"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

222 | marzo 2025

97888948401

No logo?

Sul plagio e la vita dei segni, da Melania Trump ai magazzini criminali del Medioevo

Giorgiomaria Cornelio

English abstract

All’origine ci sarà stato solo il difetto,
che è appunto il difetto d’origine o
l’origine come difetto.
Bernard Stiegler

1 | “Se il Make America Great Again è stato rafforzato dai meme, siamo sicuri che i loghi-meme realizzati dall’antagonismo di sinistra non finiscano per rafforzare i loghi originali?”. Donald Trump indossa il cappellino “Make America Great Again”.

Le paludi dell’originale

Siamo alla Convention del Partito Repubblicano del 2016, l’evento politico in cui il partito ufficializza la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. È un momento cruciale della campagna elettorale, un’occasione per consolidare il consenso interno e trasmettere un’immagine di forza e coesione al pubblico internazionale. La convention si svolge a Cleveland, in Ohio, uno degli stati chiave nelle elezioni presidenziali, e segna l’ingresso di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca come candidato repubblicano. È in questo contesto che Melania Trump sale sul palco per tenere un discorso che ha l’obiettivo di presentarla come futura First Lady. Il suo intervento si concentra sui valori della famiglia, del lavoro e dell’integrità, elementi tradizionalmente centrali nella retorica repubblicana. È vestita con un abito bianco con maniche a sbuffo, realizzato dalla stilista Roksanda Ilincic, che tornerà protagonista in un articolo del New York Times pubblicato il giorno dopo, con il titolo Melania Trump’s Speech May Not Have Been Original, but Her Dress Was. Già nel giro di poche ore dall’evento, infatti, erano emerse evidenti somiglianze tra le parole di Melania Trump e il discorso pronunciato da Michelle Obama alla Convention Democratica del 2008. A chi li sta passando attentamente in rassegna, interi passaggi risultano identici, e tutto ciò solleva immediatamente accuse di plagio. La scoperta accende un dibattito sulla preparazione del discorso e sul ruolo dei ghostwriter nella politica contemporanea, ma ciò che è interessante evidenziare è proprio la spiegazione ufficiale fornita dallo staff di Trump: l’errore deriverebbe da una “svista” della redattrice Meredith McIver, che avrebbe incorporato nel testo finale frasi tratte dal discorso di Michelle Obama senza annotarne l’origine. McIver propone le sue dimissioni a Donald Trump, che però le rifiuta dicendole che “le persone a volte fanno qualche errore e che si cresce e si impara anche da queste esperienze”. L’esperienza è tristemente formativa, il plagio è giustificato, l’origine è ribadita e fatta salva, e così la campagna può proseguire – culminando, come è noto, nella prima elezione di Donald Trump come 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma è davvero così formativa questa vicenda di errore e pubblico svergognamento?

In un pezzo dal titolo emblematico, The Case for Plagiarism, From a Celebrated Poet Who Has Made a Career Out of It, il poeta laureato (e plagiatore seriale) Kenneth Goldsmith invitava, qualche giorno dopo lo scandalo, a immaginare cosa sarebbe accaduto se sul palco della Convention del Partito Repubblicano Melania Trump avesse volutamente plagiato l’intero discorso di Michelle Obama, senza uscire dal personaggio. “Nel mondo spietato della politica” scrive lui:

Il tipo di ammirazione che Melania avrebbe mostrato per Michelle copiando il suo discorso parola per parola sarebbe stato raro. Se avesse fatto la ‘Michelle completa’ invece di un semplice 7%, l’avrei definito un tributo davvero rinfrescante. Ma poiché non ha ammesso il suo plagio, non possiamo indulgere in queste fantasie. Invece, siamo ancora una volta intrappolati nelle paludose acque dell’autenticità e dell’originalità (Goldsmith 2016, traduzione di chi scrive).

Come già in un suo libro seminale, CTRL+C, CTRL+V – Scrittura non creativa, venerato e odiato con la stessa ferocia da gran parte del mondo letterario statunitense, Goldsmith insiste a considerare l’originale come una trappola che impantana, impedendo alle forze di riappropriazione di agire liberamente, attivando, nelle immagini e dei discorsi troppo consueti, altre energie altrimenti addormentate.

Nel caso di Melania Trump, Goldsmith nota anche come l’autentico si dia sempre in partenza nella forma di un equivoco: non ha a che fare con una verità, ma con una perfomance della verità. Chi parlava davvero nel 2008, Michelle Obama o il suo team di ghostwriter? I discorsi “sono quasi sempre scritti da altri, ma ufficialmente vengono attribuiti al relatore, non allo scrittore, il che distorce le nozioni tradizionali di paternità”. Se l’autentico nella contemporaneità è tanto assiduamente difeso è proprio perché esso torna a essere, dopo alcuni secoli di dominio incontrastato, un concetto inoperoso e terminale nell’epoca dell’IA generativa e di quello che più avanti chiameremo il riaffermarsi del “magazzino medievale”: un magazzino oggi ancora desolatamente criminale. Ed è qui il punto: fino a quando non depenalizzeremo culturalmente il plagio, “continueremo a ripetere gli stessi drammatici copioni. Se continueremo a puntare il dito […] rivedremo lo stesso scandalo senza mai cambiare la conversazione. In una cultura dove la maggior parte delle canzoni pop è costruita su campioni e i vestiti che indossiamo sono imitazioni di fast fashion, quando finalmente riusciremo ad ammettere che una copia potrebbe essere altrettanto buona – o addirittura migliore – dell’originale?” (Goldsmith 2016, traduzione di chi scrive). 

Per sottrarre lo sguardo dalla trappola dell’originale conviene, come avviene nella pubblicità, o nella moda, scucirne l’aura, ribaltarne il carattere incorruttibile. Ripartiamo, allora, proprio da un rovesciamento.

Rubare McDonald’s (ancora una volta)

2 | La scritta “Djadja Vanja” (Zio Vania) della catena che dal 2022 è subentrata nella gestione dei ristoranti McDonald’s in Russia.

3 | Nel 1952, Stanley Clark Meston e il suo assistente George Dexter idearono per il nuovo modello di ristorante McDonald’s due grandi archi dorati ai lati dell’edificio, per rendere il ristorante riconoscibile da lontano.

Nel marzo 2022, le insegne dorate di McDonald’s iniziano a scomparire dalle strade delle città russe. Dopo oltre trent’anni di presenza nel paese, la multinazionale americana decide di chiudere i propri ristoranti in segno di dissenso contro l’invasione dell’Ucraina. È un segnale forte, non solo economico: il marchio che aveva rappresentato l’ingresso della Russia nell’era del consumismo globale abbandona il suolo nazionale. Nel giro di poche settimane, come risposta viene annunciata l’apertura di una nuova catena russa di fast-food chiamata “Uncle Vanya” (lo “Zio Vania” di Anton Cechov); anche in questo caso si tratta di chiaro messaggio politico: la Russia non ha bisogno dell’Occidente, può rimpiazzare i suoi simboli e reinventarli a propria immagine, sovvertendone i loghi; basta ruotare la celebre M gialla di novanta gradi e aggiungere un tratto verticale: il risultato è la lettera B dell’alfabeto cirillico, iniziale di Ваня (Vanya). La Russia tarocca McDonald’s, rubandone il logo per farlo suo. Non è la prima volta che accade: gli archi dorati sono stati sottratti ai fratelli McDonald da Ray Kroc, il responsabile del successo planetario della multinazionale di hamburger, che ai fratelli ha preso con forza tutto ciò che poteva prendere, a partire dal nome, tradendone la filosofia e condannandoli di fatto a essere espropriati della propria eredità.

I fratelli McDonald avevano sperimentato la formula vincente di una cucina coreografata come una catena-di-montaggio, messa in prova disegnando con del gesso i contorni su un campo da tennis. Nel 1952, commissionarono all’architetto Stanley Clark Meston il design di un nuovo modello di ristorante per la loro catena di fast food; Meston e il suo assistente George Dexter idearono due grandi archi dorati ai lati dell’edificio, pensati non solo come elemento estetico, ma anche per rendere il ristorante riconoscibile da lontano. Quando Ray Kroc visitò il McDonald’s con sede San Bernardino nel 1954, ne fu subito attratto: “quella notte nella mia stanza di motel non riuscivo a togliermi dalla testa quello che avevo visto durante il giorno. Visioni di ristoranti McDonald’s a ogni angolo di strada hanno sfilato attraverso il mio cervello”. Fu lui a traghettare la catena verso il successo, escludendo progressivamente i fratelli dalla loro stessa creazione; e fu proprio sotto la gestione di Kroc che il logo venne standardizzato: nel 1962 il designer Jim Schindler stilizzò gli archi dorati trasformandoli in una “M”. Uno dei personaggi iconici della storia di McDonald’s, Hamburglar, somiglia sinistramente a Ray Kroc: commistione dei termini hamburger e burglar, questo ladruncolo di panini non è ostracizzato dagli altri personaggi della comunità McDonald’s (come Ronald McDonald, il famoso pagliaccio), ma tenuto in ottima considerazione. Il furto – di terre, di idee, di loghi – è per certi versi riconosciuto come pratica fondativa americana, ma solo in versione cartonesca – in una dimensione cioè apparentemente innocua.

In realtà, il furto deve essere neutralizzato per ristabilire, violentemente, il culto dell’originale: Ray Kroc, questo venditore di frullatori per frappé riscopertosi imprenditore e titano, impone che in ogni ristorante venga esposta una sua effige dorata, con il titolo di “fondatore” (il The founder di un film magnifico diretto da John Lee Hancock). Inoltre, dopo averli praticamente obbligati a cedergli la catena di ristoranti per 2,7 milioni di dollari, come smacco definitivo alla memoria dei due fratelli Kroc apre di fronte al loro storico ristorante di San Bernardino un nuovo McDonald’s, condannandolo di fatto a chiudere nel giro di pochi anni. L’originale risale il corso delle genealogie per ‘eradicarle’. Non si tratta di una appropriazione mirata a liberare il logo, a farne qualcosa di utilizzabile e trasformabile da tutti, ma piuttosto di una pratica coloniale che ristabilisce la proprietà trasformando il furto in un fenomeno fondativo. La storia americana, il suo film (si veda appunto The founder) corrisponde sempre a un remake monumentale di Birth of the Nation, come già notava Gilles Deleuze ne L’immagine-movimento: “in fin dei conti, il cinema americano non ha mai smesso di girare e rigirare uno stesso film fondamentale, che era Nascita di una nazione-civiltà, ci cui Griffith aveva offerta la prima versione” (Deleuze [1983] 1984, 182).

Quasi un secolo dopo il furto fondativo di Ray Kroc, la catena Uncle Vanya si riappropria del logo per farne una dichiarazione di intenti. Dopo l’annuncio si diffonde sul web un video che mostra l’apertura del primo punto vendita di Uncle Vanya a Mosca; nel frammento di una manciata di secondi, che diventa immediatamente virale e viene rilanciato da diverse testate in tutto il mondo, si vede l’inaugurazione del ristorante, con la M ruotata che lampeggia in maniera irregolare, quasi si trattate di un’insegna già malandata. Chi cercasse oggi il ristorante, però, resterebbe deluso: il video è un’opera creata digitalmente dall’artista 3D russo Gleb Mazur, pubblicata il 24 marzo 2022 su Instagram. L’artista ha preso il logo per immaginare, a suo modo, l’apertura, facendolo diventare una sua creazione; in un susseguirsi di dichiarazione tanto buffe quanto vertiginose, Gleb Mazur ammette che non voleva diffondere notizie false, ma “alcuni media hanno preso il mio lavoro senza permesso e lo hanno condiviso come un filmato reale senza nemmeno menzionare il mio nome”. Insomma: si tratta di un susseguirsi di furti; biblicamente, sciagura partorisce altra sciagura. Eppure, cioè che è accaduto con Uncle Vanya è diverso dalla vicenda di Kroc: semplicemente, le immagini e i loghi non fanno altro che vivere di vita propria, battendo, con la loro carica energetica, sulla porta di ciò che definiamo realtà. L’aspetto interessante non sta nella supposta igiene dell’autentico, ma nella proliferazione costante – e spesso dichiarata – del falso: quando i loghi (i segni) si conficcano nella vita quotidiana, e diventano altro, finendo inevitabilmente per slogarsi, per perdere la loro supposta integrità. Oggi, a dispetto di ogni rivendicazione coloniale, il logo di McDonald’s è diffuso ovunque anche attraverso la sua manipolazione, dalle parodie memetiche fino al design di Demna Gvasalia.

Il ricercatore e graphic designer Michele Galluzzo ha usato parte di questa storia singolare proprio per introdurre una delle questioni fondamentali del suo libro Logo in real life: “cosa succede ai loghi quando entrano nel mondo reale?”. E ancora: cosa succede “quando lasciano i manuali di identità aziendale, le agenzie di branding, gli studi, i portfolio dei designer, le linee guida del marchio, i premi e le mostre di settore? Cosa accade quando incontrano i meme, la contraffazione, la cultura pop o la controcultura? Le proteste, la moda, la politica? Cosa succede a questi artefatti – simboli del graphic design – quando iniziano a vivere in real life?” (Galluzzo 2024, 22). Tali domande sono spesso trascurate dalla storiografia ufficiale del graphic design, e per questo il libro, anche nella sua forma, si costituisce alla maniera di una congerie di “note per una storia sociale della visual identity”. Come nota Chiara Alessi nella prefazione, non un libro sulla grafica politica, ma sulla politica della grafica, che è anche formidabile politica della contraffazione, del plagio, della restituzione del segno all’utente, che ne fa letteralmente quello che vuole.

Una storia scombinata, sui dintorni (del segno, del testo), che vale la pena approfondire.

Un felice contagio

“L’idea della maiuscola che allungandosi in orizzontale copre a tettoia le altre lettere che compongono il nome, nacque a New York in un giorno del lontano 1908. Fu una trovata del momento, dovuta a una richiesta del rappresentante che la Pirelli aveva sul posto”: queste righe sono scritte da Vittorio Sereni nel 1958, mentre s’appresta – per la rivista Pirelli di cui era allora responsabile dell’ufficio stampa – a ripercorrere la creazione della leggendaria “P” allungata. L’idea di una maiuscola che si estende orizzontalmente sopra il resto della parola, alla maniera di una tettoia, nasce dunque come una soluzione pratica, un segno distintivo capace di rendere il marchio riconoscibile, evocando l’elasticità della gomma, materia prima e cuore tecnologico della produzione Pirelli. Accanto a questa versione ufficiale ne esiste un’altra che collega la forma del logo direttamente alla firma del fondatore, Giovanni Battista Pirelli, il quale avrebbe siglato il proprio cognome con un tratto simile. Indipendentemente dall’origine esatta, che come sempre è indisposta dall’accumulo di deviazioni e versione alternative, la P allungata si afferma rapidamente come segno immediatamente riconoscibile, accompagnando il marchio nel suo percorso di crescita e legandosi alle prime grandi imprese sportive. In una delle versioni più iconiche, le due parole vengono integrate nel profilo di un’auto da corsa, con la scritta che si fonde nel cofano e nel radiatore di una vettura rossa lanciata nella velocità, ma gli usi della P si slargano progressivamente, arrivando a infettare l’intera strategia comunicativa dell’azienda. È proprio Vittorio Sereni a parlare di un felice contagio, destinato, come racconta Michele Galluzzo, ad acquisire significati imprevedibili:

Quello che ancora non era chiaro a inizio Novecento era che il contagio della “long P” potesse estendersi oltre la comunicazione ufficiale e acquisire significati imprevedibili. Per esempio, la forma elastica dell’occhiello della P viene trasformata in un rumoroso vettore, dilatato come un proiettile nelle composizioni parolibere di Filippo Tommaso Marinetti all’interno del libro Les mots en liberté futuristes. O ancora nell’Aereo Pirelli, aeropittura di Giulio D’Anna del 1928 o nel bozzetto realizzato da Sonia Delaunay nel 1913, in cui il nome dell’azienda milanese è trascritto come “Pneu Pinelli” al posto di Pneu Pirelli (Galuzzo 2024, 74).

Soltanto nel secondo dopoguerra inizia un processo di razionalizzazione grafica che porterà a una maggiore armonizzazione delle proporzioni; progressivamente vengono definite le regole di base del marchio: il rapporto tra altezza e lunghezza, lo spessore delle lettere, la pulizia del disegno. Poi, nel 1961, il logotipo viene ulteriormente codificato, e si stabilisce una “riproduzione ideale” in rosso su fondo giallo. Eppure, fa notare Galuzzo, proprio gli anni Sessanta, “che si aprono con un auspicio di ordine, regolamentazione formale e controllo da parte dell’azienda milanese, si chiuderanno con il nome di Pirelli moltiplicato in maniera disordinata su volantini, cartelloni e striscioni prodotti dagli operai milanesi in lotta” (Galluzzo 2024, 78). Guerreggiano, i segni, si fanno termometri che registrano la temperatura del contesto politico: ogni lotta di rivendicazione orfanizza i simboli del padrone per iniziarli a una lotta diversa, dove ciò che era marchio d’infamia diventa annuncio di fiera rivendicazione.

Il motore dei segni, l’influenza delle segnature

4 | H.L. Roowy, Pneu Pirelli, 1910 ca.

Il motore dei segni (come quello disegnato per Pirelli da H.L. Roowy) è suscettibile di continui inceppi, stalli, riavvi; nel corso della lunga storia della politica della grafica vediamo riemergere pratiche di plagio e contraffazione come azioni pensate per provare a disattivare, dal suo interno, la matrice dell’oppressione. Tale utilizzo, quando arriva a mischiarsi pericolosamente con una brandizzazione della lotta, porta sempre con sé una molteplicità di diffidenze, soprattutto nel contemporaneo. Ciononostante, credere di essere in un’epoca che può rifiutare il logo (o preservarsi dalla sua influenza) significa negare gli scenari in cui siamo immersi: tra guerra dei meme, hackeraggi e manomissioni quotidiane dei grandi marchi l’incrocio promiscuo di lotta e brand è un dato di fatto osservabile ovunque; il logo Adidas, per esempio, può tramutarsi allo stesso tempo nella grafica antifascista “Antifas” o in un invito a votare il partito laburista – e così via. Ciò che accade non è solo una sottrazione, ma un vero e proprio riuso strategico del codice grafico dominante, un’operazione che si muove tra l’hacking e la parodia, tra il détournement e l’appropriazione culturale. Il segno viene distorto, trattenendosi tuttavia nella sua carica (o nella sua linea di abbrivio); l’energia viene reindirizzata, riutilizzata, rilanciata in direzioni che sfuggono al controllo della matrice ‘originaria’.

In quest’ottica di ingarbugliamenti e contagi, il dubbio più volte sollevato è: cosa succede quando questi stessi processi vengono riassorbiti dall’industria culturale, quando l’hacking dei loghi finisce per alimentare una nuova estetica commerciale del dissenso? Michele Galluzzo dà voce a questi interrogativi così:

Quello che pare chiaro è che i loghi non sono più soltanto “una bandiera” o “uno scudo” ma piuttosto un contenitore “memeficabile”. Bootleg, rip-off e meme stanno espandendo quella che fino a qualche tempo fa i manuali di graphic design, branding e marketing chiamavano corporate image, il percepito comune del pubblico rispetto a un marchio. Ma quando il rip-off di un logo ambisce a veicolare messaggi politici, quale “image” sta espandendo? Quale percepito sta influenzando? A quale concetto sta portando visibilità? Se il Make America Great Again è stato rafforzato dai meme, siamo sicuri che i loghi-meme realizzati dall’antagonismo di sinistra non finiscano per rafforzare i loghi originali? (Galluzzo 2024, 203).

Se da una parte la diffidenza porta in risalto dubbi legittimi, primo fra tutto quello del rafforzamento “dell’originale”, dall’altra il rifiuto del logo mostra oggi tutto il suo carattere intimamente reazionario e nostalgico di una purezza perduta, come intimamente reazionario (e insieme imprescindibile) era libro-manifesto di Naomi Klain pubblicato nel 2000, No logo, proprio a partire dalle sue premesse:

Il titolo No logo non va letto letteralmente come uno slogan – come No more logos! (Non più logo!) – o come un logo post-logo (esiste già una linea di abbigliamento No logo, o almeno così mi dicono). Al contrario, è il tentativo di esprimere una posizione contraria alla politica delle multinazionali, che a mio parere si sta manifestando tra molti giovani attivisti. ll cardine di questo libro è una semplice tesi: quante più persone verranno a conoscenza dei segreti della rete globale dei marchi e dei logo, tanto più la loro indignazione alimenterà il grande movimento politico che si sta formando, cioè una vasta ondata di contestazione che prenderà di mira proprio le società transnazionali, in particolare quelle con i marchi più conosciuti (Klein [1999] 2000, 19).

L’idea che la conoscenza fosse un vettore di affrancamento e indignazione, che bastasse cioè rendere nota la rete che i marchi traccia su noi per liberarcene, appare oggi terribilmente desueta: il fatto di sapere come funzionano i meccanismi di brandizzazione non ci restituisce un fuori a cui aspirare, ma semmai ci rende ancora più consapevoli del carattere irrimediabile di questa promiscuità. Poniamoci allora una domanda più interessante: e se fosse sempre stato così? Se non ci fosse un’epoca no-logo a cui ritornare, nostalgicamente? Se insomma la vita fosse da sempre implicata in una dottrina delle segnature?

Caduti nel mondo

Per Paracelso, tutto le cose sono portartici di segnature, e la dottrina delle segnature è una conseguenza del peccato, perché Adamo nell’Eden era assolutamente “non-segnato” (unbezeichnet) e tale si sarebbe mantenuto se non fosse “caduto nella natura”, che non “lascia nulla non-segnato” (Agamben 2008, 35). Proprio nell’essere implicati, de-pressi, in un certo senso caduti si gioca la questione dell’animale-umano come vivente contrassegnato (traversato dai segni), e sua volta segnatore incallito. Questa forma di consapevolezza non monda dalla caduta, e neppure deve essere più vissuta come una condanna, ma ci sfida oggi a ripensare la politica proprio a partire dall’efficacia della rete dei marchi – delle immagini che mette in movimento. Cosa differenzia le stesse frasi pronunciate da Michelle Obama e plagiate da Melania Trump se non la segnatura che le attiva, le disloca, le rende intellegibili per uno specifico contesto - un momento la convention democratica, un altro quella repubblicana? Come scrive Giorgio Agamben in Signatura Rerum, la teoria delle segnature “interviene a rettificare l’idea astratta e fallace che vi siano dei segni per così dire puri e non segnati, che il signans significhi il signatum in modo neutrale, univocamente e una volta per tutte. Il segno significa perché porta una segnatura, ma questa ne predetermina necessariamente l’interpretazione e ne distribuisce l’uso e l’efficacia” (Agamben 2008, 65-66). Come non ci sono segni assolutamente puri, così pure i messaggi politici risentono delle segnature che li attivano, e dei paesaggi immaginativi in cui si trovano ‘immischiati’. Per cui la domanda non dovrebbe soltanto essere: questi messaggi sono giusti, sono puri? Ma anche: sono efficaci? Possiedono una carica capace di scuoterci, di legarci, di vincolarci? “Non pare, insomma, che vi sia realtà alcuna che sfugga ad una riflessione sui rapporti civili in questa prospettiva: nella misura in cui gli uomini vincolano o sottostanno a vincoli o sono essi stessi vincoli o circostanze vincolanti”: così tuonava la filosofia dei vincoli di Giordano Bruno nel De Vinculis in Generale, che dovrebbe costituire oggi una specie di prontuario per la politica della contemporaneità (o quanto meno un suo cifrario).

Musk, Bowie e la magia dei segni ambigui

After further reflection I’ve come to
the realization that I’m not a Nazi.
Kanye West

5 | David Bowie nelle vesti di Thin White Duke fa il saluto romano a Victoria Station, London 1976.

6 | Bernie Sanders durante un comizio elettorale; Demna Gvasalia nel 2017 recupera il logo elettorale di Sanders per Balenciaga.

7 | Collezione Gucci disegnata da Alessandro Michele, autunno-inverno 2018/2019.

8 | Balenciaga, che altrove diventa “Balenciacab”, sotto la guida di Demna Gvasalia è stato capace di incorporare l’errore e il détournement nella propria strategia di mercato.

Fin dove dobbiamo spingere la nostra riflessione? Quando Naomi Klein scrive che aziende come Ikea “trasformano magistralmente merci anonime in prodotti di marca, soprattutto attraverso un’estetica audace e curata” (Klein [1999] 2000, 40), non sta forse ammettendo che la filosofia dei marchi è a tutti gli effetti una filosofia, una dottrina delle segnature capace di un’efficacia (e di un’audacia) che spesso è mancata alla politica, soprattutto delle recenti sinistre? Cosa ci spaventa nel dirlo? Quale paura di una contaminazione? Quale timore di riconoscere, al nemico, un’evidente superiorità delle sue armi? Trump è stato, fin dall’inizio, ridicolizzato, e la sua vittoria ipotizzata solo come uno scherzo di cattivo gusto. A ben analizzarla, però, la battaglia trumpiana di MAGA (con tutti i suoi affiliati) appare oggi come un vero e proprio titanismo dell’immaginazione, un’ipnocrazia, un eccesso che slarga continuamente la realtà portandosi a livelli di buffoneria (e insieme di brutalità) che non siamo ancora capaci di articolare. Bifo, in quel libro necessariamente feroce che è Pensare dopo Gaza, scrive che si può ridurre quel che sta accadendo oggi (dall’America di Trump e Musk fino all’Israele genocida Netanyahu) a un ritorno del fascismo storico solo “perché non abbiamo parole adeguate al nuovo stadio della brutalità” (Bifo 2025, 145). Si spiega allora perché, tanto nelle campagne politiche quanto nella lotta delle immagini il segno (il brand) dell’antifascismo è spaventosamente inefficace: esso è divenuto inadeguato poiché si colloca (in questo occidente apparentemente “riparato” da tutto) in maniera univoca, ferma, superiore, pura –senza neppure abbracciare alcuna “ora del fucile”, alcuna intifada. Tale inadeguatezza consente di essere facilmente manipolata dalle destre, e dunque resa inoperativa, proprio perché dall’altra parte i segni impiegati sono “armati” e potentemente ambigui. Elon Musk fa il saluto nazista all’insediamento di Trump: è davvero nazista? Oppure sta volutamente strappando al nazismo un gesto (una formula patetica) ancora carica di un’energia fortissima, e la sta gettando contro un pubblico pronto a reagire?

Musk tratta i gesti come segnature magiche; segnature che più ancora che veicolare un messaggio univoco, vincolano e catturano chi guarda attraverso la loro programmatica ambiguità. Il gesto così performato è capace di scuotere chiunque: dai fascisti dell’ultima ora ai nostalgici del Terzo Reich agli antifascisti solennemente incazzati, e per questo ancora più presi nel vincolo. Musk e Trump non sono semplicemente nazisti: sono maghi neri armati di formidabili segnature; segnature che hanno saputo riconoscere come ancora potenti poiché suscettibili di brucianti riattivazioni. Da questo punto di vista, la loro magia flirta con quella di un altro duca-duce buffonesco del passato, il White Duke inventato da David Bowie a metà degli anni Settanta. Colui che, ricordiamolo, osò dire che Adolf Hitler era stata la prima rockstar e che “l’Inghilterra avrebbe dei benefici da un leader fascista. Dopotutto, il fascismo è il vero nazionalismo”. Quello stesso Bowie arrestato al confine russo-polacco per possesso di cimeli nazisti, e immortalato alla Victoria Station mentre in piedi sulla sua Mercedes si esibisce in un saluto romano. Travolto dalla bufera mediatica, l’ufficio stampa dell’artista s’impegnò a rilasciare immediatamente un comunicato in cui veniva specificato che la rock-star era stata semplicemente ripresa nell’atto di salutare i fan, e che insomma il gesto era stato male interpretato. Suona familiare?

Più tardi, Bowie si scuserà, liquidando il Duca Bianco come uno dei suoi numerosi personaggi – certamente il più spregevole. Ma ciò che è interessante, della sua apologia, è l’aspetto che chiama in causa la sua vera ossessione di quel periodo: il nazismo non come fenomeno dittatoriale, ma come regime di mitologie e segni magici ancora carichi di energia: “[…] ero fuori di testa, totalmente impazzito. Ero interessato principalmente alla mitologia più che all’intera faccenda su Hitler e il totalitarismo […]”. Bowie, insomma, aveva trattato il nazismo come un brand da scucire e rimodellare per generare un immaginario capace di catturare il suo pubblico. Così, L’uomo che cadde sulla Terra aveva intuito e abitato, con decenni di anticipo, il piano ipnocratico dell’uomo che invece, dalla Terra, vuole scappare: Elon Musk.

Quello che accomuna questi superlativi manipolatori di immagini più o meno occulte è proprio la capacità di inventare il “passato”, l’originale che stanno reclamando (“Make america great again”). In realtà, questi maghi si sintonizzano con segni che hanno una carica di tensione fortissima (come il saluto romano) ma non inequivocabile, e che pertanto reagiscono al contatto con la contemporaneità in maniere imprevedibili. Le formule recuperate, i gesti strappati con luciferina abilità al passato somigliano allora a quelli che lo storico dell’arte Aby Warburg definiva dinamogrammi: elementi dell’antico lasciati “in retaggio in uno stato di tensione massima ma non polarizzata […]. È solo il contatto con la nuova epoca a produrre la polarizzazione. Questa può portare a un radicale rovesciamento (inversione) del significato che essi avevano” (Allgemeine Ideen, 1927; in Gombrich [1970] 1983, 215).

Ecco perché Musk e Trump (e con loro il capitalismo più audace) non hanno paura a vampirizzare qualsiasi territorio, mischiandosi ambiguamente con tutto il contrario di tutto – dalla nostalgia dell’Impero alla nostalgia del futuro. Mentre l’immaginario progressista di molte “sinistre” si impegna in una retorica di superiorità, di altezza, di distacco dal devasto, il trumpismo si inabissa tanto nel sordido quanto nella vertigine scintillante – nel regno del framezzo dove tutto è manipolabile, e reagisce per schianto, per contatto ‘tensivo’ con la contemporaneità. Per questo non si può licenziare quanto sta accadendo come semplice ignoranza generalizzata; Giordano Bruno metteva in guardia: “neanche i vincoli che devono irretire hanno sempre e dovunque virtù di efficacia: bensì a tempo debito e con adeguata disposizione dei destinatari”. Studiare l’efficacia delle segnature – i loghi arruolati nelle recenti campagne politiche – significa anche interrogarsi sulla disposizione dei destinatari contemporanei, e sul loro universo immaginativo. Non serve ipotizzarsi “distanti”: occorrono nuove politiche pensate come strategie capaci di infettare l’immaginazione incancrenita e senescente di questo occidente; occorre, cioè, attraversare la catastrofe senza negarla, e senza pretese di distacco, o di innocenza: inforestarsi nella “selva oscura” dei segni che ci circondano, non per arrendersi, ma per osare altre epopee dell’immaginazione nell’epoca dei maghi e dei titani della grande disfatta. Come diceva James Hillman: “la smisuratezza titanica può essere abbracciata e contenuta soltanto da una capacità altrettanto vasta di creare immagini” (Hillman [1992] 2014, 134).

In quest’ottica, tornando al discorso dei brand, forse può esserci utile proprio l’esempio della “moda”. Non si tratta di portare i politici alle sfilate (o di reclutare nelle campagne elettorali star del fashion-system, operazione che, come abbiamo visto, si è dimostrata alquanto inefficace), ma – più radicalmente – di iniziare una parte della politica stessa all’apprendistato della moda – cioè al suo linguaggio di continua mitopoiesi. La moda, proprio perché si pensa sempre in una pericolosa (e provvisoria) coincidenza tra abito e vita, è già dal principio impastata con l’impuro, con il problematico, con il mercantile che contraddistingue il paesaggio dell’animale umano; nella moda non c’è salvezza assoluta: it is about staying in the places that are haunted. Per questo molte delle riflessioni e dei rovesciamenti più audaci degli ultimi decenni provengono proprio dal lavoro di alcuni straordinari stilisti, capaci di intervenire a fondo (e di rendere virali) dibattiti che serpeggiano anche nel panorama filosofico contemporaneo: dalla decostruzione del paradigma di sovrapposizione tra “biologia” e “identità” all’elogio-istigazione del manifesto cyborg (pensiamo alla sfilata Autunno Inverno 2018/2019 di Gucci) fino alle questione del fascismo dell’originale e dell’autentico. La moda, proprio perché si situa sempre in una sfasatura del “tempo”, ci permette di traversare il presente con uno sguardo particolarmente accorto; spiega a tal proposito Agamben:

La segnatura della moda strappa gli anni (Venti, Sessanta, Ottanta,…) dalla cronologia lineare e li dispone in una relazione speciale con il gesto dello stilista, che li cita a comparire nell’ora incomputabile del presente. L’uomo alla moda, come lo storico, può leggere le segnature del tempo solo se non si situa interamente nel passato né coincide senza residui col presente, ma si tiene, per così dire, nella loro “costellazione”, cioè nel luogo stesso delle segnature (Agamben 2008, 75).

Come non notare, in questa descrizione, una specie di svelamento dei meccanismi che agitano molti degli ecosistemi tecnologici che abitiamo? Non solo il feed di IG o Tiktok, ma più generale una capacità della Rete di sottrarre dal passato qualsivoglia elemento per santificarlo e situarlo in una relazione costellazionale con il presente, in cui temporalità estremamente disomogenee si trovavano a convivere insieme – esattamente come in una sfilata. La moda ci emancipa dalla linearità del tempo e dei segni univoci, costruendo con ognuno degli elementi che tocca un rapporto spregiudicato e ambiguo. Trump e Musk, da questo punto di vista, sono politici “malvestiti” ma estremamente alla moda.

Come vedremo tra poco, la moda di lusso gioca volutamente con la sua ambiguità, riportando in superficie segni che nascono dal basso per risemantizzarli secondo le logiche dell’alta gamma, trasformando le contraffazioni in edizioni limitate, la lotta politica in trend stagionale. Balenciaga, che altrove diventa “Balenciacab”, ne è uno degli esempi più evidenti: sotto la guida di Demna Gvasalia è stato capace di evocare la sovversione estetica, di incorporare l’errore e il détournement nella propria strategia di mercato; ha saputo far emergere la retorica della ribellione dentro le sue stesse collezioni, creando un circuito in cui il plagio si trasforma in lusso e la decostruzione diventa merce. Si pensi soltanto all’operazione messa in atto nel 2017, quando Gvasalia usò nella sua collezione lo stile del logo del democratico Bernie Sanders, arrivando a vendere un paio di ciabatte a 600 dollari; si pensi anche alla borsa plagiata a Ikea, o alla sfilata Autunno Inverno 2020/2021, dove il set era un paesaggio letteralmente allagato dall’acqua del riscaldamento globale.

Ciò che emerge, quindi, dai detriti e dalle alluvioni del tempo, è uno spazio incerto in cui il segno grafico, sottratto e riconfigurato, può essere contemporaneamente strumento di protesta e merce di scambio, gesto politico e feticcio da passerella. La risignificazione della moda si gioca tutta in questa tensione: tra il desiderio di liberare il segno dalla sua “origine” e la consapevolezza che questa stessa libertà verrà probabilmente riassorbita, trasformata in stile, in consumo, in memificazione.

Così facendo, la moda (quella più interessante) ci dice che non esistono facili soluzioni all’ammacco del mondo, o aggiustamenti definitivi, ma solo spilli che reggono per un tempo provvisorio – per una stagione. La carica della moda si dà in un ricominciamento costante, in un traballamento del pensiero che non ha la monumentalità di una scienza chiamata a risolvere la storia ma che, trovandosi in essa già implicata, può illuminarla da dentro, costruendo anche spazi di distanza – di riflessione. Per questo Emanuele Coccia ha più volte ribadito che nel futuro talune sfilate o singoli capi andranno considerate come parte essenziale di quelli che siamo abituati a chiamare patrimonio filosofico: un vero e proprio pensare attraverso gli abiti. Come afferma lo stilista Alessandro Michele ne La vita delle forme, scritto proprio con Coccia: “è stata la moda a portarmi alla filosofia” (Coccia, Michele 2024, 24), e aggiunge “la moda ha questo potere di liberazione: usa forme predefinite che sembrano trasmettere messaggi precisi e le libera dalla loro univocità. Fa della possibilità la sola sostanza del mondo e dell’ambiguità la vera potenza delle cose” (Coccia, Michele 2024, 53).

La moda è pericolosamente collocata in ciò che del mondo è guasto e riottoso, nell’amalgama dei segni e degli stracci, dei loghi e delle patinature; è una filosofia che brucia, in ogni senso, e dunque è la filosofia di questo nostro – di ogni – presente: non “una camminata su una lastra di ghiaccio, ma piuttosto il tentativo di afferrare cose belle, sfavillanti e ardenti, che indubbiamente hanno scottato le dita” (Fink [1969] 2024, 98).

Fiorucci Made Me Hardcore

Immaginiamo la strategia di Fiorucci come le lettere che traversano, in una foto degli anni Ottanta, le schiene di alcune modelle: fissano per un istante il nome – il marchio – per poi prepararsi a essere scombussolate, a formare altre avventure alfabetiche.

Se esiste un marchio della moda che ha fatto della destituzione dell’originale la propria ragion d’essere, se c’è un nome che ha assunto il plagio non come accidente ma come metodologia strutturale, questo è Fiorucci: una macchina di riscrittura che può esserci ancora utile per capire come si inventa, si impone (e si comunica) il plagio come scienza rigorosissima (e rigorosamente senza nome).

Nel 1967, quando Elio Fiorucci aprì il suo primo negozio a Milano, il suo esercizio commerciale era praticamente una dichiarazione di intenti. Niente aveva a che fare con l’eleganza compassata della moda italiana, niente con il lusso talvolta museificato delle grandi maison parigine. Fiorucci era già allora un’anomalia: una cellula impazzita nel sistema, un laboratorio alchemico che mescolava alta e bassa cultura, sacro e profano, erotismo e infantilismo, street culture e avanguardia. Fiorucci non inventa: preleva, frammenta, riassembla. Svuota il concetto di autenticità per trasformarlo in superficie rifrangente. Negli anni Settanta e Ottanta, mentre molto dell’haute couture si avvitava su sé stessa nell’illusione di un’aura ancora possibile, Fiorucci operava una torsione brutale: allineava la moda alla logica del campionamento, anticipando la cultura del remix e del mash-up. Il negozio di Milano, e più ancora quello di New York, non erano semplici punti vendita, ma palinsesti viventi. L’immagine non apparteneva a nessuno, se non alla forza centrifuga che la esponeva a continue metamorfosi. Il plagio era esibito, reso manifesto, persino celebrato. Scrive Galluzzo: “mentre i progetti di corporate identity di stampo modernista si fondano sull’autorialità, sulla tutela dell’originalità e del diritto d’autore, il metodo progettuale coltivato dall’ufficio grafico Fiorucci si basa, al contrario, sulla citazione, sul riciclaggio delle fonti, sulla decontestualizzazione di elementi noti, sulla riappropriazione, sul collage, sul détournement” (Galluzzo 2024, 96).

Fiorucci cercava il cortocircuito: le immagini si contraevano, si moltiplicavano, si interferivano a vicenda. La copia non era il negativo dell’originale, ma la sua condizione di possibilità. Oggi, nel tempo del foreverismo e del vintage come linguaggio sempre prossimo-venturo, il metodo Fiorucci si impone come una specie di padre senza vincoli di paternità: l’originale è un’illusione retrospettiva – un’invenzione che arriva sempre in ritardo. Già nel 1980 Eve Babitz, la celeberrima rovistatrice dell’anima di Los Angeles, descrive la realtà italiana di Fiorucci così:

In Fiorucci non c’è nulla di veramente originale, tranne il fatto che tutto lo è. Tutto viene da qualcosa o da qualche parte, ed è così che deve essere. I Fiorucci sono drogati di informazioni. Raccolgono informazioni come gli scoiattoli raccolgono le noci, per un uso futuro. Tutto – i vestiti, la grafica, gli arredi del negozio – è derivativo. […] Il riciclo è il principio centrale del design di Fiorucci (Galluzzo 2024, 96).

Immaginiamo la strategia di Fiorucci come le lettere che traversano, in una foto degli anni Ottanta, le vesti e le schiene di alcune modelle: fissano per un istante il nome – il marchio – per poi prepararsi a essere scombussolate, a formare altre avventure alfabetiche. O ancora, pensiamo a Fiorucci Stickers, in un certo senso apice della filosofia Fiorucci. L’anno è il 1984. Di fronte a noi, più che un album di figurine pubblicato da Panini, un organismo: si sfalda, si richiude, si disperde; fucsia e giallo fluo, un bottone calamitato come unica frontiera tra il dentro e il fuori, tra l’archivio e l’anarchia. Le schede mobili non trattengono nulla, sono placche instabili, pronte a essere divelte, risemantizzate altrove. Ogni figurina è un’incursione, una fuga dal catalogo, un detrito lanciato nella circolazione selvaggia delle superfici urbane – diari, scooter, pareti domestiche, il retro di una mano. La collezione non esiste più: esistono solo le derive, le dispersioni, le mutazioni. Non è il logo a dominare, ma il rumore. Un marchio che si lascia rapinare, che rifiuta il recinto dell’identità e si consegna al plagio. Fiorucci Stickers era la prova generale di un’estetica nomade in cerca dell’infedeltà. Centocinque milioni di figurine vendute non per fissare un’immagine, ma per perderla, per renderla irreperibile. Fiorucci, insomma, anche con i suoi fallimenti, le sue derive e strambe figliazioni (lo studio Plagio, dal nome che è già un manifesto) resta oggi la prova provata di cosa è possibile fare quando si stacca e riattaca – si sfigura – l’ossessione per l’autentico, inseguendo altre vie di diffusione della cultura, dell’immaginario.

Insistendo sulle vie alternative di diffusione, che si trattengono nel logo per liquidarlo, c’è forse un ultimo esempio portato da Galluzzo che vale la pena menzionare: le pasticche di ecstasy. Il punto di partenza è racconto della rivista underground romana “Torazine”, pubblicato nel 2000 e intitolato Mitsubishi. La Mitsubishi, marchio automobilistico giapponese, si ritrova siglata in un cerchio di ecstasy. Non è più il rombo del motore, ma il tremore della mente, il logo stampato sulla pelle chimica della droga. Quel diamante geometrico, creato a fine Ottocento da Yataro Iwasaki, si condensa in un formato più piccolo, diventa territorio di esperimentazione, dove la grafica aziendale si insinua tra i confini della “subcultura”, questo virus che infetta le coscienze, che indistingue corpo e marchio, consumo e gesto. Il logo si scioglie, si assorbe nel corpo, arriva a coincidervi; accade così per moltissimi altri loghi, documentati, “archeologicamente”, da Frédéric Post nel libro Anonymous Engravings on Ecstasy Pills (Post 2009).

Oggi, in uno stadio sempre più terminale del concetto di originale, e insieme in un’epoca che fa di tutto per mantenerlo in vita, è bene ricordare che i loghi possono essere pensati proprio come sostanze da sciogliere e riannodare, come turbolenze e allucinazioni di tempi inevitabilmente out of joint. Basta una figurina, o una pasticca di ecstasy, per scombinare la storia dell’autentico – del “vero” e del “falso” (fake). Una storia, peraltro, in gran parte sconsolatamente occidentale.

L’origine inaccessibile

Shanzhai (山寨), in cinese significa letteralmente “villaggio di montagna”, il termine indicava inizialmente i rifugi nascosti tra le alture; ora il termine è passato a significare una forma di falso apertamente dichiarato: telefoni, farmaci, vestiti che esibiscono il loro carattere mutante, che taroccano l’idea di originale per approdare altrove.

 Wang Fu, Poesia d’addio a Fengcheng, 1400ca.

Nella Grecia antica, il termine adyton (τὸ ἄδυτον) designa ciò che è inaccessibile, un recinto sigillato dentro il tempio, dove il sacro si custodisce sottraendosi allo sguardo dei profani. Qui la separazione non è solo architettonica, ma ontologica: il divino si definisce nel suo essere per lo più irraggiungibile, chiuso nella profondità del santuario. L’adyton è una cesura che istituisce il confine, un vuoto che si fa principio di distinzione. Altrove, come spiega il filosofo Byung-Chul Han, questa logica si dissolve. Nel tempio buddhista non esiste chiusura, né barriera: lo spazio sacro si espande, permeabile, aperto su ogni lato. Non protegge, non esclude. Alcuni templi sono solo porte, soglie che non separano nulla, finestre senza volto. L’assenza di un adyton nel pensiero cinese traduce una visione dissigillata. Il sacro non si nasconde: circola. L’adyton, allora, non è solo un dispositivo spaziale: è il gesto di chiudere, di trattenere, di istituire l’originale come ciò che si separa; un’origine che si preserva solo negandosi, restando – eccetto per pochi – imprendibile. Così, il recinto si confonde con quanto viene protetto, e il tempio non è più un luogo, ma una condizione del pensiero occidentale. Nel pensiero cinese, invece, “non esiste un adyton”, spiega Byung-Chul Han: “nulla si separa, nulla si isola. Nulla è assoluto, cioè in sé staccato e separato. L’originale stesso è una varietà di questa separazione e chiusura. Si potrebbe anche dire che l’adyton contribuisca alla costituzione dell’originalità e dell’autenticità. Il pensiero cinese è pragmatico in un senso specifico: non traccia un’essenza o un’origine, ma piuttosto le mutevoli costellazioni delle cose (pragmata)” (Han [2016] 2017, 4, con modifiche di chi scrive). Ciò non significa che il pensare della soglia, del limes, del contorno non possegga in sé un vettore di sforamento, una forza che conduce oltre – guardiamo soltanto al discorso dell’iconostasi nella filosofia del culto ortodosso: “e allora la finestra stessa, che ci dà la luce, è la luce” (Florenskij [1922] 2021, 54); tuttavia tale divisione, poiché arruolata alla maniera di un dispositivo identitario, è divenuta nel tempo la segnatura che definisce l’origine come ciò che deve essere venerato proprio in quanto inaccessibile se non per pochi, per chi possiede la chiave, la decifratura, il dominio dell’arché (gli arconti designati per ogni epoca). 

Allo stesso tempo è importante notare, come fa Donatella di Cesare, che an-archico è il vero il punto d’insorgenza della democrazia, e insieme il suo rimosso, l’innesco inevitabilmente occultato:

Scrutata alla radice la democrazia rivela il suo vincolo indissolubile con l’anarchia. Ma certo è proprio lì, dove una parola inedita, e inaudita, si solleva per destituire il progetto di città ordinata sull’arché, che quel nesso si rivela in tutta la sua radicalità. Lo spettro dell’anarchia si aggira già nei primi documenti, nei testi di poeti e storici, filosofi e tragici. Il vincolo con l’anarchia, per quanto dissimulato, irrompe tra le righe. Ma è Platone a parlare chiaro, a denunciare quell’alleanza sovversiva: la democrazia è poikíle e ànarchos, “variopinta e anarchica” (Di Cesare 2024, 65-66; vedi anche Nanni 2024).

Derrida diceva che l’origine non fa altro scartarsi: “il punto d’origine diventa inafferrabile” (Derrida 1998, 60); questa inafferrabilità è stata per moltissimo tempo ciò con cui si è determinata l’identità dell’Occidente, il motore di una dislocazione vissuta con dolore, nostalgia e conflitto. “Il pensiero dell’identità è prima di tutto un pensiero del limite” commenta Monica Centanni ne L’originale assente; figure di questo limite, oltre al tempio, “sono le mura della polis greca, che ne ritagliano geometricamente la forma rispetto a ciò che sta fuori; così come il limes che segna i confini del territorio dell’Impero romano e che spesso si materializza nell’architettura del vallum, al punto che in latino la denominazione di un territorio coincide con il nome dei confini: fines” (Centanni 2005, 21). Così, l’identità occidentale prosegue a definirsi attraverso ciò che esclude, il nemico, e ciò che occulta e che perde, pur continuando ad affermarla nostalgicamente: l’origine. Così Centanni:

L’Occidente è lo scenario di una decisione e di una perdita: è l’inquietudine rappresentata da Eschilo con la figura di Ellade che recide in un moto di ribellione il nodo del giogo che la serrava all’origine. Quel taglio, quella decisione, è irrevocabile: dal movimento teoretico dello strappo […] nasce l’Occidente come irreversibile tramonto dell’idea di origine. Ma resta la nostalgia di un’autenticità fondata: una sofferenza per difetto di garanzia che provoca l’Occidente a pensarsi, storicamente e poeticamente, come dimensione dell’invenzione politica e artistica. […] Occidente è definizione dell’orizzonte, del limite, della dislocazione. […] La forza ermeneutica dell’idea di limite si fonda sul rapporto con chi, da quel limite, si trova per qualche ragione escluso: un rapporto che spesso, tende a risolversi nella forma del conflitto (Centanni 2005, 20).

Quanto viene reciso, o reso inaccessibile, continua ad appartenerci, e quanto viene escluso continua a definirci. Per questo nemico è sempre anche mio fratello; per questo ogni guerra con lo straniero si rivela, inevitabilmente, una guerra contro noi stessi – una lotta fratricida: nel pensiero classico “la guerra contro il nemico, tende sempre a rivelarsi come una forma di stasis, guerra interna, civile” (Centanni 2005, 20). Ciò che oggi si cela, dietro il culto dell’originale, del naturale, dell’autentico (nella razza, nella famiglia, nella cultura) è allora l’incapacità di venire a patti con una modalità di iniziazione al mondo che non passi per questo conflitto – ma che al contrario lo disinneschi.

Byung-Chul Han, invece, fa partire il proprio discorso sulla decostruzione dell’originale in Cina da un’altra parola-chiave: Shanzhai (山寨). Letteralmente “villaggio di montagna”, il termine indicava inizialmente i rifugi nascosti tra le alture, luoghi fuori dal controllo imperiale, dove il potere si disperdeva; durante la dinastia Song (960–1279), shanzhai divenne sinonimo di comunità di banditi che sfuggivano alle autorità corrotte per condurre imprese che ritenevano giuste: un’arte della variazione che erodeva il confine tra lecito e illecito. Il termine si radicò nell’immaginario cinese anche attraverso I briganti, uno dei grandi classici della letteratura cinese, opera senza autore certo (e dalle innumerevoli versioni) dove un gruppo di ribelli si oppone al dominio imperiale, trasformando la clandestinità in un codice alternativo di esistenza. I fuorilegge di Liangshan non si limitano a fuggire: si giurano fratellanza, reinventano la giustizia, creano un ordine proprio. Anche qui l’identità sembrerebbe definirsi rispetto a un limite, se non fosse che nel termine shanzhai oggi è in gioco, più che il carattere oppositivo, quello della reinvenzione continua dell’ordine; shanzhai è infatti passato a significare una forma di falso – di fake – apertamente dichiarato, con nessuna nostalgia dell’originale: telefoni, farmaci, vestiti che esibiscono il loro carattere mutante, che taroccano l’idea di originale per approdare altrove. Ciò che importa, per Byung-Chul Han, è proprio l’aspetto creativo: la gioiosa proliferazione del falso come forma di pensiero generativo, mischiato con la paccottiglia del mondo. Un iPhone shanzhai può avere tre SIM, un’interfaccia mai concepita da Apple: non c’è inganno, marchio da custodire o rivendicare. Il logo si svuota, ritorna, deformato e aberrante ma socialmente accettato; nulla è definitivo. La fortezza di montagna continua a sparire nella nebbia.

Questo pensiero del falso non ha però a che fare soltanto con la merce della contemporaneità, con cellulari e scarpe taroccate. “Un capolavoro cinese non rimane mai uguale a se stesso” scrive Byung-Chul Han; “esso viene regolarmente riscritto da intenditori e collezionisti, che vi si iscrivono attraverso iscrizioni e sigilli. […] Più un’opera è famosa, più iscrizioni reca. Si presenta come un palinsesto. Non solo le singole opere, ma l’intero corpus di un artista è soggetto a trasformazione” (Han [2016] 2017, 13,con modifiche di chi scrive). Per questo se un falsario prende in prestito un dipinto e restituisce una copia perfetta e nessuno se ne accorge, non c’è inganno. Nell’antica Cina, questo non era un furto: l’arte appartiene a chi sa riconoscerla, non a chi la possiede. Più ancora radicalmente, il falso contribuisce alla creazione di un corpus, e anzi ne è parte essenziale. A tal proposito, nel suo saggio Byung-Chul Han riporta l’esempio del famoso maestro Dong Yuan; il corpus delle sue opere:

Appare diverso durante la dinastia Ming rispetto alla dinastia Song; persino le falsificazioni o le repliche contribuiscono a definirne l’immagine. Si verifica un’inversione temporale: il successivo o il retrospettivo definisce l’origine. […] L’opera è una vasta lacuna, un cantiere sempre in costruzione, che si riempie continuamente di nuovi contenuti e nuove immagini. Si potrebbe anche dire: più grande è un maestro, più vuoto è il suo corpus. Egli è un significante senza identità, che viene costantemente caricato di nuovi significati. L’origine si rivela essere una costruzione retrospettiva (Han [2016] 2017, 13, con modifiche di chi scrive).

Allo stesso modo, i sigilli cinesi, che hanno una storia millenaria, non hanno il compito di sigillare l’origine, ma di complicarla. Non garantiscono l’inalterabilità di un “capolavoro”, né lo strappano alla deriva del tempo; non recano con sé il gesto irrevocabile della firma europea, il suggello che chiude e convalida l’opera nella sua solitudine autoriale; non sempre attestano, e anche quando autenticano, lo fanno molte volte sovracifrando, accumulando segni, giudizi, differenti visitazioni. I sigilli inscrivono la traccia di un passaggio – di un collezionista, di un intenditore, o più semplicemente di qualcuno che si congeda indugiando, per lo spazio di un segno, nell’opera, lasciandovi un messaggio d’addio, come nel caso di Poesia d’addio a Fengcheng. Dipinto da Wang Fu (1362-1416) in forma di dono per un collega al servizio dell’Accademia Imperiale Hanlin (che si preparava a tornare a casa con onori), l’immagine mostra tre figure, raccolte attorno un tavolo custodito da un padiglione quasi nascosto. È un banchetto d’addio, consumato vicino a una sponda dove solitaria galleggia una barca, già pronta al viaggio; l’ampio spazio nella parte superiore del dipinto, appena sopra le montagne, è riempito da sigilli e messaggi di saluto, e la coreografia verticale dell’opera lascia piombare questi segni dal cielo come fossero specie di lacrime.

Nessuna passione triste per l’originale: Byung-Chul Han ritorna spesso a marcare questa distanza, scindendo la prospettiva cinese da un culto dell’irriproducibile che collima invece in Occidente con l’idea del genio “naturale”, e che trova un primo, decisivo punto di irruzione attraverso il pensiero di quello che poi sarà considerato il genio par excellence: Leonardo da Vinci. A proposito della nobiltà della pittura, da Vinci si esprime in questi termini in un frammento del suo Trattato – frammento intitolato Delle scienze imitabili, e come la pittura è inimitabile, però è scienza:

La pittura […] non s’insegna a chi natura nol concede, come fan le matematiche, delle quali tanto ne piglia il discepolo, quanto il maestro gliene legge. Questa non si copia, come si fa le lettere, che tanto vale la copia quanto l’origine. Questa non s’impronta, come si fa la scultura, della quale tal è la impressa qual è l’origine in quanto alla virtú dell’opera. Questa non fa infiniti figliuoli come fa i libri stampati; questa sola si resta nobile, questa sola onora il suo autore, e resta preziosa e unica, e non partorisce mai figliuoli eguali a sé (Trattato della pittura, I, 4).

Per da Vinci la pittura è nobile perché inimitabile, a differenza della stampa: ciò che figlia le proprie copie distrugge inesorabilmente la propria aura (e s’intravede qui la genealogia di una pruderia che arriva a toccare pure il Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, testo diventato a sua volta un marchio onnicitato). Questa idea di genio assolutamente inimitabile sostituirà progressivamente tanto l’autonomia del saccheggio fieramente dichiarato quanto la maestria dell’imitazione, che pure aveva contraddistinto il talento di una moltitudine di artisti-falsari, capaci nel Rinascimento di produrre “falsi di capolavori che idealmente erano indistinguibili dagli originali. Se un falsario dipingeva come un maestro, allora era veramente un maestro e non un falsario” (Han [2016] 2017, 29, con modifiche di chi scrive).

Se l’origine ha rappresentato in maniera occulta un cruccio costante, l’imitazione invece non è stata, per grande parte della storia occidentale, una pratica da condannare (eccetto per alcuni filosofi): il mondo delle copie garantiva la trasmissione dei saperi, ed è soltanto con il passaggio dal Rinascimento all’età moderna, e con l’emergere della società libresca e dell’idea di Autore (meglio ancora se “geniale”) che si avvia quel processo ambivalente in cui la diffusione sempre maggiore delle opere deve essere tutelata, e la tutela (dallo Statuto di Anna in poi) diventa pratica fissatrice delle identità e dei confini. Un’opera esiste solo se è catturata dal diritto.

Il filosofo, il califfo, il mercante (e il diritto d’autore)

È sempre interessante imbattersi in testi del passato che tracciano in qualche modo il paesaggio del dibattito contemporaneo. La polemica letteraria tra Johann Reimarus e Johann Gottlieb Fichte è in questo senso particolarmente esplicativa, e attraversa una diatriba a noi oggi piuttosto familiare, che infiammava già da decenni l’ambiente illuminista: la questione della ristampa “illegittima” dei libri. Per rispondere a Reimarus, che ne L’editoria nuovamente ponderata rispetto agli scrittori, gli editori e il pubblico aveva rivendicato la libera circolazione dei testi a favore del benessere comunitario, nel 1793 Johann Gottlieb Fichte pubblica, sulla “Berlinische Monatschrift”, un articolo dal titolo Prova dell’illegittimità della ristampa dei libri. Un ragionamento e una parabola. Come spiega Maria Chiara Pievatolo, ristampa “traduce letteralmente l’espressione tedesca Nachdruck: ci si chiedeva se fosse lecito che un libraio-stampatore-editore usasse i suoi torchi allo scopo di ristampare un libro già uscito per i tipi di un altro” (in Di Corinto 2006, 71). In questo articolo polemico di Fichte troviamo una sorta di sintesi perfetta tra il misticismo dell’autore e la supposta (e incontestabile) naturalità del diritto; sintesi che merita di essere attraversata in maniera approfondita perché, a distanza di secoli, vi siamo ancora in qualche modo invischiati. Leggiamo in Fichte:

Finora gli scrittori non se la sono avuta a male se noi usiamo i loro scritti, li diffondiamo ad altri per il loro uso, istituiamno con essi biblioteche di prestito, nonostante che vada manifestamente a loro danno (qui, infatti, li consideriamo pur sempre come venditori); e se li vogliamo stracciare o bruciare, questo offende un essere ragionevole solo quando ciò avviene verosimilmente nell’intento di mostrargli disprezzo. Finora ci hanno dunque generalmente concesso la piena proprietà dell’aspetto fisico dei loro scritti. Né tanto meno si sono offesi quando, nelle opere scientifiche, si sono fatti propri i loro princìpi, li si è presentati da svariati punti di vista e li si è applicati a oggetti svariati; o in opere secondo il loro stile si è imitata la loro maniera, che è qualcosa di interamente diverso dalla loro forma. Così hanno ammesso che la proprietà dei pensieri può trasferirsi ad altri (Fichte [1793] 2012).

L’immoralità, per Fiche, non dipende dalla circostanza, dal motivo che spinge al plagio o alla trascrizione; in questo il suo giudizio è granitico: “che questo qualcosa di immorale […] non consista affatto nella circostanza che, con la vendita di una cosa che l’acquirente già possiede, lo deruba del suo denaro, si mostra dal fatto che la nostra cattiva opinione di lui non viene minimamente attenuata se egli ha trascritto un libro rarissimo rinvenibile, forse, solo in grandi biblioteche” (Fichte [1793] 2012). Colui che si macchia di questa infamia non può essere in alcun modo giustificato, neppure se la sua azione (come nel caso di un testo introvabile) è mirata a favorire la comunità; non si tratta neppure di valutare il peso dei danni; anzi: ammesso pure che la maggiore diffusione rechi vantaggio alla gloria dell’autore (che gli giovi essere ampliamente ristampato), il punto per Fichte resta interamente altro:

La questione non è quella dei danni che il ristampatore infligge allo scrittore immediatamente o mediatamente, nella persona del suo mandatario. Si può mostrare quanto ci pare che dalla ristampa non deriva uno svantaggio né per lo scrittore né per l’editore, che è anzi un vantaggio per lo scrittore essere molto ristampato, che la sua gloria si diffonderà così per tutti gli stati della Germania, dalla città depositaria dell’erudizione fino al più lontano paesino di provincia e dallo studio del dotto fino alle officine dell’artigiano. In questo modo diventa diritto ciò che non lo è? Si può fare del bene a qualcuno contro il suo diritto e la sua volontà? Ciascuno ha la facoltà perfetta di non rinunciare al suo diritto, sia pure dannoso quanto si vuole. Quando si avrà un sentimento per la sublime idea del diritto, senza riguardo all’utile? Si è inoltre notato che il diritto dello scrittore leso dal ristampatore non si fonda su un presunto contratto dell’autore con il pubblico e su una sua riserva mentale gesuitica, come crede il signor Reimarus, ma è un diritto di proprietà naturale, innato, inalienabile (Fichte [1793] 2012).

Naturale, innato, inalienabile. Così, ancora una volta il diritto istituisce la stessa idea di natura che si propone di proteggere, esattamente come il diritto d’autore fonda l’autore “catturandolo” in esso – per il suo bene, che lo voglia o no. L’utile, il comunitario, il “bene comune” passa in secondo piano rispetto a questa sublime idea del diritto. E tale diritto, spaventosamente, torna indietro per investire il passato, per infestarlo. Secondo Fichte, ciò che oggi è diritto lo è sempre:

Se gli scrittori antichi non hanno pensato al possibile usufrutto della loro paternità o, non desiderandolo, hanno lasciato la copia dei loro libri libera a discrezione di chiunque e le hanno dato il loro assenso col loro silenzio, essi continuano ad avere – come tutti – il più perfetto diritto di rinunciare al proprio diritto; ma, se avessero voluto, avrebbero potuto far valere la loro paternità esattamente come la nostra: ciò che oggi è diritto lo è sempre (Fichte [1793] 2012).

Finche vuole estendere la proprietà al carattere “spirituale” dell’opera, che egli eleva al di sopra di quello fisico. Nota a riguardo Pievatolo che “l’argomento di Fichte prelude all’estetica romantica del genio creatore. L’individuo secerne un testo che – per la sua forma o formulazione – può aver scritto soltanto lui” (Di Corinto 2006, 74).

Che tale interesse per la disciplinazione del carattere “spirituale” tradisca una concezione della società totalmente repressiva lo dimostra la (per molti versi terrificante) parabola finale che sigilla il ragionamento di Fichte. In questa parabola si racconta che nella città del califfo Harun al-Rashid un uomo distilla un farmaco capace – a detta di molti – di vincere la morte. Egli non si cura della vendita: la affida a un mercante che ne detiene l’esclusiva e ne trae grande profitto. Ma un altro commerciante sceglie una via diversa: ruba il rimedio, lo vende a basso prezzo e ne diffonde il nome. La sua impresa prospera, ma la fortuna lo tradisce: catturato, viene condotto davanti al califfo. “Qui il mercante di medicine presentò la sua accusa, che suonava abbastanza simile a quella dei nostri librai contro i ristampatori” scrive Fichte, rimarcando il suo punto. Messo alle strette, il ladro non nega però il furto: lo giustifica. Il bene pubblico, sostiene, è misura ultima dell’agire. Il suo commercio ha reso la cura accessibile, ha salvato vite, ha garantito la diffusione del farmaco ben più dell’intermediario legittimo e ha giovato immensamente alla nomea dell’inventore: “e la sua gloria non si diffonderà nei villaggi più lontani? Il suo nome a lettere grandi e dorate non sta su tutte le mie scatole e i miei vasi? […] Egli preferisce vivere di onore!” (Fichte [1793] 2012). Quanto al mercante, la sua pretesa di rivendicazione è illusoria: egli ha goduto del privilegio dell’esclusiva, e ora deve accettare il rovesciamento della sorte. Il furto non è un crimine, ma una redistribuzione inevitabile – tanto più che questa redistribuzione rende la medicina “originale” venduta dal mercante qualcosa di unico, e quindi di più ricercato. Chiede il “ladro”, in un’invettiva straordinariamente consonante con il dibattito contemporaneo: “perché non mi si vuole permettere una piccola spigolatura? Non c’è ancora abbastanza gente ora che preferisce comprare la sua merce costosa piuttosto che la mia a buon mercato, o per amore del presunto maggior beneficio della sua medicina, che pure può essere di poco conto, o per un bizzarro pregiudizio sul possesso legittimo e una presunta partecipazione alla ruberia altrui – come se anch’io, se proprio si vuol parlare di legittimità, non avessi ottenuto la proprietà legittima della sua merce essendomi dato la pena di rubarla?” (Fichte [1793] 2012).

Così si esprime quello che Fichte definisce il ciarlatano. E qual è la risposta del califfo? Egli ordina di impiccare l’uomo, negando tutte le sue argomentazioni. Finisce in questo modo la funesta parabola invocata dal filosofo illuminista, lasciando intravedere tutto il carattere repressivo del suo ragionamento, ma anche evidenziando un’idea di diritto che, in nome della sua naturalità, istituisce la realtà, reprimendo le contingenze che ritiene inappropriate, dissuadendo e criminalizzando (come oggi vorrebbero fare altri despoti) la libera circolazione delle opere in favore di un’originalità dell’Autore e di un’identità chiara – a prescindere da cosa gli autori vogliano davvero. Eppure, il dibattito sul copyright che attraversa la nostra epoca di saccheggi pirateschi, loghi taroccati e IA generative ci ricorda che è sempre più difficile mantenere questa identità chiara, e che forse una prospettiva feconda sulla questione (per quanto aberrante) non proviene più dalla storia del diritto d’autore, ma da uno sguardo al Medioevo, e ai suoi (grandi) magazzini criminali. Magazzini Criminali si chiama anche una compagnia teatrale nata a Firenze, che del saccheggio post-moderno fu una delle più radicali (e sfavillanti) testimonianze della postavanguardia italiana.

Medioevo: officine di falsi…

Non c’è grande questione del Medio Evo, alla
quale non si connetta una falsificazione.
Augusto Gaudenzi

Anonimo Bizantino, Lascito di Costantino, Oratorio di San Silvestro, Roma, XIII sec..

Nessuna epoca – se non forse la “nostra” – è stata così traboccante di falsi come quella medievale, nella sua lunghissima, multiforme estensione. “‘Età dei falsi’, ‘paradiso dei falsi’, ‘medioevo falsario’, queste e altre simili espressioni si affermano incontrastate nella storiografia europea dal Rinascimento ai nostri giorni” scrive Paolo Preto in Falsi e falsari nella Storia, recuperando il giudizio di un altro illuminista italiano, Ludovico Antonio Muratori, grande studioso della vita medievale: 

Nessuna età e disciplina, certo, è immune dagli “impostori”, sostiene Muratori, ma quest’epoca, vittima dell’“ignorantia literarum et imperitia criticae artis” nonché di guerre ed invasioni distruttrici di documenti, è il regno incontrastato dei falsari. […] Le leggi contro i falsari, pur esistenti, sono come le tele del ragno che catturano le mosche e le zanzare ma sono lacerate dagli uccelli rapaci, cioè puniscono i “minores” e salvano i “maiores” (Preto 2020, 39).

Nel Medioevo tutto si tarocca, si plagia indistintamente, si sfalda in miriade di copie e contraffazioni; la falsificazione è una prassi che attraversa indistintamente ogni ambito della vita e della produzione documentaria. Dalle bolle papali ai diplomi imperiali e regi, dalle leggi ai trattati teologici e liturgici alle carte geografiche, fino alle lettere, alle opere letterarie e agli atti di monasteri, vescovati e concili, nulla sfugge alla possibilità dell’alterazione; neppure i testamenti, le indulgenze, i miracoli, le iscrizioni, i sigilli, le opere d’arte, le monete e le merci, così come le cronache, sono immuni da interpolazioni, contraffazioni, riscritture strategiche. L’autenticità, in questo contesto, non è un dato oggettivo né un valore intrinseco, ma una condizione imposta dal riconoscimento di un’autorità. Essa non preesiste alla legittimazione; si produce piuttosto attraverso di essa: un documento è considerato autentico, spiega Preto, se è auctoritate plenus, ossia garantito da un potere superiore, sia esso religioso – le Sacre Scritture, i Padri della Chiesa, il papa, i vescovi, i concili – o laico, incarnato cioè nella figura dell’imperatore, del re o di un’istituzione pubblica. L’alterazione, quindi, non costituisce necessariamente un atto di falsificazione in senso moderno, quanto piuttosto una ridefinizione della verità documentaria secondo le esigenze di chi ne stabilisce l’autorità; “discriminante è la falsa significatio, l’intenzione dolosa e truffaldina di modificarne il contenuto; falso è contrario a vero, non necessariamente ad autentico o genuino” (Preto 2020, 41).

Questa ambiguità rende la nozione di “falso” estremamente articolata. Più che una semplice contraffazione, il falso può costituire una riscrittura strategica della realtà, funzionale a esigenze politiche, economiche o religiose; esso si sfalda in una vertigine di definizioni, infettando ogni ambito dell’esistenza, con una particolare preminenza, come abbiamo visto, per quello documentario. Tale vertigine è evidenziata dalla classificazione per i documenti privati medievali proposta da Ettore Cau e richiamata da Preto; è facile perdersi in questa epopea del fraudolento:

Ci sono i falsi in forma di originale, quelli in forma di originale e copia autentica genuina del medesimo, in forma di copia autentica con intervento fraudolento del notaio autenticatore, in forma di copia semplice imitativa e autentica falsa dei medesimi; c’è il notaio in buona fede, che autentica la copia di un documento falso e quello “falsario” che costruisce il falso, in forma di originale o di copia falsificata e infine il “falsario” che crea copie autentiche false attribuite a notai defunti o inventati; un caso particolare è il falso per retrodatazione: il documento è autentico nel contenuto ma alterato nella data, per rivendicare priorità di diritti, esenzioni, privilegi (Preto 2020, 41).

I monasteri, che molto condizionarono l’immaginario che abbiamo oggi del Medioevo, non furono immuni da questa “infezione”; anzi: in questa gigantesca storia del falso, che si dipana per secoli, sono proprio i monasteri ad avere un ruolo preminente. Essi non furono solo luoghi di preghiera, ma anche centri promotori di articolate contraffazioni – vere e proprie “officine di falsi”; non esageriamo a dire che ogni grande cenobio d’Europa conserva nei suoi archivi documenti manipolati, contraffatti o del tutto inventati: in alcuni scriptoria la falsificazione divenne una pratica sistematica, condotta con metodo e continuità nei secoli, sia per rafforzare i propri diritti sia per favorire altre istituzioni ecclesiastiche. Ma come possiamo spiegare, si domanda Preto, il fatto che furono soprattutto uomini di Chiesa, e in particolare i monaci, a produrre una quantità enorme di falsi, molti dei quali ancora conservati negli archivi europei? Come si conciliava la condanna cristiana della menzogna, della frode, del falso volontario con una pratica così diffusa e radicata? Che tipo di reazioni fomentò? Quali pene, quali sgomenti?

È qui – nel terreno ancora di questa interrogazione – che vediamo emergere una distinzione fondamentale tra crimen falsi (da condannare nettamente) e pia fraus (o falsa pietas), un’espressione che proviene dalle Metamorfosi di Ovidio e che sta a intendere l’azione fraudolenta compiuta però con un giusto fine, per esempio da un religioso. Di che parliamo? “L’esaltazione di un santo, la prova dell’ortodossia di opinioni teologiche, la difesa o ampliamento del prestigio e dei possessi temporali di un monastero o altra istituzione ecclesiastica” (Preto 2020). La produzione di atti apocrifi risponde cioè a precise logiche di potere e si configura come una pratica strategica volta a garantire, ampliare o consolidare diritti e privilegi. Il falso può servire a colmare la perdita di documenti autentici – distrutti da incendi, guerre, smarrimenti – oppure a costruire ex novo attestati giuridici che giustifichino condizioni ritenute verosimili. Non si tratta solo di una forma di frode, ma di un mezzo di legittimazione, un dispositivo attraverso cui le istituzioni, in particolare quelle monastiche, affermano la propria autorità nel confronto con rivali e avversari. All’interno di questa dinamica, la falsificazione agisce sia come strumento difensivo sia come arma di supremazia e riscrittura “dell’origine”; retrodatare la propria fondazione, innestarla nell’albero genealogico del potere – un imperatore, un re, un patrono illustre – significa tessere una continuità ininterrotta tra il monastero e la sua auctoritas, fare della menzogna un fondamento praticamente inattaccabile. L’atto falso stabilisce, corregge, amplia: sigilla donazioni, particolarmente quelle di sovrani di alto profilo, istituisce diritti di proprietà, li sottrae all’incertezza delle contese, li protegge da usurpazioni. È arma giuridica e amministrativa, perimetrante e vincolante, che circoscrive i confini, fissa le decime, determina il diritto esclusivo a “pesca, guado, pascolo, macina, pedaggio” (Preto 2020, 45); revoca assoggettamenti, stabilisce esenzioni: sottrae il monastero all’autorità del vescovo, del feudatario, del balivo, facendo della scrittura il luogo di una sovranità inaccessibile. E ancora, il falso interviene sulla gerarchia interna, garantisce la libera elezione dell’abate, aggira interferenze esterne, conferisce alla comunità il diritto di autogovernarsi, di darsi la propria regola. La falsificazione è qui un gesto fondativo: disegno di un ordine in cui la scrittura non si limita a registrare la realtà, ma la determina, la impone, la invera. Parallelamente, la costruzione del falso si estende alla sfera spirituale e simbolica: le agiografie di monaci, la narrazione di miracoli, l’invenzione di reliquie e indulgenze concorrono a consolidare la legittimazione religiosa dell’istituto monastico.

La falsificazione è dunque una pratica sistematica, radicata nella cultura del tempo, in cui la scrittura modella attivamente la realtà secondo necessità ritenute giuste e pie; il problema del falso dipende esclusivamente dai suoi scopi: “folle di monaci e religiosi” riempirono “l’Europa di piae fraudes, senza pentimenti, anzi nella serena coscienza di compiere un’azione giusta e doverosa, a maggior utile e gloria del loro ordine, monastero, istituto. La pia fraus non è, salvo qualche rara eccezione, un problema per gli uomini del Medioevo” (Preto 2020). Non suonerà allora strano, alla luce di quanto abbiamo osservato lungo tutto questo saggio, che “la condanna senza appello dei falsi medievali” arrivi soltanto “all’alba dell’età moderna: artefici primi ne sono gli umanisti (peraltro a loro volta fecondi produttori di falsi) e Lutero che getta al rogo il Decretum; dal Cinquecento al Novecento univoca e aspra è la denuncia, da parte dei teologi e storici riformati, e, sulla loro scia, di intellettuali laici e anticlericali di ogni nazione, dei falsi della Chiesa medievale” (Preto 2020, 43).

Se questa tarda condanna continua a risuonare nel nostro secolo, pure non possiamo considerarci scampati dal pericolo; al contrario, molteplici sono le forze che agiscono quotidianamente per erodere l’autonomia dell’autentico, e l’incessante produzione di falsi in ogni ambito della vita – dalla politica alla letteratura, dalle guerre all’architettura stessa della realtà – ci apparenta al “Medioevo dei falsari” molto più di questo siamo disposti ad ammettere.

…e magazzini criminali

“Sopravvivenza”, “tradizione”, “influsso”,
“imitazione”, “deduzione”, “derivazione”, 
“assimilazione”, e così via.

Salvatore Settis

Anonimo Francese, Creature dell’oltretomba che battono i dannati, “L’Apocalisse di Cambrai”, Ms. 422, Bibliothèque Municipale de Cambrai, Cambrai.

Continuità, distanza, conoscenza sono tre le tre categorie che Salvatore Settis, in Continuità dell’antico, delinea alla maniera di un vademecum per avvicinarsi alla questione, sempre radioattiva, di come le tracce del passato si trasmettono, migrando di epoca in epoca, ricombinandosi, apparendo e sparendo in forme molteplici. Tre atteggiamenti che caratterizzano progressivamente il passaggio dal primo Medioevo alla modernità, fermo restando che tali distinzioni sono sommarie, e che la compresenza di tensioni non è l’accidente ma la costante di ogni epoca: l’uso dell’antico, fuori da ogni vocazione univoca, si dà in un orizzonte pericolante, ambiguo, provvisorio, in cui conservazione e frantumo, eredità e rinnegamento attraversano polarità irrimediabilmente oscillatorie: 

In ogni età (anche nella nostra) la distruzione e/o dispersione di monumenti e di opere d’arte antiche – che di per sé suggeriscono, piuttosto, fratture e discontinuità – sempre convissero con la conservazione e l’attenzione per le antichità: gli stessi marmi furono, nello stesso periodo, ridotti a calce e frantumati, ma anche esaltati come mirabilia Urbis. La coesistenza di diversi, se non opposti, usi dell’Antico è precisamente, allora come ora, il fatto storico con cui misurarsi; e l’incessante presenza fisica è per gli uni e per gli altri lo sfondo comune […] (Settis 1994).

La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, che nell’immaginario comune certifica una cesura e spalanca una lunga epoca di barbarie, in realtà non possiede la forma di questa netta stroncatura. Continuità nell’Alto Medioevo significa che le rovine pagane non arretrano: ingombrano, pesano, dominano il paesaggio. L’antico si frantuma per rifarsi. Colonne crollate sorreggono basiliche, marmi scolpiti migrano in nuove facciate, iscrizioni si sovrascrivono, stratificano una complessità in cui resto è proprio ciò che non cessa mai di restare. Riuso, adattamento, innesto: l’antico incombe, impone, si lascia tradire ma mai dimenticare; “la presenza fisica dell’antico vale, nel Medioevo, come inesauribile deposito di memoria e di forme, serbatoio e paradigma” spiega Settis, e Monica Centanni commenta così:

Nella ‘continuità’ possiamo riconoscere l’atteggiamento medievale verso il passato – considerato come un “magazzino sotto casa” di pezzi disponibili da riutilizzare senza peso di scrupoli, per famigliarità e per senso indiscusso di proprietà ereditaria: con affetto ma senza rispetto; un passato infectum, continuato fino all’oggi in un’epoca unica e continuata, senza strappi e senza discontinuità (Centanni 2013, 8). 

La continuità è infetta: contagia la fragile bordatura delle cose, mischia e saccheggia senza scrupolo, per cui le rovine costituiscono tanto l’immagine del crollo del paganesimo quanto il suo magazzino ancora rifornito e strabordante, da trasformare in un vero e proprio repertorio. Magazzini criminali, appunto, in cui frullano in maniera turbolenta le questioni del naturale, dell’artificio, del meraviglioso e del mostruoso; esempio supremo per Settis è l’architettura sacra, dove “i frammenti antichi” sono “esibiti e mescolati insieme con curiosità naturali come corna di unicorno, meteoriti, uova di struzzo: la chiesa è dunque il luogo che raccoglie, offrendoli al fedele come altrettanti exempla, i mirabilia, naturali e artificiali” (Settis 1994).

Le cose convivono, si metamorfizzano, conoscono nuove vite; il Medioevo vive dunque la sua continuità in un “tempo unico non storicizzato” (Centanni 2013, 9). Questa adesione senza scrupoli non ha bisogno di reclamare l’antico poiché vi è ancora mischiata; al contrario, tanto più una tradizione ha bisogno di rivendicare la propria appartenenza all’antico (la propria autenticità), tanto più essa si scopre inventata, manifestando una rottura insanabile con quel passato che non ha più nulla di vivente. Lo spiegano Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger ne L’invenzione della tradizione:

Questa rottura risulta evidente anche nei movimenti volutamente e esplicitamente “tradizionalisti”, che si rivolgevano a gruppi unanimemente considerati come depositari della continuità e della tradizione storica. E anzi, proprio la comparsa di movimenti che si propongono la tutela o la rinascita delle tradizioni, “tradizionalisti” o meno che siano, costituisce un indice della rottura. Movimenti di questa fatta, comuni tra gli intellettuali a partire dal Romanticismo, non saranno mai in grado di ricreare, e nemmeno di tutelare un passato vivente (se non forse costruendo isolati angoli di vita arcaica in lontani santuari naturali), e divengono inevitabilmente “tradizione inventata”. […] Laddove i vecchi modi sono ancora vitali, non occorre né recuperare, né inventare le tradizioni (Hobsbawm, Ranger [1983] [1987] 2002, 10).

L’imparentamento con il passato, quando passa per la reclamazione identitaria, per il diritto del sangue e della terra, rende la continuità un’ulteriore forma di tossicità (che oggi, nell’epoca di MAGA, ci troviamo a scontare con particolare ferocia). Più interessante, invece, è il rapporto con il passato vissuto nel segno della distanza; nel Rinascimento, il mondo antico cessa di essere percepito come una riserva inesauribile di materiali immediatamente utilizzabili e diviene invece un universo compiuto, regolato da principi interni autonomi, che richiedono uno sforzo di comprensione, interpretazione e, talvolta, di ricostruzione. Non si tratta più di un semplice “magazzino” da cui attingere secondo il bisogno, ma di una realtà storica e culturale da indagare nella sua interezza, con un approccio sistematico destinato a divenire filologico: “dall’indefinita contiguità di un serbatoio di molteplici modelli, equivalenti ed equidistanti, si vien formando l’idea che si possa distillare un superiore e compatto codice di norme che servano di esempio su cui modellare le pratiche presenti e future” (Settis 1994). Questo mutamento inaugura un nuovo metodo di studio, basato sulla consapevolezza della storicità dei testi e delle opere; l’umanesimo rinascimentale si fonda proprio su questa rinnovata percezione dell’antichità come un’entità strutturata e coerente, la cui conoscenza non può più essere soltanto frammentaria o occasionale, ma deve costituirsi come il risultato di un’indagine rigorosa, volta a restituirne l’organicità e il senso profondo. Un senso, però, che nell’essere indagato e ricostruito viene anche, inevitabilmente, costruito – per combinazione, per devozione, per necessità specifica (si pensi all’invenzione del Laocoonte di cui parla Warburg: vedi Centanni 2003), approdando nuovamente nel territorio incerto del “falso”. Scrive Settis:

Antichità-vetustas è concepita come un intero perduto, ma ricostruibile, nel quale ogni frammento, ogni monumento può e deve essere ricollocato. L’auctoritas orienta il riuso (in re, in se) in base al principio dell’accessibilità dei frammenti e della persistenza delle pratiche; la vetustas, al contrario, orienta il riuso in base al principio del giudizio selettivo sui monumenti e a corrispondenti opzioni normative. S’innesca così un processo di “vedere ricostruendo” che conduce, per due strade che solo lentamente si verranno distinguendo l’una dall’altra, da un lato alle procedure del congetturare filologico per combinazione di testimonia testuali e visivi; e dall’altro alle audacie del reinventare, per analoga e però più labile combinazione, producendo quello che più tardi sarebbe venuto in chiaro come “falso” (Settis 1994).

Con la modernità invece è il paradigma della conoscenza a imporsi: il passato diventa letteralmente terra straniera, chiusa per sempre, da osservare da una posizione di superiorità archeologica; l’antichità si definisce col circoscriverla. Questa circoscrizione, questo regno in sé esaustivo e insieme condannato alla perenne sconclusione, ha segnato negli ultimi secoli il nostro rapporto col passato – e ora ha smesso di appartenerci. Il gigantesco sforzo di magnificazione e archiviazione, di dissotterramento e costruzione di un corpus definito, ha incontrato infine la propria valanga. Oggi più che mai non possiamo dirci moderni (e come Latour dovremmo chiederci: lo siamo mai stati?); non solo la conoscenza, ma anche la distanza sono rimesse in discussione; il contemporaneo è un tempo particolarmente sfasato e contraffatto: la nostra superiorità forense, l’esercizio autoptico di aprire integralmente il corpo della conoscenza si scontra con il grande buio che trova al proprio interno. Siamo di nuovo piombati in una paccottiglia di segni e segnature, di loghi e di falsi, di manipolazioni sensoriali, di architetture ipnocratiche, di immagini generate – naturalmente innaturali.

Questa consapevolezza da una parte ci deve spingere a rifiutare con ancora più veemenza il sigillo dell’originale, la tensione reazionaria a tornare come non siamo mai stati; dall’altra ci deve spingere a studiare ancora più a fondo il regime delle immagini - ad avere un’immaginazione capace di un confronto e di un dialogo con i phantasmata di questo medioevo futuro. Di riconsegnare, come già fanno gli psicomaghi al potere, il giusto peso alle segnature. Quel punto di fronte a No logo non può oggi che trasformarsi in un punto interrogativo – No logo?. Nessuno studio poliziesco del passato, nessuna paranoia delle fonti, nessuna nostalgia delle nature familiari potrà salvarci: siamo qui, nel naufragio dell’originale, nel regno dei loghi, dei falsi, dei discorsi impuri. Non c’è un posto sicuro a cui tornare, un autentico che ci possa far sentire davvero a “casa”; all’origine rimane solo il difetto: la segnatura di questa nostra caduta nel mondo.

Riferimenti bibliografici
English abstract

This paper critically reinterprets the discourse on branding, originality, and authenticity in contemporary consumer culture, challenging the anti-corporate stance of Naomi Klein’s No Logo. Rather than viewing branding as a tool of oppression and homogenization, the study explores its potential as a dynamic system of meaning-making, where the interplay between the real and the fake generates new aesthetic and cultural possibilities. The analysis delves into the concept of signatures in fashion, where authenticity is not an inherent quality but a constructed narrative mediated by symbols, repetition, and appropriation. By examining the magical language of branding, this paper investigates how commodities acquire an aura of uniqueness despite their mass production, complicating traditional binaries of genuine versus counterfeit. The discussion also engages with the paradox of originality in China, where the boundaries between imitation and innovation are constantly renegotiated, challenging Western notions of authorship and authenticity. Ultimately, the paper reveals how branding, far from merely enforcing corporate dominance, operates as a flexible and evolving structure that reshapes identity, desire, and social belonging.

keywords | Naomi Klein; No logo; Melania Trump; Salvatore Settis; Kanye West; Originality; Authenticity; Fashion, China, Imitation, Innovation, Authorship.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Giorgiomaria Cornelio, No logo? Sul plagio e la vita dei segni, da Melania Trump ai magazzini criminali del Medioevo. Le paludi dell’originale, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.