De Martino, Macchioro e Warburg
Appunti di lettura su Riccardo Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Meltemi, Milano 2023
Piermario Vescovo
English abstract
Ottima iniziativa, da salutare con riconoscenza, è la nuova edizione, a distanza di venticinque anni, de I Greci selvaggi di Riccardo di Donato, apparso per Manifestolibri nel 1999. La quarta di copertina richiama un’istanza ripetutamente dichiarata dall’autore nel tempo, all’interno dei saggi che compongono questo libro, dalle indagini separate a una forma organica, relativamente ai percorsi necessariamente “spesso lunghi e tortuosi” che la dedizione a un argomento richiede per giungere a “conclusioni di qualche solidità e interesse” (percorso pure paragonato al cammino di Pollicino, 85). Istanza generalmente valida ma qui tanto più, alla luce del fatto che la costruzione della ricerca in questione ha per materia il divenire particolarmente complesso, diciamo pure tortuoso, della personalità di Ernesto de Martino, ed anzi della sua stessa biografia. Alle cure di Riccardo Di Donato spetta, del resto – per citare un altro punto di riferimento essenziale, che ci porta ancora un po’ più indietro nel tempo – il volume La contraddizione felice? Ernesto de Martino e gli altri, che raccoglieva gli atti di un convegno tenutosi presso il Dipartimento di Filologia classica dell’Università di Pisa nel 1987, apparso nel 1990 e, per la sua importanza decisiva e per la scarsa reperibilità, pure ristampato da ETS nel 2016, dunque oggi facilmente reperibile dai lettori interessati (in esso si legge la prima redazione del capitolo che ne conserva qui il titolo: Preistoria di Ernesto de Martino).
Tra le date delle prime apparizioni e delle ristampe, dunque, e in un panorama di forte ripresa dell’interesse verso de Martino, in una considerazione più ampia (si pensi alle benemerite nuove edizioni presso Einaudi delle sue opere principali, a cura di Marcello Massenzio, con fondamentali saggi introduttivi e ricche appendici, apparse tra il 2021 e oggi), la partita nel tempo si lascia osservare perfettamente. La costruzione del discorso di Di Donato – aperta e per addizione progressiva di materiali indagati – sostanzia, nel proprio tempo di definizione e in quello della vicenda indagata, in un senso preciso e per nulla elusivo, la categoria, generalmente impiegata in un senso banale, di “contraddizione”, segnando infatti col punto interrogativo l’aggettivo “felice” che l’accompagna.
Come si è già indicato, l’intervento di partenza, apparso nel volume citato del 1990, costituisce il primo capitolo de I greci selvaggi, inquadrando un punto decisivo, e complesso, della formazione del giovane studioso, negli anni napoletani e nel rapporto con Vittorio Macchioro, prima di quelli, dopo il 1937, con Adolfo Omodeo e Benedetto Croce. L’influenza di Macchioro, di cui de Martino sposò la figlia Anna nel 1935, appare tanto più rilevante in quanto da lui sostanzialmente censurata e rimossa. Il rapporto con Macchioro riguarda il de Martino “giovanissimo”, fino al 1934, ma ancora il de Martino “giovane” degli anni seguenti, fino all’approdo, con la pars destruens, rappresentato da Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 1941, verso la pars construens de Il mondo magico, 1948, ma ancora lo studioso maturo delle opere fondamentali che seguono. Il nastro di partenza si riavvolge infatti intorno a Morte e pianto rituale, del 1958, per quanto riguarda le origini di una “antropologia religiosa” e la definizione di una “filosofia delle forme simboliche”, con altri evidenti riferimenti. Quanto alla biografia di de Martino – segnatamente per i percorsi ideologici, in particolare, dopo la svolta liberalsocialista, per l’adesione al Partito comunista e il rapporto speciale con Pietro Secchia, personaggio in disgrazia, “stalinista pericoloso, anzi vitando” dunque sembrato poco congruente come “corrispondente di un eroe della libertà intellettuale” (I greci selvaggi, 211) in precedenti ricostruzioni – le indagini offerte da altri capitoli, posti ad appendice del tragitto principale, continuano a dettagliare la complessità del disegno ricostruttivo e interpretativo, a partire da questa traccia.
L’interesse di chi qui scrive, che si occupa di altro, riguarda questo volume, in particolare, per le connessioni che esso offre per una precisa e nuova documentazione relativamente a una possibile influenza su de Martino di Aby Warburg, che interessa soprattutto Morte e pianto rituale, e il suo “atlante del pianto”. Sulla questione si vedano anche le pagine dedicate, e naturalmente a seguito delle indagini decisive rispetto alle precedenti interrogazioni di Di Donato, nella nuova edizione dell’opera demartiniana in causa a cura di Marcello Massenzio (Torino, Einaudi, 2021, in particolare XLIV-LVIII). Un “orizzonte formale del patire”, ovvero una determinazione di “formule di pathos” (le warburghiane Pathosformeln), incrocia anche qui la Storia dell’arte, in un’ampia estensione cronologica, con le fotografie sul campo (e non solo quello dell’indagine etnografica: si pensi all’aggiunta nella seconda edizione di quelle relative al funerale di Grigoris Lambrakis, dirigente della gioventù comunista greca, assassinato nel 1963). Se i richiami di Warburg nelle pagine di de Martino sono sembrati rendere scarsamente sostanziale un tale accostamento, in precedenza addirittura negato da alcuni studiosi, sono proprio il nome e la persona di Vittorio Macchioro a indicare a Di Donato una pista indubitabile e una direzione di interrogazione altrimenti precisa per la questione, al di là ovviamente di un campo largo di corrispondenze generali e di un intreccio di temi della storia della cultura del Novecento che si pone oltre i recinti disciplinari.
Abbiamo già ricordato gli anni della formazione di de Martino a Napoli, che Di Donato indica caratterizzati “dall’esperienza di una religione civile identificata col fascismo”, fino a una “prima svolta liberale, realizzata a Bari nel circolo dei sodali crociani di Laterza”, e seguiti ancora dal periodo resistenziale in Romagna, con un approdo al liberalsocialismo, che si solidifica nell’immediato dopoguerra (I greci selvaggi, 11). Ora il ruolo di Macchioro – come si dice in una lapidaria formulazione, in altro luogo del libro, “paradossalmente antifascista e antiliberale ad un tempo” (I greci selvaggi, 173) – si mostra fondamentale, e appunto al di qua, e insieme oltre, all’approdo a Croce, che segna non solo la definizione in senso filosofico dell’esperienza intellettuale di de Martino, ma una sua collocazione. Appunto attraverso gli scambi con Macchioro – nelle lettere conservate da quest’ultimo – si documenta, a carico del primo “maestro” e del suocero (che si fa da lui chiamare “babbo”), una forte istanza che induce il genero-discepolo, proprio mentre gli viene raccomandata una debita attenzione alle affermazioni affidate alle lettere, tra il 1930 e il 1937, a un netto distanziamento dall’iniziale identificazione del fascismo con una “religione civile” (tema a cui, del resto, egli progetta di dedicare un libro molti anni dopo). La liberazione dalle ipoteche fasciste è salutata con entusiasmo da Macchioro nell’aprile del 1936, ovvero nel momento in cui si colloca questa svolta essenziale. Più in generale, attraverso la frequentazione di Macchioro – scrive Di Donato – e non malgrado essa de Martino giunge all’opzione che si esprimerà nel 1941 in forma critica in Naturalismo e storicismo nell’Etnologia (I greci selvaggi, 182).
Non è un caso che subito dopo queste affermazioni, al termine dell’indagine sull’epistolario di Macchioro, Di Donato torni alla memoria di Arnaldo Momigliano, e in particolare alle parole che aprivano il suo ultimo intervento, dedicato proprio a de Martino, pronunciato pochi mesi prima della morte, nel convegno pisano già menzionato, ove egli si dichiarava un non testimone per la sua distanza coatta da questo panorama d’esperienza: “La caccia agli ebrei decisa e voluta da Mussolini e i suoi seguaci significò che io dovessi lasciare l’Italia al principio del 1939 e non ci potessi tornare che nell’estate del 1946” (I greci selvaggi, 13). Di Donato aggiunge la seguente riflessione alle ultime parole del suo maestro: “E ho pensato che non si trattasse solo di una forma autoironica di modestia ma di un invito a cercare di capire accostandosi il più possibile alla realtà storica, continuando a porsi problemi e a cercare documenti” (I greci selvaggi, 183), secondo una considerazione che ci riconduce all’orizzonte già inquadrato della costruzione di questo percorso, ma che riguarda quello di chi, come de Martino, esattamente coevo di Momigliano, in Italia in quegli anni visse e maturò. E riguarda ancora, con prospettiva diversa e per diversa appartenenza generazionale, la complessa storia dell’irregolare Macchioro, nato nel 1880, ebreo sefardita convertito al cattolicesimo durante la prima guerra mondiale, come egli affermava, nella “orrenda e magnifica” notte di Pasqua 1916, in cui egli ritenne la sua vita salvata dall’intervento divino.
Due – se non semplifichiamo troppo – le direzioni principali che nutrono e complicano la crescita della storia personale e intellettuale di de Martino in rapporto alla figura di Macchioro e che sopravvivono alla sua rimozione, determinata anche da questioni familiari (la separazione dalla moglie Anna, nel 1947, e il nuovo rapporto con Vittoria De Palma), nel percorso che elegge in Benedetto Croce il punto essenziale di riferimento, e in una serie di snodi a questo momento ulteriori, ma che a Croce continuano a rapportarsi, e ancora, e tanto più, dopo le sue critiche, con un diverso bilanciamento dell’ammirazione e delle riserve rispetto a Il mondo magico, per cui a una recensione ampiamente positiva seguì una sostanziale ritrattazione. La fine del rapporto diretto – intellettuale e familiare – con Macchioro è seguita da una vera e propria censura relativa alla sua opera e al suo nome, in qualche modo tardivamente ma lateralmente riscattati nel breve testo consegnato alla sua morte, nel 1959, al “Piccolo” di Trieste, dove si dichiara il suo nome e la sua opera da lungo tempo obliati nonostante la sua iniziale “prodigiosa” affermazione. Rispetto all’intellettuale di fama, non professore universitario ma ispettore presso il Museo Archeologico di Napoli dal 1909, autore di libri di grande fortuna, che alla fine degli anni ’20 e all’inizio dei ’30 teneva conferenze a Berlino, Heidelberg, Francoforte, Praga, Vienna, Graz e poi alla Columbia University di New York, a Chicago in Virginia e nel Nebraska, e visiting professor in India, la distanza di de Martino risultava, alla fine degli anni ’50, inghiottita nel vuoto di una totale dimenticanza nel dopoguerra (peraltro Macchioro fu dal 1940 internato in campo di concentramento nelle Marche), e di un’esistenza, nell’ultimo ventennio, del tutto marginale e precaria.
Macchioro mostra poi, nel momento che segue al prepensionamento coatto del 1938 (su cui pesa peraltro la diffusione da parte di Mircea Eliade, fervente ammiratore, di sue confessioni di antifascismo), a Napoli, una vicenda personale di distanza e di (inevitabile) attenzione e attrazione per Croce, con la totale dedizione alla sola scrittura letteraria, l’abbandono degli studi e l’assunzione del nome d’arte di Benedetto Gioia, con cui egli firma romanzi e drammi, pensato a contrasto, ma appunto in un riflesso complesso e contraddittorio, a quello di Benedetto Croce (“Mettiamo Benedetto Gioia. Dal momento che c’è al mondo Benedetto Croce, che ci sia anche Benedetto Gioia” così Macchioro al suo editore, come da lui stesso raccontato nella prefazione a Il gioco di Satana). Da precisare questa sfumatura, soprattutto in rapporto alla testimonianza di un lungo colloquio, con molta attenzione nei suoi confronti da parte di Croce, che data al maggio 1939, descritto in una lettera a de Martino (e che comprende anche un cenno alle applicazioni del genero a Lévy-Bruhl, sembra da Croce approvate, relativamente al fatto che “la mentalità prelogica non è un epoca della storia ma un momento dello spirito”: I greci selvaggi, 53-54).
La questione principale riguarda, dunque, la continuità del rapporto con le idee di Macchioro e il loro riaffioramento, mai segnalato, soprattutto quando – dopo Il mondo magico – l’analisi etnografica riguarderà non più un “primitivo” collocato nella storia e nella cultura antiche o un confronto dell’antico con le analisi dell’etnografia moderna, ma la crisi della presenza inquadrata rispetto all’analisi etnografica sul campo, in particolare nella Lucania, che definisce i tre grandi libri della maturità di de Martino, ovviamente Morte e pianto rituale e, con un’ancora più netta definizione del campo d’indagine di partenza, La terra del rimorso e Sud e magia.
Particolarmente interessante risulta la secca contrapposizione di Giovanni Gentile, recensore del libro fondamentale di Macchioro, ovvero Zagreus, la cui prima edizione data al 1920, sulle pagine della “Critica”. Gentile esprime a lato di un sostanziale apprezzamento per il libro che definisce “bellissimo” per il suo “chiarimento” relativo all’ “essenza dell’orfismo” e alla “grande azione di esso sulla filosofia greca e sulla sua affinità e parentela col cristianesimo”, alcune residue, in realtà centrali, perplessità. La critica riguardava il fatto che la “rinascita” che scaturirebbe dalla dimensione del “subcosciente”, “al di là o al di sotto del razionale”, ovvero la “messa in rapporto” (etichetta più remota di quella che nei tempi successivi e fino ai nostri giorni si dirà “comparazione”) tra la “palingenesi orfica” e quella di Paolo di Tarso, pretendeva di mostrarsi applicabile “così nel negro che ‘resta nei limiti dell’atto magico e si sente persona nuova solo nel corpo, che è il dominio della magia’, come in Paolo [di Tarso], la cui ‘grande anima assurge all’atto di fede e si sente persona nuova anche nello spirito che è il dominio della religione’ ” (la citazione, da Gentile, riprende due passi da Macchioro). Brutalmente, dunque, nel 1920, la polarizzazione opponeva nettamente il “negro” a Paolo, che Macchioro univa in rapporto a una “differenza” che a suo modo di vedere si definiva come “di quantità, non di qualità, di contenuto, non di forma”. Saggio, dunque, “bellissimo” per Gentile, a patto di respingerne però i (presunti) “corollari”, ovvero la considerazione degli “inferiori fenomeni psicologici di competenza della psicologia anormale”. Ciò che appunto, secondo il filosofo, avrebbe disegnato un percorso di “storia a rovescio che non edifica, ma distrugge”, e anzi che “distrugge appunto tutto quello che si propone di ricostruire”. Forse si potrebbe affermare che come per Gentile il percorso storico di Macchioro demoliva ciò che l’analisi comparativa andava edificando, così il percorso “filosofico” di de Martino, guardando alle critiche di Croce, si muoveva nel senso di una demolizione delle istanze di riferimento fatte in suo nome.
Non i risultati e le affermazioni sostenute nei suoi saggi da Macchioro, ma le coordinate fondamentali dell’impostazione del suo discorso, costituiscono la continuità di riferimento di de Martino nel tempo. “Il mito è azione drammatica rituale e si prolunga necessariamente in essa”, o ancora (tra le tante affermazioni esemplari che si possono citare), “il mito si rende autonomo dai suoi vincoli tecnico-rituali e si dischiude di fatto alle produzioni dell’arte e della magia”. Si tratta di dichiarazioni dal saggio Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, che data al 1957 (la seconda frase, peraltro, è accompagnata dal rinvio, ma senza fare il nome di Macchioro, alle “raffigurazioni sul tipo della famosa villa dei Misteri”, in cui si dice essere solo possibile vedere il “rito in azione”). Ancora, per il “carattere tecnico della ripresa religiosa”, un’affermazione come “in luogo delle diverse inautenticità esistenziali che ne derivano viene ora istituito un modello di rappresentazione e di comportamento che segnala, ferma e riporta a sé l’alienazione”. C’è qui – come attentamente sottolinea Di Donato, una dichiarazione di distanza dalla via che si può aprire alle interpretazioni irrazionalistiche, dove il “rischio di alienazione” è non solo, dunque, nell’esperienza psicopatologica, ma nelle derive di un accoglimento di una prospettiva irrazionalistica. Contro l’idea della “creazione miracolosa”, della “rivelazione originaria del numinoso, a inizio assoluto delle civiltà” si dà, certamente, trent’anni dopo, una presa di distanza, di de Martino da Macchioro, e in particolare da un’opera come Zagreus, ma insieme riaffiora la mai tramontata o superata interrogazione delle stesse questioni di fondo (I greci selvaggi, 142-143).
Dalla tesi di laurea (dedicata ai Gephyrismi eleusini, discussa con Adolfo Omodeo nel 1932) de Martino ricavava un articolo, pubblicato nella rivista “Studi e materiali di storia delle religioni” del 1934, fatto giungere attraverso Omodeo al direttore Raffaele Petazzoni (l’unico titolare in Italia di una cattedra di storia delle religioni – anche per la doppia ostilità per ragioni filosofiche di Croce, espressa con forte rifiuto teoretico, e della chiesa cattolica per la disciplina in sé –, fino appunto al primo concorso di successione, da Petazzoni voluto, nel 1958, che vedrà de Martino arrivare secondo dietro ad Angelo Brelich e prendere servizio presso l’Università di Cagliari). In una dettagliata analisi, che riguarda il dattiloscritto di partenza e le revisioni di Petazzoni, Di Donato sintetizza nei seguenti termini l’orizzonte della prima maturazione: “Da un lato Croce, serve a de Martino per un ancoraggio idealistico (di cui non sono ancora esplicite le conclusioni antiattualistiche), dall’altro Macchioro è il riferimento implicito per la concezione della religione come esperienza” (I greci selvaggi, 68, e si veda qui un passo particolarmente rilevante, testimoniato dal dattiloscritto originale, fatto tagliare dal direttore della rivista, dove si contrapponevano la “religione del Mistero” alla “religione Olimpica”, indicando l’esclusione della prima dalla dimensione della polis greca e il ritorno nel “persistente orgiasmo dei riti e nel gran numero di numi e demoni di torbida raffigurazione mitica”).
Tra gli anni ’30 e i primi ’60, il percorso di de Martino riguarda, più ampiamente, la caratterizzazione del mito come “forma simbolica” e la scelta della filosofia come ambito esclusivo in cui fosse possibile tentarne un processo di comprensione. L’attenzione per Cassirer e per la Filosofia delle forme simboliche, anzi per il secondo volume dell’opera (significativo il progetto di promuovere una traduzione solo di questo, che risulta dagli scambi epistolari con Cesare Pavese per la “collana viola” di Einaudi nel dopoguerra, ma a cui si oppose il rifiuto della vedova Cassirer, e che attenderà poi quindici anni per una, completa, edizione in italiano). Ma assai interessante (citata nella prefazione di Massenzio alla riedizione di Morte e pianto rituale, LI) una lettera di Cassirer, ebreo allora riparato in Svezia, da Göteborg, che alla manifestazione del desiderio espressogli da de Martino, nell’ottobre 1940, di procurarsi alcune opere della collana della Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo, sottolinea la difficoltà di contatti dall’Italia dopo il trasferimento della stessa a Londra, e lo consiglia di cercare direttamente i volumi nelle biblioteche italiane, soprattutto a Firenze e a Roma, dichiarando la collana avere “probabilmente materiali inestimabili per i vostri studi”.
Rispetto ai popoli che oggi diciamo senza scrittura, e che un tempo si definivano “primitivi” o “prelogici”, si consideri ancora, e tra gli altri, il richiamo alla “sociologie comparée” o “psychologie religieuse” di Henri Jeanmaire, in particolare per quanto riguarda la riconduzione, in un saggio fondamentale del 1949, dei culti orgiastici come quello di Dioniso Baccheios o dei riti celebrati dagli adepti dei Coribanti a un “valore terapeutico e segnatamente psicoteraupetico”, e la relazione alla catarsi tragica e alla purificazione prodotta dalla mania secondo Platone: come dichiara infatti Jeanmaire, è proprio “de l’art dramatique provoquer la katharsis ou purgation des passions en les manifestant précisement à leur état de paroxisme” (I greci selvaggi, 126-127). Per una rapidissima sintesi, per la finalizzazione del procedimento comparativo nelle opere mature di de Martino, basti qui riportare questa formulazione di Di Donato: “Baccanti e Coribanti gli servono – come i nordafricani posseduti da Zar e Bori – per comprendere le sue tarantate salentine” (I greci selvaggi, 129).
Siamo alla questione essenziale, ovvero all’interrogazione che procede dalla messa in rapporto dell’esperienza psicopatologica dell’individuo, ovviamente semplificando di molto, e dello stesso individuo-indagatore, che osserva la “crisi di presenza” e il riaffiorarare del “primitivo” o del “pre-logico” non solo su un piano esterno ed oggettivo (quello, storico-documentario, che riguarda gli strati più arcaici di una cultura considerata “classica”, nel senso della “sopravvivenza”; quello etno-antropologico nella relazione a quanto osservato in luoghi lontani o altrimenti vicini), ma della condizione personale di chi quell’interrogazione tenta, rischiando il suo equilibrio.
Torniamo ad Aby Warburg. Nel suo soggiorno napoletano del 1929, egli incontra, oltre a Benedetto Croce, anche Vittorio Macchioro, che invita a tenere una conferenza alla Kulturwissenschaftliche Bibliothek di Amburgo (se ne conserva la lettera-contratto, che specifica le condizioni economiche). Il progetto non si realizzerà per la morte di Warburg nell’ottobre seguente, ma significativa risulta la prosecuzione del rapporto epistolare di Macchioro con Fritz Saxl e Gertrud Bing, puntualmente indagato da Di Donato (si veda in particolare I greci selvaggi, 61-62). Macchioro, tra l’altro, chiede a Saxl una foto di Warburg, che Bing gli invia, e a lei confida l’intenzione di ispirarsi a lui per un personaggio di un suo romanzo in composizione, ma soprattutto, oltre agli scambi di libri con Saxl (che egli omaggia della seconda edizione del suo Zagreus), particolarmente rilevante, dopo una lunga lettera (datata 9 dicembre 1932), in cui Bing ricostruisce alcuni dettagli del colloquio napoletano, risulta la messa in corrispondenza da parte di Macchioro, evidentemente imbarazzante per l’interlocutrice, della sua condizione psicopatologica con quella da cui Warburg era uscito. Macchioro chiede a Bing, con richiesta esplicita e reiterata in un’ulteriore lettera, che non ebbe risposta alcuna, informazioni dettagliate sulla tipologia della Schizofrenie di Warburg. Ma, tornando ai taccuini di Warburg, non può non colpire di riflesso – tra distanza e corrispondenza – l’annotazione in essi che descrive Macchioro, dopo l’incontro napoletano, come “consumato dalle sue idee fino alla mania”, ovvero un “posseduto” ma “bacchico”, impressione che non escluse affatto la volontà di proseguire il rapporto, come dimostra l’invito definito nei dettagli organizzativi a Macchioro per tenere una conferenza alla sua Biblioteca ad Amburgo.
Possiamo, e dobbiamo, considerare la storia dell’esperienza intellettuale di Warburg in rapporto alla patologia dell’uomo, in particolare per ciò che riguarda e segue l’esperienza di Kreuzlingen (anche sul piano dell’opera, per esempio, semplificando, dal “saggio” all’ “atlante”, o raccogliendo quel momento in ogni senso essenziale, al di là del valore di quest’opera, che tale propriamente non è, non approdando a un “testo finito”, rappresentato dal cosiddetto Rituale del serpente). Ciò posto che altre opere e “condizioni”, segnate da un simile intreccio, interessano Warburg, e soprattutto dopo la “guarigione”. La non-guarigione di Nietzsche (di cui volle tenere ad Amburgo sotto gli occhi l’effigie in foto dopo l’uscita dalla casa di cura di Kreuzlingen), definito da lui, nei suoi appunti, il “portatore del tirso” travolto dalla materia dionisiaca delle sue applicazioni, in una lettura tarda e sostanzialmente retrospettiva della Nascita della tragedia, in una distinzione del ruolo e delle parti rispetto alla diversa chiarezza e al diverso equilibrio attribuiti a Burckhardt. E del resto – per il Dio o il demone del particolare – sappiamo che Warburg omaggiò Marchioro, incontrandolo di persona a Napoli, di un estratto del suo vecchio saggio sulla morte di Orfeo, suscitandone l’entusiasmo.
E qui si aprirebbe un’altra pista, relativa alla stessa condizione esistenziale di de Martino. Non si tratta, evidentemente, di scendere dai piani alti della storia della cultura a quelli bassi di un biografismo corrivo. Di Donato si interroga infatti puntualmente, e prudentemente, sulla stessa “sensibilità” dell’uomo Ernesto di Martino, nel rapporto tra il suo vissuto e la materia dei suoi saggi. La linea dell’apocalisse – dell’umanità e dell’individuo – segna, fino alla grande opera finale, incompiuta, l’intero arco delle sue interrogazioni, e forse le sue condizioni patologiche, a partire dal suo “mal sottile”, possiedono un profondo rapporto, simpatetico e di opposizione, tra perdita di sé e ritrovamento dell’equilibrio.
C’è un primo romanzo di Vittorio Macchioro, a cui egli lavorò alla metà degli anni ’30, non pubblicato, rimasto tra le sue carte, conservate presso l’Università di Trieste, di cui ha fornito un ampio riassunto Giordana Charuty (Ernesto de Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano, 2010, l’edizione originale in francese è dell’anno precedente), assai interessante e soprattutto nel rapporto col successivo Il gioco di Satana, edito invece nel 1938 e poi, in una seconda edizione, con una premessa che offre una chiave interpretativa assai diversa al lettore, nel 1954. Si tratta di un terreno indagato in maniera poco soddisfacente dal libro di Charuty (citato da Di Donato solo nella premessa e non impiegato altrimenti), che se ha avuto certamente il merito di richiamare e analizzare questi materiali e l’implicazione diretta di de Martino come lettore partecipe de Il gioco di Satana, proprio alla fine degli anni ’30, prima del termine del rapporto diretto con Macchioro, familiare e di dipendenza intellettuale, lo immagina addirittura come coautore del romanzo (la cantonata è stata segnalata da Emilia Andri: Il giovane De Martino. Storia di un dramma dimenticato, Transeuropa, Massa, 2014, 215ss.: sicuramente il lavoro di Andri è di gran lunga il più importante ad incremento e discussione per il rapporto Macchioro-de Martino, soprattutto per la consultazione del Fondo Macchioro dopo la sua disponibilità presso l’Università di Trieste, dopo i contributi di Di Donato raccolti in questo volume). In attesa di tornare eventualmente altrove su questo romanzo ci importa qui – posto che l’analisi di Di Donato si tiene al di fuori del terreno del Macchioro ‘letterato’ – comunque segnalare due elementi: il primo (non raccolto da Charuty e quindi da nessuno in assoluto) riguarda il rilievo della figura di Warburg nel Gioco di Satana. Figura evocata, credo, con pertinenza indiretta e non dichiarata, nella prima redazione, nella costruzione della storia di Giosia Reubeni (banchiere che da Praga trasporta i suoi affari a Vienna, e poi si fa italiano); con esplicito richiamo – che sposta però la direzione di lettura – nella premessa alla seconda edizione, che racconta l’evocazione dello spirito di Warburg o di una sua simulazione diabolica nell’esperienza spiritistica reale dell’autore. Da qui procederebbe, nella finzione romanzesca, l’ispirazione warburghiana dello spirito del rabbino che appare a Giosia. Ma è evidente, in generale, che è nel Gioco di Satana, come ci rivelano gli appunti del diario di Warburg e il carteggio di Macchioro con Bing, che il tema della schizofrenia e dell’io lacerato, totalmente assente nel primo romanzo, tenuto da Macchioro nel cassetto, si dispiega con evidenza, costituendo anzi il suo tema principale. L’esperienza indominabile della schizofrenia, posto che Giosia non guarisce, né si fa cattolico (anzi, la dovuta moglie cristiana dell’ex banchiere ebreo, che in Dio non crede più, diventa il capro espiatorio del suo percorso di allucinazione, e converrà ricordare che anche Warburg, che Macchioro ricorda nel suo oltrepassamento della pazzia, ebbe una moglie cristiana), offre una ripetuta dichiarazione che presenta gli spiriti evocati davanti al tavolino a tre gambe – detto non senza suggestione – come rivelazione del lato opaco dell’anima dell’ossesso, come un guanto che si rivolti. E qui arriviamo alla seconda osservazione, che interessa, in generale, una considerazione della scrittura letteraria di Macchioro. Essa mi sembra tutt’altro che disprezzabile e priva di valore. Quindi appelli come quello che guida la considerazione, pur meritoria, di Charuty, mi sembrano puramente preventivi: “Ce ne sont pas les qualités litteraraires – hélas peu convaincantes – de ce roman qui nous retiendront”. Ovviamente Il gioco di Satana non è il Doktor Faustus ma merita, anche sul solo piano della storia della letteratura che precede e segue la seconda guerra mondiale, come per una sua collocazione europea, che lo rende poco ‘italiano’, una qualche attenzione.
Un punto, o un’interrogazione finale, riguarda infine, in una prospettiva ancora più complessa, il rapporto con le affermazioni “positive” e “progressive” dell’orizzonte ideologico o politico che dire si voglia di de Martino, nei decenni successivi e in relazione ai suoi libri maggiori, e tanto più in rapporto alla continuità di questi temi e a un retaggio del rapporto con Macchioro. Tocchiamo dunque solo di scorcio e di sponda un tema evidentemente centralissimo, quanto sostanzialmente non raccolto, se non rimosso. Sia consentito riprendere, attraverso una frase di Di Donato, l’inquadramento diffuso al riguardo della questione: “Non più certo di poter incidere realmente attraverso l’attività politica diretta nel Mezzogiorno, de Martino affermerà esplicitamente [ne La terra del rimorso] “il valore politico-pratico dello sforzo di conoscenza delle sofferenze – anche culturalmente elaborate – delle plebi rustiche, ai fini del loro superamento” (I greci selvaggi, 122). Davvero l’istanza si poneva nel senso del loro superamento? Qui credo il centro nodale (e assolutamente non “felice”) del sistema che si suol dire di “contraddizione”, che riguarda cioè l’istanza civile o, in termini diversi, la collocazione politica e ideologica. Davvero questa “conoscenza di sofferenze” aveva per scopo o serviva alla “redenzione” delle cosiddette “plebi rustiche”, ben distinte dal proletariato urbano, dalle premesse gramsciane alle prospettive dell’azione politica del Pci? O non era, esattamente al contrario, un’estrema, territorialmente laterale, presenza nel quadro di miseria e arretratezza rurale o rustica a consentire di osservare queste impronte di cultura remota, potremmo dire, con altra formulazione, di “ritorno del superato”? (Uso liberamente una categoria di impronta freudiana, traslata da Francesco Orlando dal piano della patologia personale a quello della storia della cultura; ma si potrebbe implicare, con opportuno adattamento, anche la categoria warburghiana di Nachleben). Non era l’arretratezza a rendere possibile la testimonianza, la comprensione storica, e metastorica, e la penetrazione da parte dell’individuo ‘studioso’ o ‘intellettuale’, che dir si voglia, di questa dimensione, l’esperienza di un tempo remoto che essa trasmetteva?
Questo mi appare un interrogativo capitale, e tanto più forte se dalle opere principali – e dalla giustificazione in rapporto all’istanza politica o ideologica – si passa, con maggiore prossimità all’esperienza politica diretta di de Martino, alla sua appartenenza e militanza nel Pci, a considerare l’ambiguità o la rimozione testimoniata nei saggi minori, come per esempio quelli raccolti nel volume Furore, simbolo, valore nel 1962. Personalmente ho trovato letteralmente inquietanti, fin dalla prima lettura, le pagine, certo inizialmente d’occasione, qui raccolte dedicate al Simbolismo sovietico (si veda la ristampa, Milano, Il Saggiatore, 2013, 204-214), dedicato a un dibattito dell’“Izvestia” relativo al bisogno nell’Unione Sovietica d’inventare nuove feste dopo l’azzeramento di quelle legate al ciclo religioso-stagionale. Nonostante si sottolinei l’ingenuità del dibattito si dichiara qui una “dinamica integralmente umana”, si indica l’individuazione “dei termini del problema in modo più netto, autentico e attuale di quanto per lo più non accada percorrendo la vasta letteratura sul mito e sul simbolo, così in voga nell’Europa borghese” (I greci selvaggi, 213). Dove sembra che “borghese” risulti la questione indagata in sé e non la “letteratura” ad essa dedicata. L’indicazione, assai enfatica, dell’“operosa presenza reale” di un “umanesimo socialista”, nel “vuoto che la religione ha lasciato”, rivela piuttoso il vuoto dell’istanza ideologica, in una desolante cancellazione della vita (e qui, ma è questione molto complessa e non affrontabile in poco spazio, il ritorno sotto altre vesti o forme delle istanze remote di “religione civile”). Ma in parallelo, rispetto a questa semplificazione, si snoda il progettato libro sulla “fine del mondo”, che, con la sua tensione apocalittica, rivela una direzione altrimenti complessa di interrogazione e inquietudine, esattamente opponibile a quelle dell’istanza ideologica progressiva.
English abstract
The re-edition of Riccardo di Donato’s I Greci selvaggi (1999) reflects the intricate intellectual evolution of Ernesto de Martino. Di Donato’s method, characterized by thorough and progressive material additions, parallels the long and complex paths of de Martino’s biography and thought. A significant focus is the influence of Vittorio Macchioro, especially regarding the suppression and later revival of Macchioro’s impact on de Martino. The text delves into de Martino’s intellectual journey from his early years in Naples, through his liberal-socialist phase and engagement with the Communist Party, to his mature works on religious anthropology. Additionally, Di Donato explores potential connections between de Martino and Aby Warburg, highlighting the latter’s possible influence on de Martino’s study of ritual lamentation. This comprehensive examination provides fresh documentation and insights into the intellectual exchanges shaping de Martino’s theories.
keywords | Ernesto de Martino; Riccardo di Donato; Vittorio Macchioro; religious anthropology; Aby Warburg.
Per citare questo articolo / To cite this article: Piermario Vescovo, De Martino, Macchioro e Warburg. Appunti di lettura su Riccardo Di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Meltemi, Milano 2023, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024