"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

217 | ottobre 2024

97888948401

Marina Apollonio. Oltre il cerchio

Per un eros dell’arte programmata

Marianna Gelussi

English abstract

In occasione della mostra Marina Apollonio. Oltre il cerchio, aperta presso la Collezione Guggenheim di Venezia fino al 3 marzo 2025, la curatrice Marianna Gelussi ripercorre per Engramma la figura e la ricerca dell'artista italiana, nata nel 1940 e considerata un punto di riferimento per l’arte optical e cinetica internazionale (Estratto dal catalogo della mostra a cura di M. Gelussi, con testi di A. Pierre, M. Hollein, C. Alemani, Marsilio, Venezia 2024). 

Adesso avete capito: se io amo l’ordine, non è come per tanti altri il segno d’un carattere sottomesso a una
disciplina interiore, a una repressione degli istinti. In me l’idea d’un mondo assolutamente regolare,
simmetrico, metodico, s’associa a questo primo impeto e rigoglio della natura, alla tensione amorosa, a
quello che voi dite l’eros, mentre tutte le altre vostre immagini, quelle che secondo voi associano la passione
e il disordine, l’amore e il traboccare smodato – fiume fuoco vortice vulcano – per me sono i ricordi del nulla
e dell’inappetenza e della noia.
Italo Calvino, I cristalli,1967, in Ti con zero, Torino 1977, 39-40.

1 | Marina Apollonio con Dinamica circolare 5HN (1965-1972 circa), 1973 © Archivio Marina Apollonio.

“Ogni mia ricerca plastica vuole essere un’indagine sulle possibilità fenomeniche di forme e strutture elementari. La forma elementare ha in sé l’astrazione totale in quanto è costituita da un programma matematico. Su questa base l’azione si svolge con assoluto rigore in un rapporto diretto tra intuizione e verifica: intuizione a livello ottico e verifica su sistema matematico. Scelta una forma primaria, quale ad esempio il cerchio, ne studio le possibilità strutturali per renderla attiva cercando il massimo risultato con la massima economia” (M. Apollonio 1966).

Così Marina Apollonio, in un testo scritto nel 1966 in occasione della prima personale al Centro Arte Viva Feltrinelli di Trieste, descrive la propria pratica artistica, fin dal principio attratta dal linguaggio razionale oggettivo della geometria, dal cerchio in particolare, che diventerà il suo tema fétiche.

Nel settembre del 1962 entra in contatto con gli artisti dell’Arte programmata (o gestaltica), i quali propongono una visione dell’arte in sintonia con la sua. L’occasione è una conferenza tenuta dal padre Umbro Apollonio alla Fondazione Cini di Venezia, dedicata a queste “nuove modalità creative”. Utilizzando un approccio scientifico e la psicologia della Gestalt come punto di partenza, l’avanguardia programmata intende andare oltre l’Informale. L’obiettivo degli artisti è quello di superare l’angosciosa opposizione al presente (non “abdicare alla condizione di essere nella storia”) e assimilare al contrario la vita. Annullando “il divario tra immagine ed esistenza”, mirano a rendere visibile il continuo divenire del reale e la sua naturale instabilità (U. Apollonio [1962] 1963, 5-34).

Contagiata dal “virus dell’arte”, come le piace ricordare, intraprende il suo personale e rigoroso percorso individualmente, senza aderire ad alcun gruppo e senza l’appoggio del padre, allora direttore dell’Archivio Storico della Biennale (ragione per cui la famiglia si trasferisce a Venezia nel 1948), preoccupato dalle difficoltà materiali di questa scelta (“Farai la fame!”) e dai possibili sospetti di nepotismo (sarà sistematicamente esclusa dalle mostre che lo vedono implicato). Ciononostante, nel marzo del 1965 Marina Apollonio vince il Chiodo d’oro a Palermo. A tale riconoscimento segue, l’anno successivo, la personale, con Rilievo sbarra 04 del 1964 (purtroppo andato distrutto), presentato a insaputa sua e del padre dall’artista Getulio Alviani: “sottilissimo intreccio di lamine metalliche, un campo visivo a spazio alterno e vibrato nelle luci angolari in un itinerario di suggestiva intermittenza: luce + frazioni di tempo e di linee”, come descritto nella notizia pubblicata da L’Ora[1].Nel 1965 riceve anche l’invito alla terza edizione di Nova tendencija a Zagabria, dove espone due collage fotografici, Dinamica circolare 5/CP e Dinamica circolare 5/CN del 1965 (M. Rosen, P. Weibel et alii 2011, 190). Lo spazio interno del cerchio appare strutturato secondo un sistema progressivo di cerchi in bianco e nero dallo spessore gradualmente variabile, attorno a un centro sfasato che dà profondità e infonde un senso di straniamento nell’attrazione contemplativa. La cromia inversa delle due opere, una su fondo bianco e l’altra su fondo nero, forma un dittico positivo/negativo, una poetica di contrapposti che l’artista adotta come principio creativo e declina ampiamente negli anni successivi.

Da qui in poi il suo cammino, ormai tracciato, subisce un’accelerazione: Zagabria le apre l’orizzonte internazionale e segna l’incontro con l’artista milanese Dadamaino, alla quale rimarrà legata da una sincera amicizia, sodalizio prezioso in un ambiente, quello artistico, composto prevalentemente da uomini. Ne seguono numerose partecipazioni a eventi, mostre personali (Dadamaino è tra l’altro l’iniziatrice, insieme ad Alviani, della personale alla galleria del Cenobio di Milano nel 1967[2]) e collettive, in Italia e all’estero, insieme alla costellazione di artisti che compone l’avanguardia programmata e cinetica (F. Pola, L.M. Barbero 2014, 123-143).

L’opera di Apollonio prende corpo in un processo di continua progettazione matematica, di sperimentazione tecnica lungo diverse traiettorie di ricerca, su diversi supporti, una realizzazione minuziosa che richiede tempo, precisione e, nel caso della pittura, molteplici stesure di colore, spellicolature. Elementi costanti dell’opera: il programma, la ricerca di dinamismo, l’essenzialità, un’asciuttezza che rifugge ogni spettacolarità, la volontà di spingersi sempre oltre […] [Fig. 2].

Fin dai primi disegni del 1963, il cerchio si impone come forma di predilezione: “Se per Mondrian la scelta è la linea retta, per Apollonio la scelta è la linea curva”, scrive un giornale nel 1967, in occasione della sua mostra al Cenobio di Milano[3]. Quando le chiedono il motivo del ritorno ossessivo del cerchio, l’artista ribatte spesso in tono scherzoso: “Avevo un buon compasso”: in parte vero (il prezioso compasso, grazie al quale riesce a tracciare circonferenze fino a due metri di diametro, è tutt’oggi nello studio), l’ironia della risposta tempera l’invece serissima convinzione artistica. Il suo rigore metodico, infatti, incarna letteralmente quello “spirito esatto come un compasso” che, secondo i precursori del cinetismo Naum Gabo e Anton Pevsner, deve condurre la rivoluzione dinamica realista dell’arte (N. Gabo, A. Pevsner [1920] 1993, 154): una formula che, nel caso di Apollonio, si fa metafora calzante. La precisione del compasso è la forma mentale (metodo e strumento) che modella il suo percorso di ricerca attorno a e a partire dal cerchio, così come le incursioni oltre il cerchio, tra strutture e linee […].

La volontà di superamento, centrale per l’artista, segna lo spirito dell’epoca: scrive l’artista Piero Manzoni nel 1960, riassumendo perfettamente, “Non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali (P. Manzoni [1960] 2014, 102). Un senso di urgenza muove la nuova avanguardia. Questo è evidente fin dal titolo delle due mostre chiave del 1963, Oltre l’informale Oltre la pittura, oltre la scultura: la prima, svoltasi alla IV Biennale di San Marino e curata dallo storico dell’arte Giulio Carlo Argan, difensore della concezione gestaltica collettiva dell’arte (G.C. Argan [1963] 2012, 155), che premia due gruppi della tendenza programmata/cinetica, il gruppo N di Padova e il gruppo Zero di Düsseldorf; la seconda, organizzata presso la galleria Cadario di Milano su iniziativa di Alviani, curata da Umbro Apollonio (G. Rubino 2012, 65-90) e che vede protagonisti i maggiori rappresentanti della corrente cinetica internazionale. In Italia, i ‘programmati’ comprendono il gruppo N di Padova (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi), particolarmente vicini ad Apollonio che si trasferisce a Padova nel 1970, il gruppo T di Milano (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Grazia Varisco), gli amici Alviani e Dadamaino, artisti vicini ad Azimut/h, a Piero Manzoni e Enrico Castellani e al gruppo Zero di Düsseldorf, come Nanda Vigo e i già riconosciuti Enzo Mari e Bruno Munari. Insieme ad altri gruppi e artisti sparsi in tutta Europa si riuniscono a partire dal 1961 a Zagabria sotto il marchio della Nova tendencija, “organizzazione senza statuti” costituita da “affinità elettive”, da un “sentimento di parentela” (K.G. [Pontus-Hultén] 1964). Si tratta per questi artisti di superare la visione personalistica, feticista dell’arte, andare oltre il mito dell’artista, geniale creatore rinchiuso nella sua torre d’avorio, e dell’opera totemica, oggetto unico per pochi, esplorando le possibilità di riproducibilità dell’oggetto e l’utilizzo di modi di produzione industriali. Si tratta di far uscire l’opera oltre la cornice in oggetti che non sono più né pittura né scultura, adottare un metodo oggettivo, il linguaggio universale della geometria, integrare il presente, nuove tecniche, abbracciare il movimento, e far uscire l’arte fuori dai circuiti tradizionali per democratizzarla.

Il periodo tra il 1965 e il 1973 è di grande effervescenza personale per Apollonio, complice anche di questo sforzo collettivo per una trasformazione radicale dell’arte. Nel 1965 (anno in cui tutto inizia con il Chiodo d’oro e Nova tendencija 3) Germano Celant, giovane critico d’arte che in questi anni guarda con interesse all’avanguardia programmata proprio per la sua spinta utopica, e in un’occasione si reca anche a Zagabria in compagnia dell’artista, invita Apollonio a partecipare alla mostra Forme programmate al Castello del Valentino a Torino, in occasione delle celebrazioni del 5° Centenario della introduzione dell’arte tipografica in Italia. L’anno seguente, il critico le chiede di contribuire alla creazione del nuovo Museo Sperimentale di Torino, un’iniziativa dello storico dell'arte Eugenio Battisti, professore di Celant all’Università di Genova, che intende raggruppare il lavoro delle giovani avanguardie. Inaugurato nell’aprile del 1967 alla Galleria Civica d’Arte Moderna, vi si conservano tutt’oggi Dinamica circolare 5CP e 5CN, collage donati dall’artista della stessa edizione mostrata a Zagabria. Mostre e iniziative si tengono in spazi sperimentali dove vengono promosse nuove modalità partecipative oltre le mura istituzionali, come ad esempio la galleria Sincron di Brescia (Apollonio vi ha la sua personale nel 1968). Si dà vita ad una sorta di “avanguardia diffusa” che esce dal centro, moltiplica gli eventi sul territorio, scende in strada per portare l’arte direttamente in mezzo alla gente, come nel 1969 a Varese in Meno 31. Rapporto estetico per il Duemila, dove l’artista espone i propri oggetti nel Chiostro Sant’Antonino (A. Acocella 2016; vedi “Varese. Cronache di vita comunale”, 4, 1969, ill. p. 36). Gli anni Sessanta sono anni di sperimentazioni tecniche, anche con il computer[4], di collaborazioni stimolanti, con Dino Gavina, visionario editore di oggetti di design legato alle avanguardie artistiche, con il quale lavora su un’edizione motorizzata di Dinamica circolare 6S+S[5] per il Centro Duchamp da lui fondato in onore dell’amico Marcel [Fig. 3]. Purtroppo non finalizzata, ne rimane testimonianza nell’esemplare conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Sono anni di riconoscimenti: nell’agosto del 1968 si tiene la sua personale alla Galleria Barozzi di Venezia (un articolo apparso ne “Il Gazzettino” la equipara a Bridget Riley, allora esposta nel padiglione britannico alla Biennale) (“Il Gazzettino” 1968, 8). Dopo aver visitato la mostra, Peggy Guggenheim le commissiona un rilievo metallico. La storia dell’opera si intreccia intimamente con quella della collezionista: segnata dalla morte tragica della figlia, chiede all’artista di non usare il rosso, la cui vista le è ormai insopportabile. Da qui la scelta del verde che impreziosisce i riflessi del Rilievo n. 505 conservato nella collezione [Fig. 4]. Nel 1973 si tiene la sua personale alla Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum di Graz, il cui catalogo è accompagnato da un testo di Gillo Dorfles (M. Apollonio 1973).

2 | Marina Apollonio, Gradazione 11. Verde giallo su rosso, 1971. Acrilico su tela 50 x 50 cm, Verona, collezione privata © Marina Apollonio.
3 | Marina Apollonio, Dinamica circolare 6S+S III, 1966/1968. Serigrafia su legno laccato, meccanismo rotante motorizzato, 102 cm Ø, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna © Marina Apollonio.
4 | Marina Apollonio, Rilievo n. 505, 1968 circa. Alluminio e pittura fluorescente su pannello di fibre pressate, 49,9 x 49,8 x 6, 5 cm,Venezia, Collezione Peggy Guggenheim (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York) © Marina Apollonio.

I primi segnali di crisi dell’arte programmata si intravedono già alla fine degli anni Sessanta. Spicca il distacco di Germano Celant negli ormai storici Appunti per una guerriglia: il concetto di “arte povera” si forgia qui proprio in contrapposizione all’arte “complessa” del “microcosmo astratto (op)”, pop e minimal, che con “atteggiamento ricco” opera all’interno del “sistema”, “si lega alla storia, o meglio al programma, ed esce dal presente” (G. Celant 1967,4; vedi anche R. Cuomo 2017; R. Cuomo 2018, 85-105), ritrovandosi intrappolata. Incapace di provocare una reale trasformazione, tradisce secondo il critico il proprio slancio rivoluzionario.

In una lettera del dicembre 1968 a Celant, Apollonio affronta questa controversia e getta nuova luce su quello che considera essere il senso, la funzione e il fine ultimo della programmazione, aprendo un’inedita prospettiva sul proprio lavoro:

Nel nostro ultimo incontro a Venezia iniziammo un discorso sull’isterilimento dell’arte. Vero. E noto che molti artisti che hanno operato nel campo della programmazione sentono ciò e reagiscono di conseguenza. E la reazione è sbagliata. Non si può reagire a una cosa in cui si era creduto negandola. Non lo capisco. La validità è nel superamento. L’arte programmata sta subendo un grosso equivoco. Non è il solo geometrico o l’oggettino ben eseguito. L’intuizione è libera, totalmente libera e programmazione è un fatto conseguente di operazione secondo dei principi di economia e funzionalità. Il non geometrico e l’assurdo è valido se è programmazione. Ma ora tutto è insterilito nel geometrico nella perfezione per la perfezione e ti do ragione. Noi dobbiamo vivere, respirare e sentirci espandere nell’arte e questo è possibile solo se esiste una totale libertà di intuizione non schematizzata in formule. […] Non dobbiamo fermarci ad una formula considerata giusta si correrebbe il rischio di bloccarci in un sistema. Il nostro compito è proporre, creare continuamente situazioni nuove in un sistema aperto considerando la possibilità di errore quindi di verifica e di superamento. Un’intuizione verificatasi valida va sfruttata fino al suo limite massimo, ma a tale punto deve venir superata. Un metodo che ha dato dei buoni risultati non è pensabile possa essere sempre applicabile. Il metodo stesso subisce una costante evoluzione e sarà di volta in volta riproposto diverso in relazione all’attuazione di nuove intuizioni (Lettera di Marina Apollonio a Germano Celant, 10 dicembre 1968, conservata negli archivi dell’artista).

Ancora una volta, ritorna il concetto di superamento (motore e orizzonte del fare artistico). Interessante è l’accento posto sulla libertà dell’intuizione, il timore espresso sulla sterilità del metodo ridotto a formula e l’esortazione a “vivere, respirare e sentirci espandere nell’arte”. In questa idea di programma inteso come un sistema aperto, nel riferimento al respiro dell’arte, riecheggiano le riflessioni di Guy Brett, critico inglese sostenitore della tendenza cinetica internazionale presentata tra il 1964 e il 1966 alla galleria Signals a Londra, a cui dà voce nell’omonima rivista, secondo il quale l’essenza profonda del dinamismo dell’opera cinetica non è la capacità tecnica a muoversi dell’oggetto quanto “qualcosa di più semplice e fondamentale. Forse nulla di più complicato del riuscire a ‘respirare liberamente’ in nuove dimensioni” (G. Brett 1968, 8: “something simpler and more fundamental. Perhaps it means nothing more complicated than being able to ‘breathe freely’ in new dimensions”).Il programma, in linea con la necessità di superamento, è per l’artista un sistema organizzato aperto che consente l’espansione, nel quale arte e vita trovano il proprio slancio. Il rigore è lo strumento per perseguire e realizzare questo movimento costante in avanti, verso nuove dimensioni. È solo in apparenza paradossale se Apollonio, con estrema, metodica precisione, cerca il respiro in ciò che è programmato, nell’oggettivamente ordinato, se nella geometria libera la propria vitalità: d’altronde, come già sottolinea il filosofo Umberto Eco, in questi anni attento osservatore e interprete delle avanguardie artistiche, citando il poeta Paul Valéry nel dépliant della mostra d’arte programmata al Negozio Olivetti di Milano nel 1962, “la più grande libertà nasce dal più grande rigore[6]”.

5 | Marina Apollonio, Spirale ad anelli, 1967 (collezione privata), Lido di Venezia, 1967 © Archivio Marina Apollonio.

Se la sua pratica artistica si fonda sulla logica del programma, infatti, questa è lontano dall’essere un ordine sterile. Da essa l’opera trae il proprio soffio vitale. E da questo respiro, oltre che dall’eleganza priva di spettacolarizzazione (fedele ai principi di economia e funzionalità) emana forse il “senso di naturalezza” elogiato dallo storico dell’arte Luciano Caramel nell’introduzione alla mostra personale di Apollonio alla galleria Historial di Nyon in Svizzera nel 1970 (L. Caramel 1970).

Non è un caso, allora, se alla natura, all’osservazione da bambina del mondo che la circonda, “il profilo di una lumaca, la struttura di una foglia, gli anelli di un tronco d’albero tagliato, la trama di un nido” e ancora “la spirale di una pianta di pisello”, l’artista associa nei ricordi l’origine della sua attrazione per la forma (J. Houston 2014, 7). Si legge in un appunto manoscritto conservato negli archivi: “L’universo: basato sul numero. L’uomo studia l’universo attraverso i numeri e ne ricava le formule. L’osservazione della struttura dell’universo attraverso i numeri porta all’osservazione di proporzioni che si presentano costanti in natura → astrazione totale. Sull’astrazione totale e sulle proporzioni matematiche si basa la mia ricerca”.

L’idea dell’esistenza di un “principio unitario di strutturazione e proliferazione formale e creativa” che riconduce “l’uomo e il creato, le manifestazioni fisiche, fisiologiche e mentali ad un’unica formulazione unitaria, ad un unico processo organizzativo e creativo” è presente nel concetto di forma espresso già da Johan Wolfgang von Goethe, con un approccio vicino a quello della Gestalt (G. Dorfles, R. Arnheim [1962] 1977, 13; vedi anche J.W. Goethe 1983). Certo, afferma Eco, “l’arte imita la natura”: l’arte programmata però non imita la natura “che per abitudine percettiva vediamo tutti i giorni, ma quella che concettualmente definiamo in laboratorio […] il nostro modo di interpretare e definire la natura” (U. Eco 1962, 176). Umbro Apollonio ritorna su questa connessione tra sistema matematico, arte e ordine naturale e la approfondisce in un saggio del 1966:

E quale migliore esempio potremmo trovare di un regno guidato da un ordine logico interno, sempre in movimento, sempre in fase di variabilità, pur restando d’identica sostanza, che non nella natura? Per l’appunto, la natura è in continuo divenire, è quella che meglio figura il progredire dallo stabile all’instabile senza smentire mai né l’uno né l’altro, perché è un complesso di elementi inseparabili, talmente pertinenti ed in maniera tale sistemati su scala sincronica da non poter essere mai spostati. Ecco così che acquista nuovo significato l’antico detto natura artis magistra: non già nel senso dell’imitazione più o meno veristica delle sue apparenze, come fu in passato, sibbene quale rappresentazione di uno stato permanente che segue proprie leggi e si offre di volta in volta rinnovato per generazione spontanea. L’arte è un altro regno ma molte sue leggi sono pressoché identiche: due universi e due “bellezze”, eppure accomunate da taluni concatenamenti e sopra tutto simili in quanto totalità armonica (U. Apollonio 1966, 18-31).

L’opera di Marina Apollonio riflette, elegante, quasi sottovoce, questa connessione strutturale, non solo simbolica, con l’ordine universale. Dimostra, nella sua vitalità, che l’arte programmata, l’astrazione geometrica, optical, non sono così fredde come si crede: c’è dietro corpo, attrazione magnetica, pulsione, una sorta di eros di cui è partecipe colui che guarda, attirato in una relazione attiva, la percezione allargata, gli occhi e i sensi in allerta, la coscienza acuita, protagonista del divenire dell’opera (A. Pierre 2022, 107).

I due mondi, arte e natura, collidono in una serie di fotografie conservate negli archivi dell’artista, scattate alla fine degli anni Sessanta. Rilievi e sculture sono messi in scena all’aperto, per ovviare certo alla difficoltà di non avere uno studio, tuttavia l’incontro provoca un cortocircuito, a questo punto non così sorprendente. Appesi ai rami degli alberi, tra le foglie, ai tronchi, nel giardino di casa al Lido di Venezia o appoggiati sul bordo di un muretto, gli oggetti svettano contro il cielo come pronti a spiccare il volo, poggiati in riva al mare, il flusso dell’acqua e le onde rispecchiano i cerchi delle sculture [Fig. 5]. Osservando le fotografie, ritorna alla mente l’idea di superamento cara all’artista, il desiderio di libertà, di espansione, espresso nella lettera a Celant e perseguito nella pratica, la sua aspirazione all’assoluto: gli oggetti appaiono allora sotto una nuova luce. Strutture viventi, aperte, respirano, sì, libere, in nuove dimensioni.

Note

[1] Il Chiodo d’oro, in “L’Ora”, 12-13 marzo 1965; articolo conservato negli archivi dell’artista.

[2] Lettera di Dadamaino a Marina Apollonio, 20 gennaio 1967, conservata negli archivi dell’artista.

[3] Gian Franco Arlandi, Apollonio al Cenobio di Milano, in [?], 1967, ritaglio di giornale conservato negli archivi dell’artista.

[4] Lettera di Dadamaino a Marina Apollonio, 10 febbraio 1969, conservata negli archivi dell’artista.

[5] Lettera di Marina Apollonio a Dadamaino, 1 dicembre 1969, conservata negli archivi Dadamaino; risposta di Dadamaino a Marina Apollonio, 10 dicembre 1969, conservata negli archivi dell’artista.

[6] Paul Valéry citato in Umberto Eco, Arte programmata. Arte cinetica. Opere moltiplicate. Opera aperta, dépliant della mostra a cura di Bruno Munari e Giorgio Soavi, Negozio Olivetti, Milano, s. p., riprodotto in Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche, a cura di Marco Meneguzzo, Enrico Morteo, Alberto Saibene, Johan&Levi, Milano 2012, pp. 73-100.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

Marianna Gelussi, curator of the exhibition Marina Apollonio. Oltre il cerchio / Marina Apollonio. Beyond the Circle, held at the Guggenheim Collection in Venice (October 12, 2024 – March 3, 2025), punctually traces the research and career of the Italian artist, born in 1940 and recognized as one of the key figure of Optical and Kinetic art. Gelussi explains that her work “shows us, in its vitality, that programmed art, geometric abstraction, oprical, are not as cold as people think: behind them there are body, magnetic attraction, pulsion, a sort of eros in which the one looks is a participant”.

keywords | Marina Apollonio; Optical art; Kinetic art.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Gelussi, Marina Apollonio. Oltre il cerchio. Per un eros dell’arte programmata, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.217.0006