"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

217 | ottobre 2024

97888948401

Scacco alla regina 

Christoph Büchel alla Fondazione Prada di Venezia

Antonella Huber

English abstract

C’è un fine mentale implicito quando si guarda l’ordine dei pezzi sulla
scacchiera. La trasformazione dell’aspetto visivo in materia grigia è una
cosa che avviene sempre negli scacchi e che dovrebbe avvenire nell’arte.
(Duchamp 1952*)

The queen and pawn versus queen endgame is a chess endgame in which
both sides have a queen and one side has a pawn, which one tries to
promote. It is very complicated and difficult to play. Cross-checks are often
used as a device to win the game by forcing the exchange of queens.
(Nunn 2007, 148)

“La roba non è di chi ce l’ha, ma di chi la sa fare”, fa dire Giovanni Verga a Mazzarò protagonista, nelle Novelle rusticane, di un racconto che fin dal titolo, La roba, suonava nel 1883 come una profezia di quello che sarebbe diventato lo spirito del capitalismo del nostro tempo. L’etimologia della parola dal paleogermanico rauba, che indicava la preda, il bottino di guerra, le spoglie del nemico – dunque anche le sue vesti – è la stessa di rubare. È in questo doppio senso di sostanza di valore, da un lato, e di bottino, dall’altro, che la roba, figura di una società usuraia, è la protagonista indiscussa di Monte di Pietà, spettacolare installazione di Chistoph Büchel proposta dalla Fondazione Prada per la sede veneziana di Ca’ Corner della Regina, inaugurata a maggio, in contemporanea con la Biennale Arte. Sintesi, se così si può dire, di una ricerca durata tre anni, l’ultimo lavoro dell’artista, nato a Basilea nel 1966, rappresenta l’ennesimo tassello della sua poetica, definibile come un “troll critico” all’interno del mondo dell’arte, mutuando il termine dal gergo informatico che chiama troll un post volutamente errato e diffamatorio, immesso su newsgroup o forum con la deliberata intenzione di suscitare risposte correttive altrettanto aspre e corrosive (Bettridge, Denny et alii 2017).

1 | Immagine di “Monte di Pietà”. Un progetto di Christoph Büchel Fondazione Prada, Venezia. Foto: Marco Cappelletti Courtesy, Fondazione Prada.

Come rileva l’artista neozelandese Simon Denny, recensendo la mostra su “Artforum” (Denny 2024), tutta l’opera di Büchel, fatta di scenari disturbanti attentamente assemblati per mostrare i meccanismi poco virtuosi che governano il sistema capitalistico, prende forma in spazi espositivi di grande visibilità come trolling in grado di scatenare un’immediata indignazione. A Venezia l’artista era conosciuto già dal 2015 quando, per il padiglione islandese della Biennale, aveva realizzato The Mosque, trasformando la chiesa di Santa Maria della Misericordia in una moschea attiva, se pur temporanea, con i mussulmani in preghiera, suscitando il risentimento cittadino e dello stesso Patriarcato, tanto che, dopo pochi giorni, se ne decise la definitiva chiusura. Quattro anni dopo, per la Biennale del 2019, aveva portato all’Arsenale Barca Nostra, cioè quello che restava del peschereccio naufragato al largo delle coste libiche nell’aprile del 2015, con a bordo più di ottocento migranti, di cui solo ventotto sopravvissuti. Più che un troll, in questo caso, lo si potrebbe definire ironicamente “un Büchel nell’acqua”, perché inosservato e trascurato dal pubblico che lo interpretava come una presenza conforme alla natura del luogo.

Ma, per farsi un’idea della caustica personalità del soggetto in questione, basterebbe citare la vicenda del contenzioso legale con il Mass MoCA (Massachusetts Museum of Contemporary Art di North Adams) avviato nel 2008. Il Museo americano aveva commissionato a Büchel l’installazione Training Ground for Democracy, sorta di labirinto ipertrofico sulla cultura americana assemblato per mesi all’interno del Museo. Non avendo rispettato gli accordi di tempo e di budget e ripetutamente sollecitato alla consegna, l’artista decideva di abbandonare il lavoro ma, nello stesso tempo, di non cedere al museo l’opera interrotta rivendicandone la proprietà, pretesa invece dall’istituzione committente e finanziatrice. Solo la sentenza del Tribunale federale, che alla fine ha dato torto a Büchel, ha posto un argine alla questione, riconoscendo al Museo il diritto di consentire al pubblico di vedere l’opera incompiuta, anche se l’artista sembra non darsi ancora per vinto.

Del resto, cause legali, cancellazioni e chiusure sono tutti esiti ideali per un troll e, se l’obiettivo di Büchel è quello di realizzare enormi opere di sabotaggio, volgari, offensive o irritanti, che incorporano ed espongono la sua personale posizione eticamente compromessa, trascinandosi dietro, come un Lucifero redivivo, quella dell’istituzione ospite, gli si può riconoscere un indiscutibile successo, sufficiente, quanto meno, a spalancargli le preziose stanze veneziane della Fondazione Prada. Il comunicato stampa della mostra ricordava che: “Originariamente dimora dei mercanti veneziani Corner di San Cassiano, Ca’ Corner della Regina è costruita tra il 1724 e il 1728 sulle rovine del palazzo gotico in cui nel 1454 nasce [primo rimando] Caterina Cornaro, futura regina di Cipro [quella obbligata a cedere il suo Regno alla Repubblica in cambio di un monte di denaro]. Nel 1800, l’edificio diventa proprietà di Papa Pio VII [quello del Chirografo, l’editto emanato nel 1802 dopo le spoliazioni francesi a tutela delle antichità e delle belle arti], che lo assegna alla Congregazione dei Padri Cavanis. Dal 1834 al 1969 il palazzo ospita [secondo rimando] il Monte di Pietà di Venezia. Nel 1975 diventa sede dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia e dal 2011 [terzo rimando] è uno degli spazi espositivi permanenti della Fondazione Prada. A partire da questa storia stratificata – prosegue il comunicato – Christoph Büchel ha costruito una complessa rete di riferimenti spaziali, economici e culturali. ‘Monte di Pietà’ è un’approfondita indagine del concetto di debito come radice della società umana [primo riferimento] e veicolo primario con cui è esercitato il potere politico e culturale [secondo riferimento]. Storicamente un crocevia di commistioni e scambi commerciali e artistici, Venezia [terzo riferimento] è il contesto ideale per esplorare le relazioni tra questi temi complessi e le profonde dinamiche della società contemporanea”.

Questa densità di rimandi e riferimenti resta però, a lavoro finito, un groviglio indecifrabile, e offre al visitatore un’esperienza dall’impatto sgradevole e dalla lettura estenuante, in perfetta sintonia con le intenzioni dell’artista. Se poi si accetta la sfida della decodificazione, il significato che emerge è devastante: l’installazione non risulta tanto “un’approfondita indagine del concetto di debito come radice della società umana”, quanto piuttosto la violenta e spietata rappresentazione del suo fallimento (del debito e della società umana di conseguenza), dove Venezia, “crocevia di commistioni e scambi commerciali e artistici”, sembra osservare impotente l’ammasso desolante dei poveri avanzi da aggiudicare al miglior offerente.

Tutto è in vendita a partire dal palazzo che, dal balcone della facciata sul Canal Grande, lo dichiara a margine dello slogan “Venezia è bella, facciamola più bella”; più in basso “Liquidazione Totale. Fuori Tutto. Fuori Tutto” gridano le scritte su fondo giallo o rosso che oscurano i finestroni, mentre sopra al portone chiuso si legge la tetra scritta “Monte di Pietà” e, nella lunetta, un misterioso “House of Diamonds. Queen of Pawn”. Non va meglio per chi arriva a piedi all’ingresso sulla stretta calle, dove i cartelli “Compro Oro/Vendo Oro”, “Liquidazione totale”, “Fuori tutto” spiazzano i visitatori smarriti, poco confortati anche dagli addetti all’accoglienza, contrassegnati da una funerea t-shirt dalla stessa misteriosa scritta: “Queen of Pawn, House of Diamonds”.

2 | Immagine di “Monte di Pietà”. Un progetto di Christoph Büchel Fondazione Prada, Venezia. Foto: Marco Cappelletti Courtesy, Fondazione Prada.

Nella lingua inglese pawn sta per “pegno”, a indicare il diritto concesso su un bene a garanzia di un credito ricevuto. Il termine italiano, derivato dal latino pignus, da pingĕre, cioè dipingere, in origine non definiva che un segno fatto per ricordare un in-pegno preso; allargato a ciò che lega all’interno di un patto, identifica, oltre al diritto legale sul bene, anche il bene stesso a cui attribuire un valore, simbolico in qualche caso, il più delle volte monetario. La scritta “Queen of Pawn”, seguita dal lussuoso “House of Diamonds”, vuole certo identificare l’ente organizzatore come “the best pawnshop”, ma è vero altresì che nella lingua inglese pawn significa anche “pedone”, vale a dire il pezzo di minor valore degli scacchi, e “The Queen and Pawn” nelle regole del gioco è un endgame, dove entrambe le parti hanno una regina e una delle due parti un pedone, che si cerca di promuovere a regina; due regine dello stesso colore normalmente suggeriscono all’avversario l’abbandono del gioco. C’è forse qualcosa di simbolico in questa casuale sovrapposizione di termini che dicono cose tanto diverse, perché, a ben guardare, l’installazione sembra renderli sorprendentemente coincidenti. In entrambi i casi, infatti, si tratta di un finale di partita: da un lato quella di un sistema di monetizzazione che dichiara fallimento, annunciandone la deplorevole dismissione, dall’altro quella delle ultime mosse necessarie al giocatore per capovolgere i presupposti valoriali di partenza, cosicché un modesto pedone possa diventare regina, vale a dire il pezzo a cui tutte le mosse sono concesse e per questo più importante dello stesso re.

Del resto qui persone e cose sembrano irrimediabilmente fuori posto, in una costruzione senza senso, o meglio così carica di significati da annullarli per eccesso di interferenza. Il lavoro di Büchel, infatti, straripa a tutti i livelli: svendendo ciò che resta del “Monte di Pietà”, diventa “The Queen of Pawn”; inglobando la Fondazione, mette a dura prova la sua forza semantica; chiamando in causa la città stessa, forza il sacro recinto dell’arte, cosicché il pubblico, anche quello più attento e sgamato, smarrisce ogni presupposto di orientamento. D’un tratto, nel magnifico Palazzo, tanto monumentale da meritare l’appellativo di Ca’ Granda, tutto sembra diventare miserabile, nel senso letterale di “degno di essere commiserato per la sua triste sorte” (dal latino miserari: avere pietà). Pietà, del resto, è la parola chiave, non la pietas greca, però, quella che indicava dovere, devozione, lealtà, giustizia, ma quella corrente che esprime più semplicemente il sentimento di dolorosa partecipazione all’infelicità altrui.

3 | Immagine di “Monte di Pietà”. Un progetto di Christoph Büchel Fondazione Prada, Venezia. Foto: Marco Cappelletti Courtesy, Fondazione Prada.

Varcata la soglia da un ingresso di servizio, il fallimento annunciato prende corpo; si scopre che esiste un misterioso bollettino delle Aste giudiziarie, da scaricare in rete, dedicato a quella che – è scritto – si svolgerà il 25 novembre dell’anno in corso, le pagine interne presentano i lotti che scandiscono il percorso. A piano terra sono già pronte le sedie rosse disposte in ranghi regolari di fronte al lungo bancone del battitore. Tutt’intorno giacciono lacerti di senso: portiere di automobile, brandine da campo per sfollati e vetrine sapientemente impolverate con foto d’epoca degli ambienti in cui siamo (quasi una citazione dello Shining di Kubrick). Affacciate alla sala, due ambientazioni: da un lato, ciò che resta di un banco alimentare con gli scaffali vuoti, dall’altro, una cappella in penombra carica di ex voto, stampelle e arti artificiali; volendo si può anche attraversare un groviglio opprimente di ambienti malsani riempiti come una discarica; dentro si colgono le tracce di una presenza, forse il custode: una partita a scacchi lasciata a metà, una credenza socchiusa, una stufa, un narghilè, in mezzo a sacchi di cemento, macerie di ogni tipo, un universo di segni ormai deformi e inutilizzabili. Sul fondo, dalle grandi vetrate della corte, si intravedono panni stesi alla veneziana e un ammasso di biciclette, curioso mezzo di trasporto quasi sconosciuto in città. Salendo, al primo pianerottolo si inciampa, come in strada, negli armamenti improvvisati di un venditore abusivo di borse taroccate (Gucci per lo più…). Inaspettatamente si è ammessi all’esplorazione del mezzanino, spazio sempre celato nelle mostre di Ca’Corner. Qui è sempre notte! Le finestre sono sbarrate, le luci artificiali e, tra i sorprendenti stucchi rococò di Vincenzo Colomba e gli affreschi di Costantino Cedini, si declina la Venezia del turismo e soprattutto del gioco. I viaggiatori della fine del Settecento, protagonisti della “Veduta di porto con coppia di aristocratici in atto di sbarcare” e della “Scena di mercato con il cantastorie e coppia di aristocratici a passeggio”, fanno da sfondo allo schermo su cui passa il video della Regina de’ Schei, l’anziana tiktoker veneziana, guida sui generis di una città come lei piena di rughe e di ricordi ormai irriconoscibili. Spaesandosi continuamente, si passa da una stanza con tanti letti e un lungo tavolo con tredici sedie, ingombro di contenitori di alluminio con resti di cibo, a un bagno anni Cinquanta; da una angusta stanza con un letto sfatto, una cyclette e la tv accesa su un canale di vendite all’asta, al rosso equivoco del privé con il palo da lap dance e la poltroncina singola di velluto. Sulle pareti rimandi di ogni genere: dalla foto del Venetian Resort Hotel Casino di Las Vegas, con le repliche al vero del Ponte di Rialto e del Campanile di San Marco, all’originale “Ridotto in Venezia” di Pietro Longhi, nella versione più dettagliata della casa da gioco, con i tavoli del banco, i mucchi di monete, le carte e i nobili che giocano a volto scoperto. Un’immersione ridondante per rimarcare come il gioco d’azzardo sia da sempre il più valido alleato del sistema del debito e una delle prime cause del ricorso ai prestiti. Superata la parata delle tentazioni notturne, la scala conduce al primo piano nobile, dove i lotti dell’asta fallimentare si fanno materia e si procede tra mucchi di merci, banchi espositivi e banali vetrine illuminate al neon. Non c’è una disposizione, non una vera distribuzione per categorie e, a guardar bene, non c’è neppure un ordine di valore: gli oggetti esposti si sovrappongono e si confondono; tra alto e basso, autentico e falso, originale e copia non sembra esserci alcuna differenza.

[…] Non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba (Verga 2004, 267).

In realtà i valori ci sono, volutamente confusi, però, easter eggs, come si dice in gergo informatico per indicare contenuti che i programmatori nascondono all’interno di un software, e in questo senso l’esercizio a cui è chiamato il visitatore è praticamente una caccia all’uovo. In una vetrina laterale, per esempio, è esposta una grossa scatola di cartone aperta, dentro si intravede una lettera affrancata scritta a mano, un ritaglio di giornale ingiallito con foto, una ricevuta bancaria: è la Time Capsule 1, 1955-71, di Andy Warhol, pratica di stoccaggio a cui l’artista affidava periodicamente le scartoffie della sua scrivania, oggi catalogata come opera; accanto si svela un altro più noto contenitore d’artista: la Boîte-en-valise di Duchamp del 1966, con le sue miniature e le riproduzioni delle sue opere. Proseguendo random tra le corsie, in mezzo a cianfrusaglie tecnologiche desuete, difficile notare, senza l’aiuto del Bollettino dell’asta, che quello che trasmette un vecchio monitor è Television Delivers People, opera video di Richard Serra e Carlota Fay Schoolman; un lavoro seminale nell’uso dei canali televisivi, che già nel 1973 denunciava l’affermazione dei mass media attraverso prodotti di intrattenimento via cavo. Più visibile, ma non più evidente, è Full Financial Disclosure di Chris Burden, che gira su un piccolo schermo accanto a un grande registratore di cassa; il lavoro del 1977, costruito come un intermezzo pubblicitario televisivo, mostra l’artista, seduto a un tavolo con la bandiera americana alle spalle, che sciorina i dettagli della sua dichiarazione dei redditi nello stile di un comunicato commerciale.

La sfida di Büchel, di mescolare e confondere il significato di valore nella società e nel sistema dell’arte, per rimarcare come questo sia il prodotto di una volontà politica oltre che economica, si manifesta non solo negli easter eggs di opere contemporanee ma anche in quelli di arte antica. Vistoso è l’esempio del sublime ritratto di Caterina Cornaro di Tiziano, proveniente dagli Uffizi, appeso a un pannello bianco forato, insieme ad altri quadretti e grucce di metallo per abiti, posto davanti al bellissimo affresco della parete che rievoca la fastosa incoronazione della stessa Caterina. L’indiscusso valore dell’opera, di immediata riconoscibilità in un museo, nel contesto svilente e banale creato da Büchel si perde e pochi sono quelli che si soffermano ad ammirarlo.

4 | Immagine di “Monte di Pietà”. Un progetto di Christoph Büchel Fondazione Prada, Venezia. Foto: Marco Cappelletti Courtesy, Fondazione Prada.

È chiaro ormai che, per identificare il senso di tutta quella roba accatastata nei meandri del piano nobile, ci si può affidare unicamente alle informazioni del Bollettino: descrizioni anodine, però, senza valori: un lotto di lavatrici è trattato alla stessa stregua di quello delle maioliche della collezione Campana; il lotto di prodotti di pulizia come quello dei trecentotrentaquattto manoscritti seicenteschi originali dell’antico Banco di Napoli.

La roba vecchia muore in casa del pazzo (Verga 2004, 280).

Nel delirante pieno dello spazio, Büchel ha incluso con acutezza opere note di critica istituzionale, che già negli anni Sessanta affrontavano il tema del valore dell’opera d’arte, come la Section Financière – Musée d’Art Moderne – Département des Aigles di Marcel Broodthaers del 1971, o una copia del brevetto depositato da Yves Klein nel 1961, per registrare l’International Klein Blue, e, sempre di lui, il libro di ricevute di Zones de sensibilité picturale immaterielle, l’elaborato rituale con cui l’artista vendeva le sue “zone immateriali” in cambio di oro puro, gettandone parte nella Senna per riequilibrare “l’ordine naturale”. Ma c’è posto per lavori anche molto recenti, come Stoney Island Investments Bond di Theaster Gates del 2013, e dello stesso anno The Dick Stanley Request di Jamie Diamond.

[…] Aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo (Verga 2004, 266).

Attraverso questi complicati indizi si arriva, forse, a comprendere cosa significhi “House of Diamonds”, la scritta che si ritrova un po’ dappertutto e che traduce in sintesi il punto focale della riflessione di Büchel, vale a dire la trasformazione dello scarto in valore.

Già suggerito dall’apparente insignificanza delle lattine di Merda d’artista di Piero Manzoni del 1961, o dalle scatole di polvere di Robert Filliou del 1977, il messaggio è reso esplicito con The Diamond Maker, l’opera del 2020 che Büchel ha concepito come una valigia contenente diamanti da un carato, realizzati in laboratorio attraverso la distruzione e la trasformazione delle sue opere. Il processo utilizzato, brevettato dall’azienda svizzera Algordanza AG, che dal 2004 realizza diamanti della memoria con le ceneri di defunti facoltosi, sembra sia in grado di ridurre ogni tipo di scarto, dalle feci ai resti di un cadavere, nel valore più puro in tutti i sensi rappresentato dal diamante. The Diamond Maker è la metamorfosi fisica e simbolica dell’intero corpus di opere di Büchel, i diamanti così realizzati, tutti perfettamente identici, attestano metaforicamente che il solo valore non condizionabile e puro attribuibile all’arte può essere solo indistinguibile, freddo, duraturo, e teoricamente universale.

Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! (Verga 2004, 268). 

Guadagnando l’uscita, con un percorso a ritroso simile al promemoria di un cieco, la scritta “Queen of Pawn”, che rimbalza sulle t-shirt nero Prada del personale di sala, appare meno misteriosa e forse più suggestiva del suo vero significato; non tanto per aver capito qualcosa sul debito, quanto perché in questa storia ci sono molte regine: Caterina Cornaro, la Fondazione Prada, Venezia, l’arte stessa, e, se è vero come è vero che per analogia di termini è possibile utilizzare la logica degli scacchi, si può dire che il pawn/pedone sta a Büchel come la queen/regina sta a tutte quelle messe insieme, ma il pedone “promosso” ha messo in scacco le regine decidendo così di chiudere la partita.

Ora a voi ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati della ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi gironi (Giac. 5, 1-6).

Riferimenti bibliografici
English abstract

“Monte di Pietà” the project conceived by artist Christoph Büchel, for Fondazione Prada Venice venue, Ca’ Corner della Regina, is a deep dive into the notion of debt as the root of human society and the primary vehicle by which political and cultural power is exercised. Historically, a crossroads of commercial and artistic exchange and intermingling, the city of Venice is an ideal context for exploring the relationships between these complex topics and the deep dynamics of contemporary society. The layered history of the Ca’ Corner della Regina building, once the seat of the Monte di Pietà is Büchel’s framework for constructing an articulated network of spatial, economic and cultural references. The project develops in an immersive environment, taking over the palazzo; it consists of a fictitious bankrupt pawnshop based on the original layout of the Monte di Pietà of Venice. Through many complicated clues and after a messy journey, probably only by arriving in front of Christoph Büchel’s work The Diamond Maker (2020-), a suitcase containing lab-grown diamonds, we can perhaps understand what “House of Diamonds” means, the writing that can be found almost everywhere and which summarizes the focal point of Büchel’s reflection, namely the transformation of waste into value and by waste Büchel also means the works of art that have value only if transformed into diamonds with identical shape and value.

keywords | Monte di Pietà; Christoph Büchel; Prada’s Foundation; Venice.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Huber, Scacco alla regina: Christoph Büchel alla Fondazione Prada di Venezia, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.