Lo spazio odologico di Francis Alÿs
La crisi della rappresentazione cartografica
Irene Galuppo
English abstract
Nell’era di Google Maps, dove si pensa risolta, sul piano dell’immagine, la pesantezza del confine e superata la riflessione sull’ontologia dello spazio, il problema del luogo persiste. Rispondendo alla domanda ‘cos’è lo spazio?’, le discipline geografiche sono incappate in una vera e propria crisi relativa ai modelli descrittivi finora adottati, una paralisi che il geografo Franco Farinelli ha chiamato “crisi della ragione cartografica” (Farinelli 2009). Dalla fine degli anni Ottanta, la geografia critica conviene che la mappa, modello per antonomasia in cui lo spazio fisico è tradotto in immagine, non è un mero strumento neutro a scopo conoscitivo, bensì è un sistema complesso che produce ed è prodotto di un potere (Dematteis 1985; Wood 1992). In effetti, la mappa è frutto tanto del potere del cartografo di scegliere cosa rappresentare e cosa escludere, quanto del potere politico ed economico di chi commissiona i rilevamenti territoriali. A sua volta, la mappa esercita un potere: definendo i confini di uno stato – seppur in maniera arbitraria –, essa incide sulla vita di milioni di persone soprattutto quando il confine da linea tracciata su un piano bidimensionale diviene frontiera nella realtà materiale (Farinelli 2003; Pignatti 2011, 44). In questa corsa positivista, il fallimento delle carte geografiche risiede proprio nella volontà di trovare un linguaggio sempre più universale, astratto e convenzionale. Questo processo di razionalizzazione, che ha fatto si che le carte geografiche venissero concepite come strumenti scientifici utili nell’ apprendimento del mondo, esclude necessariamente qualcosa, ovvero il mutamento impercettibile del territorio inteso come sistema complesso di relazioni (Dematteis 2021). Ciò nonostante, l’avvento delle tecnologie digitali sembra sopperire anche alla tradizionale incapacità delle mappe di registrare istantaneamente il cambiamento. L’espediente della trasparenza e dell’immaterialità delle reti, presentato come risposta e opportunità per superare la crisi dei modelli cartografici dei secoli passati, accusati di essere obsoleti, conserva tuttavia il limite di trascurare la ‘pesantezza’ dell’essere al mondo e il rischio euristico di vivere in un mondo in continua trasformazione (Camacho-Hübner, Latour, November 2010, 581-599; Dematteis 1985, 15-16). In definitiva, che si tratti di immagini su carta o digitali, per quanto le mappe tentino di restituire il più fedelmente possibile la realtà, la complessità inerente all’esistente sfugge a questo desiderio di perfettibilità e di controllo – mai del tutto realizzabile (Gregory 1994).
Dagli anni Novanta, riconosciuta la parzialità di queste produzioni, nasce la cartografia critica (e radicale nella sua declinazione più militante) come visione alterata e alternativa del mondo, frutto del lavoro di coordinamento tra artisti, cartografi e geografi. Compito degli artisti e dei cartografi è ‘disturbare ’ la mappa e distruggere la sua pretesa di verità, interagendo con i dispositivi spaziali in modo radicalmente diverso da quanto fatto finora, dando voce a soggettività ed esperienze escluse dalle rappresentazioni ufficiali. Nella pratica emerge, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, il ‘counter-mapping’ ovvero la creazione di mappe alternative che hanno il compito di decostruire la neutralità del concetto di mappatura e di promuovere un nuovo approccio al territorio attraverso la pratica artistica (Rekacewicz, Zwer 2021). Questo tentativo di creare nuove ‘imago mundi’ ha progressivamente segnato il circuito della produzione artistica, dove sono sempre più frequenti mappe e planisferi alternativi. Nel 2014 il curatore svizzero Hans Ulrich Obrist e lo scrittore e artista Tom McCarthy realizzano Mapping It Out: An Alternative Atlas of Contemporary Cartographies, un atlante in cui sono raccolte 130 mappe di artisti e cartografi che rispondono a questa nuova tensione verso la realizzazione di mappe alternative, anche se non tutti gli artisti selezionati si dicono dei ‘counter-mapper’ (Obrist, McCarthy 2014). Nell’introduzione di McCarthy, le ragioni di tale scelta sono sostanziate dal riconoscimento della pratica cartografica come presenza costante nella storia dell’arte, come dimostra la labilità del confine tra la disciplina del cartografo e quella dell’artista fino al momento della nascita della cartografia come disciplina a sé stante nel XIV secolo.
Vi è un filo rosso che collega le produzioni dei secoli scorsi alle mappe alternative raccolte in Mapping it out o in raccolte simili come An atlas of radical cartography (Mogel, Bhagat 2007) e This Is Not Atlas. A global Collection of Counter-Cartography (kollektiv Orangotango, Wood 2018), un collegamento che passa per le sperimentazioni dell’avanguardia surrealista e le ‘dérive’ situazioniste (Pignatti 2023, 143-145), attraversando gli anni Sessanta con le mappe di Alighiero Boetti e La Carte Politique du monde di Marcel Broodthaers, fino ad arrivare alle produzioni della Land Art e della walking art dove la rappresentazione cartografica del territorio è solo un punto di partenza per la realizzazione di interventi effimeri o definitivi sul paesaggio (Tedeschi [2011] 2016).
Proprio le più recenti sperimentazioni artistiche, secondo lo storico dell’arte Francesco Tedeschi, “possono costituire una particolare risposta al problema della ‘veridicità’ delle mappe” rendendo visibili rinnovati modi di intendere il luogo e la pratica artistica stessa, a partire dal valore dell’esperienza e della relazione tra noi e ciò che ci circonda (Tedeschi [2011] 2016, 216; Hawkins 2013; Lo Presti 2019, 191-206). Peculiare, in tal senso, è la walking art, una pratica in cui l'artista utilizza “il viaggio a piedi” come forma d’espressione artistica (O’ Rourke 2016; Tedeschi [2011] 2016, 200-255). A partire dalle ‘dérive’ psicografiche dell’Internazionale Situazionista, sul finire degli anni Cinquanta (Debord 1956; Debord et al. 1994; Perniola 2005, 16-18), la camminata come ricerca artistica si è andata man mano consolidando, stabilendosi come una vera e propria corrente della Land Art, di cui due dei massimi esempi sono le celebri camminate di Richard Long (Elliot 2007; Long 2007; Seidita 2020; per consultare l’intera produzione dell’artista si veda www.richardlong.org) e di Hamish Fulton (Fulton 1990; Fulton, Höpfner 2022; Fulton 2023).
L’ atto del camminare, l'esperienza del movimento e il rapporto con il paesaggio sono centrali anche nella ricerca di Francis Alÿs, Francis de Smedt per l’anagrafe belga. A differenza di quella di Long e Fulton, la sua pratica non è ascrivibile ad alcun movimento artistico, anche se la sua poetica sembra accogliere spunti sia da Long e dalle lunghe camminate durante le quali l’artista produce interventi effimeri nel paesaggio con linee e cerchi realizzati con materiali raccolti durante il percorso (pietre, legno, sabbia), sia da Fulton, la cui ricerca è basata sul solo viaggio, documentato per mezzo di fotografie e stampe e testi presentati nei circuiti espositivi (Repetto 2011). Inoltre, diversamente questi due artisti, Alÿs predilige percorsi in comune, rinunciando alla ricerca solitaria tipica della Land Art e attraversando luoghi frequentati e vissuti, esponendo la pratica artistica allo sguardo curioso delle comunità.
Lo spazio odologico e il tradimento dell’ordine cartografico
Nelle sperimentazioni di Francis Alÿs, che partono da una critica più o meno consapevole al potere delle mappe, è possibile intravedere una risposta alla crisi della rappresentazione cartografica in atto. Da rapporto metafisico e matematico, nella sua pratica, lo spazio di-viene ‘posto’ nel mondo. Un posizionamento che arricchisce la riflessione geografica contemporanea, arrischiando lo spazio con il viaggio. Per un inquadramento della categoria di spazio, dunque, i lavori di Alÿs suggeriscono che non si può prescindere dalla caratteristica a esso più propria: l’essere instabile, irriducibile all’unità pura e neutra della scala. Lo spazio è la zona dell’esperienza, è il luogo in cui la vita si fa e si disfa, camminando. Francis Alÿs, attraverso le sue opere, costringe a intendere la traccia del confine – che non è da considerarsi mai semplice segno su carta dato che incide profondamente sullo spazio vissuto – come ponte e apertura, dando centralità alla camminata quale atto estetico. Adottando le parole di Michel de Certeau:
“il paradosso della frontiera: creati da contatti, i punti di differenziazione fra due corpi sono anche dei punti comuni. La giunzione e la disgiunzione sono indissociabili. Quale dei corpi in contatto possiede la frontiera che li distingue? Né l'uno né l’altro. Ovverossia: nessuno? Problema teorico e pratico della frontiera: a chi appartiene? Il fiume, il muro o l’albero fa da frontiera. Non ha il carattere di non-luogo che il tracciato cartografico presuppone al limite. Ha un ruolo mediatore. […] Ma quest’attore, per il solo fatto che è la parola del limite, crea comunicazione quanto separazione; non solo, ma pone un confine solo dicendo ciò che lo attraversa, venuto dall’altro. Esso articola. Ed è anche un passaggio. […] Vi è ovunque un’ambiguità del ponte: congiunge e oppone insularità. Le distingue e le minaccia. Libera dall’isolamento e distrugge l'autonomia. […] Trasgressione del limite, disobbedienza alla legge del luogo, il ponte raffigura la partenza, la lesione di uno stato, l’ambizione di un potere conquistatore, o la fuga verso un esilio, in ogni caso il ‘tradimento’ di un ordine. […] Tutto avviene come se la delimitazione stessa fosse il ponte che apre l’interno al suo altro” (de Certeau [1980] 2012, 187-190).
Attraverso una singolare forma documentaristica, Alÿs forza i limiti dei dispositivi cartografici, agendovi artisticamente, con l’obiettivo di fronteggiare la stessa tendenza che, poco meno di un secolo prima, Max Weber ritrovava nella professione dello studioso, ovvero una progressiva razionalizzazione intellettualistica della vita che produce il “disincantamento del mondo” [Entzauberung der Welt] (Weber [1918] 1997, 50-51). Per reincantarsi, e re-innestarsi sull’esistente, l’artista, zaino in spalla, ha il compito di partire alla ricerca di quei luoghi in cui l’autenticità dell’esperienza non ha ceduto al giogo della razionalizzazione. Nello specifico, le vite ai margini, nel cosiddetto Sud globale, sono i luoghi prediletti da Alÿs per esprimere la soggettività che ‘sopra-vive’ producendo “una rottura di senso” (Guattari [1992] 2007, 127) che è anche ricchezza di senso, potenzialmente inesauribile. La sottomissione della vita all’oggettivismo intellettuale è, in effetti, la stessa sorte che spetta al territorio nel processo di costruzione dei dispositivi cartografici. Come riconosce la critica d’arte Teresa Macrì, nel lavoro di Alÿs:
“La metodologia è cartografica […], l’attitudine è ansiosa di descrivere le proprie forme di dissenso e di critica al sistema globale, di costruire, comunicare e di manipolare il reale. L’idea è sovversiva poiché attesta il primato della funzione immaginativa più che mai necessaria oggi per combattere l’amenità, l’indifferenza e assieme il piatto compiacimento di sé stessi come essere-nel-mondo e non essere-contro-questo mondo” (Macrì 2014, 14).
L’artista belga, camminando, disegna nuove mappe dove i muri sono presto trasformati in ponti, indelebili confini in tracce di pittura lavabile. Il discorso sul ripensamento della frontiera, suggerito da Michel de Certeau, gioca nei casi in analisi un ruolo centrale: quello che sulla carta è un limite, uno spazio confinato, una soglia che produce disuguaglianze, nella pratica artistica appare quale luogo di incontro e di possibilità. Nelle zone della marginalità, ai margini geografici, a Panama, a Tijuana nel confine tra Messico e Usa, a Gerusalemme sulle linee di spartizione tracciate nel 1947 tra Israele e Palestina, nel mare tra Cuba e Florida, Alÿs riabilita la traccia cartografica sancendo, contemporaneamente, le innumerevoli possibilità della geografia e del fare artistico, a partire dalla centralità che assume il percorso come strumento conoscitivo. Le lunghe camminate dell’artista belga, chiamate ‘paseos’, ridefiniscono lo spazio urbano a partire dalla relazione temporanea tra corpo e luogo nella deambulazione (Tedeschi [2011] 2016). I materiali che testimoniano tale pratica sono prevalentemente formati da video digitali su cui l’artista interviene con il montaggio senza alcun ritocco in postproduzione. Tra i primi ‘paseos’ si ricorda Colector (1990-1992). Per due anni, di notte, Alÿs ha vagato per le strade di Città del Messico con un oggetto dalle fattezze di un cane con le rotelle, composto da elementi magnetici che attraggono chincaglie ferrose presenti sul manto stradale fino a essere “esté completamente cubierto por sus trofeos” (“completamente soffocato dai suoi trofei”; Alÿs, Mesquita 1998, 17). Nel 1994, all’Havana per la V Biennale, al posto del Colector, il ‘paseo’ e stato eseguito indossando delle scarpe magnetiche (Zapatos magneticos) (Espinosa Moreno 2022). Procedendo come un rabdomante alla ricerca dell’essenza della vita negli scarti urbani, l’artista promuove la coesistenza tra arte e quotidianità, stabilendo di volta in volta il sentiero da percorrere, evadendo dall’imposizione dei percorsi prestabiliti dalle mappe. I passanti difficilmente notano l’artista, e se lo fanno restano momentaneamente stupiti dal gesto che egli compie. Annullando la pratica artistica nella routine, i video delle performance ci permettono – anche grazie all’inquadratura significante, quasi rasoterra – di guardare le città da punti di vista inediti: nei bassifondi, a altezza marciapiede, al massimo ai secondi piani degli edifici (Davila 2001). La ‘dérive’ situazionista è qui spinta all’ennesima potenza. Non solo l’artista vaga senza meta e senza fine (i finali delle riprese sono quasi sempre aperti) ma ciò che egli raccoglie, gli scarti, non sono assolutamente frutto di una scelta. La cartografia che propone è intima e indistinta, sia per quanto riguarda le persone che vengono riprese, sia per gli oggetti raccolti. Il potere della selezione tra cose va tradotto in immagine e ciò che va ‘scartato’, che ha contraddistinto per secoli il lavoro dei cartografi, è ridotto a zero: non è l’operare umano a scegliere cosa rappresentare, ma è il luogo a imprimersi sulla mappa attraverso il percorso (Pérez Miles, Libersat 2016). I ‘paseos’ non si limitano a notificare la presenza di un territorio attraverso la carta, bensì affermano che il luogo si pone e si compone per mezzo di chi lo attraversa. Nel panorama (già) distopico contemporaneo dominato da dispositivi di sorveglianza sempre più sofisticati – la Cina sta sperimentando dal 2018 delle telecamere che anziché servirsi del riconoscimento facciale utilizzano l'andatura – traiamo un dato: la camminata del singolo racconta, ‘espone’. La maggior parte dei passanti, infatti, si riconosce solamente da pochi passi. Accanto al volto, come zona rivelatrice dell’identità, c’è il ‘passage’. La maggior parte dei passanti, infatti, si riconosce solamente da pochi passi. Accanto al volto, come zona rivelatrice dell’identità, c’è il ‘passage’. Camminare è un atto conoscitivo e costitutivo che ci permette di avere cognizione dello spazio intorno, relazionando a esso il nostro corpo. Al contempo, come abbiamo visto, ci identifica. Ogni camminata, quindi, può essere raccontata come una storia, un'intesa tra noi e lo spazio:
“En el patio y en las vecindades, aprender a andar / andar con un pie sol en la banqueta y otro en la calle / andar con un pedrazo de madera o metal rayando muros, golpeando rejas / andar solo con un pie / andar cojo / andar mansito / pisar quedito / el mundo / no habrá nunca una puerta, estás dentro / la historia, / processo y no producto [...] la pupila del otro nos inventa” (“Nel cortile e nei quartieri, per imparare a camminare / a camminare con un piede sul marciapiede e l’altro sulla strada / a camminare con un pezzo di legno o di metallo che graffia i muri, che colpisce le sbarre / a camminare con un piede solo / a camminare zoppo / a camminare docilmente / a fare un passo tranquillo / il mondo / non ci sarà mai una porta, tu sei dentro / la storia, / processo e non prodotto [...] l’allievo dell’altro ci inventa”; Alÿs, Mesquita 1998, 7).
La camminata è un modo, seppur parziale, per parlare del singolo, della collettività e delle strutture insediative pubbliche e private, non in ultimo della Storia. In tal senso, per l’artista: “La invención del lenguaje va de la mano con la invención de la ciudad. Cada una de mis intervenciones es otro fragmentos de la historias que estoy inventado y de la ciudade que estoy creando. En mi ciudad todo es provisional” (“L’ invenzione del linguaggio – si riferisce al linguaggio artistico – va di pari passo con l’invenzione della città. Ogni mio intervento è un altro frammento delle storie che sto inventando e delle città che sto mappando. Nella mia città tutto è temporaneo”; Alÿs, Mesquita 1998, 15).
Il corpo individuale e sociale, che si muove nel labirinto della metropoli, è indagato in altri due lavori di Alÿs. Nel 1996, nella performance dal titolo Narcotourism svoltasi a Copenaghen, l’artista vaga nella città per una settimana, ogni giorno sotto l’effetto di una droga diversa: alcol, hashish, speed, eroina, cocaina, valium ed ecstasy. Durante gli spaesamenti metropolitani Alÿs annota tutto su un taccuino che verrà esposto durante la mostra NowHere in Louisiana al Museum of Modern Art l’anno dopo. In Narcotourism possiamo ritrovare quella ‘dozzinalizzazione spaziale’ dovuta alla combinazione tra arte del camminare in città, montaggio cinematografico e assunzione di hashish che Walter Benjamin ha chiamato ‘kolportage’, in cui “lo spazio ammicca al flâneur” (Benjamin [1982] 2000, 468), dove emergono i meccanismi di adattamento e protezione che il corpo narcotizzato assume rispetto al contesto urbano. La scelta di una strada piuttosto che un’altra è frutto della relazione tra pelle, percezione, pensiero e spazio fisico. Questa fusione dà vita a una cartografia irriducibile alla mappa, ma figlia del viaggio praticato dall’artista (Heiser 2002).
Il secondo lavoro è invece Semaforos, elaborato dal 1997 e in continuo aggiornamento. Attraverso il montaggio video, il performer belga unisce le tantissime iconografie, nelle facce delle lanterne dei semafori, che segnalano l’attraversamento pedonale. Ogni città ha un suo ‘modo’ di rappresentare il pedone, fornendo un’immagine collettiva della camminata individuale. Stavolta la forma è dovuta alla relazione tra le persone di un dato luogo con l’aggregato urbano, stabilendo un’immagine culturale inconfondibile. Il passo, dunque, ci dà notizia sia del rapporto tra la singola soggettività e lo spazio, sia del legame tra gruppi sociali, storia politica e architettura. In entrambi i casi, le modalità di rappresentazione non sono mai definitive, ristrutturandosi di volta in volta col mutare delle condizioni interne ed esterne. Questa è la ragione per cui il progetto è ancora in corso. Se si vuole tenere traccia di esso, allora bisogna tenere in considerazione che ciò che viene registrato non è mai stabile. Riguardo alla storia della cartografia, ciò ha determinato puntualmente la necessità di fissare delle convenzioni. La cartografia è la convenzione per eccellenza: schema matematico spaziale che necessita di una legenda e di una scala per essere compreso universalmente. Differente è ciò che genera la prassi di Francis Alÿs: una cartografia che, nutrendosi degli elementi viventi, e attraverso questi entrando in contatto con gli abitanti di un luogo, non ha bisogno di alcuna legenda o segno convenzionale per essere compresa. Abbracciando la geografia, essa mette la cartografia contro sè stessa, ovvero ponendo “contra el multuculturalismo globalizado, el pasar del individuo por el mundo” (“Contro il multiculturalismo globalizzato, il passaggio dell’individuo nel mondo”; Alys, Mesquita 1998, 9).
La transitorietà, lo spostamento e il mutamento perenne della traccia nella mappa sono centrali nell’opera effimera Paradox of Praxis 1 (Sometimes making something leads to nothing) del 1997 (Alÿs realizzerà anche un’opera simile con il fuoco: Paradox of Praxis 5, Ciudad Juarez, Messico, 2013, 7:49 min). In essa, Alÿs percorre per nove ore le strade di Città del Messico spostando un blocco di ghiaccio. Ne deriva una traccia acquosa momentanea e un progressivo rimpicciolimento del mezzo artistico fino alla sua completa sparizione. Dislocamento e condensazione, il paradosso della prassi è proprio quello di fare, disfacendo, senza tracciare mai in maniera definitiva, restituendo un’immagine evanescente della città, nella città (Arn 2019) [Fig. 1].
Di tracce reali e momentanee, tra pesi ed evanescenze, si situa l’ambivalenza della frontiera e la conseguente sperimentazione artistica di Alÿs. Con Bridge/Puente, nel mare tra L’Havana e la Florida, l’artista ironizza – con serietà – in una zona che apparentemente non ha barriere fisiche, eppure è un confine. Francis Alÿs, in entrambe le coste, riunisce i pescatori locali e, attraverso una carta marina, spiega loro come disporre le barche in linea orizzontale e alternate per provenienza creando un ponte temporaneo in corrispondenza del presunto confine nelle acque. Il 29 marzo 2006 è il giorno stabilito. Proprio perché la chiamata è volontaria egli non sa che numeri aspettarsi e se effettivamente riuscirà nel suo intento. Infatti, dalla costa est arrivarono solo 30 imbarcazioni mentre da Cuba un centinaio; ciò non rese possibile la trama alternata ma, come ci suggerisce l’artista, l’occasione ha rivelato la necessità di costruire il ponte da parte di una comunità specifica. Lo stesso discorso vale per il confine tra Spagna e Marocco: il mare dello stretto di Gibilterra. In Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River, il 12 agosto 2008, una fila di ragazzini con una barca fatta di scarpe lascia l’Europa in direzione del Marocco, mentre una seconda fila di ragazzi con barche-scarpa salpa dall’Africa in direzione della Spagna. Le due linee si incontreranno all'orizzonte (nel 2008, raccogliendo da entrambi i Paesi le inquadrature delle persone che contemplano l’altro continente su questa stessa linea d’orizzonte, Alÿs registra Miradores, 20:54 min, in collaborazione con Rafael Ortega, Julien Devaux, Felix Blume, e Ivan Boccara). Questi due lavori, partendo da un’assenza di segni sulla carta (nel mare non ci sono confini fisici), riscrivono il limite-concetto come linea porosa, risignificando il margine quale soglia aperta allo scambio. [Fig. 2]
Anzidetta ambivalenza titola l’opera più celebre di Francis Alÿs, Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic, meglio nota come The Green Line del 2004 [fig. 3, 4]. Essa consiste in un tracciato verde di 24 km realizzato facendo gocciolare 58 litri di vernice in due giorni lungo il tragitto che ricalca le linee di spartizione di Gerusalemme, realizzate tra il dicembre 1947 e giugno 1948 da Moshe Dayan, capo dell’esercito israeliano e Abdullah al-Tal rappresentante della Legione Araba. Il segno del generale israeliano (quello di al- Tal era rosso) fu realizzato con un pastello verde a cera dal tratto molto spesso e grossolano tanto che, se confrontato con la mappa utilizzata in scala 1:20.000, avrebbe coperto un’area compresa tra i 60 e gli 80 m di larghezza. Qual è allora la verità sulla divisione, sul confine e, non in ultimo, sulla mappa? Essendo l’intervento cartografico di spartizione approssimativo, come possiamo relazionarci a esso? L’architetto Ewal Weizman, intervistato da Alÿs, è puntuale in merito, pur essendo molto dubbioso sulla pratica messa in atto dal belga:
“I very much like the fact that you use the city like a canvas to draw on. I very much like the quality of the line that you draw, because when you look (if you take the stain itself seriously, the smear of paint itself) you will see it in your paint and, I’ve seen it in several moments within your film. You have splotches, you have loops, and you have breaks, and you have the texture of the paint. Liquidity of the paint interacts with the texture of the ground in much more interesting ways than does the facile gesture of just walking. But than can teach you something on the larger scale - the overlap of abstract geometry, of border-making within the reality and conditions of a city, which are registered very much by the texture of the ground. Whereas when you go, and I think it’s quite clear, in Palestine though uninhabited areas, you’re walking through dust in a way that feels that the line is going to just disappear very quickly. Or you’re on a very rough road and that fragments the line. I think there is a whole texture in understanding Jerusalem [...] A map, by definition, is a two-dimensional abstraction of a three-dimensional topography and, in a sense, what you do is a one-to-one map. You abstract the city in that aspect [...] There is no neutral walk, and especially when you walk with the paint, you are designing,you are making a gesture, you are drawing a line and implying, for me at least, that you request two kinds of spaces on two sides - you request a difference between the right and left side of the line, you project a difference. And if it’s a legal difference, if it’s an economical difference, if it’s an ethnics difference, you are creating a kind of barrier that requires that the two sides are no longer part of a kind of a smooth continuity [...] Bridge or a conflict [...] (“Mi piace molto il fatto che usi la città come una tela su cui disegnare. Mi piace molto la qualità della linea che tracci, perché quando guardi (se prendi sul serio la macchia in sé, la sbavatura di vernice in sé) la vedrai nella tua vernice – riferito alla città – e, l’ho vista in diversi momenti nel tuo film. Hai macchie, hai anelli e hai rotture, e hai la consistenza della vernice. La liquidità della vernice interagisce con la consistenza del terreno in modi molto più interessanti del semplice gesto di camminare. Ma questo può insegnarti qualcosa su larga scala - la sovrapposizione di geometria astratta, di creazione di confini all’interno della realtà e delle condizioni di una città, riflettono molto la consistenza del terreno. Mentre quando vai, e penso che sia abbastanza chiaro, in Palestina, sebbene in aree disabitate, stai camminando nella polvere in un modo che sembra che la linea stia per scomparire molto rapidamente. Oppure sei su una strada molto accidentata e questo frammenta la linea. Penso che ci sia un’intera trama nel comprendere Gerusalemme [...] Una mappa, per definizione, è un’astrazione bidimensionale di una topografia tridimensionale e, in un certo senso, ciò che fai è una mappa uno a uno. Astrai la città in quell’aspetto [...] Non c’è una camminata neutrale, e specialmente quando cammini con la vernice, stai progettando, stai facendo un gesto, stai tracciando una linea e ciò implica, almeno per me, che tu richiedi due tipi di spazi su due lati - richiedi una differenza tra il lato destro e quello sinistro della linea, proietti una differenza. E se è una differenza legale, se è una differenza economica, se è una differenza etnica, stai creando una specie di barriera che richiede che i due lati non facciano più parte di una specie di continuità fluida [...] Ponte o conflitto [...]” Alÿs 2007, 42-44).
Il nesso tra camminata e confine inoltre è da rintracciare nei mandati britannici del 1919 che, per elaborare il piano urbanistico israeliano, procedettero a registrare i confini avvalendosi della camminata. Non vi è dunque segno innocuo, che sia esso effimero o perenne. Tuttavia, l’idea della linea di separazione e spartizione, riproposta con un tracciato di colore temporaneo, annienta ogni potere confinante. In questo senso le intemperie, l’instabilità del terreno, i passi, sono dei fattori che determinano la cancellazione una volta per tutte della frontiera.
La linea è annullata dalla vita che procede, paradosso ed emblema del rapporto tra cartografia e realtà. Tale contraddizione è riscontrabile anche nei lavori Retoque (2008) e Cuando la fe mueve montañas (2002). Retoque consiste in un intervento dell’artista nella zona del Canale di Panama sulla strada lunga 80 km che unisce il Pacifico e l’Atlantico e taglia il continente latino-americano in due. Alÿs ridipinge tutta la segnaletica orizzontale di confine che con il tempo si è sbiadita per via di fattori metereologici e del naturale deperimento dei materiali (Godfrey, Biesenbach, Greenberg 2010, 164). Perché, stavolta, ciò che naturalmente si è cancellato deve essere ripristinato? Non senza una punta di ironia, l’artista ci suggerisce che il margine va in ogni modo riabilitato nel senso di cui sopra: la porosità. I segni sbiaditi rivelano l’assurdità delle convenzioni, la cui esistenza viene dimenticata ogni giorno da chi le calpesta. Quando l’artista realizza questa performance, i passanti lo guardano con occhio sorpreso. L’abitudine alla ghettizzazione ha finito per interiorizzare la barriera ma anche introiettare il suo superamento continuo, la sua inutilità. Quest’ultima va mostrata, va segnata ed esposta (Godfrey 2006).
Splendida ode all’inutile e alla potenza trasfigurante della credenza collettiva è invece Cuando la fe mueve montañas. L’11 aprile 2002 a Lima in Perù, Alÿs, grazie alla collaborazione di 500 volontari attivati con la partecipazione dell’Universidad Nacional de Ingenieria del Perù (UNI) propone di spostare, seppur di una decina di centimetri, una duna. La scelta dei performer, futuri ingegneri, è dovuta al fatto che oltre a essere un lavoro di geografia morfologica, esso è anche un progetto di ingegneria vera e propria dato che ha come obiettivo quello di cambiare il territorio fisico. La duna in questione è a ridosso di Ventanilla, una favela costruita nel giro di pochi anni per rispondere alla richiesta di spazio dovuta al continuo aumento demografico causato dallo spostamento di grandi masse rurali verso le metropoli – Lima passa da 2 milioni di abitanti a 8 milioni nel 2000. Queste favelas costruite con rapidità e con materiali provvisori e di scarto sono edificate su un terreno precario in arena. La necessità della cooperazione per garantire a tutti un tetto ha sedimentato un sentimento di solidarietà generalizzata a cui consegue, innestandosi su una forte componente culturale mitica, una visione speranzosa del futuro. “Una situación desesperada requiere de una respuesta épica. Un beau geste” (“Una situazione disperata richiede una risposta epica. Un bel gesto”; Alÿs, Medina 2005, 45) ci dice l’artista. Attraverso una forte componente eroico-mitica, nel 2002 Alÿs avvia i lavori. L’idea che l’arte possa essere una storia da raccontare, patrimonio collettivo da trasmettere, modificazione sostanziale del territorio, fa sì che 500 persone, e tante altre a seguire nei giorni dell’esposizione dei materiali video, riescano a concepiree attuare il progetto utopico di spostare – letteralmente – una montagna (tornano in mente le parole del teologo luterano Polykarp Leyser, quando ragionando del rapporto tra cartografia e geografia, affermò che “questi [i segni naturali] sono i più stabili, perché non è molto facile rimuovere le montagne o deviare il corso dei fiumi o tramutare il mare in terraferma; e comunque, qualora qualcosa del genere accadesse, non sarebbe passato sotto silenzio dagli storici”, cit. in Farinelli 2009, 4). La fede è tutta lì: maggior sforzo fisico, minimo risultato in termini fisici. Cuando la fe mueve montañas è destinata a diventare racconto orale, trasformazione fisica e riappropriazione territoriale, pur non lasciando alcuna traccia sulla mappa e nell’arena. Se il blocco di ghiaccio di Paradox of Praxis 1 ironicamente interrogava il minimalismo, Cuando la fe mueve montañas de-romanticizza la Land Art, portandola a dialogare il contesto sociale oltre che con quello naturale (Ferguson 2007, 109). Lo spazio, ci dice l’artista, non è solo validato dalle tracce, esso è un “processo alchemico, una vicenda che si racconta, in ultima istanza, una favola” (Alÿs, Medina 2005, 24). Il racconto si svincola dal linguaggio per confluire nella testimonianza e nel dialogo, adattandosi all’interlocutore, utilizzando all’occorrenza slang e dialetti. Nell’era della decomposizione dello sguardo attento, l’atto artistico diventa ricomposizione dell’immagine e dell’immaginario, del tessuto sociale e della lingua, una riappropriazione dello spazio da parte di chi il luogo lo crea e lo vive, “deambulando tra gli interstizi e i tempi morti del produttivismo” (Bourriaud [1999] 2015, 10). In queste zone del mondo dove la modernità corrisponde ai postumi del moderno, “nella dirt poor society of spectacle, in cui la gente è dissanguata da guerre e fame, c’è bisogno di una trasfusione artistica nel corpo sociale” (Alÿs, Medina 2005, 50-60). Un misto di fatalismo, entusiasmo e inerzia ha mandato avanti i 500 volontari come se si trattasse di un effetto domino in cui ognuno incoraggia l’altro. La fatica, il caldo e la stanchezza non hanno ostacolato il progetto di procedere compatti linearmente da una valle all’altra della duna, sentendosi parte di qualcosa di più grande. Alÿs chiama questo sentimento d’infaticabile fatica “sublime sociale”: una pratica di nomadismo geologico che amplifica poeticamente l’esperienza dell’insignificante per più tempo e con più sforzo possibile, senza alcuna ricaduta cartografica ma con un forte impatto sulla memoria collettiva.
Secondo Francesco Careri, membro del gruppo artistico romano Stalker – uno dei primi gruppi walking art in Italia –, l’azione del camminare è stata la prima forma simbolica con cui l’umanità ha trasformato il paesaggio in senso estetico (Careri 2006). L’odologia, o lo studio delle strade, dei viaggi e dei percorsi, come pratica di definizione del rapporto tra il soggetto (singolare e plurale) e lo spazio, rinuncia allo spazio euclideo – continuo, omogeno, isotopo e misurabile, tipico della mappa (Farinelli 2009) –, per abbracciare uno spazio mutante il cui centro è l’uomo che si situa di volta in volta (Vargiu 2019, 34). “Il camminare, pur non essendo la costruzione fisica di uno spazio, implica una trasformazione del luogo e dei suoi significati. La sola presenza fisica dell'uomo in uno spazio non mappato, e il variare delle percezioni che ne riceve attraversandolo, è una forma di trasformazione del paesaggio che, seppure non lasci segni tangibili, modifica culturalmente il significato dello spazio e quindi lo spazio in sé, trasformandolo in luogo” (Careri 2006, 28). La pratica artistica di Alÿs, adottando le potenzialità della sperimentazione artistica contemporanea, fornisce nuove coordinate per il pensiero geografico, e contribuisce a definire nuovi paradigmi rappresentazionali e modi di intendere la categoria di spazio. Riabilitando la centralità del luogo come zona dell’attraversamento, sfidando il rigore matematico della carta che imbriglia il mondo nelle maglie dell’astrazione geometrica, l’arte contemporanea di dimostra oggi un campo di indagine privilegiato che non può che arricchire e accompagnare i saperi geografici nella ricerca di risposte, mai definitive, sull’irriducibile complessità che ci circonda.
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English abstract
Since the late 1980s, geography, the discipline that investigates the ways in which physical space is represented on paper through cartography, has entered a period of crisis, especially about the construction of images of territories. According to major critical geographers, the failure of the map as a faithful image of the world became evident. With the advent of new digital technologies and the spreading of the idea that a way out of the charting deception can be found, we must return to the question of: “What is space? How can we approach it? In which ways can we manage to understand it?”. This paper attempts to answer this question by examining the potential of contemporary art practices in contributing to the discourse on cartographic models of the world. More specifically, this paper will focus on the artistic work of Francis Alÿs and his 'pasesos'. In his artistic reflection, space is examined as a place of experience and transit, enhancing the aesthetic potential of the act of walking.
keywords | Francis Alÿs; odological space; geography; pasesos; walking art.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: I. Galuppo, Lo spazio odologico di Francis Alÿs e la crisi della rappresentazione cartografica, “La Rivista di Engramma” n. 218, novembre 2024.