Uno e molteplice
Introduzione a Sinesio di Cirene. Tutte le opere, a cura di Francesco Monticini, Bompiani 2024
a cura di Francesco Monticini
English abstract
Nella collana “Il pensiero occidentale”, fondata da Giovanni Reale, esce il volume Sinesio di Cirene. Tutte le opere, a cura di Francesco Monticini, nel quale si pubblica – in lingua originale e traduzione italiana a fronte – l’intero lascito letterario del filosofo-vescovo, allievo prediletto di Ipazia: oltre a uno degli epistolari più ricchi della letteratura tardoantica e bizantina e ad alcuni fra i più importanti esempi di poesia cristiana in metrica classica, esso include degli opuscula che spaziano dalla retorica alla filosofia, dall’astronomia all’oniromantica. Copiate, studiate e commentate per tutto il millennio bizantino, le opere di Sinesio di Cirene non avrebbero mancato di affascinare Marsilio Ficino, Girolamo Cardano, Mario Luzi e molti altri.
SOMMARIO DEL VOLUME
Introduzione di Francesco Monticini |
VII |
dalla Introduzione
Io ho ammirazione per Proteo di Faro, il quale, pur sapiente nelle grandi questioni, esibiva fatti mirabili alla maniera dei sofisti e appariva nelle vesti più disparate a coloro che capitavano ad ascoltarlo.
Così Sinesio si esprime nel Dione[1], riferendosi al mitico Proteo, divinità marina figlia di Oceano e Teti: straordinario veggente, sarebbe vissuto, secondo Omero[2], sulla piccola isola egiziana di Faro, non lontano dalle foci del Nilo, proprio dinanzi al sito dove sarebbe sorta Alessandria. La sua caratteristica principale era quella di sapere assumere qualunque forma, così da dissimulare la propria presenza a tutti coloro che si mettevano alla sua ricerca per apprendere il futuro.
È stato scritto[3] che Sinesio finì per somigliare a Proteo di Faro, presentandosi al suo lettore sotto forme sempre nuove e diverse. Non si può discordare su questo: esiste un Sinesio iniziato ai misteri neoplatonici, un Sinesio dedito – spesso suo malgrado – agli eventi politici e militari della propria epoca; un Sinesio uomo religioso, nella fattispecie vescovo cristiano, un Sinesio retore, appassionato di stile e delle forme della comunicazione letteraria. Possiamo fermarci qua, ma l’elenco sarebbe certo molto più lungo.
Compiendo un passo ulteriore, è lecito chiedersi se, sotto questo aspetto e più in generale, Sinesio sia ancora in grado di parlare al nostro mondo; e, in caso di risposta affermativa, quale insegnamento vi sia, per l’attualità, nella sua opera.
Senza alcun dubbio, egli fu figlio del proprio tempo, della cosiddetta tarda antichità. Solo per citare un fatto epocale – del quale ovviamente Sinesio non poté avere una piena coscienza storica –, fu testimone della fine di un unico impero romano, irreversibilmente scisso nel 395 d.C. nelle sue due metà orientale e occidentale. Visse tutte le problematiche di un turbolento periodo di faglia storica; conobbe le incertezze di una società in rapida evoluzione, profondamente incrinata – dal punto di vista sociale, religioso, militare, etnico – dalle spinte della Völkerwanderung da un lato e dall’esplosione di contraddizioni interne dall’altro.
Il lascito di Sinesio è, allora, una voce che si leva da un’età propriamente critica, per parlarci di complessità. Di una complessità superflua, vacua, fine a se stessa, contro cui lo stesso autore non mancò di scagliarsi, ma pure di una complessità ricca, feconda, restia a ogni avventata semplificazione.
Siamo convinti che la lettura della sua opera sia ancora molto preziosa: non soltanto per quegli aspetti in cui Sinesio e la sua epoca riuscirono, ma pure per quelli in cui, piuttosto, fallirono.
[…]
Sinesio è una voce lontana sedici secoli. La sua non è l’eco di una personalità di primissimo livello, di un Platone, di un Aristotele, di un autore che abbia condizionato profondamente il nostro modo di essere e di pensare; eppure, non cessa di parlare[233].
Per i Bizantini Sinesio fu anzitutto un modello di stile; nelle sue lettere ritrovarono un bell’esempio di prosa atticistica, da imparare a scuola e da imitare nelle prove letterarie. Fu anche, specialmente nella tarda Bisanzio, un’icona di un modello culturale rimpianto, di un’identità perduta, di una sapienza curiosa e umanistica[234].
Per noi Sinesio rappresenta in prima analisi un’importante fonte storica, che getta notevole luce sugli eventi che interessarono l’impero romano d’Oriente nei primissimi anni della sua esistenza, parlandoci dei fatti della Libia (lettere e Catastasi), di Costantinopoli (lettere, All’imperatore, sul regno, Racconti egizi), dell’Alessandria di Ipazia e di Teofilo (lettere). Ma l’autore è certo anche un considerevole testimone per quanto riguarda la storia del pensiero – e anzitutto per questo, senza alcun dubbio, avrebbe desiderato essere ricordato: si pensi ad alcuni passi dei Racconti egizi e dell’Elogio della calvizie, al Dione, ma soprattutto al Trattato sui sogni e agli inni. Sinesio fu in effetti un rappresentante non minore del neoplatonismo, di quella corrente filosofica che, con il suo sospetto verso la materia e il mondo corporeo, con la sua venerazione per la dimensione puramente speculativa e intellettuale, avrebbe intriso di sé, nel profondo, il cristianesimo.
Ci piace ricordare Sinesio anche per la sua capacità di rappresentare stati psicologici inusuali o alterati. Avviene nella lettera 154, quando espone la sua condizione – sorta di vera e propria depersonalizzazione, quasi autoscopia – nell’atto di redigere il Trattato sui sogni:
L’opera è stata composta in una sola notte, anzi sul finire della notte, la stessa che mi ha recato la visione che mi ha spinto a scrivere. E in qualche passo, due o tre, mi è capitato di sentirmi come se fossi un altro me, come fossi divenuto, assieme ad altri presenti, l’ascoltatore di me stesso[235].
Altrettanto avviene quando descrive lo stato depressivo e gli incubi di Tifone, nei Racconti egizi:
Non appena Osiride prese il potere, ci mancò poco che Tifone non morisse, sbattendo la sua testa perversa contro il suolo e contro delle colonne; per molti giorni non assunse alcun cibo, sebbene fosse estremamente vorace, e rifiutò ogni bevanda, sebbene fosse solito bere molto vino. Pur essendo un amante del sonno, seguitava a non dormire; era in preda all’insonnia, per quanto cercasse di allontanarla in svariati modi, anche chiudendo gli occhi appositamente per liberare l’anima dai pungoli della memoria. Ma la memoria è estremamente combattiva nei confronti di chi intende riporla; così che, anche quando chiudeva gli occhi, gli si presentava l’immagine delle sue sventure, e se mai il sonno lo coglieva, un sogno lo avrebbe reso ancora più angosciato, ripresentandosi ai suoi occhi quella collina, quei voti, tutte quelle mani rivolte verso il fratello [...]. Egli si sarebbe giustamente ucciso, essendo ormai completamente in preda al male; ma proprio allora la sua scellerata moglie, fin troppo donna anche nella sventura, risollevò se stessa e il marito – si era sempre servita di lui facilmente – e gli impedì di piangere facendolo concentrare su di lei, scacciando la sofferenza con la sofferenza e sbarrando la via al dolore con il godimento. Così egli si riprese, cedendo in maniera alternata agli opposti estremi. Quanto in precedenza si disperava, tanto ora era frenetico; dei giovani ancora più dissoluti di prima affluirono in numero ancora maggiore in casa sua, e furono festini e bevute, per poter con loro ammazzare il tempo e attenuare la bruma della sua anima[236].
E ancora, nei Racconti egizi, Sinesio descrive la follia divina che si impossessa dei soldati sciti come dei veri e propri attacchi di panico:
Nessuna azione umana sembrava poter giungere in soccorso da alcuna parte, giacché i Barbari utilizzavano la città come loro accampamento. Tuttavia, il loro comandante era soggetto a degli spaventi notturni, perché, credo, era assalito dai Coribanti, mentre durante il giorno degli attacchi di panico colpivano l’esercito. Questo fenomeno si ripeté più volte, facendoli sembrare privi di senno, come se avessero completamente perso il controllo del proprio raziocinio; vagavano in ogni direzione, singolarmente o in gruppo, tutti simili a dei posseduti. Ora provavano a sguainare la spada, come se desiderassero fare la guerra, ora, viceversa, parlavano come per suscitare compassione e chiedevano di essere risparmiati; poi, di nuovo, si lanciavano in una corsa, ora come per fuggire, ora come per inseguire, quasi fosse penetrata in città una qualche forza nemica occulta. Eppure, in città non vi erano né armi né alcuno in grado di utilizzarle [...][237].
Non possiamo poi qui tacere di un curioso episodio riportato da Giovanni Mosco (monaco bizantino vissuto fra VI e VII secolo) nel suo Prato spirituale[238], che risulta a nostro parere particolarmente illuminante per comprendere come la figura di Sinesio, con la sua intrinseca molteplicità, sia stata vista e ripresa dalla tradizione successiva[239]. Giovanni Mosco afferma che questa storia gli sarebbe stata riferita ad Alessandria da Leonzio di Apamea, uomo di Chiesa che da tempo soggiornava in Cirenaica e che quasi certamente si trovava nella capitale egiziana proprio per essere nominato vescovo di Cirene dal patriarca Eulogio[240]. Secondo il suo racconto, Sinesio, una volta assurto al soglio episcopale di Cirene, avrebbe incontrato in città un suo vecchio amico e compagno di studi, il filosofo pagano Evagrio. Nonostante i numerosi tentativi di conversione al cristianesimo da parte di Sinesio, Evagrio si sarebbe ostinato a non abbandonare le sue convinzioni. Un giorno avrebbe anche espresso all’amico le ragioni principali della sua reticenza:
In effetti, vescovo, signore, fra tutto ciò che affermate voi cristiani c’è una dottrina che proprio non condivido, ovvero che questo cosmo abbia una fine e che dopo di essa tutte le persone che sono esistite dall’inizio dei tempi risorgano nel loro corpo e, dotate di carne incorruttibile e immortale, vivano per l’eternità e ottengano la loro ricompensa; e che chi faccia la carità a un mendicante abbia un credito con Dio e chi elargisca ricchezze ai poveri e agli indigenti accumuli un tesoro nei cieli e riceva tutto indietro da Cristo moltiplicato per cento assieme alla vita eterna, al momento della rinascita. Tutto questo per me è un imbroglio, una facezia, una favola, alla stregua delle tante storie che si raccontano.
Trascorso ancora del tempo, Evagrio si sarebbe tuttavia convertito, assieme a tutti i suoi parenti, e avrebbe fatto dono alla Chiesa di tre monete d’oro da destinare ai poveri, chiedendo d’altronde a Sinesio un documento che attestasse la sua donazione, affinché potesse poi farla valere nell’aldilà[241]. Giunto in punto di morte, il filosofo avrebbe comandato ai suoi figli di essere inumato con quella ricevuta fra le mani. Tre giorni dopo il suo decesso, sarebbe dunque apparso in sogno a Sinesio affermando con soddisfazione che il suo credito era stato saldato e che, a riprova di ciò, avrebbe potuto trovare il documento da lui controfirmato nel suo sepolcro. Al risveglio, Sinesio avrebbe chiesto spiegazioni ai figli di Evagrio; insieme, si sarebbero recati presso la tomba del filosofo e, in presenza di numerosi testimoni, avrebbero trovato sul documento una postilla aggiunta e firmata dallo stesso Evagrio, che ribadiva la sua soddisfazione e sollevava Sinesio da qualunque debito nei suoi confronti. A imperitura memoria del miracolo – concludeva il suo racconto Leonzio a Giovanni Mosco – si conservava ancora fra i cimeli della chiesa di Cirene la ricevuta autografata da Evagrio[242]. A parte l’imprecisione storica in merito alla sede episcopale – sappiamo che Sinesio non fu vescovo di Cirene ma di Tolemaide – e a parte la ricorrenza di numerosi topoi dei racconti agiografici (come l’apparizione in sogno dopo la morte[243]), quello che ci pare più interessante rimarcare è il rapporto tra la figura narrativa di Sinesio e quella di Evagrio. Non è immediato comprendere, infatti, chi o cosa si nasconda dietro tale maschera. In tutta l’opera di Sinesio quel nome ha una sola occorrenza, per l’esattezza nella lettera 79, dove è riferito a un prete che il nostro autore non sarebbe riuscito a proteggere dalla prepotenza di Andronico. Sulla base dei pochi elementi forniti dal racconto di Giovanni Mosco, Evagrio parrebbe più somigliante a uno dei vecchi compagni di Sinesio alla scuola di Ipazia, come ad esempio Erculiano. Eppure, forse, la corretta chiave di interpretazione di questo personaggio sta tutta nella ragione della sua reticenza ad accettare il cristianesimo, quindi nella sua – pur cauta e interessata – conversione. Si potrebbe allora ipotizzare che, in realtà, le figure narrative di Sinesio ed Evagrio non siano altro che delle maschere per delle differenti “identità” della sola e unica persona storica di Sinesio. In altre parole, Evagrio rappresenterebbe il Sinesio “pagano”, il filosofo neoplatonico allievo di Ipazia, mentre il vescovo di Cirene rappresenterebbe il Sinesio maturo, l’uomo di Chiesa, succeduto al primo dopo una presunta conversione[244]. Per questo, forse, Evagrio avanza al suo omologo già cristiano quasi tutte le riserve filosofiche che il vero Sinesio – lo sappiamo – avanzò nell’accettazione della carica episcopale nella lettera 105[245]. E per questo, forse, il personaggio Evagrio muore – comunque convertitosi – prima del personaggio Sinesio, al quale dà una conferma postuma della propria fede. In fondo, come abbiamo visto, proprio il nostro autore, riferendosi alla redazione della sua opera più filosofica, il Trattato sui sogni, parlava di uno sdoppiamento onirico, in seno al quale si poneva un ego scrittore ispirato da Dio e un ego ascoltatore di quel se medesimo.
Sinesio, dunque, risulta importante per noi soprattutto perché – come dicevamo in apertura – seppe trattare la complessità. Perché dimostrò di non averne paura. Fu un uomo elitario vissuto in tempi “globali”: alle forti spinte semplificatorie e di sintesi, che pure caratterizzarono la sua epoca, non esitò mai a contrapporsi. I suoi “Telchini”, in abito bianco come in abito nero, non comprendevano infatti la complessità. Che tenessero lunghi sermoni o che tacessero, pretendevano piuttosto di ridurre il mondo a una verità univoca, immediata, semplicistica. Intendevano farne, per così dire, una proiezione bidimensionale; abbozzarne, a malapena, uno schizzo. Da buon discepolo di Plotino, invece, Sinesio sapeva bene che il mondo è composito, contraddittorio, molteplice, poiché necessariamente espresso a parole umane: solo cogliendolo – e accettandolo – nella sua apparente incoerenza, allora, era per lui possibile elevarsi sino a compiere un discorso divino, dove tutte le barriere decadono e dimora, assoluta, l’unità.
Tuttavia, se una società umana ridotta a una penuria di forme espressive è una società impoverita, una società complessa non è necessariamente una società ricca. Sinesio, come il mitico Proteo, amò la complessità come manifestazione di sapienza. Dimostrò di detestare, viceversa, la complessità fine a se stessa, quella vuota e narcisistica dei sofisti. È una riflessione importante: tanto attuale in una società della parola, orale come scritta, in cui la sofistica si esprimeva in forma letteraria, letta o decantata, tanto in una società dell’immagine, dove la varietà – come Proteo – è piuttosto un’alternata sequenza di forme e colori.
Il grande limite di Sinesio – e della classe dirigente di cui fece parte – fu senza alcun dubbio il suo elitarismo. L’incapacità di spiegare quella stessa complessità che non faticava a capire. L’autore si dimostrò tanto aperto nell’accogliere le varie forme del reale, nel non selezionarle, nel comprenderne la sottostante unità, quanto chiuso nel condividerle. Tanto inclusivo con le idee, insomma, quanto esclusivo con le persone. Colse la ricchezza, ma la ritenne sempre un patrimonio esoterico, per pochi eletti. Questo atteggiamento, purtroppo, avrebbe vanificato ogni suo sforzo contro la semplificazione tipica dell’intolleranza. D’altronde, una società complessa, una società “globale”, non può che ridursi a società “complicata” per chi non abbia i mezzi per comprenderla, per chi non abbia, in definitiva, interesse a preservarla.
Note
[1] Nel capitolo 5.
[2] Cfr. Odissea, 4, vv. 351-570.
[3] Toulouse 2016, 642. Per un inquadramento generale dell’autore si tengano presenti, oltre a questa voce enciclopedica, le voci Bregman 2010 e Viltanioti 2020, nonché le due raccolte di saggi Seng – Hoffmann 2012 e Criscuolo – Lozza 2016, i cui contributi analizzano vari aspetti della vita, delle dottrine e delle opere di Sinesio.
[...]
[233] A proposito del Fortleben di Sinesio, per un prospetto dei suoi principali lettori dal VI secolo ai nostri giorni, con una particolare attenzione al mondo bizantino e alla Francia moderna, vd. Roques 2012; per le riprese della sua figura, così sospesa fra neoplatonismo pagano e cristianesimo, nel mondo anglofono dell’età contemporanea, vd. Bregman 2016.
[234] Cfr. Monticini 2021, 208-210.
[235] Con queste parole, naturalmente, Sinesio sta ricorrendo al topos dell’ispirazione divina giunta alla fine della notte (cfr. Garzya – Roques 2000, vol. III, 431, n. 53).
[236] Racconti egizi, 1, 13,14. Per un’analisi della simbologia dello status psico-fisico di Tifone, vd. Pizzone 2001, 179 ss.
[237] Racconti egizi, 2, 1.
[238] Al capitolo 195. Vd., per il testo greco, Migne 1856-1866, vol. LXXXVII, 3, coll. 3077-3080; per una traduzione italiana, Maisano 20022, 208-210.
[239] Per approfondire su questo episodio, vd. Monticini 2020.
[240] Eulogio fu patriarca di Alessandria dal 580 al 608. Cfr. Roques 1987, 97.
[241] Questa tradizione di donare un obolo per la salvezza di un defunto, tipica del primo cristianesimo, è attestata soprattutto in ambienti manichei (Brown 2008).
[242] L’episodio è citato anche da Siniossoglou 2008, 172-173.
[243] Si tratta di un elemento che ritorna anche in alcune leggende legate al culto delle immagini acheropite (cfr. Monticini 2017, 80-81).
[244] La rielaborazione del materiale biografico e agiografico, in un contesto sia letterario che iconografico, è un fenomeno ampiamente attestato nella civiltà bizantina. Si pensi, ad esempio, al caso emblematico di Dionigi Areopagita (cfr. Walter 1990).
[245] D’altra parte, sarebbe stato senz’altro determinante per Leonzio di Apamea – come per qualunque altro metropolita della Cirenaica successivo a Sinesio – eliminare ogni ombra di paganesimo dalla figura del proprio autorevole predecessore, anche al fine di elevare, in chiave quasi agiografica, la dignità della tradizione della sede episcopale. Si pensi, a questo proposito, che, appena alcuni anni prima della redazione del Prato spirituale di Giovanni Mosco, Evagrio Scolastico aveva scritto nella sua Storia ecclesiastica (1, 15; vd. supra, 3): “Sinesio [...] praticò la filosofia a un livello talmente elevato che fu ammirato dai cristiani, che non giudicano quello cui assistono sulla base dell’affinità e dell’avversione. Ritennero che Sinesio fosse degno della salvifica rigenerazione [ovvero il battesimo] e di assumere il fardello del sacerdozio, sebbene non accettasse la dottrina della resurrezione, né fosse disponibile a discuterne. I cristiani immaginarono infatti assai correttamente che alle altre virtù dell’uomo sarebbe seguita anche questa, poiché la grazia divina non ammette nulla di incompiuto; e non furono delusi nella loro speranza” (per il testo greco, vd. Migne 1856-1866, vol. LXXXVI, 2, col. 2464).
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English abstract
Synesius of Cyrene, born around 370 AD in the influential city of Cyrene, Libya, was a polymath: philosopher, diplomat, military leader, and bishop. Educated in Alexandria under the renowned pagan philosopher Hypatia, he later became bishop of Ptolemais. Synesius cherished Neoplatonism throughout his life, integrating it seamlessly with his Christian faith. His writings, including 156 letters and poetic works, reflect his deep philosophical and theological insights. Synesius's intellectual legacy bridges Neoplatonic thought with Christianity, emphasizing transcendence and spiritual elevation. His life underscores a harmonious synthesis of philosophical inquiry and religious devotion, leaving a profound mark on ancient thought.
keywords | Synesius of Cyrene; Neoplatonism; Christianity.
Per citare questo articolo / To cite this article: Francesco Monticini, Introduzione a Sinesio di Cirene. Tutte le opere, a cura di Francesco Monticini, Bompiani 2024, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024