Viaggiare nel tempo nei secoli del Medioevo.
Presentazione di Gianluigi Viscione, Il reimpiego della scultura altomedievale in Toscana. Riuso, pseudospolia e arcaismo tra XI e XIII secolo, Franco Angeli, Milano 2024
Fabrizio Lollini
English abstract
La testina ‘longobarda’ – in realtà di fine XI o inizio XII secolo – fotografatissima dai turisti, che quasi per incanto compare grazie a una scenografica illuminazione negli scavi delle sostruzioni all'attuale pieve romanica di Gropina [fig. 2], si colloca in un sito rispetto al quale, anche negli ultimissimi tempi, vengono discussi con attenzione sia la combinazione stilistica che il rapporto continuità / discontinuità materiale tra quelli che chiamiamo ‘alto’ e ‘basso’ Medioevo. Entrambi trovano finalmente una soluzione definitiva del caso specifico del pulpito dell'edificio, tenacemente ancorato all'VIII secolo dalla tradizione locale, e invece di pieno XII (con molta fatica si è letta ora la data 1176), portatore di riferimenti compositivi e iconografici aulicissimi, che contrastano peraltro in apparenza con un'approssimazione della pratica operativa materiale. Si può partire da questa suggestione per la recensione a un bel volume appena pubblicato da Franco Angeli, Il reimpiego della scultura altomedievale in Toscana. Riuso, pseudospolia e arcaismo tra XI e XIII secolo (2024) [fig. 1], di Gianluigi Viscione, che lo ha organizzato rielaborando parte della sua tesi di dottorato, cui si premette una prefazione – in realtà un vero saggio autonomo – del massimo esperto di scultura medievale toscana, e suo tutor, Guido Tigler (sulla testina degli scavi di Gropina, e sul pulpito di questa pieve, cfr. Tigler 2015, speciatim 75, 78, e ora, soprattutto, Tigler 2024 e Ingrand-Varenne, Smith 2024, con percorso critico pregresso. Rimando ovviamente alle ricchissime note e alla bibliografia del volume qui presentato qualsiasi riferimento bibliografico sui temi generali accennati, oltre che sui singoli siti).
Sono passati esattamente trent'anni dalla pubblicazione del saggio di Salvatore Settis sulla continuità dell'Antico, nel vol. II del secondo supplemento all'Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale di Treccani, e quasi quaranta dall'altro scritto dallo stesso studioso per l'ultimo tomo del glorioso progetto della Memoria dell’antico nell’arte italiana Einaudi: i concetti di ‘continuità’, ‘discontinuità’ e ‘conoscenza’, o quelli di spolia in se e spolia in re, in riferimento al reimpiego di materiali e forme della grecità ma soprattutto della romanità antica, nei tempi diversi del Medioevo, della prima età moderna, e dei secoli a seguire, sono stati ampiamente metabolizzati, e anzi si può dire postillati e implementati. Se la stessa tradizione classica “un thesaurus in continua ridefinizione e incremento. Gesti, figure, e simboli antichi rivelano la loro vitalità proprio perché vengono continuamente messi in crisi e quindi irreligiosamente ripensati e traditi; infatti nella lotta per la sopravvivenza si trasformano affidando i loro segni a un moto di continua selezione e reinvenzione, formale e tematica” (Centanni 20212, 9), pure le categorie relative alle differenti tipologie e modalità di riuso sono state oggetto di ripensamenti e rielaborazioni.
Applicate alle valorizzazioni architettoniche (le colonne della precedente Saint Denis rimesse in nuova luce, come lui stesso evidenzia, da Suger, nella ridefinizione della basilica); o estese alle reliquie corporee dei santi, cui, negli stessi tempi in cui i marmi adrianei o aureliani trovavano nuova collocazione e nuovo significato nell'arco di Costantino (con un habitus mentale del tutto distante dal decline of form berensoniano), si iniziava a riferire un analogo trattamento di isolamento, conservazione, e – spesso – ostensione e valorizzazione visiva e materiale, nelle differenti tipologie del reliquiario cristiano, a sua volta ricettacolo di ricontestualizzazioni di materiali e forme dell'Antico.
Meno fortuna, e anzi qualche volta – come nell'esempio che ho ricordato in apertura – oggetto di pesanti fraintendimenti sono ancora invece, appunto, i reimpieghi o le rielaborazioni funzionali nei secoli tra XI e XII (che per consuetudine talvolta si continua, specie nelle partizioni manualistiche, a chiamare ‘romanici’) di oggetti e forme del contesto altomedievale, soprattutto degli ambiti longobardo e carolingio tra VIII e IX secolo. Pure, come nella Cattedrale di Pisa è riciclata un'enorme quantità di marmi antichi, o, nella stessa zona, Biduino si impegna a realizzare copia dei sarcofagi strigilati, per riprendere due esempi di Settis, i modelli decorativi e figurativi di tre o quattro secoli prima, ma soprattutto tanti oggetti materiali che li veicolavano, vengono rifruiti. Ciò avviene sia come punto di riferimento di una visual culture condivisa a livello di abitudini percettive, che ai nostri occhi si traduce in un concetto di stile, sia soprattutto, come già detto, attraverso veri e propri spolia materiali. E proprio di questo parla il libro.
La già ricordata introduzione di Guido Tigler tratta i repertori aniconici altomedievali nella scultura, e in specifico quello a fettucce tripartite, ricondotto all'ambiente romano di fine VIII secolo; ma presenta aperture più ampie, e precisazioni importanti su molti temi, quale per esempio la giusta negazione di un influsso ‘celtico’ dai codici insulari e dalle loro carpet pages sugli arredi lapidei italiani. Viscione esplicita nell'introduzione il senso del volume, che è quello di “analizzare il riuso di elementi scultorei altomedievali e il recupero del loro linguaggio formale in Italia centrale tra XI e XIII secolo” (p. 19), che ha luogo solo in edifici sacri, congiungendo quindi due distinti filoni di studio: uno, per così dire, materiale, l'altro formale. L'autore definisce tre categorie: gli spolia veri e propri (quasi sempre aniconici); i cosiddetti pseudospolia, cioè “sculture che si fingono elementi di riuso tentando di apparire più antiche di quelle che sono e parte di un insieme scomposto in realtà mai esistito” (p. 21); e l'attivazione di motivi arcaizzanti che palesano un attento sguardo retrospettivo nella loro natura imitativa.
Il primo capitolo, “L'Altomedioevo nel Romanico” presenta come paragrafo di apertura una completa rassegna critica sul tema del recupero a posteriori delle forme dell'VIII-IX secolo in contesti cronologici successivi, che è stato analizzato – in forme più o meno strutturata – da tutti i grandi specialisti italiani della scultura dell'età di mezzo, da Peroni a Gandolfo, da Righetti a Quintavalle, sino ai più recenti interventi di Gianandrea; i manufatti chiamati in causa sono sia veri e propri riciclaggi di oggetti materiali, sia, come detto, recuperi compositivo-stililistici di un repertorio di forme. Uno dei problemi più rilevanti, in questo contesto ovviamente quasi del tutto privo di documentazioni di archivio, è la possibilità di incorrere in errori di datazione, e di considerare quindi come spolia, o modelli, manufatti invece realizzati pour cause, o derivazioni (e in effetti Viscione evidenzia come nei repertori siano talvolta catalogate come pertinenti all'Altomedioevo opere dell'XI e XII secolo).
Il secondo paragrafo si occupa della distribuzione cronologica e geografica del riuso: se la fascinazione dell'Antico è un evergreen, l'attenzione funzionale ai motivi geometrici, astratti, decorativi e tendenzialmente aniconici dell'Alto Medioevo è limitato a un periodo relativamente circoscritto, tra fine XI e prima metà del XIII secolo, e condizionato dalle vicende storiche, cultuali e edilizie del periodo che per comodità continuiamo ancora a chiamare Romanico. Gli elementi riutilizzati materialmente erano sempre parti di arredi liturgici presbiteriali, dismessi e smembrati, e il loro reimpiego era presuntivamente legato ai rimodellamenti delle sedi religiose (o di loro parti), in una logica affine a quella di un cantiere aperto: pare improbabile provenissero da altri edifici, come invece poteva avvenire per la ricollocazione funzionale o decorativa di spolia classici. Il posizionamento degli spolia – come si analizza molto bene nel terzo paragrafo – costruisce una narrazione; i manufatti reimpiegati si concentrano su aree liminali: da una parte ne troviamo molti in prossimità dei portali di accesso e in corrispondenza della facciata, dall'altra attigui al “perimetro esterno dell'area presbiteriale” (p. 38), non in modo dunque casuale, ma come probabile ostentazione della loro antichità in zone cruciali e, in qualche modo, di attesa e contemplazione, e talora con una sorta di reminiscenza della loro originaria funzione, che dunque non viene completamente annullata. C'è poi da ricordare che talvolta i frammenti di VIII e IX secolo si interfacciano, nella stessa sede, con recuperi dall'Antico (è il tema del paragrafo 4). In questo senso, le dinamiche materiali del reimpiego incrociano l'attivazione di un confronto sotteso, in cui le reliquie della cultura classica e post-classica sono quasi sempre risemantizzate (anche grazie alla loro selezione e a rilavorazioni parziali), e venivano con tutta probabilità vissute comunque “ben distinte sul piano del significato e tutt'altro che equivalenti” (p. 41): i materiali ostensi, quelli antichi e quelli altomedievali, non erano “percepiti come indistintamente antichi e quindi impiegati senza alcun discrimine” (p. 40).
Non si devono dunque sopravvalutare le competenze culturali dei capimastri e degli scultori del tempo, ma neanche sminuire le loro consapevolezze (un parallelo forse azzardato: nella cultura del primo Umanesimo, nonostante quanto proposto per molto tempo da certa vulgata della letteratura critica, il ricorso del Quattrocento alla tipologia dei cosiddetti bianchi girari non implicava il fraintendimento cronologico assoluto dei modelli di XI e XII secolo).
Nel secondo capitolo, “Pseudospolia”, Viscione ritorna su un tema cruciale che ho già menzionato, quello delle “sculture che si fingono elementi di riuso tentando di apparire più antiche di quelle che sono e parte di un insieme frammentario in realtà inesistente” (p. 43). Se questa situazione interessa tutto quanto prodotto fino al Medioevo centrale, L'autore si concentra ovviamente sugli esempi di ispirazione altomedievale, che considera, al di là della specificità geografica della sua ricerca, partendo dal caso più illustre portato sovente dalla storiografia artistica, quello di San Marco a Venezia, delineato da Demus, in seguito ingigantito ed espanso in modo incongruo, infine smantellato come paradigma globale, rispetto all'ipotesi di lettura di numerosi manufatti scultorei della basilica dogale come repliche duecentesche di oggetti paleocristiani che avrebbero costruito un consapevole tentativo simbolico concepito per giustificare con un fittizio passato illustre la nuova politica espansionistica della Serenissima dopo la quarta crociata e la conquista di Bisanzio del 1204, anche in relazione alle supposte origini apostoliche della città lagunare (da tempo, il gruppo è invece stato ricondotto da un ampio gruppo di studiosi a una datazione tra V e VI secolo). Se quindi è più opportuno nel caso specifico azzerare i toni, rimane comunque l'assunto generale, riproposto nel volume, che altrove invece “l'idea che alcune decorazioni scultoree vogliano intenzionalmente apparire più antiche, per alludere a una lunga tradizione, talvolta inesistente o volutamente ingigantita, non va scartata a priori e anzi pare risolutiva per quei contesti in cui il disarmante arcaismo e l'apparente incoerenza compositiva hanno a lungo imbarazzato gli studi”; i casi esaminati nello specifico sono la cattedrale di Guardialfiera, in Molise, l'abbazia di Venosa, e quella dei Santi Terenzio e Fidenzio a Massa Martana, tutte caratterizzata da “finti spogli montati in modo piuttosto caotico e incoerente per esaltarne l'effetto di reimpiego” (p. 46). In questi casi, i finti spogli, identificabili anche in quanto oggetti non sottoposti a interventi di adeguamento materiale alla ‘nuova’ sede, costruiscono una narrazione che punta alla invenzione di un background autorevole: non troppo diversamente, in parallelo, si può notare nel periodo bassomedievale la frequente ricorrenza di testimonianze relative ad antiche e preziose reliquie conservate nelle sedi religiose, il cui arrivo in loco viene immancabilmente riferito ad auctoritates apicali (Carlo Magno, o i pontefici più emblematici), appunto con la stessa funzione di creare un fascinoso storytelling che attirasse non solo e non tanto l'attenzione dei fedeli locali, quanto dei pellegrini, con l'auspicio di ricollocarsi in ruoli più autorevoli nelle rotte dei viaggi sacri.
Il terzo blocco testuale è “Arcaismo”, che poteva forse essere declinato al plurale, data le difformità iconografiche e formali degli esempi che potrebbero essere chiamati in causa. Come afferma l'autore, “che singole opere e monumenti scelgano e adottini a diversi secoli di distanza un linguaggio ormai inattuale e talvolta in controtendenza con gli orientamenti artistici di aree circonvicine è innegabile” (p. 61). Anzichè far ricorso al concetto abusato di ritardo (ancora frequente), bisognerà allora fare attenzione alla volontà cosciente di inserirsi in una tradizione pregressa, o magari di appellarsi a determinate categorie economiche e culturali di pubblico, che formatesi su certi esempi, potevano anche preferire una forma, e un Kunstwollen, di tipo tradizionale, al di là di eventuali aggiornamenti esclusivamente iconografici. Tutto questo mette in gioco tante categorie apparentemente consolidate, quale il revival, o l'aggiornamento (dunque appunto, specularmente, il ritardo), al di là dei casi, non infrequenti, in cui l'aspetto più primitivo deriva da oggettive situazioni di debolezza esecutiva nella lavorazione dei materiali. Questi temi, di grande fascino, sono anche correlati a categorie intellettuali e artistiche dei nostri tempi; il termine di ready made, per dire, compare più di una volta nel libro. Purtroppo, salvo rari casi, l'indagine non può essere supportata da rilevamenti scientifici precisi e dirimenti, anche perché, ovviamente, l'analisi materiale chimico-fisica dei manufatti non può gettare una luce chiara sulle innumerevoli situazioni di gestione dei cantieri, prime fra le rilavorazioni di oggetti preesistenti. E proprio per questo il testo di Viscione è molto interpretativo, si basa sull'esame diretto e lo scrutinio attentissimo dei singoli casi, evitando generalizzazioni e categorie troppo rigide, fornendo un ottimo esempio della ricerca in questo insidioso campo, in cui – per fare un caso – la storiografia artistica discute ancora, anche per siti celeberrimi (lasciando stare San Marco, già rammentato, penso alle tre architravi dello spazio interno di Beaulieu-sur-Dordogne: veri spolia o loro imitazione funzionale?).
I tre capitoli si snodano in forma chiara e sintetica, lasciando la gran parte dello spazio del volume – dopo due pagine di conclusioni – al censimento dei singoli siti, estrapolati appunto da Viscione dalla sua più ampia ricerca dottorale su base geografica. Si parte con San Pietro Apostolo in San Piero a Grado (p. 71), per passare all'abbazia di San Salvatore al Monte Amiata (p. 81), uno dei casi più illuminanti di invenzione di un passato, nel suo tentativo di legarsi al grande nome del duca Ratchis, da un lato, e di adottare forme architettoniche classiche, tardoantiche e altomedievali in un mash up di forme autorevoli. Il terzo esempio (p. 91) è quello del più ampio e influente cantiere architettonico tra XI e XII secolo in Toscana, il Duomo di Pisa, vera palestra per qualsiasi indagine sul reimpiego materiale e culturale, in cui emerge la volontà di riutilizzo dell'arredo liturgico precedente “per salvaguardarne nel nuovo la sua memoria storica”, ma senza che ciò provochi a cascata una produzione che ne riprenda lo stile, a differenza di quanto avviene con gli spolia classici. L'analisi su San Frediano a Lucca (p. 107) precede la sezione dedicata a un altro sito iconico della regione, quella abbazia di Sant'Antimo (p. 117), in cui i reimpieghi reali e gli pseudospolia dell'Antico e altomedievali, di grande numerosità, tentano certamente, come certi congegni della struttura architettonica, di determinare una piena e leggibile visibilità in un'area decentrata e di passaggio, e soprattutto di inserire il sito come nuova tappa degli itinerari romei della Francigena. Seguono il duomo dei Santi Pietro e Paolo a Sovana (p. 143), San Pietro in Villore a San Giovanni d'Asso (p. 151), altre due sedi lucchesi, Santa Maria Forisportam (p. 155) e San Micheletto (p. 161), San Benedetto in Gottella (p. 167), e infine la pieve di Santa Maria Assunta ad Arezzo (p. 171). Di ogni sito si identificano, descrivono, e motivano le situazioni legate al tema globale del volume, ma si riportano anche – per ovvi motivi metodologici ma anche per una lodevole tendenza alla completezza – le storie fondative e le differenti fasi stratificate nell'edificio.
Completano il libro, proponendosi anche autonomamente come strumenti fondamentali per qualsiasi ulteriore ricerca, una completa (e amplissima) bibliografia, e un corredo di 65 immagini, di discreta qualità ma talvolta di troppo ridotte dimensioni. Il contributo del libro di Viscione, pubblicato nella collana “Culture artistiche del Medioevo”, credo risulterà presto uno step decisivo per la comprensione di fenomeni artistici che non sempre, ancora oggi (in parte), sono stati dissodati, e che si caratterizzano comunque per una particolare difficiltà interpretativa, anche rispetto alla necessità – per noi – di liberarci da una serie di categorie e sovrastrutture.
Riferimenti bibliografici
- Centanni [2005] 2021
M. Centanni, L’originale assente, in L’originale assente. Introduzione allo studio della tradizione classica, a cura di M. Centanni, Dueville 20212, pp. 1-42 - Ingrand-Varenne, Smith 2024
Varenne, M. H. Smith, Du nouveau sur la chaire de Gropina. II. Déchiffrement et commentaire des inscriptions, “De strata francigena” XXXII, 1-2, 2024 (Vie di pellegrinaggio e scultura romanica nell'Aretino, a cura di R. Stopani), 110-122. - Tigler 2015
G. Tigler, La pieve di Gropina e il suo pulpito romanico nel quadro degli studi sull'architettura e la scultura del Medioevo nelle diocesi di Arezzo e Fiesole, “De strata francigena” XXIII, 2, 2015 (Architettura romanica e viabilità. Il contado fiorentino, a cura di R. Stopani), 49-91. - Tigler 2024
G. Tigler, Novità sul pulpito di Gropina.I. Il pulpito di Gropina: un caso di barbarie, arcaismo o modernità?, “De strata francigena” XXXII, 1-2, 2024 (Vie di pellegrinaggio e scultura romanica nell'Aretino, a cura di R. Stopani), 66-109.
English abstract
This review examines Il reimpiego della scultura altomedievale in Toscana by Gianluigi Viscione (2024), a comprehensive study on the reuse of Early Medieval sculpture in Central Italy during the 11th and 12th centuries. The book, based on Viscione's doctoral research, explores the material and formal recovery of medieval sculptures, categorizing them into true spolia, pseudospolia, and archaizing motifs. The author investigates the recontextualization of Early Medieval forms, often in ecclesiastical settings, and challenges traditional interpretations by analyzing how these reused elements were employed to create a sense of continuity with the past. Key case studies include the Cathedral of Pisa, San Frediano in Lucca, and the Abbey of Sant'Antimo. The book offers a critical approach to understanding these artistic phenomena, moving beyond outdated categories such as “revival” and “archaicism” to propose a more nuanced view of medieval reuse practices. The work contributes significantly to the study of medieval sculpture and its reinterpretation in architectural and liturgical contexts.
keywords | Gianluigi Viscione; Tuscany; Early Medieval sculpture; Re-use; Pseudospolia; Medieval Architecture.
Per citare questo articolo/To cite this article: Lollini F., Viaggiare nel tempo nei secoli del Medioevo.
Presentazione di Gianluigi Viscione, Il reimpiego della scultura altomedievale in Toscana. Riuso, pseudospolia e arcaismo tra XI e XIII secolo, Franco Angeli, Milano 2024, “La Rivista di Engramma” n. 218, novembre 2024.