθάδε; cfr. Wienand 2023, 236), oltre ad alludere forse a uno dei momenti più drammatici del processo (l’espressione ἄνδρες γενόμενοι ὁμολογουμένως ἄριστοι potrebbe ricalcare la deposizione del naufrago in Xen. HG I 7.11). Dall’Apologia di Socrate (32a-c) e dal Gorgia (473e-474a) di Platone, ma anche da Senofonte (HG I 7.14-15), sappiamo che il processo degli strateghi delle Arginuse fu il primo momento in cui Socrate si confrontò con l’azione politica diretta, riportando una sconfitta che anticipa quella nel suo stesso processo nel 399. Ma nel Menesseno ciò appare in secondo piano rispetto al riconoscimento di un vero e proprio momento di svolta per Atene: il momento in cui la guerra di Atene contro i suoi nemici esterni sarebbe potuta finire con una vittoria. In effetti, secondo la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele (34.1; cfr. Bearzot 2021, 129-130, ma anche le perplessità di Rhodes 2016, 283-284), dopo le Arginuse gli Spartani chiesero la pace. Invece, gli Ateniesi hanno scelto la via dell’autodistruzione. Anche a Platone, dunque, come agli storici moderni, il processo post Arginuse pare, anche se ovviamente non l’inizio della conflittualità interna ad Atene (sulle tensioni nei mesi precedenti la battaglia delle Arginuse cfr. Centanni 2011a, spec. 122-123), “un processo politico che decapitò la classe dirigente democratica e avviò Atene alla sconfitta” (Bearzot 2013, 89) ed è questo che la menzione della battaglia delle Arginuse significa nel Menesseno, squarciando il velo pietoso del ricordo di una vittoria.
3. Avec beaucoup d’aplomb
La battaglia delle Arginuse e il successivo processo – che è forse alluso nel Menesseno anche tramite la figura di Aspasia, il cui figlio Pericle il Giovane fu uno degli strateghi condannati (HG I 7.1-2; Pappas, Zelcer 2015, 25; Zelcer 2018, 39-42) – segnano dunque, nel Menesseno, la fine della guerra del Peloponneso in quanto inizio degli anni convulsi in cui Atene è stata la peggiore nemica di sé stessa. Si è già anticipato come per molti lettori di questo testo l’affermazione che i vincitori delle Arginuse abbiano il merito di aver vinto l’intera guerra, confermando la fama di invincibilità di Atene, è inaccettabile (a quelli sopra citati si possono aggiungere per esempio Walters 1980, 9-10; Tulli 2008, 328; Brunello 2022, 189). Davvero Platone afferma qui, “avec beaucoup d’aplomb” (Nouhaud 1982, 248), che Atene ha vinto la guerra del Peloponneso, capovolgendo la realtà storica e portando lo sciovinismo proprio del genere all’assurdo (Trivigno 2009, 39; Centrone, Petrucci 2012, 471 n. 72)? Certo un sorriso sardonico aleggia in questo passo. Vi è però un importante completamento dell’argomentazione: gli Ateniesi non sono imbattuti, sono i veri responsabili della propria sconfitta. Vi è stata una sconfitta: ma non ne sono responsabili i nemici esterni di Atene. Questa affermazione ha ricordato a diversi interpreti (Romilly 1947, 195; Gomme, Andrewes, Dover 1970, 244; Loraux 1981, 294 n. 141; Sansone 2020, 144) un passo del bilancio postumo della figura di Pericle nel secondo libro di Tucidide:
οἱ δὲ ὕστερον ἴσοι μᾶλλον αὐτοὶ πρὸς ἀλλήλους ὄντες καὶ ὀρεγόμενοι τοῦ πρῶτος ἕκαστος γίγνεσθαι ἐτράποντο καθ’ ἡδονὰς τῷ δήμῳ καὶ τὰ πράγματα ἐνδιδόναι. ἐξ ὧν ἄλλα τε πολλά, ὡς ἐν μεγάλῃ πόλει καὶ ἀρχὴν ἐχούσῃ, ἡμαρτήθη καὶ ὁ ἐς Σικελίαν πλοῦς, ὃς οὐ τοσοῦτον γνώμης ἁμάρτημα ἦν πρὸς οὓς ἐπῇσαν, ὅσον οἱ ἐκπέμψαντες οὐ τὰ πρόσφορα τοῖς οἰχομένοις ἐπιγιγνώσκοντες, ἀλλὰ κατὰ τὰς ἰδίας διαβολὰς περὶ τῆς τοῦ δήμου προστασίας τά τε ἐν τῷ στρατοπέδῳ ἀμβλύτερα ἐποίουν καὶ τὰ περὶ τὴν πόλιν πρῶτον ἐν ἀλλήλοις ἐταράχθησαν. σφαλέντες δὲ ἐν Σικελίᾳ ἄλλῃ τε παρασκευῇ καὶ τοῦ ναυτικοῦ τῷ πλέονι μορίῳ καὶ κατὰ τὴν πόλιν ἤδη ἐν στάσει ὄντες ὅμως † τρία † μὲν ἔτη ἀντεῖχον τοῖς τε πρότερον ὑπάρχουσι πολεμίοις καὶ τοῖς ἀπὸ Σικελίας μετ’ αὐτῶν, καὶ τῶν ξυμμάχων ἔτι τοῖς πλέοσιν ἀφεστηκόσι, Κύρῳ τε ὕστερον βασιλέως παιδὶ προσγενομένῳ, ὃς παρεῖχε χρήματα Πελοποννησίοις ἐς τὸ ναυτικόν, καὶ οὐ πρότερον ἐνέδοσαν ἢ αὐτοὶ ἐν σφίσι κατὰ τὰς ἰδίας διαφορὰς περιπεσόντες ἐσφάλησαν. τοσοῦτον τῷ Περικλεῖ ἐπερίσσευσε τότε ἀφ’ ὧν αὐτὸς προέγνω καὶ πάνυ ἂν ῥᾳδίως περιγενέσθαι τὴν πόλιν Πελοποννησίων αὐτῶν τῷ πολέμῳ (Thuc. II 65.10-13).
I suoi successori, che erano tutti all’incirca della stessa statura tra loro e desideravano ciascuno il primato, si dedicarono al popolo, assecondandone i piaceri, gli affidarono il potere. Ciò portò a molti errori, perché si trattava di una città grande e dotata di un impero, e in particolare la spedizione in Sicilia, che non fu tanto un errore di giudizio con riguardo a coloro contro cui ci si muoveva, quanto per il fatto che coloro che l’avevano inviata non si rendevano conto delle necessità di coloro che erano partiti, ma a causa delle proprie rivalità per la guida del popolo destabilizzavano la situazione al fronte e la vita della città fu per la prima volta stravolta da disordini intestini. Sconfitti in Sicilia con tutto l’esercito e la maggior parte della flotta, immersi ormai in una guerra civile in città, resistettero circa † tre † anni ai nemici precedenti e a quelli che erano venuti dalla Sicilia con loro, e agli alleati che in gran parte avevano defezionato, e poi in aggiunta a Ciro, il figlio del Gran Re, che forniva denaro agli Spartani per la flotta, e non si arresero prima di scontrarsi tra loro stessi a causa delle proprie rivalità e cadere per questo. Tutto ciò era più che sufficiente per Pericle per prevedere che la città avrebbe facilmente vinto la guerra del Peloponneso.
Il rapporto tra il brano di Tucidide e l’interpretazione che il Menesseno offre degli ultimi dieci anni della guerra del Peloponneso è stretto. In entrambi i testi, per quanto riguarda la spedizione in Sicilia viene sottolineato il problema dell’isolamento delle truppe inviate e delle difficoltà di comunicazione con Atene (Mx. 243a), e per il periodo successivo si insiste sulla solitudine di Atene all’interno del mondo greco e sull’aiuto decisivo della Persia a Sparta (Mx. 243b). Soprattutto, si afferma che, nonostante le difficoltà, Atene sarebbe stata in grado di vincere il conflitto, se le divisioni interne non l’avessero minata. Questa, per Tucidide, è l’eredità della lungimiranza di Pericle, sprecata dalla mediocrità dei suoi successori. Soprattutto dal Gorgia (516e-517c, 518e-519b) appare evidente che Platone non è d’accordo su questo: per lui l’eredità di Pericle già conteneva i germi della rovina futura, e l’incapacità di riconoscerlo è parte dell’ottusità degli Ateniesi (cfr. A. Capra 1998, 188-189). Eppure, il discorso del Menesseno (quello che Pericle ha omesso di dire nel grande discorso tucidideo) concorda con la diagnosi di Tucidide sulle cause della sconfitta finale.
Per gli interpreti che hanno ragionato sulla vicinanza tra il Menesseno e il brano di Tucidide (Henderson 1975, 42; Loraux 1981, 79 n. 14, 141, 294 n. 141, 330; Coventry 1989, 8; Tsitsiridis 1998, 327-328), la negazione o piuttosto riformulazione di tale sconfitta è dovuta al fatto che Tucidide si sbilancia sul versante retorico, inclinando verso lo sciovinismo proprio della più svergognata oratoria di parata, cui anche il Menesseno attinge; sarebbe prova del carattere puramente retorico dell’affermazione la presenza di un’argomentazione non dissimile nel λόγος ἐπιτάφιος attribuito a Lisia (2.65). Ma è possibile ipotizzare che quella di Tucidide e di Platone nel Menesseno non sia solo retorica: sia esito di una riflessione seria sulla causa della sconfitta ateniese. Una riflessione che Platone potrebbe almeno in parte trarre da Tucidide (Gomme, Andrewes, Dover 1970, 244) per estenderla alla definizione della guerra in generale:
ΑΘ. – Αὐτῷ δὲ πρὸς αὑτὸν πότερον ὡς πολεμίῳ πρὸς πολέμιον διανοητέον; ἢ πῶς ἔτι λέγομεν; ΚΛ. – Ὦ ξένε Ἀθηναῖε—οὐ γάρ σε Ἀττικὸν ἐθέλοιμ’ ἂν προσαγορεύειν· δοκεῖς γάρ μοι τῆς θεοῦ ἐπωνυμίας ἄξιος εἶναι μᾶλλον ἐπονομάζεσθαι· τὸν γὰρ λόγον ἐπ’ ἀρχὴν ὀρθῶς ἀναγαγὼν σαφέστερον ἐποίησας, ὥστε ῥᾷον ἀνευρήσεις ὅτι νυνδὴ ὑφ’ ἡμῶν ὀρθῶς ἐρρήθη τὸ πολεμίους εἶναι πάντας πᾶσιν δημοσίᾳ τε, καὶ ἰδίᾳ ἑκάστους αὐτοὺς σφίσιν αὐτοῖς. ΑΘ. – Πῶς εἴρηκας, ὦ θαυμάσιε; ΚΛ. – Κἀνταῦθα, ὦ ξένε, τὸ νικᾶν αὐτὸν αὑτὸν πασῶν νικῶν πρώτη τε καὶ ἀρίστη, τὸ δὲ ἡττᾶσθαι αὐτὸν ὑφ’ ἑαυτοῦ πάντων αἴσχιστόν τε ἅμα καὶ κάκιστον. ταῦτα γὰρ ὡς πολέμου ἐν ἑκάστοις ἡμῶν ὄντος πρὸς ἡμᾶς αὐτοὺς σημαίνει (Pl. Lg. I 626d-e).
ATENIESE – Ognuno deve pensare a sé stesso come un nemico pensa a un nemico? O come lo intendiamo? CLINIA – Straniero ateniese (e non vorrei dire che vieni dall’Attica: mi sembra infatti piuttosto che tu sia degno del nome della dea): riportando il discorso all’inizio lo hai reso più chiaro, cosicché scoprirai facilmente che ora da noi è stato correttamente detto che tutti sono nemici di tutti a livello pubblico, e a livello personale ciascuno lo è di sé stesso. ATENIESE – Come dici, meraviglioso amico? CLINIA – Anche questo si potrebbe dire, straniero, che il vincere sé stesso è tra tutte le vittorie la principale e la migliore, e insieme l’essere sconfitto da sé stesso è la più vergognosa e peggiore sconfitta. Questo significa che c’è come una guerra in ognuno di noi contro sé stesso.
Vi è un’evidente consonanza tra quanto viene detto nell’orazione funebre del Menesseno a proposito della sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso e la valutazione del cretese Clinia nell’ultimo dialogo di Platone. Ciò potrebbe far pensare che l’apparente boutade retorica nasconda una riflessione seria sulle forze che hanno portato al declino di Atene. Affermare che Atene avrebbe potuto sconfiggere i propri nemici esterni, ma non sé stessa, significa affermare che al di là delle effimere vicende delle guerre esterne, momenti di una guerra infinita, Atene ha perso la più importante delle battaglie. Ben lungi dall’essere il momento di più palese aderenza (reale o fittizia) allo sciovinismo ateniese, il passo del Menesseno sulla fine del conflitto suggella la sconfitta più vergognosa (αἴσχιστος) subita dagli Ateniesi. Essa è ben rappresentata dagli ‘scandalosi’ cadaveri dei morti delle Arginuse, insieme sepolti e insepolti (οὐκ ἀναιρεθέντες ἐκ τῆς θαλάττης κεῖνται ἐνθάδε), vincitori e vinti di una guerra che non si può vincere.
4. Pace punitiva e revanscismo nel Menesseno
L’oratore del Menesseno fa seguire alla conclusione della guerra un brevissimo accenno alla pace raggiunta da Atene con il resto del mondo greco (μετὰ δὲ ταῦτα ἡσυχίας γενομένης καὶ εἰρήνης πρὸς τοὺς ἄλλους, “Dopo questi fatti ci fu tranquillità e pace con gli altri”, Pl. Mx. 243d-e), per poi passare alla guerra civile tra i Trenta e i fuoriusciti democratici guidati da Trasibulo (Mx. 243e-244b). Platone non passa tuttavia sotto silenzio le pesanti condizioni di pace inflitte ad Atene. L’orazione vi torna infatti in seguito, nel dare conto dei motivi di tensione che agitavano il mondo greco nel primo decennio del IV secolo e che sfociarono nella guerra di Corinto:
τοῖς δὲ Ἕλλησιν ἀγανακτοῦσα, μεμνημένη ὡς εὖ παθόντες ὑπ’ αὐτῆς οἵαν χάριν ἀπέδοσαν, κοινωσάμενοι τοῖς βαρβάροις, τάς τε ναῦς περιελόμενοι αἵ ποτ’ ἐκείνους ἔσωσαν, καὶ τείχη καθελόντες ἀνθ’ ὧν ἡμεῖς τἀκείνων ἐκωλύσαμεν πεσεῖν (Pl. Mx. 244b-c).
[Atene] era adirata con i Greci, memore del ringraziamento che le avevano reso dopo il bene che ne avevano ricevuto, unendosi ai barbari, demolendo le navi che un tempo li salvarono e abbattendo mura sacrificando le quali noi impedimmo che cadessero le loro.
Come in precedenza nel Menesseno (242d-e), la memoria delle guerre persiane è usata come termine di confronto in negativo per i rapporti interni al mondo greco durante e dopo la guerra del Peloponneso. A essere ricordate qui sono l’alleanza dei nemici di Atene con i Persiani (già ricordata in 243b; cfr. Thuc. VIII 17.4-19.1, 36.2-38.1, 57.2-59.1; Xen. HG I 4.1-2, 5.1-7) e le due più rappresentative clausole dei trattati di pace del 404: l’abbattimento delle mura e la riduzione della flotta. Nel racconto di Senofonte dei terribili giorni successivi alla capitolazione di Atene (HG II 2.11, 15, 16, 20, 22, 23), ma anche nelle ricostruzioni di Lisia (12.68, 70; 13.8, 9, 12, 14, 15), il problema dell’abbattimento delle Lunghe Mura è un Leitmotiv: esso è preteso da Sparta come condizione necessaria per intavolare trattative ed è strenuamente e sempre più ottusamente rifiutato dal governo democratico, che giunge a vietare per legge di sollevare la questione in assemblea (Xen. HG II 2.15; cfr. Canfora 2013, 15-16). A esso si accompagna la distruzione di quasi tutte navi della flotta ateniese, un altro simbolo dello splendore imperiale ateniese: i due simboli sono associati esplicitamente da Lisia (12.68) e il loro stretto legame è forse sottolineato qui anche tramite l’applicazione alle navi del verbo περιαιρεῖν, in genere riferito alle mura (Sansone 2020, 147, che cita Thuc. I 108.4; Xen. HG II. 2.22). Come si nota, l’oratore del Menesseno non è interessato al fatto in sé, ma alle sue ripercussioni negli anni successivi: alla convinzione degli Ateniesi che le condizioni della pace fossero state un’umiliazione gratuita, frutto dell’odio e dell’ingratitudine degli altri Greci per la città attica. Opposta è la posizione di Senofonte, per il quale Sparta rinunciò alla distruzione totale di Atene per via del rispetto dovuto alla città che aveva salvato la Grecia all’epoca delle guerre persiane (HG I 2.20). Ma di un’amarezza persistente circa le condizioni che Atene aveva dovuto accettare, complici gli intrighi di Teramene, è testimone anche Lisia (12.68-71; 13.9-17). Il breve accenno di Platone nel Menesseno tocca lucidamente un problema di lungo corso: che, cioè, gli accordi di pace, ben lungi dal rasserenare i rapporti tra stati, possano talora lasciarsi dietro rancori tali da sfociare in un’altra guerra.
5. “E tenere a mente che si farà una tregua e non si sarà sempre in guerra” (Pl. Resp. V 470e)
In Mx. 243c-d, come abbiamo visto, Platone mostra la guerra tra Atene e Sparta trascolorare nella διαφορά tra Ateniesi, mentre in 244b-c sottolinea che tale guerra aveva avuto, almeno da parte ateniese, un pesante strascico di odi pronti a riemergere. La guerra del Peloponneso ha dunque mostrato che gli Ateniesi erano invincibili ma, nei fatti, gli Ateniesi l’hanno persa, ed è finita alle Arginuse, o non è finita affatto. Questa sovrapposizione di interpretazioni rispecchia la natura ibrida e sfuggente di un fenomeno, quello della guerra tra parlanti greco, che Platone non esita a definire una vera e propria στάσις (per il concetto in generale cfr. Gehrke 1997):
εἰρήνην ἐποιήσαντο, ἡγούμενοι πρὸς μὲν τὸ ὁμόφυλον μέχρι νίκης δεῖν πολεμεῖν, καὶ μὴ δι’ὀργὴν ἰδίαν πόλεως τὸ κοινὸν τῶν Ἑλλήνων διολλύναι, πρὸς δὲ τοὺς βαρβάρους μέχρι διαφθορᾶς. […] οὗτοι γὰρ […], στασιασάσης τῆς Ἑλλάδος περιγενόμενοι τῷ πολέμῳ…(Pl. Mx. 242d-e)
Fecero la pace, convinti che contro un nemico della stessa stirpe si debba combattere fino alla vittoria, senza distruggere, per l’ira individuale di una città, la comunità greca, mentre contro i barbari fino alla distruzione. […] Questi uomini, vincitori del conflitto nel pieno della guerra civile della Grecia...
L’idea che il conflitto tra Greci possa essere definito una guerra civile ha precedenti in Teognide (I 772-781) e Gorgia (Philostr. VS I 9.494 = Gorg. 82 B 5b D.-K., per la vicinanza con il testo platonico cfr. Tsitsiridis 1998, 309-310; Gastaldi 2000, 322), è suggerita da Tucidide (Centanni 1997, 68-69, 198) e ripresa nel λόγος ἐπιτάφιος attribuito a Lisia (2.21-22; per il lessico della guerra civile in Lisia vedi Bearzot 2001); ma in Platone assume un’altra complessità.
Il passo del Menesseno si può infatti mettere utilmente in relazione con l’ampia discussione delle regole della guerra nel libro V della Repubblica. Qui si afferma chiaramente che la guerra tra Greci deve essere chiamata στάσις (sulla centralità del concetto nella Repubblica cfr. Mallet 2017, 91-94; sul libro V cfr. anche Baracchi 2002, 12 ss; Syse 2002, 42-43):
Ἕλληνας μὲν ἄρα βαρβάροις καὶ βαρβάρους Ἕλλησι μαχομένους πολεμεῖν τε φήσομεν καὶ πολεμίους φύσει εἶναι, καὶ πόλεμον τὴν ἔχθραν ταύτην κλητέον· Ἕλληνας δὲ Ἕλλησιν, ὅταν τι τοιοῦτον δρῶσιν, φύσει μὲν φίλους εἶναι, νοσεῖν δ’ ἐν τῷ τοιούτῳ τὴν Ἑλλάδα καὶ στασιάζειν, καὶ στάσιν τὴν τοιαύτην ἔχθραν κλητέον (Resp. V 470c-d).
Diremo allora che quando i Greci combattono i barbari e i barbari i Greci fanno la guerra e sono nemici per natura, e che quest’odio deve essere chiamato guerra; invece, quando i Greci combattono i Greci, in caso accada una cosa simile, diremo che per natura sono amici, ma la Grecia al momento è malata e in preda alla guerra civile, e questo genere di odio deve essere chiamato guerra civile.
Come nel Menesseno (243e), per la guerra civile si usa il lessico della malattia (Loraux 1997, 61). Soprattutto, si denuncia che una guerra tra consanguinei come sono i Greci dovrebbe essere combattuta in modo molto diverso da quello che i dialoganti, e lo stesso Platone, hanno visto nel loro tempo, dunque in primo luogo durante la guerra del Peloponneso:
Σκόπει δή, εἶπον, ὅτι ἐν τῇ νῦν ὁμολογουμένῃ στάσει, ὅπου ἄν τι τοιοῦτον γένηται καὶ διαστῇ πόλις, ἐὰν ἑκάτεροι ἑκατέρων τέμνωσιν ἀγροὺς καὶ οἰκίας ἐμπιμπρῶσιν, ὡς ἀλιτηριώδης τε δοκεῖ ἡ στάσις εἶναι καὶ οὐδέτεροι αὐτῶν φιλοπόλιδες· οὐ γὰρ ἄν ποτε ἐτόλμων τὴν τροφόν τε καὶ μητέρα κείρειν· ἀλλὰ μέτριον εἶναι τοὺς καρποὺς ἀφαιρεῖσθαι τοῖς κρατοῦσι τῶν κρατουμένων, καὶ διανοεῖσθαι ὡς διαλλαγησομένων καὶ οὐκ ἀεὶ πολεμησόντων. […] Οὐδ’ ἄρα τὴν Ἑλλάδα Ἕλληνες ὄντες κεροῦσιν, οὐδὲ οἰκήσεις ἐμπρήσουσιν, οὐδὲ ὁμολογήσουσιν ἐν ἑκάστῃ πόλει πάντας ἐχθροὺς αὐτοῖς εἶναι, καὶ ἄνδρας καὶ γυναῖκας καὶ παῖδας, ἀλλ’ ὀλίγους ἀεὶ ἐχθροὺς τοὺς αἰτίους τῆς διαφορᾶς. καὶ διὰ ταῦτα πάντα οὔτε τὴν γῆν ἐθελήσουσιν κείρειν αὐτῶν, ὡς φίλων τῶν πολλῶν, οὔτε οἰκίας ἀνατρέπειν, ἀλλὰ μέχρι τούτου ποιήσονται τὴν διαφοράν, μέχρι οὗ ἂν οἱ αἴτιοι ἀναγκασθῶσιν ὑπὸ τῶν ἀναιτίων ἀλγούντων δοῦναι δίκην. Ἐγὼ μέν, ἔφη, ὁμολογῶ οὕτω δεῖν πρὸς τοὺς ἐναντίους τοὺς ἡμετέρους πολίτας προσφέρεσθαι· πρὸς δὲ τοὺς βαρβάρους, ὡς νῦν οἱ Ἕλληνες πρὸς ἀλλήλους (Pl. Resp. V 470d-471b).
Osserva – dissi – in quella che ora abbiamo concordato di chiamare guerra civile, in qualunque contesto si verifichi un simile fenomeno e una città sia divisa al suo interno, se entrambi si devastano reciprocamente i campi e danno fuoco alle abitazioni, quanto risulti che la guerra civile sia abominevole e nessuno dei due ami la città. Non dovrebbero mai, infatti, permettersi di razziare la loro nutrice e madre; è equo per chi ha la meglio impadronirsi delle messi di chi ha la peggio, ed entrare nell’ordine di idee che si farà la tregua e non si sarà sempre in guerra. […] I Greci non razzieranno la Grecia, non daranno fuoco alle case, e non concluderanno, città per città, che tutti siano loro nemici, uomini, donne e bambini, ma sempre che siano pochi i nemici, ossia i responsabili della discordia. E per tutte queste ragioni non vorranno razziare la loro terra, perché terra perlopiù di amici, né distruggere le abitazioni, ma porteranno avanti la discordia finché (e solo finché!) i responsabili siano stati costretti dalle vittime innocenti a pagare. Io – disse [Glaucone] – sono d’accordo che ci si debba comportare così con gli avversari nostri concittadini; con i barbari, invece, come ora i Greci si comportano tra loro.
Quello che chiama in causa il Socrate della Repubblica – ambientata in un momento imprecisabile della guerra del Peloponneso (cfr. Nails 2002, 324) – è il modo di condurre la guerra applicato su vasta scala nel mondo greco proprio a partire da tale conflitto (Gastaldi 2000, 309 ss.; Mallet 2017, 88): un tipo di guerra ‘totale’ condannato in particolare per la cecità con cui mina ogni possibilità di instaurare un futuro assetto pacifico. A prevalere è un’amarezza generale ben riassunta da Glaucone, il quale osserva che i rapporti tra Greci e barbari si sono completamente rovesciati. Il Menesseno fornisce un contrappunto antifrastico (per il termine cfr. Centanni 1997, 79) a tale pagina della Repubblica, fingendo di elogiare gli Ateniesi per la moderazione con cui hanno saputo applicare ai loro avversari interni ed esterni un comportamento rispettoso della comune stirpe (Mx. 242d, 243e-244a; sul secondo cfr. Centanni 1997, 77-79; Centanni 2011b, 73). La visione, comune ai due dialoghi, è quella di un conflitto che ha stravolto le regole della guerra, rendendo i Greci nemici peggiori tra loro di quanto siano mai stati con i Persiani, finché “la στάσις si è insinuata nel cuore della città, a minarne dall’interno la forma” (Centanni 2011b, 69). Così la pace (sia quella di Nicia elogiata in 242d-e, sia quella conclusiva in 244b-c) diventa un miraggio, destinato a sicuro insuccesso. D’altronde, Platone stesso fa dire al cretese Clinia nel suo ultimo dialogo – poco prima del brano sopra discusso – ἣν γὰρ καλοῦσιν οἱ πλεῖστοι τῶν ἀνθρώπων εἰρήνην, τοῦτ’ εἶναι μόνον ὄνομα, τῷ δ’ ἔργῳ πάσαις πρὸς πάσας τὰς πόλεις ἀεὶ πόλεμον ἀκήρυκτον κατὰ φύσιν εἶναι (“Quella che la maggior parte degli uomini chiama pace è solo una parola, mentre nei fatti tra tutte le città c’è sempre una guerra non dichiarata dettata dalla natura”, Pl. Lg. I 626a; sulla risposta dell’Ateniese, che sancisce una “asimmetria strutturale tra guerra e guerra civile”, cfr. Brancacci 1995, cit. 1080; Constantineau 1995, che controbatte a Finley 1986). Nel monito a fare la guerra senza precludere la pace, nella consapevolezza che la pace stessa può preparare la prossima guerra, e nel dubbio che tale spirale possa mai essere interrotta riposa la ‘bruciante’ eredità del Platone storico (sui generis) della fine della guerra del Peloponneso.
*Tutte le traduzioni sono dell’autrice.
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English abstract
The paper discusses two passages of Plato’s Menexenus (243c-d, 244b-c), focusing on Athenian defeat in the Peloponnesian war. In the first passage, Plato seems to suggest that the real Peloponnesian war ended with Athens’ victory at the Arginusae. If we compare this seemingly absurd claim with Thucydides’ reflection on the reasons for Athenian defeat (Thuc. II 65.10-13) and pay attention to the subsequent statement – Athens was actually defeated, but by herself and not by external enemies – we discover a lucid diagnosis on the bad choices of the Athenians after the battle of Arginusae, which led to self-destruction. In the second passage, Plato returns to the traumatic memory of the end of the Peloponnesian war to show that the terms of peace imposed by Sparta and her allies prepared the ground for another war. Both passages can be put in a fruitful relationship with Republic V 470-471 (on the definition and rules of a civil war) and Laws I 626 (on the impossibility of peace and the idea that the ultimate war is the war within). The paper aims to show how, in Plato’s works, the memory of recent Athenian history plays a significant role in reflecting on the nature of war and its rules.
keywords | Plato’s Menexenus; war in Plato; Arginusae; Peloponnesian war; stasis.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: E.S. Capra, Pace è solo una parola. Come Platone decostruisce la fine della guerra del Peloponneso nel Menesseno, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024