Tra ζωή e βίος. Donne che allattano cuccioli di lupo di Adriana Cavarero
Un’intervista con l’autrice*
Adriana Cavarero, Nadia Terranova
English abstract
Nadia Terranova | Cominciamo dalla fine. L’ultima cosa che Adriana Cavarero fa prima di salutarmi, dopo una giornata trascorsa insieme a parlare di femminismo, filosofia e narrazione, è portarmi nel suo studio, la stanza della sua casa veronese dove si ritira per scrivere. Proprio sopra la scrivania c’è una cornice con tre foto: in una c’è Hannah Arendt che fuma, in un’altra lei da giovane, la terza non si vede bene, è scivolata dietro le altre. Insieme la tiriamo fuori e scopriamo Adriana e Judith Butler sedute su un muretto, la mano dell’una sulla spalla dell’altra, alla fine degli anni Novanta a Berkeley, prima o dopo qualche impegno universitario che le aveva viste insieme, uno dei molti. Cavarero indossa un cardigan a righe azzurre e viola, Butler una camicia scura e larga. Non sono molto diverse da adesso le due filosofe, l’autrice di Nonostante Platone e quella di Gender Trouble, spartiacque del pensiero femminista pubblicati parallelamente (Nonostante Platone fu tradotto quasi subito in America) che hanno avvicinato due pensatrici straordinarie e spesso su posizioni diverse, se non opposte. Mi piacerebbe sapere qualcosa in più del vostro dialogo, che da allora non si è mai interrotto.
Adriana Cavarero | Dialogo è una parola insufficiente, preferisco parlare di sforzo per capire il linguaggio dell’altra. Judith viene dallo strutturalismo postmoderno e io ho una formazione classica, non parliamo la stessa lingua madre, ma tra me e lei non è mai mancata la volontà di capirsi e di capire.
NT | Uno sforzo che dovrebbe innervare sempre le discussioni fra donne. Per le femministe della mia generazione, in particolare noi che abbiamo studiato filosofia, Diotima – la comunità filosofica femminile che lei e altre avete creato a metà degli anni Ottanta – continua a essere un modello.
AC | Diotima è nata dall’incontro con Luisa Muraro, io ero una militante dell’uguaglianza, ma la posizione emancipazionista mi risultava sempre più insoddisfacente, mi rendevo conto che mi veniva chiesto di trasformarmi in un uomo e sentivo qualcosa che strideva. L’incontro con Muraro e con i testi di Luce Irigaray mi hanno permesso di esplorare lo spazio contraddittorio dell’uguaglianza, rimettendola al suo posto di elemento strategico per la conquista della parità economica e dei diritti, per rivolgermi al più complesso pensiero della differenza sessuale.
NT | In Tu che mi guardi, tu che mi racconti, scrive: “l’Uomo è contemporaneamente l’intera specie maschile e uno dei due generi. È neutro e maschile. È tutt’e due, nessuno dei due e uno dei due.” Trovo in queste righe uno sbocco per l’asfissia che provo di fronte alla guerra al femminile in perenne atto nella nostra lingua. Una guerra che mi sembra coincidere con l’occultamento fazioso della maternità, del resto nello stesso volume lei riporta le parole di Ulisse che, nel presentarsi, dichiara: “Sono Odisseo, figlio di Laerte”.
AC | La propaganda sulla maternità pesa sulle donne attraverso molte forme: una, ricorrente, è l’idealizzazione della donna in carriera che molla tutto perché sente la vocazione di dover crescere i figli. Per non parlare del ricatto della natalità, come se partorire fosse un dovere sociale. Ma questo non può giustificare la censura, dobbiamo scappare dalle trappole senza dimenticare che siamo nate e nati tutti da un corpo femminile, perché solo un corpo femminile può partorire. È quello che Virginia Woolf chiamava “lo strano potere”, e rimane un potere anche se si sceglie legittimamente di non esercitarlo.
NT | Oggi però molte femministe sembrano vedere solo la trappola, il limite. Credo serva più divulgazione alta, approfondita, meno da slogan, per tenere la discussione sul materno su piani meno banalizzanti.
AC | In settembre uscirà per Mondadori un libro che ho scritto insieme a Olivia Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), il titolo gioca ovviamente con la famosa frase di Simone de Beauvoir secondo cui donne si diventa. Affrontiamo capitolo e capitolo antiche e nuove questioni, è un libro diretto a tutte e tutti, in particolare più giovani.
NT | Non vedo l’ora. Nel frattempo, torno a Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che oggi, come la maggior parte dei suoi libri, è disponibile nel catalogo Castelvecchi. È un libro chiave per chi si occupa di letteratura, non a caso Elena Ferrante ha scritto che per lei è stato uno spartiacque quando ha scelto il punto di vista dell’amica per raccontare la vita di un’altra, come se ne stendesse lei la biografia.
AC | Hannah Arendt, che insieme a Platone e María Zambrano è la filosofa di cui più mi sono occupata, ha sostenuto che la Storia, quella con la maiuscola, non è che l’intreccio di molte storie. Io non sono una narratrice, ma la letteratura è una mia passione, mi è venuto naturale interessarmene, come è accaduto per la musica. Indagando la distinzione fra biografia e autobiografia, mi sono accorta della potenza che si sprigiona quando è l’altro a raccontare la tua storia, quando addirittura si arriva a chiedere: dimmi chi sono. Succede con la madre, che conosce di te un segmento che tu stesso non puoi ricordare, o con gli amanti, tra cui si stabilisce un rapporto di narrazione biografica reciproca.
NT | Edipo e Ulisse sono i personaggi che lei porta come esempio come ignari di una parte della propria storia e desiderosi di sentirla raccontare. È un caso che siano uomini?
AC | Le donne sono di solito grandi narratrici. Vede, noi due ci siamo viste poche ore fa e già a pranzo, prima di cominciare questa intervista, ci siamo raccontate dei momenti intimi della nostra storia personale. Gli uomini non hanno questa consuetudine, si scambiano interessi, opinioni, non narrazioni. Ovviamente parlo sempre di un maschile e femminile stereotipico, non di singole esperienze.
NT | Sempre sul piano della relazione, per me è stata illuminante la sua espressione “altruismo etico”, qualcosa in più della generica alterità, spesso brandita come espediente retorico.
AC | L’altro da noi ci appare e ci interroga, ed è sempre concreto. Non ho mai pensato a un astratto, sempre ai singoli: fondamentale in questo senso è stata la lettura dell’opera del filosofo francese Emmanuel Lévinas.
NT | Parlando di epifania dell’altro non posso non pensare al tempo che stiamo vivendo, un tempo di guerra. Anche se abbiamo parlato di femminismo e di letteratura, forse il libro che tutti dovrebbero leggere in questi tempi è quello in cui lei teorizza e dimostra l’oscenità della violenza, Orrorismo.
AC | Purtroppo, sì.
NT | Oggi sembra predominante una sorta di fascinazione per il conflitto, una necessità di schierarsi con forme accese di violenza.
AC | Purtroppo la fascinazione per il conflitto rinasce puntualmente nei vari periodi critici della storia umana, sfociando spesso in scontro armato. Se parliamo in generale di conflitto ideologico, di schieramenti che si scontrano sulla scena pubblica, è facile tuttavia constatare come la logica dominante oggi sia quella di una polarizzazione spinta agli estremi che impedisce, per principio, qualsiasi ragionamento o mediazione. Il fenomeno viene notoriamente ricondotto ai social e credo che sia vero. Prevale una sorta di fanatismo. Ma credo anche che ci sia una straordinaria disabitudine al pensiero critico e allo studio della storia, all’umiltà di cercare di capire fenomeni complessi e fermarsi a riflettere. Come studiosa del totalitarismo e lettrice di Hannah Arendt trovo questa situazione molto preoccupante.
NT | Passando a un tema molto discusso, vorrei che ci parlasse di come è cambiata la gestazione per altri in questi anni.
AC | In questi ultimi anni il mercato procreativo è cresciuto a dismisura mostrandosi come un’impresa capace di grandi profitti. Quando oggi parliamo di gestazione per altri, parliamo dunque di un fenomeno alimentato dalle leggi del mercato e quindi da una logica molto potente, capace di produrre efficaci narrazioni di marketing per giustificarsi ed espandersi. Un esempio è l’idea che decidere di affittare il proprio utero, per fare un figlio commissionato da altri, sia una scelta che esalta la libertà della donna. Alcune amiche mi dicono: io non lo farei, ma, se c’è una donna che vuole farlo, è libera di farlo. Si tratta palesemente di un concetto astratto di libertà, che contrasta con la realtà del fatto che ad affittare il proprio utero sono per lo più donne povere, spinte dal bisogno. Una donna bianca e benestante che affitta il proprio utero non si è ancora vista. Allora qualcuna ribatte: che male c’è a farlo per soldi, a vendere liberamente il proprio corpo come le sex workers? Il discorso, insomma, si appella a una libertà mercantile, estremizzando un liberalismo di matrice individualistica che, sfortunatamente, viene però abbracciato dalla sinistra. Tutto il lavoro del femminismo storico contro la strumentalizzazione del corpo delle donne trova così un ostacolo proprio nei partiti di sinistra. Da un certo sentimentalismo, riciclato a sinistra, viene anche l’idea che la madre surrogata non lo faccia per soldi ma per la generosità, tipicamente femminile, del dono gratuito: e si parla allora di maternità solidale. Si tratta, anche in questo caso, di narrazioni di marketing, abili nel mascherare il pagamento della madre surrogata sotto la voce rimborso spese. La situazione è perciò difficile e complessa: oggi, la critica femminista all’utero in affitto non può limitarsi a denunciare lo sfruttamento del corpo delle donne ma deve fare i conti con narrazioni mercantili di libertà e solidarietà abbracciate dalla sinistra.
NT | Donne che allattano cuccioli di lupo è uno dei libri più importanti di questi ultimi anni, un libro che resterà. Vorrei che ce ne parlasse, che ci raccontasse come è nato.
AC | È nato anche per reazione al fenomeno della gestazione per altri di cui abbiamo appena parlato. Ho voluto sfidare i discorsi sulla maternità su più fronti. Accanto al fronte della mercificazione della capacità procreativa delle donne, c’è infatti anche il fronte di una variegata tradizione di pensiero, interna al femminismo, che ritiene la maternità una specie di trappola per ingabbiare le donne nel ruolo domestico. Potrei citare il Secondo sesso di Simone de Beauvoir a cui nel libro dedico un capitolo. Per lei, la maternità è appunto una gabbia biologica che impedisce alle donne di realizzarsi come soggetti liberi, cosa che agli uomini, a causa del loro ‘privilegio anatomico’, è invece concessa. Su questa base si è sviluppata, in certe aree del pensiero femminista internazionale, una sorta di censura rispetto ai discorsi sulla maternità. Meglio non parlarne e, soprattutto, non parlarne in termini positivi per evitare di rafforzare gli stereotipi patriarcali sulla maternità come destino delle donne. Ebbene, io ho invece deciso proprio di parlare in termini positivi del lato biologico dell’esperienza materna. Per biologia, che preferisco chiamare zoologia dal greco zoè, vita, intendo il mondo delle molteplici forme viventi, sempre singolari, di cui la donna gravida o partoriente fa esperienza diretta nel suo proprio corpo. Un corpo singolare che si scinde in un altro corpo singolare, venendo così toccato, attraversato da un processo generativo del vivente di cui fa conoscenza. Elena Ferrante, Annie Ernaux, Clarice Lispector, e altre scrittrici di cui tratto nel libro, parlano di una conoscenza viscerale che rappresenta il lato tremendo della maternità. Viginia Woolf lo chiama invece uno strano potere. Si tratta dello strano potere di essere spossessate nell’esperienza di far parte, farsi complici e partecipare al mondo infinito del vivente. Questa esperienza apre a una prospettiva sull’interrelazione delle forme viventi, in breve sulla natura, che potremmo definire ecologica o biocentrica. Mi accorgo che non posso riassumere in poche parole una riflessione che mi è costata anni di studio e di scrittura. Voglio però precisare un punto importante. L’esperienza materna di cui parlo si riferisce alla donna da cui tutte e tutti siamo nate ma non si traduce affatto in un obbligo per le donne di diventare madri. La mia indagine riguarda il modo in cui l’esperienza del generare, riservata al sesso femminile, si inscrive nella condizione umana e la rende capace di conoscere e di conoscersi nella comunità delle forme viventi. Insiste insomma sulla maternità non come ruolo sociale ma come potenza conoscitiva del legame che allaccia tutte le forme viventi, anche la nostra, l’una all’altra. Il titolo un po’ strambo del libro, Donne che allattano cuccioli di lupo, è la citazione di un verso delle Baccanti di Euripide. L’ho scelto perché mette a tema la maternità non tanto come generazione bensì come nutrizione, più in dettaglio, narra di donne fresche di parto che, invasate da Dioniso, fuggono nei boschi, danzano e cantano, e infine porgono le loro mammelle a cuccioli di animali selvatici. Interessante qui è la trasgressione dei limiti di specie che simboleggia una vicinanza e una comunione delle forme viventi. In tal senso le baccanti sono una figura esuberante di ipermaternità che esalta il nostro far parte di una rete che connette tutti i viventi e li stringe in un unico nodo generativo e nutritivo. Una festa, tremenda quanto si vuole, ma una festa della relazione e della varietà di quelle forme singolari, molteplici e stupefacenti, che chiamiamo vita.
*Una versione ridotta di questa intervista è stata pubblcata in “D di Repubblica” del 13 luglio 2024 con il titolo Donne si nasce.
English abstract
Through an overview of Adriana Cavarero's work and thought on feminism and the role of the female body, both as a mother and as an individual seeking her own affirmation despite motherhood, the author introduces her latest work, Donne che allattano cuccioli di lupo (2023). Among other ideas, Cavarero discusses, with intriguing insights and a philosophical approach, how the female body can conceive life in relation to the biome itself.
keywords | Adriana Cavarero; Nadia Terranova; female body; feminism; Euripides’ Bacchae; maternity.
Per citare questo articolo / To cite this article: Adriana Cavarero, Nadia Terranova, Tra ζωή e βίος. Donne che allattano cuccioli di lupo di Adriana Cavarero. Un’intervista con l’autrice, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024