Cancellare (e riscrivere) Omero
L’Odissea e i classici ‘bruciati’ da Isgrò
Martina Treu, con un testo di Emilio Isgrò
English abstract
§ Odissea cancellata, Pompei 13, 14, 15 giugno 2024 | Scheda dello spettacolo
§ Emilio Isgrò, La mia Odissea cancellata
Emilio Isgrò cancella (e riscrive) Omero, al Teatro grande di Pompei: la sua Odissea cancellata (scritta nel 2003) va in scena per la prima volta nel giugno 2024, a quarant’anni dalla sua Orestea di Gibellina e a sessant’anni dalla sua prima cancellatura, in apertura del Festival Pompeii Theatrum Mundi (cfr. per lo spettacolo e la scheda sotto riportata, per i testi Isgrò 2011).
A partire dagli anni Cinquanta (risale al 1956 la sua prima raccolta di poesie, Fiere del Sud) e fino alle più recenti mostre di Milano (Bazzini 2016), Brescia (Bazzini 2023) e Roma (Galleria Nazionale di Arte Moderna, 2024) Isgrò continua a cambiare volto e assumere varie identità, anche contemporaneamente: artista, poeta, giornalista, drammaturgo e cancellatore (si vedano, da ultimi, gli interventi tenuti a Urbino dall’artista stesso e da altri docenti – storici e critici dell’arte, di filosofia e di teatro – dal 24 al 29 giugno nella prima edizione della SCIE – Scuola della Cancellatura di Emilio Isgrò).
In oltre ottant’anni vissuti da artista ha creato un personaggio complesso e multiforme che non sempre coincide con il suo creatore. Eppure persegue coerentemente, da più di mezzo secolo, obiettivi ben riconoscibili lungo un percorso lineare, benché mutevole a seconda del mezzo con cui si esprime. Le sue opere, per quanto diverse, hanno un filo conduttore unico e potente: la forza della parola. Le immagini si sovrappongono alle parole, attraverso generi, epoche, filoni o tendenze, dalle poesie vere e proprie a quelle verbovisive, dai romanzi ai drammi (cfr. Bazzini, Bonito Oliva 2007, Isgrò 2007 e 2024).
Dal 1964 Isgrò ha cancellato e riscritto pagine di giornali, immagini, mappe, codici e manoscritti, testi teatrali, il debito pubblico, la Costituzione italiana, le leggi razziali nonché naturalmente molti classici, greci e romani (da Eschilo a Virgilio, da Euripide a Omero), ma anche autori italiani, le loro opere e i loro ritratti (Dante e Manzoni). Riguardo ai classici in particolare, Isgrò ribadisce di non volerli distruggere o censurare, ma anzi ricrearli di nuovo, farli rinascere, senza però prescindere dal passato, dal recupero della memoria e della tradizione dell’isola e dell’antica Grecia, costantemente presenti come in altre opere precedenti (si veda Lundhal 2011 e, da ultimo, Isgrò, Treu 2022).
Con ironia, amore e rispetto, Isgrò cancella i testi così come ricopre statue e mappe, lapidi e dipinti, di tratti neri o colorati, e anche di api, formiche e altri insetti: cancellature mobili e viventi che dialogano con i classici e invitano a non considerarli anticaglie, pezzi da museo, animali imbalsamati (Isgrò 2007). Isgrò non intende certo sminuire o irridere i classici, ma interagire con loro: “Cancellare per risorgere, non per distruggere” scrive in uno dei suoi aforismi, appena raccolti in volume in concomitanza con il debutto a Pompei (Isgrò 2024, 50).
In un altro aforisma spiega lo stesso artista che è naturale rivolgersi ai classici per chi come lui è nato e cresciuto in Sicilia “all’ombra di un tempio o di un teatro greco” (Isgrò 2024, 20). Per illustrare il suo rapporto coi classici, Isgrò stesso cita l’Odisseo omerico – che appare a Nausicaa tutto coperto di salsedine – e lo contrappone alle statue neoclassiche (Isgrò, Treu 2023): così nella mostra Isgrò cancella Brixia il suo discobolo è ricoperto di formiche e monco, privo simbolicamente del braccio che scaglia il disco: quest’ultimo è volato via insieme al disco, per l’impeto del gesto, e i visitatori della mostra, sorpresi, lo ritrovano a terra nella sala seguente (Bazzini 2023). Nella stessa mostra, al Capitolium di Brescia, uno sciame elettronico di api in videoproiezione – implicito omaggio alle Georgiche virgiliane – ricopre le iscrizioni latine sulle lapidi, per poi levarsi in volo come una nube, con un forte ronzio. Un omaggio affettuoso a Virgilio è anche il dramma dello stesso Isgrò, Didone Adonàis Domine, che durante la mostra si rappresenta nel Teatro romano adiacente (22 giugno-3 luglio 2022).
Due anni dopo in un altro teatro romano, a Pompei, il direttore artistico di Pompeii Theatrum Mundi, Roberto Andò, invita Isgrò a inaugurare il festival con l’Odissea cancellata: ultima di una lunga serie, a livello cronologico, ma anche punto di intersezione, a livello simbolico e concettuale, tra la produzione di Isgrò artista, cancellatore e drammaturgo. Vale la pena di ripercorrerne la storia, per comprendere in che modo Isgrò ‘bruci’ i classici.
Sulla cancellatura, specialmente in rapporto ai testi antichi, riflette lo stesso Isgrò negli scritti teorici pubblicati con quelli teatrali (Cancellazione di Eschilo: Isgrò 2011, 585-586). L’artista esplicitamente si contrappone alla cosiddetta cancel culture per ribadire che il suo è un gesto d’artista, di creatore, e non di distruttore. Non è sua intenzione, come ribadisce lui stesso (Isgrò, Treu 2022), censurare, distruggere, annullare il testo originale, ma al contrario vuole salvarlo dall’oblio, esaltarlo e farlo rinascere. E ricorda l’avventura di Gibellina che nei primi anni Ottanta risorge dalle macerie del terremoto, come l’Araba Fenice dalle sue ceneri, grazie a Isgrò e altri artisti che rispondono a una ‘chiamata pubblica’: l’appello lanciato dal sindaco Ludovico Corrao a contribuire alla rifondazione – fisica e simbolica – della città distrutta, ma anche a ricostruire nel corpo e nello spirito la comunità ancora in lutto. Molti artisti donano opere, altri ne creano sul posto, anche coinvolgendo gli abitanti stessi di Gibellina. Così, per loro, Isgrò inizia la sua carriera di drammaturgo.
Nel gennaio 1982, per l’anniversario del terremoto, l’artista scrive e mette in scena, con una sua scenografia ad hoc, una cantata funebre in strofe responsoriali: Gibella del Martirio. Sette libri e un girotondo per Francesca Benedetti riecheggia modelli arcaici – anche se non espliciti – per forma e contenuto. Una ballata dolente, ipnotica, paragonabile a un threnos dove la città stessa – personificata con diversi epiteti – racconta storie intrecciate di vivi e morti (Isgrò 2011, 93-114).
Anche per la seconda opera scritta per Gibellina, nell’agosto 1982, Isgrò attinge al classico: San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori è un inno cletico a responsione, in forma processionale e strofica, rivolto alla divinità – le preghiere si alternano ai racconti di episodi salienti – e al tempo stesso richiama le celebrazioni degli eroi eponimi e dèi protettori della città, di cui si rievocano la vita e le imprese. Con felice invenzione Isgrò mescola liberamente elementi pagani e cristiani, antichi e moderni: il santo taumaturgo capace di guarire la peste, patrono di Gibellina, è chiamato da un coro di cittadini a salvarla e a proteggerla, ancora una volta (Isgrò 2011, 115-157).
Per la stagione successiva Corrao propone a Isgrò di scrivere un dramma ispirato all’Edipo Re, ma l’artista gli risponde, come lui stesso ricorda, che per rifondare una città occorre ripartire dall’Orestea (Isgrò 2011: 14, 19, 28-29, 596-597): così nell’arco di soli tre anni scrive e rappresenta una ‘trilogia siciliana’, di cui gli abitanti stessi sono chiamati ad essere idealmente artefici, attori, coro e spettatori. Sul testo dei tre drammi eschilei – cancellato e riscritto – si innestano le vicende, antiche e moderne, del popolo siciliano, dalle colonie greche all’arrivo degli Arabi, dalle dominazioni straniere allo sbarco degli Americani nella Seconda guerra mondiale. Isgrò rivisita i personaggi originali – Tinestra, Agamènnuni, Oreste e Elettra – e ne inserisce di nuovi, di sua invenzione o realmente esistiti, comunque legati alla storia di Gibellina.
Anche la sede scelta per ospitare la nuova trilogia assume un rilevante peso simbolico: Corrao vorrebbe rappresentare l’Orestea nel Teatro antico di Segesta, ma gli viene negato dall’INDA con la motivazione che Isgrò riscrive Eschilo e non si limita a tradurlo (così nello scritto Lo scacco di Segesta: Isgrò 2011, 546-548). E, dopo il caso dell’Orestiade di Pasolini al Teatro greco di Siracusa (1960), le istituzioni non sono propense a concedere i teatri antichi a innovativi esperimenti, preferiscono limitarsi a traduzioni rigorosamente sorvegliate.
Il rifiuto spinge Isgrò, come racconta lui stesso (Isgrò 2011, 546-548) a riportare l’Orestea sui ruderi di Gibellina. Così si inaugura una storia che continua fino a oggi. Negli anni seguenti Isgrò completerà l’Orestea di Gibellina aggiungendo a Agamènnuni i drammi I Cuèfuri e Villa Eumènidi, via via affrancandosi dall’originale eschileo. Il secondo dramma, infatti, è ambientato nella Sicilia della Seconda guerra mondiale, il terzo in piena guerra fredda: Oreste è un malato di mente ricoverato nella clinica Villa Eumenidi (ispirata al vero manicomio di Barcellona, paese natale di Isgrò) affiancato da Pilade Oracolo, e da un coro di cinquanta madri, petrolieri texani e altri personaggi dell’epoca.
Da quella trilogia prenderà il nome il festival omonimo ancora oggi attivo, le Orestiadi di Gibellina, ospitato al Baglio di Stefano (sede del museo delle Trame Mediterranee) insieme con preziosi reperti della storia delle rappresentazioni (inclusa la scenografia originale di Gibella del Martirio, di Emilio Isgrò, e le sculture scenografiche create da Arnaldo Pomodoro per l’Orestea).
Nel frattempo Isgrò continua la sua carriera di artista e drammaturgo anche altrove: innanzitutto per Francesca Benedetti (già protagonista di Gibella del Martirio e dell’Orestea, nella parte di Tinestra) scrive Didone Adonàis Dòmine e Medea. Nel primo (dal sottotitolo Solitario per una attrice e un coro di carte da gioco), l’eroina virgiliana dialoga con un coro di figure storiche, mitiche o d’invenzione, intrecciando la sua storia d’amore infelice ad altre come lei sedotte e abbandonate. Anche il destino di questo dramma è significativo: destinato al paese natale di Isgrò, Barcellona di Sicilia, per le prime Feste del Teatro Nascente; rappresentato al Teatro Mandanici, ancora in costruzione; ripreso nel 2022 al Teatro romano di Brescia, con la regia di Giorgio Sangati (si veda Isgrò 2011, 358-395 per il testo, Isgrò, Treu 2023 per lo spettacolo del 2022); quanto alla Medea, altra riscrittura da Euripide (‘travestita’ da traduzione, per passare inosservata e evitare ogni censura: si vedano Isgrò 2011, 435-494 e Treu 2015) è commissionata e ospitata nel 2002 dal Teatro di Messina. La città vanta nel suo passato anche una dominazione spagnola: da qui scaturisce l’idea di Isgrò di contaminare ancora una volta modelli classici e storia moderna, immaginando che la nave Argo sia una fantomatica ‘quarta caravella’ partita per le Americhe (“La quarta caravella”: Isgrò 2011, 605-607) e che i Conquistadores “Senza faccia e senza nome” tornino in Europa portando con sé Medea, “principessa maya o azteca: comunque barbara” (Isgrò 2011, 435). Per lei sola Isgrò inventa una speciale lingua d’artista, peculiare ed efficace, che la distingue da tutti gli altri personaggi e mescola termini siciliani, greci, spagnoli e inglesi (Treu 2015). Come la Medea euripidea, anche questa alterna diversi stati d’animo e muta volto, registro e tono a seconda dell’interlocutore, trascolorando dalla tenerezza materna alla lucida determinazione. Si riporta qui di seguito l’incipit del prologo:
La storia è ambientata a Corinto, davanti alla casa di Medea, in un
tempo imprecisato e imprecisabile: un tempo, comunque, di inquisitori
crudeli e di conquistadores senza faccia e senza nome.
Pròlugu
AFERDITE
Non doveva la Quarta Caravella partire, attraversare il mare, incagliarsi!
Maledetto quel giorno che essa scapolò lestissima, veloce,
le Americhe nerenere, drizzando verso i Colchi le sue vele!
Malidittu quell’albero di pignulara donde si intagliarono
tali e tanti remi per i nostri soldati e cavalieri spediti da re Pèlio
a trafugare il Vello de Oro. Perché allora, no, ‘a signura Medea,
‘a me patruna, non avrebbe partito navigando fino ai bastioni di Iolco,
bruciando dentro l’anima d’amore furibondo per Giasone.
E non avrebbe spinto le figlie di re Pèlio a fare a pezzettini il padre
con una scure d’oro e lacrime. Né si sarebbe ritrovata a vivere a Corinto
coi figli e col marito; da tutti rispettata come una del posto; e sempre
compiacente di Giasone. Ché bene è, bene supremo, quàndu ‘a fìmmina
ci accorda ‘a stissa mùsica dell’uomo.
[…]
MEDEA
(fuori scena)
Pirchì! Pirchì! Pirchì!
Perché non mi scamazza un fulmine sulla testa
togliendomi questa vita inutile?
Morte, morte ti chiamo,
pìgliati queste ossa senza ridere!
[…]
Medita Medea, medita Medea!
Perché se c’è un Dio di giustizia
a questo mondo, un Dio onesto,
non può non compatìrimi
per tutte queste doglie che mi vengono
da quel marito disonesto e frivolo.
Uno al quale auguro di cuore
che bruci e frigga con la moglie giovane
e tutta la famiglia. E questo lo dico io,
umiliata e vinta: io che per lui lasciai
anche la tribù dei miei amici, e padre
e patria, dopo avere azzannato mio fratello.
Che vergogna! Che sangue! Che mattanza!
(Isgrò 2011, 436-443)
Nei vent’anni che intercorrono tra il debutto di Isgrò come drammaturgo a Gibellina (1982) e la Medea (2002), Isgrò scrive altre opere teatrali di argomento storico, ironiche e innovative, che hanno per protagoniste femminili rispettivamente la Pulzella d’Orléans (Giovanna D’Arco. Tragedia Elementare) e la regina Isabella di Castiglia (Il frutto senza nome. Farsa filologica con samba finale: cfr. rispettivamente Isgrò 2011, 396-434 e 347-357). Al tempo stesso Isgrò inaugura anche un filone omerico, attingendo liberamente all’Odissea: tra il romanzo Polifemo (1989) e l’Odissea cancellata (2003) sono riconducibili a Omero diverse composizioni, poesie verbovisive, opere narrative, installazioni e ‘scenazioni’ (termine da lui coniato) come quelle create per Lipari (mitica dimora di Eolo) Epigrafi cancellate da api scatenate, 2013 e Maledetti toscani, benedetti italiani (2014, dedicata a Curzio Malaparte, che in quella stessa isola fu esiliato: Treu 2017 e 2018, Isgrò, Treu 2023 e Trifirò 2018).
Anche in queste opere ispirate all’Odissea, su cui ora ci concentriamo, Isgrò ‘brucia’ i classici come nella produzione propriamente teatrale sopra citata (dall’Orestea alla Medea). E si inscrive a buon diritto tra le innumerevoli riscritture del poema sempre più diffuse nel mondo (si vedano a titolo di esempio Tentorio 2013, Treu 2015, Treu 2017). In questo quadro globale, la Sicilia riluce come un faro: al centro del Mediterraneo, da sempre approdo e crocevia di popoli che vi cercano rifugio, spesso con esiti infausti, come i compagni di Ulisse e i naufraghi contemporanei. E proprio le Odissee dei giorni nostri continuano a ispirare drammaturghi, registi e attori siciliani della stessa generazione di Isgrò e di quella successiva.
Questi, ciascuno a suo modo, contaminano modelli classici con le lingue e culture che via via si sono avvicendate sull’isola (Treu 2019, Treu 2021, Treu in cds). Dopo Isgrò si possono ricordare, da Palermo a Siracusa, Lina Prosa (Trilogia del naufragio), Mimmo Cuticchio (L’urlo del mostro), Vincenzo Pirrotta (‘U Ciclopu di Pirandello, da Euripide), Emma Dante (Odissea. Primo movimento; Io, nessuno e Polifemo. Intervista impossibile), Davide Enia (L’abisso) e Giuliano Peparini (Odissea, 2023).
In quest’ottica l’Odissea cancellata si rivela un tassello importante nella produzione non solo dell’artista, ma nel suddetto filone ‘omerico siciliano’ a cui Isgrò riconduce i tratti tipici della sua poetica: la libertà di contaminare passato e presente, il gusto di accostare stili e registri linguistici diversi, mescolare realtà e finzione, alternare toni elevati ad altri più crudi, attingere alle tradizioni della sua terra, che ha ospitato Eschilo a fine carriera (lascia Atene per trasferirsi a Siracusa, e infine muore a Gela). Ad esempio il citato romanzo Polifemo (per bocca del tiranno Dionisio di Siracusa che descrive la sua città a teatro, come accade ancora oggi) così ricorda il drammaturgo ateniese e ‘siciliano’ d’adozione: “Eschilo è venuto per la prima dei Persiani e io gli sono grato per aver voluto conferire alla sua geniale opera (sì, geniale!) quella patina di modernità che sommuove tutte le sere l’entusiasmo e la commozione del pubblico, autorizzato dalla musica potente del verso e dalla catena delle parole a scambiare la vittoria di Salamina con quella di Pearl Harbour” (Isgrò 1989, 64).
Un altro autore che Isgrò elegge a modello è Gorgia di Lentini per la sua Elena e soprattutto per la Palinodia come ‘anti-Elena’, Elena al contrario. Quest’opera, nell’interpretazione di Isgrò, diviene prototipo di un gioco metaletterario – cancellare e riscrivere sé stessi – e fa di Gorgia il mitico ‘primo inventore’ o precursore della cancellatura. Guido Ballo a questo proposito parla di una “ripresa, per Isgrò siciliano, della dialettica sofista: più di Gorgia, anche lui siciliano – per l’impossibilità di comunicare una verità assoluta –, che non di Protagora, per il quale la realtà diventa relativa alla misura dell’uomo” (Bazzini, Bonito Oliva 2007, 232-233).
Sulle tracce di Gorgia, dunque, Isgrò cancella e riscrive l’Odissea per dare voce e corpo a Ulisse e ad altri personaggi (Penelope, Circe, Nausica, con una sola ‘a’, per distinguerla da quella omerica), fino a mettere in dubbio che tutte queste storie siano mai esistite, o darne comunque una versione radicalmente diversa, antitetica. Da autentico siciliano, naturalmente, Isgrò non può prescindere dagli echi e risonanze che tradizionalmente associano episodi dell’Odissea a luoghi della Sicilia, delle sue coste delle sue isole: da Scilla e Cariddi, a Polifemo a Eolo, che nel decimo canto dell’Odissea prima ospita Odisseo e poi lo congeda, donandogli l’otre dei venti per propiziare il ritorno (Isgrò 2011, 79-82). Si riporta qui un estratto dei primi canti di Isgrò:
2.
(Coro)
Non c’è mente che possa suggerirvi
– forze del mare –
come impastare il cielo con l’amore
e come praticare
la virtù naturale
di esserci senza esserci.
Solo il vento c’è sempre.
Solo il grecale smania.
Solo la bora insorge
contro Ulisse Odisseo che esce di casa sua
con il gran libro in mano
– pronto a leggerlo davanti al mare,
pronto a cancellarlo –
e una mano cattiva gli strappa via le pagine
stracciandole nell’aria
come foglie d’acanto.
[…]
nei giorni che non c’è scuola
e il vento tira gelido.
Perché non ci racconti
la storia di questo vento?
Perché non ce lo dici
che dura da quel dì?
Perché non ci ripeti il canto
del cieco angelico?
Cosa ti disse Eolo?
Cosa ti disse il re?
3.
(Ulisse)
Non me l’ha detto oggi, non me l’ha detto ieri.
Forse me l’ha cantato trenta secoli fa:
che fanno tre millenni, se non di più.
E la sua voce era neutra, vagamente strozzata,
come la voce di chi sa smentire.
Eolo re dei venti mi disse quel mattino:
– Senti, Ulissuccio mio, amico mio fidato,
ora ho deciso io, io che ti sono grato,
di rimandarti a casa con tutti i tuoi compagni.
E perché mai succeda che si rivolti il mare
con tuoni e con tempeste e pìtita fitusi;
e perché mai accada che ti tempesti l’aria
con le sue grandini nere che portano
acciacchi al mondo e tenebre alla giornata;
e perché mai sortisca che ti sorprenda l’onda
più lunga, riportandoti al punto di partenza;
e perché mai avvenga
la reazione a catena, la reazione scema;
io ti consegno a te, marito di Penelope,
di Telemaco padre e nonno naturale
di chi non ha più niente da perdere o da prendere;
io ti consegno a te, maestro dei prudenti,
io ti commetto e dono questo otre di capra
(non di bue, come sostiene il non vedente);
io ti consegno a te questo computer
(scusatemi il lapsus: “otre” volevo dire…);
io ti consegno a te questo container
che tutti li contiene i venti e tutte le tempeste.
Così mi disse Eolo padre dello scirocco
e delle tramontane tragiche d’aprile.
Così mi disse il re, così lui disse a me.
Così! Così! Così mi disse il reo!
4.
(Coro)
E cosa può rispondere
il povero babbeo
a chi gli offre un dono
intinto nel veleno?
E cosa può presumere
il meschino ingannato
dal regaluccio stolido
che gli porta il diavolo?
Davvero ti fidasti
di un dono tanto trucido?
Davvero ci cadesti
nell’infernale trappola?
5.
(Ulisse)
Sì e no: perché, per uno che porta il mio nome,
un minimo di diffidenza è d’obbligo;
e al mio tempo, dopo tutto, io ero il presidente
di una potenza seria, democratica, responsabile.
Quasi una superpotenza, per quanto microscopica.
Tale era Itaca al tempo di Odisseo
detto Ulisse dal popolo dei media.
E si sa pure (anche se lo si nega)
che io non volevo assolutamente la guerra.
Né preventiva né definitiva.
Proprio non la volevo, manco se mi sciancavano.
Primo, perché sono ellenico, e noi ellenici,
si sa, rappresentiamo purtroppo la Vecchia Europa.
Quella che non risponde o se risponde
risponde al telefono. Mai alle armi.
Secondo, perché so che le guerre
si perdono sempre: anche quando le vinci
e il rancore dei vinti ti sale addosso
come una formicola, come un’onda d’urto
capace di sommergere il creato.
Io questo lo sapevo e lo temevo.
Ma potevo resistere al furore di Agamennone?
Potevo rintuzzare quel perfido di un Menelao
che un qualche interesse a disarmare Troia
ce l’aveva anche lui? Erano sempre insieme,
quei due: gemelli più che fratres: e parlavano
entrambi la stessa lingua, tenendo la mano
sulla pistola e volteggiando il cappello nell’aria
e bucherellandolo in un tirassegno
missilistico planetario. Potevo resistere a quei due?
No, non potevo: e infatti mi incastrarono.
E tuttavia, tornando dalla guerra,
c’era per me come una sorte avversa.
Volevo tornare a casa, come dice l’orbo.
Ma non è vero, come canta il cieco,
che Eolo re dei venti (questi venti bastardi
che strappano le pagine ai libri e alle farfalle
le ali), non è vero come crede l’audience
che l’otre che mi diede Eolo fosse scuoiato
da un bue di nove anni: nel quale caso, immagino,
non sarebbe successo niente.
(Isgrò 2011, 497-501)
Assume un ruolo centrale nell’epos di Isgrò l’otre dei venti, paragonato a un computer o container incapace di reggere le sfide della modernità per la sua natura ambigua inafferrabile, misteriosa e pericolosa: simbolo dell’intero viaggio dell’eroe, vero perno del racconto – in apertura e chiusura di questa Odissea – e metafora dell’atto creativo che apparenta Odisseo e lo stesso Omero ad aedi, artisti, affabulatori e inventori di storie. Ed è lo stesso Isgrò, nella performance di Pompei, a vestire i panni del poeta cieco: entra in scena da una parodo laterale e va al centro dell’orchestra che per questa particolare occasione ospita il pubblico: altri spettatori sul palcoscenico, altri ai due lati della cavea, che è riservata agli attori nel settore centrale, con un’evidente infrazione ai codici consueti. Coerentemente con questa scelta, le gradinate diventano un fondale scenico cangiante, illuminato e colorato, uno schermo o tela dove viene proiettato a inizio spettacolo un brano dell’Odissea in greco (un esametro per ogni gradino) tratto da Od. X, 1-75, ossia l’episodio di Eolo più volte richiamato nel testo. Una volta entrato nell’orchestra, Isgrò si inchina alla platea, poi dando le spalle al pubblico si siede su una sedia da regista con le lettere cancellate: restano visibili solo le ultime due –ro– che sono di ‘Isgrò’, ma anche di ‘Omero’.
Mettendosi letteralmente ‘al suo posto’, come un direttore d’orchestra, l’autore usa lo spazio scenico come un palinsesto dove cancellare e riscrivere il poema in forma di ‘epos’ (così il sottotitolo). Isgrò apre un grande libro e inizia a cancellarne le pagine. Il gesto estetico di grande impatto ha una ricaduta immediata sulla videoproiezione: come se la sua mano guidasse l’orchestra dei segni, interi segmenti di versi, parole o lettere sbiadiscono, si cancellano, si coprono di tratti neri. Assistendo all’evento in diretta, il pubblico partecipa all’installazione con crescente suspense: coinvolto nel processo creativo, ‘scopre’ man mano quali segni rimangono e quali spariscono. Chi conosce il testo omerico può anche cogliere il nuovo senso delle combinazioni inedite che si vengono a creare, chi non sa il greco apprezza a livello visivo la continua variazione nelle stringhe di parole che si delinea sulle gradinate. Come ultima immagine, nella cavea ormai vuota, dalle parole emerge il contorno della nave di Ulisse, a vele spiegate, cullata dal suono del mare e del vento.
Queste forti suggestioni, visive e uditive, accompagnano la recitazione del testo di Isgrò: agli esametri greci si sostituiscono versi liberi italiani, suddivisi in strofe numerate con cifre arabe (a differenza dei testi teatrali di Isgrò, dove le scene hanno numeri romani) e con l’indicazione di chi parla (personaggio o coro): il testo italiano mescola linguaggio aulico e colloquiale, arcaico eppure ben comprensibile. Le voci – maschili e femminili – sono inglobate in un flusso di coscienza, di andamento ritmico, ora in terza persona ora in prima, con discorsi diretti che riportano i pensieri reconditi e le emozioni più profonde dei personaggi: tutti provenienti dal poema omerico, ma rivisitati e aggiornati da Isgrò, a partire naturalmente dal protagonista “Ulisse Odisseo: il primo nome, il secondo cognome” (Isgrò 2011, 511. Si vedano anche le recensioni di Fiore 2024, Giovannelli 2024 e Barone 2024). Come spiegava anni fa lo stesso autore, leggendo alcuni passi del suo poema all’Università di Trento (Isgrò 2018), Odisseo gli è caro proprio perché gli assomiglia, inafferrabile e multiforme, inventore di mille storie potenzialmente vere o false (Giono 1947 e 2005). Si riporta qui di seguito l’incipit di Isgrò:
1)
Proemio
Musa, quell’uom di multiforme ingegno
dimmi dov’è cascato, svelami in quale regno
dei morti o dei viventi s’è eclissato.
Il gran poeta cieco, il non vedente,
testimonia che egli andò a Troia
più spinto da un errore che dall’anima.
Eppure combatté come un eroe
coi piedi e con la mano, con un pensiero a Itaca
la sua patria scontrosa
(Isgrò 2011, 495)
La citazione iniziale della traduzione di Pindemonte, richiamando la storia della ricezione omerica in Italia, assume valore paradigmatico e ironico: la solennità del verso è immediatamente smorzata con un brusco cambio di tono, nei versi successivi, com’è nello stile di Isgrò. Anche la veste ufficiale di ‘prode combattente’ è subito smentita, sia nel corso del testo sia in altri suoi scritti: Isgrò compone quest’Odissea durante la guerra in Iraq, ed è un suo modo di dire no alla guerra, per invitarci a ‘imparare dai nostri errori’. Il suo protagonista non è certo l’eroe senza macchia e senza paura, anzi è contrario a ogni guerra. Si finge pazzo per non andare a combattere, e a malincuore accetta di partire per salvare dall’arruolamento Telemaco. Nel suo viaggio indossa tante maschere, e nello spettacolo ad una ad una le getta via e si rivela per quello che è, ammettendo che a Troia in realtà non è mai andato davvero (come Elena, forse, o forse no).
Non sono andato, amici, non sono andato a Troia.
Non perché non volessi, ma perché non ho sonno:
e solo il sonno genera illusioni.
Ho così poco sonno, Zeus, che anche questo vento
vecchio di trenta secoli
– benevolo o malevolo che sia –
può gonfiare e spingere la mia vela
che va e viene e non ritorna all’ombra.
Benedico le api, il tempo, le formiche.
Mi hanno fatto male, disturbato,
ma ora li ringrazio, questi insetti bambini:
come ringrazio voi, o uomini,
che siete dèi e non vi disperate.
Non perché Omero vi informa e vi istruisce:
ma perché vi dice le cose in modo tale
che voi non gli credete.
(Isgrò 2011, 522-23)
Nella performance di Pompei il regista Sangati, seguendo le suggestioni del testo, fa entrare per primo in scena, da solo, un vecchio malvestito e col sacco in spalla come un clochard (Luciano Roman). Si stende su un gradino, a dormire. Come l’Odisseo omerico che a Itaca, sotto mentite spoglie, si presenta a palazzo per ingannare i Proci. Dalle gradinate calano alcuni giovani attori che si paragonano a ‘nani’ (issati sulle spalle dei giganti, cioè dei classici), in seguito a insetti: sono persone vere o fantasmi, voci nella testa di Ulisse? Lo stesso protagonista si amalgama e si confonde con loro, man mano che a turno entrano e escono dal coro, si allontanano e riappaiono in scena come interlocutori: Odisseo sembra parlare tra sé e sé, più che con loro, fa discorsi incoerenti, appare confuso e stanco, rassegnato, disilluso; Nausica sembra una bambina innocente, ma in realtà è una Lolita maliziosa che prende l’iniziativa e seduce Odisseo “col gesto della Monica Lewinski”; Circe non trasforma gli uomini in porci ma anzi al contrario cerca di salvare ogni creatura umana e bestiale, ristabilendo un equilibrio con la natura che loro stessi hanno violato e continuano a minacciare con conseguenze sempre peggiori. Anche in questo il testo ci appare oggi tristemente profetico, e attuale, a oltre vent’anni dalla sua stesura, capace di guardare al passato, ma anche al presente e al futuro.
Anche per questo motivo quest’Odissea ibrida, opera visiva e visionaria, a metà tra racconto e performance, trova ora a Pompei la sua ideale collocazione scenica, temporale e simbolica. Proprio in quanto compimento e coronamento di una lunga serie di opere, sopra ricordate, da una parte le cancellature, dall’altra le drammaturgie: distanti tra loro per forma, occasione, tema ed epoca di composizione, ma unite da un unico filo conduttore coerente, organico e ininterrotto, nella mente dell’artista. In particolare le opere per Gibellina e quest’Odissea di Pompei, che vedono la luce in due città-fantasma, morte, sepolte – l’una sotto il terremoto, l’altra sotto il Vesuvio – dove aleggiano gli spettri e si avverte la presenza di un mondo cancellato, ma ancora vivo. Riportiamo qui in calce un ultimo estratto del testo di Isgrò, a testimoniare come i classici non siano affatto spenti: bruciano come braci sotto la cenere, pronti a divampare ancora.
6.
(Coro)
Invece invece invece?
Invece come andarono le cose?
Come fu che eri quasi dentro
– dentro la tua casa –
e ritornasti indietro di tanti anni?
Se l’otre era lì
e i tuoi non lo toccarono
chi fu a scatenare l’onda?
Chi fu a provocare Eolo?
7.
(Ulisse)
Non era di bue, l’otre, come diceva il re.
E del resto la cosa si capiva
dalla dimensione piccola, slabbrata.
Era un otre di capra, una cosetta inutile.
E là dentro ci stavano, sì e no,
lo zèfiro e il libeccio: niente di più, niente di meno.
Mentre il sorridente Eolo, immagino in malafede,
ci aveva stipato insieme, come in una moka,
anche lo scirocco e il ghibli, la tramontana e il fon.
E stavano così stretti, quei poveri elementi
costretti al buio di una pelle anemica,
che se accostavi l’otre all’orecchio
– come alla conchiglia di un mare lontanissimo –
il timpano si bucava come un guanto
e lo squarciava l’intrecciato cantico
che veniva da lì, da quel pellame
che conteneva in sé il massimo bigbang
di tutti i maremoti ancora immaginabili.
Insomma si spaccò l’otre di capra;
e scoppiò da solo, solo a rimirarlo,
come una bolla d’acqua e di sapone
che in sé racchiude il mondo e lo determina.
E fu naufragio, anime mie implacabili,
insetti che la neve
non la vedete mai – perché morite prima.
8.
(Coro)
Ma noi non siamo insetti,
professor Odisseo.
Non siamo farfalloni e farfalline.
Di giorno siamo galli.
Di notte galline.
Siamo esseri umani.
Siamo nani.
Il nostro dna
è ancora inalterato.
Noi non siamo maiali,
gran clinico Odisseo.
Siamo esseri umani.
Siamo nani.
E siamo tutti di Itaca,
come lei, Odisseo.
Soltanto lei può ricondurci a casa.
Soltanto una Penelope clonata in marinaio
da un dna impazzito.
E non si sa da chi –
se da Omero medesimo o da Dio.
9.
(Ulisse)
E allora fuggiamo di qua: da questa maga
che anche lei, a volte, si perde e si divaga.
Perché è vento anche lei, aria di mare,
come il vento di Eolo che soffia da quel dì
che l’otre si spaccò e cominciò la storia.
Fuggiamo dall’orrore di un giorno che non c’è.
Blocchiamo gli orologi, se li sappiamo leggere,
dove ancora trema un raggio di luce – inesplicabile…
10.
(Corista)
Ma quale Itaca!
Ma quale fantascienza!
È un punto di partenza
che cerchiamo, non di approdo.
Anche la storia
s’è fatta circolare.
Anche l’uomo
s’è fatto arrotondare.
E vive senza spigoli.
È abolito il principio.
È negata la fine.
[…]
14.
(Coro)
Anche noi imploriamo Zeus
visto che il Dio cattolico
si è stancato di noi.
Anche noi chiamiamo Afrodite
in soccorso
se le madonne bianche e quelle nere
trovano disdicevole
aiutarci a chiarire le cose.
E a prima vista sembra
che le cose stiano
proprio così:
che Ulisse Odisseo
– il primo nome, il secondo cognome –
trovi difficoltà non poche
sulla via del ritorno.
(Isgrò 2011, 503-511)
Scheda dello spettacolo
Odissea cancellata, Pompeii Theatrum Mundi – Teatro Grande di Pompei |
regia Giorgio Sangati
con Luciano Roman
e Clara Bocchino, Francesca Cercola, Eleonora Fardella, Francesca Fedeli, Gianluigi Montagnaro, Antonio Turco
installazione scenica Emilio Isgrò
progettazione scenica Claudio Lucchesi Studio ufo
costumi Eleonora Rossi
disegno luci Luigi Biondi
musiche Giovanni Frison
cura del movimento Norman Quaglierini
aiuto regia Angela Carrano
assistente regia volontario Gianluca Bonagura
direttrice di scena Flavia Francioso
macchinista Nicola Grimaudo
datore luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Daniele Piscicelli
sarta Roberta Mattera
foto di scena Ivan Nocera
costumi realizzati da Sonia Marianni e Francesco Boscolo
parrucche realizzate da Patrizia Rossi e Gaia Ombrini
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale con il contributo del Parco archeologico di Pompei
13, 14, 15 giugno 2024, ore 21
La settima edizione della rassegna Pompeii Theatrum Mundi si apre con un omaggio a un grande artista, Emilio Isgrò, con lo spettacolo Odissea cancellata per la regia di Giorgio Sangati. Isgrò mette in scena la sua Odissea in versi insieme a un’installazione concepita in situ. Lo spettacolo è progettato come un’opera nell’opera: le gradinate del Teatro Grande si trasformeranno in una gigantesca video-installazione dell’artista-autore. Mentre i versi dell’Odissea impressi sulla pietra dei gradini verranno cancellati a vista, dalle cancellature stesse prenderà vita il testo. Di fatto la drammaturgia di Isgrò procede allo stesso modo: cancella Omero (tornando alla fonte primaria dell’epica) selezionando solo i frammenti che ritiene essenziali e, sradicandoli dal loro contesto, restituisce loro nuova e inaspettata forza. È una riscrittura dissacrante e incredibilmente ironica che rovescia ogni stereotipo sull’epopea a partire da Ulisse, antieroe multiforme, “scassato” e modernissimo, intrappolato in un viaggio senza fine né inizio. Non è possibile orientarsi, infatti, in questo “mare” dopo l’inganno di Eolo con il suo otre da cui sono fuoriusciti tutti i venti del mondo come i mali dal vaso di Pandora. È un pelago senza tempo, battuto da un vento “digitale” che estende i confini del mito fino al nostro tempo ed oltre a ricordarci che il classico non appartiene al passato quanto piuttosto al futuro. Attorno al protagonista si agita un bizzarro e inquietante coro di “nani”, in cui non è difficile riconoscere un’umanità ridotta ai minimi termini. Di tanto in tanto fugaci apparizioni spettrali: Penelope, Nausica, Circe e Polifemo sotto forma di sogni, incubi o allucinazioni arrivano da lontano a visitare/torturare Ulisse, riscrivendo la loro storia, senza censure. A tratti sembra di assistere a un processo, a un singolarissimo autodafé; ma non c’è né condanna né soluzione; non ci può essere perché saremmo noi stessi a doverci giudicare. I versi di Isgrò, scritti nel 2003 nel mezzo di una guerra (e mai rappresentati), a distanza di vent’anni ci ricordano come continuiamo, tragicamente, a ripetere i nostri errori dalla notte dei tempi.
La mia Odissea cancellata
Emilio Isgrò
Un po’ di anni fa, quando scrissi l’Odissea cancellata, non sapevo come e quando quest’opera sarebbe stata rappresentata. Avevo concluso da tempo l’esperienza di Gibellina – proprio con quella Orestea di Gibellina che diede avvio alle grandi Orestiadi – e in qualche modo volevo sganciarmi da un modello teatrale che io stesso avevo creato grazie al sostegno di Ludovico Corrao, a quell’epoca sindaco della città, il quale credeva come me in un teatro capace di fare della parola umana l’asse portante dello spettacolo.
Conoscevo bene i rischi. Una certa opinione critica allineata, benché fortemente inserita nel clima delle neoavanguardie, considerava “reazionaria” la parola in nome di un teatro d’immagine o di gesto che allora imperversava di qua e di là dall’Oceano. D’altra parte non ignoravo che l’aver tolto di mezzo preventivamente la parola con le mie cancellature mi proteggeva abbastanza da tale rischio. Ma c’era di più. Avendo operato per anni nel campo della poesia visiva, dove la coesistenza di più discipline e linguaggi liberava la parola dalla sua rigidità gutenberghiana, non mi sarebbe stato difficile far levitare quegli esperimenti fino al livello di un vero e proprio spettacolo.
Da un lato riconquistai la qualità letteraria del testo che a molti sembrava un limite ai ritmi del teatro. Come dire che la potenza della parola di Shakespeare sottrae vigore alla scena del balcone in Giulietta e Romeo, là dove ne esalta, invece, la forza schiettamente spettacolare. Solo per questo per l’Orestea e gli altri testi composti per Gibellina – Gibella del Martirio e San Rocco legge la lista dei miracoli e degli orrori – feci ricorso a una scrittura in versi che della letterarietà è uno dei segni più ostentati e visibili; e se a quel tempo schiere di attori esibivano sulla scena i loro corpi desolatamente muti e silenziosi, io a quei corpi diedi una voce, affinché la loro fisicità si rovesciasse sugli spettatori più facilmente. L’Odissea cancellata viene da quella esperienza, quando, forte di un’ispirazione che veniva da Eschilo e dai tragici greci in genere, tentai di avvolgere in una nuvola sonora il pubblico.
La seconda provocazione era la speranza di spezzare con un linguaggio alto, comunque distante dal “teatro di poesia” novecentesco, il cosiddetto “teatro di prosa” che da Pirandello portava a Beckett.
Certo non è un caso che anche quest’opera sia composta in versi: per dare un sostegno più solido e vincolante agli attori, al regista e a tutti i creatori dello spettacolo. Allora sognavo un teatro diverso. Una drammaturgia che cancellasse il silenzio. Chissà se quella mia speranza ha avuto già una risposta o ancora l’aspetta. A un certo punto mi sono distratto dal teatro come in altri tempi mi ero distratto deliberatamente dalle arti visive. Tuttavia il mio amico Roberto Andò, direttore del Teatro Nazionale di Napoli, conosceva questa Odissea cancellata, il solo mio testo mai rappresentato. E mi ha sollecitato a tirarlo fuori per il Teatro Romano di Pompei. Un testo cancellato per un paese cancellato. Ma si sa che in latino due negazioni affermano, tramutando in vita la morte.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
Since 1964 the Sicilian artist Emilio Isgrò has been ‘burning’ the classics. Still today, he claims to be on the opposite side of cancel culture. By erasing and rewriting ancient texts, he aims at making them rise from the ashes, like the Phoenix. As a playwright, in the early 1980s, he erased and rewrote Aeschylus on the ruins of the earthquake in the Belice valley (Orestea di Gibellina). In 2024, he has brought his Erased Odyssey (Odissea cancellata) to the great theatre of Pompeii: Homer and his characters have been brought to life among the stones and the inhabitants of the ghost town, buried by the volcano (see the website of the Festival Pompeii Theatrum Mundi.
keywords | Emilio Isgrò; Pompei; Homer; Odissea cancellata.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Treu, Cancellare (e riscrivere) Omero. L’Odissea e i classici ‘bruciati’ da Isgrò, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024