"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

218 | novembre 2024

97888948401

Oltremare. Mappare il sacro attraverso la penna del pellegrino medievale

Giuseppe Cuscunà

English abstract

Mappa della Terra Santa con Gerusalemme, Bernard von Breydenbach, Peregrinatio in Terram Sanctam, stampa da incisioni di Erhard Reuwich (qui edizione di Peter Drach, Spire 1490).

Questo studio tratta due aspetti relativi alla letteratura di viaggio. Il primo propone una panoramica storico-letteraria dello sviluppo del genere dei racconti pellegrinali, analizzando come questo abbia progressivamente incorporato elementi strutturali e letterali tali da indurre a parlare di una vera e propria ‘letteratura di pellegrinaggio’, individuando riferimenti cronologici amplissimi (data la natura stessa del fenomeno), dall’attrattiva inesauribile. I suoi albori si possono datare già al IV secolo, e in un certo senso ne costituiscono naturale continuazione gli opuscoli turistici che ancora oggi godono di ampissima circolazione a Gerusalemme. La letteratura di pellegrinaggio prodotta dal XVI secolo in poi esula però dall’indagine qui proposta, poiché presenta caratteristiche ben più uniformate, grazie alla precedente stratificazione di cui si farà qui breve cenno, senza pretesa di esaustività. Il secondo è un’analisi più specifica di un corpus selezionato poiché ritenuto sintomatico della piena maturità del genere, che risulta ben codificato. Esso include racconti in volgare, sia italiano che francese, e in latino, da cui sono state ricavate le principali peculiarità, ed è composto dalle seguenti opere: Descriptio Terrae Sanctae di Burcardo di Monte Sion, Evagatorium di Felix Fabri, Liber Peregrinationis di Jacopo da Verona, Libro d’Oltramare di Niccolò da Poggibonsi, Viaggio in Terra Santa di Lionardo di Niccolò Frescobaldi, Viaggio ai Luoghi Santi di Giorgio Gucci, Viaggio al Monte Sinai di Simone di Gentile Sigoli, Liber Peregrinationis di Nicola Martoni di Carinola, Voyaige d'Oultremer en Jhérusalem di Nompar de Caumont.

Il doppio approccio consente di mettere in luce sia il contesto storico globale della produzione letteraria odeporica, sia alcune caratteristiche specifiche dei testi che la compongono. In tal modo, si cercherà di mostrare come questi testi sul viaggio contribuiscano alla percezione della Terra Santa nella cultura medievale occidentale, grazie all’integrazione di esperienze devozionali individuali con temi narrativi consolidati. Le immagini presentate sono solo esemplificative della tradizione visiva sul pellegrinaggio e la Terra Santa, che qui, per ovvie raginoni di specificità di metodo, non viene esaminata nello specifico.

Introduzione alla letteratura di pellegrinaggio

La variegata costellazione dei viaggiatori per devozione di epoca medievale e il tracciato delle loro attività hanno dato vita nel tempo a una fiorente letteratura di viaggio che riprendeva due generi già presenti nel mondo classico: gli itineraria e le descriptiones. Erano, queste, tipologie letterarie che nel primo caso (itineraria) fornivano indicazioni riguardo alle vie di terra e alle rotte di mare che venivano seguite; nel secondo caso (descriptiones) offrivano una descrizione dettagliata dell’assetto urbano di una (o più) città o aree. Tra IV e XII secolo anche i vari loca sancta meta di pellegrinaggio divennero oggetto di interesse odeporico. A questi generi si sovrappose quello delle cronache del Regno Latino di Gerusalemme. La commistione tra questi generi diede vita a veri e propri diari di viaggio gerosolimitani che costituirono un modello di riferimento per la letteratura di pellegrinaggio successiva.

L’Occidente cristiano e medievale era indubbiamente distante dalla Terra Santa sul piano geografico e spaziale. Il viaggio per Gerusalemme era lungo e denso di insidie e pericoli, eppure il fatto stesso di raccontarne gli elementi biblici e cultuali legati alla cristianità lo rendeva vicino e tangibile per il lettore occidentale, anche per quello che non aveva mai compiuto il pellegrinaggio. Con la fondazione degli Stati crociati in pieno Medioevo, i lettori francesi, inglesi, spagnoli e italiani percepivano quegli spazi come luoghi esotici e lontani, ma allo stesso tempo vicini, grazie al loro legame indissolubile con la cristianità. Narrare le vicende d’Outremer, descrivere le reliquie conservate nelle chiese e gli usi di genti lontane ma cristiane, quindi, avvicinava agli occhi del lettore e della società occidentale la Terra Santa alle frontiere dell’Europa.

Dunque, a partire dal IV secolo, l’odeporica entrò in contatto con un’esperienza nuova e complessa nella sua duplice valenza di pratica concreta e significazione simbolica: il viaggio. Il genere assume da questo momento caratteristiche multiformi in cui rientreranno col tempo tutta una serie di testi diversi tra loro ma legati dal comune denominatore dell’esperienza del viaggiare. Con queste premesse si vuole sottolineare come la letteratura di viaggio relativa al peregrinare non si esaurisce unicamente nella rendicontazione dell’itinerarium, ma chiama in causa generi di volta in volta differenti a seconda delle necessità di chi scrive e del contesto di riferimento. Nel difficile tentativo di stabilire una data di nascita per la letteratura di pellegrinaggio, dunque, possiamo affermare con certezza unicamente che essa si inserisce in un filone letterario preesistente e che si assesta su tematiche proprie solo quando l’importanza del pellegrinaggio comincia ad assumere caratteri di pregnanza tali da richiederne una registrazione per iscritto: proprio nel IV secolo.

Scopo di questo contributo è ritornare, da un punto di vista testuale, su alcune tematiche di metodo: tra le altre, quando si può iniziare a parlare di vera e propria letteratura pellegrinale, la relazione tra esperienza diretta e riciclaggio di tòpoi a seguito della nascita di un corpus, cercando di dare un senso di continuità cronologica globale, ma facendo focus in particolare sul XIV secolo.

L’influenza del pellegrinaggio sulla narrazione medievale

La tendenza a una spiccata tensione biografica segna l’elemento distintivo di questi memoriali di viaggio, che non sono più strettamente legati all’invenzione letteraria (sebbene non manchino testi che ne facciano uso), quanto alla prassi dell’esperienza del pellegrinaggio. Anche in questi casi si può percepire un riferimento più o meno esplicito all’esperienza gerosolomitana.

Si potrebbe proporre un confronto tra i diari di pellegrinaggio e il genere dei commentarii o delle compilazioni a carattere geografico, ma non risultano esempi integralmente dedicati alla descrizione di viaggi. Ciò conferma l’idea che il filone dei diari di pellegrinaggio abbia una sua forte specificità che non trova precedenti del tutto coincidenti nel mondo classico. Le affinità e le ascendenze del genere sono comunque rintracciabili – già lo si è accennato – in vari generi letterari come la letteratura periegetica, i commentarii stessi, gli itineraria propriamente detti, le descriptiones che insieme agli itineraria hanno dato il contributo maggiore, i mirabilia, i libri di famiglia, il romanzo e infine l’agiografia, l’epica e la liturgia.

Come abbiamo detto, dal IV secolo i visitatori occidentali sono presto attratti dalla nuova Gerusalemme, edificata da Costantino sui resti della pagana Aelia Capitolina (a sua volta edificata da Adriano dopo la distruzione totale del 132). Ad attrarre i pellegrini è in particolar modo l’inventio della croce da parte di Elena, madre di Costantino (Eus. DE III, 26-28; 26.5; IV, 43). Durante la visita ai loca sacra, i visitatori erano soliti recitare ad alta voce i passi delle Scritture (Sumption 1993, 115, sulla scorta di Eusebio di Cesarea, Lattanzio, e il panegirico in morte di Teodosio di Ambrogio).

Comunemente viene proposta l’idea che l’inizio del pellegrinaggio cristiano sia da ascriversi all’editto di tolleranza di Costantino, primo imperatore romano convertito alla nuova religione. Se certo la deliberazione del 313 e l’acquisizione di diritti prima negati favorirono il flusso dei pellegrini cristiani che si recavano in Terra Santa, è difficile dire che la libertà di culto diede lo slancio iniziale a questo fenomeno; allo stesso modo l’editto di Tessalonica del 380, promulgato da Teodosio per ufficializzare il cristianesimo come religione ufficiale dell’impero, certamente incoraggiò i cristiani a muoversi liberamente e incrementò ulteriormente i pellegrinaggi a Gerusalemme, ma non può essere considerato come data di avvio degli stessi (Sabbatini 2019, 18-19). Sappiamo anzi che i pellegrinaggi cristiani ebbero inizio ben prima del provvedimento costantiniano e che il culto dei martiri cominciò immediatamente dopo la loro dipartita terrena. Sembra anche che la prima attestazione scritta di un pellegrinaggio cristiano a Gerusalemme sia contenuta già in una lettera di Melitone di Sardi del 150 d.C. La lettera, citata da Eusebio di Cesarea, riferisce che Melitone andò in Oriente proprio per visitare i luoghi dove avvennero i fatti raccontati nel Vecchio Testamento (Eus. PE XX, 398). Sappiamo anche che prima del 213 fu il vescovo Alessandro a compiere un pellegrinaggio dalla Cappadocia per andare a pregare a Gerusalemme (Eus. PE XX, 541-542; Hier. vir. ill. XXIII, 708-709).

Se invece si volesse ricercare una data d’inizio di una vera e propria letteratura di pellegrinaggio cristiana, si potrebbe fare riferimento al momento in cui l’esperienza del viaggiare in chiave religiosa comincia a essere accompagnata dal bisogno di una forma espressiva che la rappresenti. Tali condizioni si verificano proprio nello stesso IV secolo, quando alla libertà di culto si aggiunse la ricerca delle reliquie e la costruzione dei santuari per contenerle (Cardini 1989, 59). L’Itinerarium Egeriae (o Peregrinatio Aetheriae), tra il 381 e il 384, è considerato come il punto di partenza del genere letterario (Graboïs 1998, 21). L’opera fu erroneamente attribuita da Gamurrini a Silvia d’Aquitania, ma, come dimostrò Dom M. Férotin, si tratta in realtà di una monaca galiziana che scrive alle sue consorelle una lunga descrizione del suo pellegrinaggio: notevole lo sforzo di far combaciare le descrizioni bibliche con la realtà. Tale sforzo dà origine ad una geografia sacra che viene ripresa dagli autori successivi e adattata, di volta in volta, alle esigenze devozionali dei pellegrini, e offre una interessante testimonianza sulla condizione femminile (Porcasi 2010, 189).

Con la diffusione di questi testi, si sedimenta la consapevolezza di come quei luoghi venivano percepiti dai cristiani del tempo e il significato che essi andavano acquisendo per la coscienza religiosa degli uomini del tardo mondo antico e dell’alto Medioevo (Parente 1983, 237).

Scavalcando altre attestazioni intermedie, è a partire dall’XI secolo, quando il pellegrinaggio diviene una pratica collettiva, che anche i resoconti di viaggio tendono ad aumentare numericamente e a somigliarsi nella struttura narrativa. Essi, in genere, vengono messi per iscritto una volta tornati in patria (Chareyron 2000, 16). Queste opere, che si limitano a illustrare i luoghi santi con riferimento alle Scritture, senza una sostanziale personalizzazione da parte dell’autore, spesso presentano caratteristiche in cui si riscontrano notevoli analogie e somiglianze tra loro. Ben pochi sono i margini che si riservano all’inventiva del singolo (De Meijer 1985, 258 in cui si evidenzia che “qualsiasi comunicazione linguistica ricorrente tende a stabilirsi in certi tipi determinati di scelte costanti di mezzi espressivi e formali, di modi enunciativi e di modi semantici”).

Il pellegrinaggio incontra in questi stessi tempi l’idea di crociata. Tra pellegrinaggio e crociata va tracciata una netta distinzione per la diversa disposizione mentale con cui ci si recava oltremare. Le historiae della crociata presentano per questo motivo dei caratteri specifici originali: il fatto stesso di recare con sé delle armi snatura infatti per certi versi lo spirito del pellegrinaggio e segna una differenziazione rispetto all’immagine tipizzata del pellegrino che vuole lo stesso armato del solo bordone, com’è testimoniato anche dalle fonti iconografiche. Per questo motivo gli scritti dei pellegrini vanno distinti dalla storiografia e la cronachistica crociata.

In questa fase della letteratura medievale del viaggio in Terra Santa i pellegrini non esitano a fare riferimento, nei propri scritti, ai resoconti degli avvenimenti in corso in quegli anni, con particolare riferimento alle imprese dei crociati durante l’occupazione dei luoghi santi. La crociata, nel complesso, ha il merito di far aumentare il flusso dei devoti occidentali in Terra Santa, inaugurando un nuovo corso per il cammino in direzione di Gerusalemme. I pellegrini, grazie alla stabile presenza latina in Oriente, possono ora percorrere più facilmente e con maggior sicurezza la via.

Arrivo dei pellegrini a Roma per il Giubileo del 1300, miniatura, inizio XV secolo, in Giovanni Sercambi, Croniche, prima parte, Lucca, Archivio di Stato, ms. 107, c. 29r; Pellegrini in viaggio verso il Monte Gargano, affresco (dettaglio), XIV secolo, Sutri, Madonna del Parto (‘Mitreo’), vestibolo.

La nascita di un corpus di testi di pellegrinaggio

La testimonianza più o meno diretta del progredire della storia, degli usi e delle consuetudini gerosolimitane che si evince dal flusso cronologico di questi testi è un elemento di particolare interesse in queste narrazioni: gli Stati crociati possono essere considerati come un avamposto occidentale in Oriente, un luogo in cui all’epoca vennero trapiantati gli usi e il sistema socio-economico europeo, talvolta con importanti innovazioni (Minervini 2011). Si tratta quindi di un mondo lontano sulle carte geografiche e sul piano spaziale, ma molto vicino per quanto riguardava i valori cristiani europei. Vi era però ai tempi anche chi riteneva superfluo segnalare le fonti da cui si attingeva, dal momento che – come detto – tali informazioni costituivano ormai un bagaglio di nozioni considerate di dominio pubblico.

La relazione di pellegrinaggio medievale e tutti i sottogeneri largamente e inestricabilmente mescidati tra loro, con infinite variabili, è come detto priva di antecedenti classici, dunque di modelli paradigmatici: nessuna opera con questo contenuto è presente nel canone tramandato alla posterità romanza. Gli autori si servono spesso di memorie dirette e di prima mano (e per tale motivo la verifica sistematica della veridicità è impossibile), ma anche di quanto è stato loro raccontato, di quanto hanno letto o sentito dire (e la distinzione non viene spesso esplicitata). Ne viene fuori che “un’impressione di déjà vu accompagna il lettore che percorra in trasversale più testi di viaggi; e l’impressione è che non siano solo le stesse le cose narrate, ma che siano le stesse le parole usate” (Marengo 1901, 47-48).

Il Giubileo proclamato da Bonifacio VIII nel 1300 rappresenta l’innesco di una rinnovata prospettiva: anche se non è mai stato dichiarato ufficialmente, è ormai chiaro che il sogno di riconquistare Gerusalemme (da molto tempo perduta) è stato definitivamente abbandonato dalla Curia pontificia, che intensificò l’uso politico della crociata indirizzandolo verso la Spagna e il Nord-Est europeo, quando non addirittura verso se stessa e quindi contro elementi eterodossi della Cristianità stessa (è il caso delle crociate politiche contro gli albigesi o contro i ghibellini d’Italia, Bautier 1970).

Se ci inoltriamo nell’Europa del Trecento, la troviamo inquieta e profondamente segnata dal calo demografico e sociale che culmina nella peste del 1347-1350 (la così detta ‘Morte Nera’). Non stupisce che le conseguenze socioeconomiche, socioculturali ed etico-religiose abbiano condotto all’affiorare di una nuova protagonista nella cultura occidentale e nelle sue rappresentazioni artistiche del periodo: la morte, che da questo momento viene rappresentata in componimenti poetici e musicali e in documenti iconici come grandi affreschi sui temi del Trionfo della Morte, o della danza macabra (Cardini 2002, 85).

I pellegrinaggi alla volta della Città Santa, nonostante tutto, proseguirono e si arricchirono di implicazioni sociali ed economiche. I cantari e i romanzi cavallereschi tre-quattrocenteschi, che tanto debbono al nuovo ceto dominante imprenditoriale e mercantile, influenzarono e accompagnarono il pellegrino-scrittore condizionandone l’immaginario. Gli sviluppi del romanzo arturiano, l’esperienza delle avventure mediterranee e gli orizzonti religiosi-fantastici dei ceti emergenti del XIV secolo trovano il loro compimento anche grazie al terreno fertile e alle suggestioni della letteratura di pellegrinaggio.

Il fenomeno pellegrinale, per chi non lo compiva in prima persona, poteva costituire un’ottima occasione per ottenere guadagni e benefici. Dopo la cacciata dei Latini dall’Oriente, i Mamelucchi, nuovi padroni dell’Egitto e conquistatori della Palestina, avevano cercato di favorire gli spostamenti dei pellegrini cristiani col preciso intento di trarre quanti più vantaggi materiali dal controllo diretto della Terra Santa. Una politica, questa, che veniva incontro alle esigenze religiose ma non certo a quelle economiche dell’Occidente. Il ruolo di ponte tra Occidente e Oriente detenuto da Acri viene ora svolto da Giaffa, più vicina a Gerusalemme e Betlemme. Tra XIII e XIV secolo il pellegrinaggio gerosolimitano dipende quindi ormai esclusivamente dalla buona volontà del sultano d’Egitto. Solo in seguito alla soluzione pacifica al problema dell’accesso ai luoghi santi, concordata tra il re di Sicilia Roberto d’Angiò e il sultano al-Mali-an-Nâsir Muhammad, che porta a una stabile presenza in Oriente dei frati minori (il re angioino aveva acquistato dal sovrano mamelucco la proprietà del Cenacolo, che fu trasferita nel 1342 all’ordine dei frati minori: Piccirillo 1983), si verifica un lieve aumento del numero di pellegrini occidentali. I frati conducono i fedeli lungo un itinerario di visita costruito sulla base della nuova devotio moderna. Questo flusso di pellegrini è favorito, oltre che dall’assistenza fornita in maniera sistematica dai Francescani, anche dall’istituirsi di un affidabile sistema di collegamento navale tra Venezia e la Palestina (Guerrini 1928; Tucci 1985; Ashtor 1985).

Nel XIV secolo l’attrazione per tutto ciò che è considerato esotico e sconosciuto induce alcuni scrittori a fornire descrizioni fantastiche, derivanti dalla tradizione dei mirabilia o indotti da una certa credulità dell’autore. Realtà e fantasia, vero e falso, convivono e si mescolano nei racconti di pellegrinaggio di questo periodo, portando a una ulteriore caratterizzazione interna al genere letterario: non si tratta più di diari di viaggio che fungono da manuali, ma tendono a trasformarsi sempre più in semplici e piacevoli passatempi letterari.

Tra gli ecclesiastici comincia a diffondersi la convinzione che la vera peregrinatio debba essere interiore e che il viaggio verso luoghi sconosciuti sia solo un pretesto per saziare l’anima dagli appetiti terreni: un proverbio medievale tedesco recita ruvidamente: “partita pellegrina, tornata puttana”. E L’imitazione di Cristo, testo cardine per la mentalità dell’uomo medievale, è a questo proposito lapidario: “[I, XXIII, 2] qui multum peregrinantur, raro sanctificantur”. Già nell’antichità paleocristiana, peraltro, Gerolamo, scrivendo nel 395 a Paolino, lo ammonisce ricordandogli che il pellegrinaggio non era affatto necessario per la propria salvezza; Sant’Agostino stesso denunciò la pratica definendola come inutile e dannosa espressione religiosa, così come Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nissa (il quale tra l’altro dipinse Gerusalemme come un covo di mercenari e prostitute).

A distanza di un millennio, Frederik van Heilo, un canonico regolare della congregazione di Windesheim, ritiene che i pellegrinaggi verso luoghi lontani offrano molte occasioni per commettere peccati e, poco dopo l’anno santo 1450, scrive un trattato intitolato Contra peregrinantes, particolarmente ostile e critico nei confronti dei pellegrinaggi. Su posizioni analoghe si muove il teologo Nicola di Clemanges il quale, pur non condannandoli, ritiene che i pellegrinaggi solo di rado si rivelino utili per sciogliere un voto. È proprio in questo periodo, nel quale le caratteristiche del genere sono ben codificate e assurgono adesso a veri e propri tòpoi, che una delle peculiarità della letteratura di pellegrinaggio risulta distintiva. L’autore, infatti, è il protagonista del proprio scritto e racconta vicende vissute in prima persona: accanto all’aspetto strettamente religioso e devozionale del cammino, sempre più di frequente i viaggiatori mostrano anche altri interessi, come quelli per le notizie di carattere economico, le informazioni geopolitiche, curiosità diremmo oggi da turista ed aspetti di carattere militare che sovente si ritrovano accanto alle pratiche devozionali del pellegrinaggio.

Dietro il pretesto della narrazione del pellegrinaggio può nascondersi, tra le altre cose, la volontà di esaltare l’importanza del casato per cui si scrive, a riprova della diffusione e dell’importanza del genere letterario. Luchino dal Campo, ad esempio, nel suo Viaggio del 1413 vuole rendere omaggio ai destinatari dell’opera: la narrazione ha infatti come protagonista Niccolò III d’Este.

Entrando mezzo secolo dopo nel circuito dei primi libri a stampa, i diari dei pellegrini conoscono ovviamente una diffusione maggiore rispetto a quella cui potevano ambire i testi manoscritti. Il formato generalmente preferito per la pubblicazione di questi libri è quello in quarto, che garantiva al contempo una buona leggibilità, sufficiente leggerezza e facilità di trasporto.

Pellegrino che cammina, Pellegrino e il diavolo che pesca nel mare dei peccati, Grazia di Dio che dà il bastone al Pellegrino, Pellegrino arriva alla Gerusalemme Celeste, miniature da Guillaume de Digulleville, Pèlerinage de vie humain, fine secolo XIV, Paris Bibliothèque Sainte-Geneviève, ms. 1130, cc. 32v, 75v, 25r e 02v.

Tre e Quattrocento: la piena maturità del genere

Gli scritti dei pellegrini costituiscono dunque un corpus che si potrebbe classificare probabilmente come genere letterario autonomo sulla base dell’oggetto in comune. Tale letteratura è fiorita nel corso del Medioevo attorno a una pratica religioso-devozionale di assoluta importanza per l’Europa cristiana del tempo e ne ha mutuato in parte i caratteri della ritualità. La tipologia di questi scritti presenta variazioni a seconda dei momenti storici e delle capacità narrative dei viaggiatori. Da opere piuttosto schematiche come gli itineraria si passa alle descriptiones dei luoghi santi, che si propongono di guidare il pellegrino lungo tutto il cammino devozionale. Successivamente, tra XIV e XV secolo, una svolta decisiva conduce in direzione dell’elaborazione di voyages in cui l’attenzione, oltre che agli aspetti religiosi, è rivolta come detto anche alla descrizione del viaggio, dei luoghi visitati e delle cose viste, oltre che del contesto geografico e culturale dei luoghi e della società in oggetto.

Ci sono centinaia e centinaia di viaggi a Gerusalemme, ma la relazione in Terra Santa è una ed è come se, in un certo senso, raccogliesse tutte le esperienze precedenti. Ogni guida di pellegrinaggio lega a stretto giro l’Europa cristiana alle terre d’Oltremare, così distanti nelle rappresentazioni delle carte geografiche eppure così vicine per quanto riguardava il culto, la fede, le opere architettoniche della cristianità degli Stati crociati. In tal senso potremmo dire che la Terra Santa, in epoca medievale, era percepita dai cristiani al contempo come un luogo distante, ‘altro’ e pericoloso e come una terra (‘Santa’, appunto) vicina sul piano spirituale e cultuale.

Ne consegue che la biblioteca sulla Terra Santa, oltre che da classici come la Descriptio Terrae Sanctae di Burcardo o da opere di spessore come l’Evagatorium di Felix Fabri, è formata da testi molto simili fra loro che vengono ricopiati e che si arricchiscono in seguito alle esperienze di altri devoti. L’adesione consapevole degli autori a una tradizione scrittoria implica l’adozione di temi ricorrenti che, lungi dal costituire una supina adesione acritica al modello, sono l’occasione per l’evoluzione dell’opera secondo una propria personale originalità narrativa. Il tòpos, dunque, inerisce strettamente all’opera e può imporne le regole, ma è anche il punto di partenza per tutte le eventuali declinazioni – tematiche e stilistiche – che rappresentano il fondamento di ogni innovazione.

Il focus di questo contributo parte metodologicamente dai testi, in chiave filologico-letteraria: l’obiettivo principale di questo studio è analizzare l’evoluzione della letteratura di pellegrinaggio medievale, mettendo in luce come questa abbia tratto origine dalla commistione tra i generi classici dell’itinerarium e della descriptio, e come, nel corso dei secoli, si sia sviluppata in un corpus letterario relativamente autonomo. Questo filone letterario non solo ha ereditato strutture e temi dalla tradizione classica, ma si è anche adattato alle esigenze devozionali e culturali dell’Occidente cristiano medievale. Attraverso l’analisi dei diari di viaggio gerosolimitani, è evidente come questi scritti abbiano svolto un ruolo fondamentale nel rendere accessibile e tangibile, agli occhi del lettore medievale, una realtà geografica e spirituale altrimenti distante. Dalla lettura dei testi che compongono il corpus, si può tracciare una linea di continuità tra la tradizione odeporica classica e quella medievale, pur sottolineando le specificità e le innovazioni introdotte dalla letteratura di pellegrinaggio nel contesto della cristianità medievale: a tale fine, sembra utile concentrarsi sui secoli Trecento e Quattrocento. Il periodo risulta particolarmente indicato perché tutto ciò che la tradizione precedente aveva sedimentato risulta fecondo nella diaristica di pellegrinaggio codificata nel corso di questi secoli.

È il caso di Burcardo di Monte Sion, autore di una Descriptio Terrae Sanctae in XIII capita che si inserisce in una attività memorialistica sulla Terra Santa voluta esplicitamente da papa Gregorio X a Lione, che ebbe un’ampia circolazione e fu preso a modello da parte di molti autori che composero opere simili sulla Palestina. L’opera ha goduto di enorme fortuna per tutto il Medioevo influenzando in maniera notevole il genere letterario e cita più volte la fonte da cui ha desunto alcune delle notizie inserite nel proprio racconto (e cioè gli scritti di Giacomo da Vitry). Vi era però ai tempi anche chi riteneva superfluo segnalare le fonti da cui si attingeva, dal momento che – come detto – tali informazioni costituivano ormai un bagaglio di nozioni considerate di dominio pubblico. Burcardo è un osservatore di spiccata precisione, ed è tanto attento nell’osservazione quanto nel riportare le sue esperienze, distinguendo i fatti dalle mere congetture, e ciò che ha visto in prima persona da ciò che assume dall’autorevolezza degli altri scrittori.

Anche se molti autori si impegnavano a dare un proprio taglio alla narrazione e a personalizzare in qualche modo il proprio scritto, i risultati non erano sempre eccellenti. Ciò perché molto spesso queste opere attingevano a piene mani dalla Historia Hierosolymitana scritta tra 1169 e 1184 dall’arcivescovo Guglielmo di Tiro sulla base di cronache contemporanee e su notizie ricavate da testimoni diretti. Un esempio di descriptio tratta da Guglielmo di Tiro è proprio la Descriptio Terrae Sanctae di Burcardo:

Da Gerico ci sono cinque leghe verso sud fino alla città di Segor, posta sotto il monte Engaddi. Fra questo e il Mar Morto c'è la statua di sale, in cui fu trasformata la moglie di Lot secondo la Genesi (…). Dicono i saraceni che misuri cinque giornate di cammino, avvolte in tenebre fitte come nel camino dell’inferno. Su questo mare vengono dette e scritte molte cose (...) tuttavia c'è da sapere che ho visto con i miei occhi, e molti altri l’hanno visto con me, che per il vapore di questo mare tutta quella valle, che un tempo era detta illustre (...), è stata resa praticamente sterile dall’estremità di questo mare che è nel deserto di Pharan fino a sopra a Gerico (...) di modo tale che non nasce né erba né germoglio per tutta la sua latitudine, che è di quasi 5 o 6 leghe, se non vicino alla città di Gerico, dove la fonte di Eliseo irriga gli orti, i giardini e i campi di canna da zucchero (traduzione di Sabbatini 2019, a partire dal testo edito da Laurent 1864).

Nel 1335 il frate Jacopo da Verona compie un pellegrinaggio sostitutivo in Terra Santa per conto del proprio signore Mastino della Scala e compone un Liber peregrinationis dagli spiccati elementi di spiritualità che in alcuni punti risente evidentemente della lettura di Burcardo e di Ricoldo da Montecroce: il frate non era uomo particolarmente colto, e per questo motivo le sue scarse competenze storico-geografiche tendono a dipendere molto dalle sue fonti. Eppure il fatto stesso di aver compiuto in prima persona tale esperienza gli consente di arricchire di annotazioni sulla natura del luogo le proprie descrizioni di Gerusalemme, le quali (e questa è un’altra caratteristica del genere letterario) si basano su riferimenti biblici.

Il Libro d’Oltramare del francescano Niccolò da Poggibonsi, pellegrino tra il 1346 e il 1350, è invece un testo ricco di utili annotazioni sugli aspetti pratici del viaggio che non manca di fornire puntuali riferimenti e indicazioni riguardo alle pratiche devozionali. Le sue descrizioni della Terra Santa sono estremamente particolareggiate. Di tale resoconto restano diversi manoscritti, quattro dei quali arricchiti da miniature, illustrazioni del viaggio e talvolta mappe: si tratta di una novità per il genere, poiché le immagini si trovano per la prima volta incastonate in una cornice narrativa (Moore 2013; Barbieri 2019). Niccolò innova fortemente il genere: il suo racconto è dinamico ed egocentrico e la narrazione viene connotata di un realismo inedito per la letteratura di pellegrinaggio.

Prova della piena maturità del genere è lo sperimentalismo che troviamo tra 1384 e 1385: un gruppo di pellegrini fiorentini compì un lungo pellegrinaggio; a partire dalla comune avventura odeporica vengono redatti tre testi, probabilmente basati su appunti comuni, che narrano la medesima esperienza in maniera quasi sinottica. Risulta quindi evidente uno scambio di idee e di impressioni di viaggio, anche se ogni testo mantiene una certa indipendenza dagli altri. Gli autori in questione sono Lionardo di Niccolò Frescobaldi, Simone di Gentile Sigoli e Giorgio di Guccio Gucci. Il loro è un viaggio complesso e sfaccettato: un po’ itinerario devoto, un po’ avventura crociata e cavalleresca, un po’ visita nel mondo delle spezie e delle merci dell’Asia per ragioni di mercatura. Non sembrano troppo facili né felici i loro rapporti con i turcimanni, le guide-interpreti, dei quali si fidano poco e che considerano ladri e bugiardi. In generale, le narrazioni sono permeate da una forte diffidenza nei confronti dell’Altro, che emerge ancor più quando si tratta di ricordare le violenze direttamente subite. Non tanto le umiliazioni o le soperchierie di cui sono vittime tutti i cristiani in quanto tali in terra saracena, come il non poter suonar le campane, né cavalcare, né circolare in certi giorni, né entrare nelle moschee; bensì quelle che toccarono loro personalmente, come il venir perquisiti e strattonati dalle guardie, l’esser presi a sassate e così via: “Al confronto, il suo incontro con le autorità è molto migliore: uomo di potere, membro di un ceto dirigente, Lionardo non ha nei confronti del governatore di Alessandria o di quello di Gaza, o del sultano del quale narra brevemente la storia, quell’atteggiamento di stupito timore che contraddistingue invece altri suoi compagni di viaggio, per esempio il più umile Sigoli; personaggio abituato ai rapporti con uomini di governo e aduso alle missioni diplomatiche, lo si direbbe anzi trovarsi a suo agio perfino con l’etichetta musulmana”, nota Cardini in riferimento a Frescobaldi (Cardini 1997). Testimonianze stratificate e non sempre coerenti, nelle quali l’immagine dell’Altro non è sempre quella di un nemico: talvolta ci si sorprende ingenuamente. Quei “cani” (era comune definire così i Saraceni) non hanno fatto loro del male, anzi li hanno trattati bene ed essi ne rimangono talvolta favorevolmente impressionati. Da notare poi la dimensione ‘mondana’ del pellegrinaggio che emerge da queste pagine.

Nel 1394-95, il notaio Nicola Martoni di Carinola descrive nel suo Liber peregrinationis la propria esperienza, infarcendola di grande interesse mitologico e colto interesse per l’antichità classica. La sua lingua è il latino, ma si tratta di un latino ricco di napoletanismi latinizzati e l’opera è permeata di riferimenti e confronti con la città di Napoli (un’analisi linguistica e precisa in merito è stata condotta da Conte 2018). L’attacco di Pietro I re di Cipro del 1365 aveva creato un’atmosfera di sospetto nei riguardi degli Occidentali, pellegrini, mercanti o frati, a torto o a ragione ritenuti possibili spie o informatori delle potenze che in quel periodo si contendevano il controllo del Mediterraneo. In quell’atmosfera di sospetto anche il racconto del Martoni poteva essere considerato una relazione informativa: è un fatto indubitabile che l’autore si trovava sempre nel punto più caldo a registrare gli avvenimenti, a descrivere i porti, la popolazione delle città e dei casali, tanto da far pensare ad annotazioni strategiche utili a qualcuno.

Spicca in questo corpus la dichiarazione d’intenti che compie Nompar de Caumont nel prologo del suo Voyaige d'Oultremer en Jhérusalem, inserito nella tipica cornice strutturale che compone la prima fase delle opere di letteratura di pellegrinaggio, ovvero il viaggio di andata. Nel lungo prologo, Nompar espone la ricerca di un’identità spirituale e sociale, riflettendo su quanto il pellegrinaggio, percorso individuale, rappresenti per lui un cammino sia fisico che simbolico verso la patria celeste (un’analisi accurata si apprezza in Dansette 2017, 161). A differenza di molti pellegrini del suo tempo, egli viaggia solo, sottolineando il carattere personale della sua missione. Nompar testimonia il desiderio di ottenere indulgenze presso il Santo Sepolcro e altri luoghi santi, animato da una sete di contatto fisico con il sacro e dal bisogno di camminare sulle orme di Cristo. L’ambizione di essere insignito del titolo di cavaliere del Santo Sepolcro emerge come elemento motivante, consolidando così il suo status sociale e richiamando, nella sua ritualità, l’antico ethos delle Crociate, ancora vivo nell’ideale della nobiltà quattrocentesca: la famiglia aveva avuto un ruolo di spicco nel corso della Prima Crociata (Balard 2006).

Gerusalemme, mosaico pavimentale, seconda metà VI secolo, Chiesa di San Giorgio, Madaba (Giordania); Michael Wolgemut, Gerusalemme, stampa, in Hartmann Schedel, Liber Chronicarum, Nürnberg, Anton Koberger, 1493

Alcune prospettive di indagine

Ogni pellegrino che lasci traccia del suo viaggio non lesina dettagli circa la durata del viaggio, che possiamo orientativamente suddividere in 3 fasi: 1) viaggio di andata 2) permanenza in Terra Santa 3) viaggio di ritorno.

(1) Risulta evidente come questa suddivisione debba tenere conto di ulteriori elementi come il luogo di partenza. Per quasi tutti questa prima fase si suddivideva nella tratta luogo di provenienza-Venezia, la quale divenne, intorno al XII secolo, tappa obbligatoria per via di un vero e proprio servizio di linea che la collegava alla Terra Santa. Non priva di intoppi, se pensiamo che Alessandro Rinuccini, autore del Sanctissimo Peregrinaggio del Santo Sepolcro, rinuncia al suo primo viaggio dopo essere stato sei giorni a Venezia invano: ciò probabilmente si doveva al fatto che le navi partivano unicamente quando le stive fossero completamente riempite dalle merci.

(2)  Nel corso del Trecento, possiamo dedurre dalle guide di pellegrinaggio che si era andata strutturando una certa logica di circuito di tappe fisse. Sicuramente tenendo conto la cronologia degli episodi dei quali ciascun locum sacrum era testimone e la loro relativa ubicazione: si cominciava dalla parte ovest della città e l’itinerario si svolgeva verso est, grosso modo lo stesso dell’attuale via crucis. Si partiva dalla chiesa di Santa Maria dello Spasimo, le case di Pilato e di Erode, il tempio di Salomone (Haram esh-Sharif), la chiesa di Sant’Anna, il Cedron, la valle di Giosafat, la basilica del Sepolcro di Maria, l’orto del Gethsemani, il monte degli Olivi; dal Sion una prospettiva differente dell’Haram esh-Sharif, il quartiere sud-ovest con la chiesa di San Giacomo e infine il Santo Sepolcro, sempre la tappa principale e dunque quella finale.

(3) Pur non essendo molti i resoconti di pellegrinaggio che forniscono dati precisi sulla durata dei viaggi di ritorno, prendendo in esame un ristretto campione di testi del Trecento e Quattrocento che invece sembra preciso in tal senso, spicca un dato: il viaggio di ritorno è spesso più lungo di quello di andata; i pellegrini tentavano di partire alla volta di Gerusalemme in primavera, confidando spesso nella buona sorte per il ritorno: il non tornare costituiva reale opzione contemplata dai viaggiatori.

Ma come si svolgeva materialmente fra Tre e Quattrocento il pellegrinaggio? La questione ha interessato negli ultimi anni lo studio delle fonti pellegrinali in chiave performativa: al di là di quello che dicono reliquie, santuari e letteratura di pellegrinaggio, che cosa concretamente facevano? Quale prassi della quotidianità possiamo dedurre dalle fonti? Queste le domande alla base dell’esperimento condotto da Ivan Foletti della Università Masaryk di Brno Migrating Art Historians. On the Sacred Ways, teso a reincarnare l’esperienza del viaggiatore sacro (nello specifico, per studiare tramite la ricostruzione delle modalità percettive dei loro fruitori originari i manufatti artistici – soprattutto architettonici e scultorei – di alcune rotte dell’area francese). Embodying the Medieval Pilgrimage, quindi, per lo studioso e il suo gruppo, divenuti pellegrini per più di 1500 km alla guisa dei loro predecessori medievali, soprattutto dei secoli XI e XII (Foletti, Lešák 2022; Foletti, Kravčíková, Rosenbergová, Palladino 2018; Foletti 2018). Sulla prassi tardomedievale non mancano le testimonianze dalla letteratura di pellegrinaggio: Frescobaldi resoconta dettagliatamente le modalità attraverso cui si svolgeva il viaggio, tanto per mare quanto per terra. Il cavallo era proibito ai non musulmani, pertanto il cammello era il mezzo più diffuso tra i pellegrini (la cosa stizzisce non poco Lionardo, che era cavaliere). Gucci ricorda che alcuni pellegrini viaggiavano sui cammelli, altri sugli asini. Roberto da Sanseverino racconta di aver attraversato il deserto del Sinai con otto cammelli per il trasporto delle vettovaglie e otto asini per i viaggiatori. Si alloggiava o in conventi, dove l’ospitalità poteva essere più o meno discreta (Niccolò da Poggibonsi ha un ottimo ricordo dell’ospitalità dei monaci greci), oppure in locande, dove molti pellegrini sono concordi nel raccontare esperienze di pessima ospitalità: lo fa con sagacia Alessandro Rinuccini quando definisce “sapiente” l’olio da tavola. Il sottinteso è l’olio che si usava per alimentare le lucerne utili per coloro così dediti allo studio da coltivarlo anche di notte, chiaramente non edibile.

Per quanto ogni pellegrino racconti un’esperienza privata ed estremamente soggettiva, e gli elementi meno strutturali della narrazione dipendano dunque in gran parte dalla sensibilità, cultura e propensione di ciascuno di essi, esistono degli elementi cardine che riscontriamo in ogni narrazione. Al di là dei pattern narrativi contingenti (descrizione del viaggio di andata, dettagliato resoconto dei loca sacra, distanze, itinerari, e altri), potremmo sintetizzare con le parole dei Turner quanto di spirituale accomuna tutti i protagonisti di questo variegato universo letterario attraverso la felice formula di ‘ideologia della promessa’ (Turner, Turner 1997; Satta 2009): il pellegrinaggio si attua in base a una scelta libera e volontaria: non è un meccanismo sociale obbligatorio. Le differenti forme di pellegrinaggio, non solo quello medievale verso Gerusalemme cui qui ho limitato il mio esame, rimangono culturalmente costanti negli elementi strutturali e segnici che persistono aggiornandosi e rifunzionalizzandosi, in base alle esigenze culturali, economiche e storiche che volta per volta si determinano.

* Riprendo qui alcuni temi e considerazioni che ho già presentato in altra forma e altro contesto, in G. Cuscunà, DAPiL – Digital Archive of Pilgrimage Literature. Un archivio digitale per la letteratura medievale di pellegrinaggio, CNR-IRCrES Working Paper, 4/2024, Istituto di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile, http://dx.doi.org/10.23760/2421-7158.2024.004

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English abstract

This contribution explores the development and classification of medieval pilgrimage literature, examining its origins in the classical genres of itineraria and descriptiones. These genres, initially focused on providing practical information about travel routes and detailed descriptions of urban landscapes, gradually evolved to encompass the spiritual and devotional aspects of pilgrimages, particularly to the Holy Land. This article focuses primarily on the 14th and 15th centuries, which are regarded as fully mature periods from a formal standpoint in the development of pilgrimage literature, highlighting the challenges in classifying these works because of their composite nature. Despite their formal similarities to classical odeporic literature, pilgrimage diaries diverge substantially in content and purpose, emphasizing personal experience and spiritual reflection. The study provides an embryonic classification of the materials collected so far, offering a thematic division through literary and philological commentary. The analysis concludes with reflections on how these texts contributed to shaping the perception of the Holy Land in medieval Christian consciousness.

keywords | Pilgrimage literature; Travel routes; Way to Holy Land.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Cuscunà, Oltremare: mappare il sacro attraverso la penna del pellegrino medievale, “La Rivista di Engramma”, n.218, novembre 2024.