"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

222 | marzo 2025

97888948401

Riprodurre il patrimonio culturale

Quando l’abuso diventa (la) regola

Mirco Modolo

English abstract

1 | Thomas Rowlandson, Museum of Ancient Paintings. Palais of Portici Naples, acquarello, ca.1800, Victoria and Albert Museum, London.

La riproduzione del bene culturale pubblico rappresenta una pluralità di valori, non solo di ordine culturale, ma anche – e sempre più – di natura economica e simbolico-identitaria che la pongono al centro di un vivace dibattito internazionale. Valori che esprimono interessi diversi, talora confliggenti tra loro, anche nel caso, oggetto del presente contributo, in cui le opere non risultino più protette dal diritto d’autore. Per questa ragione gli interventi normativi tesi a disciplinare quest’ambito hanno generalmente determinato situazioni di contrasto che, in Italia, si legano soprattutto alla pervasività dei vincoli che l’ordinamento di tutela impone all’uso delle riproduzioni del patrimonio culturale. La realtà italiana rappresenta infatti un unicum tra gli ordinamenti internazionali. Mentre all’estero i musei esercitano un controllo limitato alle digitalizzazioni che essi stessi hanno prodotto e pubblicato in rete, sulle quali esercitano diritti di proprietà intellettuale (o diritti connessi), peraltro rimossi in Europa dall’art. 14 della recente direttiva (UE) 2019/790 (cd. “copyright”), in Italia la situazione appare radicalmente diversa. Qui infatti lo Stato e gli enti pubblici territoriali esercitano privative su qualunque copia possa derivare da un bene culturale di loro proprietà. Si tratta cioè di prerogative che non hanno nulla a che vedere con il diritto d’autore, trattandosi di facoltà che il Codice dei Beni Culturali riconosce allo Stato in quanto ente proprietario di oggetti qualificati come ‘beni culturali’. Tale forma di esclusiva è sancita, in particolare, dall’obbligo di richiedere un’autorizzazione e corrispondere un canone all’ente proprietario di beni pubblici per usi commerciali delle relative immagini. Si configurano, in questo modo, forme di controllo ‘dominicali’ (del dominus, cioè del proprietario) non solo sui beni, ma anche su qualunque proiezione immateriale da essi derivata. È un diritto, in altri termini, che risiede nel bene e si trasferisce nella sua immagine, la cui circolazione è pertanto governata dal proprietario del bene riprodotto. La stessa matrice ‘proprietaria’, per certi versi, era già stata alla base dei regolamenti borbonici della metà del XVIII, che impedivano la copia delle antichità di Ercolano e Pompei, in quanto beni di proprietà del re di Napoli. Nonostante la matrice proprietaria sia identica, va detto tuttavia che non esiste alcun legame di causalità tra le due discipline, che è comunque utile confrontare alla luce di quelle situazioni di conflittualità che entrambi i sistemi di regole hanno determinato (e determinano tuttora).

Si tratta di condizioni restrittive che hanno generato non solo critiche – quando non veri e propri movimenti di protesta – ma anche innumerevoli casi di violazione o tentativi elusione dei regolamenti stessi. Violazioni che, in qualche caso, sono state riassorbite dalle norme successive per diventare parte integrante di queste ultime, generando addirittura nuove tipologie di ‘diritti’ a favore della collettività. Detto altrimenti, l’abuso è diventato la regola, mentre il ‘pirata’ ha assunto un ruolo di anticipazione ‘nomopoietica’.

Nel regno di Napoli della seconda metà del XVIII secolo le violazioni sono state anche un mezzo per poter esprimere naturali e insopprimibili esigenze di conoscenza che, altrimenti, sarebbero state sacrificate. Regole che, soprattutto nell’attuale era digitale, risultano tecnicamente impossibili da far rispettare al punto che, quando l’abuso diventa ‘regola’, quegli stessi codici comportamentali sembrano quasi essere fatti per essere violati. Anche laddove il conflitto non è giunto a innovare concretamente lo status quo, ha comunque contribuito a far a maturare una percezione di appartenenza ‘universale’ delle testimonianze del passato, al di là quindi della loro proprietà giuridica, proprio in reazione ad atteggiamenti esasperatamente proprietari o ‘patrimoniali’. L’excursus storico che si propone nelle pagine che seguono va letto proprio nei termini appena descritti, cioè di dialettica tra regola e sua violazione e di confronto tra pubblici poteri e società civile nell’ambito circoscritto della riproduzione del bene culturale pubblico.

Il divieto di copia delle antichità di Ercolano e Pompei nei regolamenti borbonici

Dopo l’avvio delle prime indagini archeologiche a Ercolano (1738) e a Pompei (1748) il Museo di Portici, quale luogo deputato alla conservazione di ciò che stava affiorando dal sottosuolo, era divenuto meta obbligata per tutti gli eruditi che viaggiavano in Italia e che, giunti a Napoli, chiedevano al re di Napoli il permesso per visitarlo [fig. 1]. Tanto nel museo, quanto nelle aree di scavo vigeva il divieto assoluto di disegnare le antichità, e addirittura di prendere appunti di fronte a esse. Gli scavi, e tutto ciò che ne derivava, erano infatti di proprietà del sovrano, il quale rivendicava diritti di esclusiva anche nella divulgazione degli esiti delle ricerche archeologiche. In particolare l’interdizione si giustificava con la volontà del re Carlo III di procurarsi ogni possibile lustro dalla pubblicazione di un patrimonio archeologico eccezionale e sempre più al centro delle attenzioni di tutto il mondo erudito di allora. Il prestigioso progetto editoriale era stato affidato dal re all’Accademia Ercolanese la quale, tra il 1757 e il 1792, avrebbe sovrainteso all’edizione degli otto volumi delle Antichità di Ercolano Esposte, illustrati con tavole riproducenti gli affreschi antichi rinvenuti nelle città vesuviane. Restrizioni che sarebbero quindi rimaste valide a lungo, almeno sino all’alba del secolo successivo, se è vero che negli anni dell’occupazione francese il re Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, avrebbe emanato un decreto, datato 7 ottobre 1807, con il quale concedeva agli artisti di riprodurre solo le antichità che erano già state pubblicate. Beninteso, il divieto sarebbe invece rimasto fermo su tutto ciò che ancora non era stato pubblicato “giacchè la pubblicazione de’ monumenti inediti di questo genere è particolare occupazione della suddetta Reale Accademia” (Fiorelli 1860, 265). L’“illimitata permissione di disegnare” avrebbe favorito gli stranieri, ma si riteneva ‘oltraggiosa’ per l’Accademia, per il re e per un’intera “nazione” che si sentiva legittima erede di quel patrimonio. Un atteggiamento ‘proprietario’ che tradiva certamente una concezione ‘patrimoniale’ delle testimonianze archeologiche da parte del sovrano, evidentemente strumentale all’esercizio del potere, ma che cominciava a divenire espressione, proprio in età napoleonica, d’una nascente ‘identità nazionale’. L’ipotesi di copia illimitata sarebbe risultata “oltraggiosa alla istessa nostra nazione, la quale viene così spogliata del pregio più grande che à, e soggettata viene à più amari sarcasmi: quasi abbian dovuto gli stranieri in tanta sua ignoranza render noti al pubblico que’ monumenti, che essa erede della Magna Grecia in gran copia possiede!” (Fiorelli 1860, 266).

La volontà di assicurare quindi una forma di protezione ‘immateriale’ a quanto stava emergendo dagli scavi si incrociava con il genuino sforzo di preservarlo e di evitarne la dispersione. Obiettivi, questi ultimi, che vennero tenacemente perseguiti già all’epoca di Carlo III attraverso una serie di provvedimenti che, come è noto, permisero al Regno di Napoli di dotarsi di un apparato di norme di tutela all’avanguardia nel panorama degli ordinamenti giuridici dei regni preunitari.

Le voci di dissenso non mancavano anche rispetto a quello che, nei fatti, era solo un finto tentativo di apertura: v’era infatti chi contrapponeva polemicamente questo regime di chiusura, tenacemente difeso da Michele Arditi, dal 1807 Direttore Generale del Museo di Napoli e Sopraintendente degli Scavi di Antichità, con la libertà di disegnare che allora vigeva in Francia ovunque, ma a questa obiezione i funzionari borbonici ribattevano da un lato che “(senza offesa per quella gran Nazione) non dee l’Italia o Napoli prender dalla Francia gli esempi, che concernono l’antichità e le belle arti”, dall’altro che “gli oggetti, che oggi trovansi ne’ Musei della Francia, sono tutti pubblicati e noti” (Fiorelli 1860, 265). Dunque in Francia il problema non si poneva perché non v’era necessità di proibire alcunché. Quest’ultima osservazione permette di chiarire anche la ragione per la quale l’interdizione fosse limitata al perimetro degli scavi di Ercolano e Pompei, e non si estendesse, ad esempio, alla collezione reale di opere d’arte del Museo di Capodimonte, la quale era infatti già ben nota al pubblico (D’Alconzo 2017, 135). A motivare questo particolare trattamento era, ben si comprende, l’eccezionalità della scoperta di due città antiche che, per la prima volta, emergevano intatte dal terreno con una mole mai vista prima di testimonianze della vita quotidiana (instrumenta domestica) e di affreschi antichi che, in precedenza, solo faticosamente si era tentato di documentare. E l’unicità di questi siti era del resto provata dalle visite quotidiane al museo e agli scavi di antiquari, artisti, scienziati e curiosi provenienti da ogni angolo d’Europa. Ed è proprio nei loro diari di viaggio che si può cogliere il sentimento, pressocché unanime, di dissenso verso un sistema di regole che ignorava le ragioni della ricerca antiquaria, ma anche il piacere della visita frustrando il naturale desiderio del viaggiatore di conservarne memoria. Una disapprovazione che, come si vedrà, culminava nella deliberata intenzione di eludere o violare quelle stesse regole.

Il divieto di copia nei diari di viaggio dei visitatori stranieri

Il divieto di copia e di prendere appunti vigente a Ercolano e a Pompei, del quale non è ancora stata individuata la relativa fonte normativa, è assai precoce, tanto che a esso fa riferimento, con toni decisamente polemici, Charles de Brosses in una lettera del 28 novembre 1739, nella quale egli ricorda la sua visita al museo di Portici, avvenuta a distanza di appena un anno dall’avvio degli scavi a Ercolano:

Non sono in grado di scendere con voi nei particolari, per quanto riguarda le iscrizioni, le medaglie, le pietre incise, i mobili e altre specie di utensili dissotterrati a Ercolano. Li ho potuti vedere solo in parte e in fretta e furia, benché il cavalier Venuti, antiquario del re, avesse fatto del suo meglio perché mi fosse dato agio di soddisfare la mia curiosità. Gli uomini che vi mostrano queste antichità sono rozzi ed estremamente gelosi; essi credono, penso, che uno voglia rubare le loro ricchezze con gli occhi (de Brosses 1973, 283).

Lo stesso divieto sarebbe stato segnalato, quasi cinquant’anni dopo, nientedimeno che da Goethe, nella sua visita al museo del 18 marzo 1787:

In das Museum traten wir wohl empfohlen und wohl empfangen. Doch war auch uns irgend etwas aufzuzeichnen nicht erlaubt.

[Al museo andammo con buone commendatizie e trovando buona accoglienza; non ci permisero tuttavia di fare disegni (Goethe [1816-1817] 1983, 235)].

Lo scrittore tedesco aveva l’abitudine di ritrarre ciò che attirava la sua attenzione nel corso del suo viaggio in Italia, anche se la sua curiosità talvolta poteva essere fraintesa, come emerge dal racconto della sua visita, risalente al mese di settembre dell’anno precedente, nel paese di Malcesine sul Garda, un piccolo centro della Repubblica di Venezia prossimo al confine con l’Impero austriaco. Sorpreso da una guardia a disegnare il castello medievale del borgo era stato fermato – e di lì a poco rilasciato – perché scambiato sul momento per una spia austriaca (Goethe [1816-1817] 1983, 28-34). Anche se in questo caso veniva sollevato un problema di tutt’altro genere, legato alla sicurezza, la copia veniva comunque intesa come una ‘minaccia’.

Al Museo di Portici non era proibito solo il disegno o l’appunto. Era vietato anche posare troppo a lungo gli occhi sui reperti esposti nel museo. Uno sguardo in più poteva risultare sospetto, passibile di essere redarguito, come ricorda il viaggiatore marsigliese Jean de la Roque nel 1777, che tuttavia riconosceva una minore intransigenza da parte dei custodi dopo la pubblicazione dei primi volumi delle Antichità di Ercolano Esposte:

In precedenza non era permesso nemmeno un esame troppo lungo, troppo attento delle rarità allora raccolte nelle sale di Portici; ancor meno era prevista tolleranza quando veniva colta sul posto la minima attenzione; ma l’aria è ora più rilassata dalla pubblicazione dei primi volumi di questa superba e unica raccolta (de la Roque 1783, III, p. 159).

Grazie a un permesso speciale rilasciato dal guardiano del museo, Jérôme Richard nel 1766 era persino riuscito ad abbozzare l’ordine di distribuzione dei materiali ivi esposti, sia pure a condizione di non entrare mai nei dettagli (Richard 1766, IV, 461). Il suo poteva ritenersi, tuttavia, solo un caso fortunato, stando alla testimonianza lapidaria di un viaggiatore come Traugott Weinlig, che visitò due anni dopo il museo: “Qui difficilmente è permesso guardare un oggetto abbastanza a lungo, tantomeno lo è esibire una matita” (cit. in Eibl 1965-66, 116).

Molti si trovarono quindi costretti ad affidarsi ai limiti della propria memoria per prendere nota di ciò che avevano visto. L’incisore francese Charles Nicolas Cochin si sentiva in dovere di avvertire il lettore che le incisioni che illustrano la sua dotta dissertazione sugli affreschi di Ercolano dal titolo Lettre sur les peintures d’Herculanum, aujourd’hui Portici, pubblicata non a caso in forma anonima a Parigi nel 1751, derivano da “dessein faits de mémoire” durante una visita condotta in modo forzatamente rapido, al punto “qu’il semble que les Napolitains soient persuades que les regards trop répétés, pourroient les détruire, ou leur porter quelque dommage” (Cochin 1751, 6) [Sembra che i napoletani siano persuasi che gli sguardi troppo ripetuti possano distruggerli o arrecare loro qualche danno (traduzione di chi scrive)]. Il musicologo inglese Charles Burney racconta invece che il 3 novembre 1770 era riuscito ad avvalersi dell’aiuto di un giovane artista, il quale, dopo aver memorizzato i dettagli di alcuni strumenti musicali antichi esposti nel museo di Portici, era riuscito a tradurli in disegno la sera stessa, una volta aver fatto ritorno in locanda:

As no person is suffered to use a pencil in the museum, when the company with which I had seen it was arrived at the inn where we dined, Mr. Robertson, an ingenius young artist of the party, was so obliging as to make a drawing of it, prom memory, in my tablets; which all the company, consisting of seven, agreed was very exact (Burney 1771, 332-333).

[Poiché non è permesso a nessuno l’uso della matita nel museo, quando la compagnia con cui l’avevo visitato arrivò alla locanda dove pranzammo, il signor Robertson, un giovane artista di talento del gruppo, ebbe la cortesia di disegnarlo a memoria nei miei taccuini; e tutti i presenti, sette persone in tutto, concordarono sul fatto che fosse molto preciso (traduzione di chi scrive)]​​​​​​.

Se la memoria non era d’aiuto, con un po’ di ingegno si poteva forzare l’interpretazione del regolamento, come si evince dal gustoso aneddoto riportato dall’orientalista svedese Jacob Jonas Björnståhl. Essendogli stato impedito di riprodurre un’iscrizione, Björnståhl aveva chiesto provocatoriamente al guardiano se fosse altrettanto proibito leggerla. Quest’ultimo ammise che le regole non potevano giungere a un simile livello di restrizione. Lo studioso riuscì allora a trascrivere per intero il testo dell’iscrizione semplicemente entrando e uscendo più volte dal museo (Björnståhl 1780-1783, I, 297).

Problemi ancor maggiori si riscontravano nel rilievo architettonico degli edifici antichi di Pompei: l’antiquario danese Georg Zoëga nella primavera del 1784, pur accompagnato da un membro dell’Accademia Ercolanense, riuscì a stento a redigere una planimetria approssimativa di un tempio combinando osservazioni tratte da precedenti sopralluoghi, come dichiara egli stesso in una lettera indirizzata al teologo e antiquario tedesco Friedrich Münter:

Voi sapete l’invida proibizione ch’impedisce il forastiere di notarsi la menoma cosa tanto al museo di portici quanto tralle rovine di Pompeia. Nonostante combinando quanto osservai otto giorni addietro con quello che ho rilevato questa mattina, spero che mi riescirà di fare una pianta tolerabilmente esatta del tempio, come l’oggetto che più di tutti gli altri mi deve interessare. Già la prima volta mi proibirono i custodi di cavare il toccalapis e stammattina benché fussi in compagnia d’un Accademico Ercolanese fecero la medesima cosa […] (cit. in Bellucci, Moormann 2019, 160).

Lo stesso Giovanni Battista Piranesi trovò notevoli difficoltà nel rilevare in pianta il Museo di Portici nel 1770 (Allroggen-Bedel, Kammerer-Grothaus 1983, 102). Più in generale l’assenza di planimetrie, rilievi e altri strumenti di orientamento (a eccezione, s’intende, di quelli clandestini) rendeva problematico il percorso di visita agli scavi che necessitava, quindi, di guide locali esperte.

L’alternativa era quella di violare apertamente il regolamento attraverso il ricorso ad annotazioni furtive, che tuttavia avrebbero reso parziale e impreciso qualsiasi resoconto documentario, come ricorda il botanico François Paul Latapie nella premessa alla sua descrizione manoscritta degli scavi di Pompei (1776): “Cette description sera assi exacte quel es notes furtives que j’ai prises sur les lieux et la foible connoissance que j’ai des arts et ma mémoire pourront le permettre” (cit. in Barrière, Maiuri 1953, 226) [Questa descrizione sarà tanto esatta quanto gli appunti furtivi che ho preso sul posto e la scarsa conoscenza che ho delle arti e la mia memoria me lo permettono].

Anche Johann J. Winckelmann si dovette confrontare con problemi analoghi. Nel 1758 egli aveva richiesto al potente segretario di Stato Bernardo Tanucci l’autorizzazione a visitare il museo di Portici, promettendo di non fare “né disegno né la minima pennellata sulla faccia del luogo, contentissimo di poter osservare semplicemente tutto con agio e comodo” (Fancelli, Raspi Serra 2017, I, 436). Nonostante l’impegno assunto, sarebbe stato tuttavia lo stesso Winckelmann a incaricare un artista del calibro di Anton Raphael Mengs di disegnare – furtivamente – il busto di Demostene proveniente dalla Villa dei Papiri conservato al museo di Portici (Fancelli, Raspi Serra 2017, II, 359-360), il cui disegno in seguito sarebbe stato inciso e pubblicato dall’archeologo tedesco in un rapporto sugli scavi di Ercolano dal titolo Sendschreiben von den Herculanischen Entdeckungen (Winckelmann 1762, 96). La pubblicazione della tavola riproducente il busto di Demostene dovette irritare profondamente i membri dell’Accademia Ercolanense che, nel V volume delle Antichità di Ercolano Esposte, uscito nel 1767, avrebbero a loro volta dato alle stampe una riproduzione dello stesso reperto di cui sottolineavano la fedeltà rispetto all’incisione precedentemente diffusa da Winckelmann: “In un libercolo (scritto con poca riflessione, e conseguentemente con molti errori di fatto) si vede anche inciso questo busto, ma così difformato, e diverso dall’originale, che basta questo solo a disingannar chiunque si fosse mai lasciato con troppa leggerezza sorprendere da quel tuono decisivo e sicuro” (cit. in D’Alconzo 2019, 130). Era il segno evidente che l’anticipazione non era stata affatto gradita.

Particolarmente vivace è la descrizione del viaggio a Pompei resa dalla poetessa e scrittrice inglese Lady Anna Riggs Miller, la quale narra dei suoi reiterati tentativi, in parte riusciti, di distrarre i custodi per riuscire a disegnare ciò che le destava maggiore curiosità e interesse, ma anche dei continui rimproveri mossi dalla guida incaricata di accompagnare i visitatori agli scavi. Le guide, essendo costantemente sorvegliate a vista dai soldati di guardia agli scavi, dovevano essere particolarmente solerti nel garantire la rigida osservanza del regolamento da parte dei visitatori, giacché la culpa in vigilando poteva costare loro persino il carcere, come spiega Lady Miller nel resoconto della sua visita a Ercolano che si era svolta nel mese di febbraio del 1771:

I took a pencil from my pocket, and began to make a rude sketch from this stag, and intended, if possible, to do the like from the perspective view; but my guide, in the most pressing manner imaginable, begged me to desist: he assured me he saw some soldiers on an eminence not very distant; that should I be perceived, he must suffer for his inattention, and even I should be sharply reprimanded by government. I endeavoured to persuade him to give all his attention to the cavalier who had lagged behind (for by that time I was sure he had copied the inscription) but he would not quit me, and was about to prostrate himself at my feet, urging his apprehension of being sent to the gallies for life, as a comrade of his had been for a similar offence three weeks since. I desisted; his oratory was too feeling to be longer withstood; notwithstanding, as I continued my work during his harangue, I had sketched out the stag, and have finished it in water-colours, as near I can from memory: it has met with the approbation of those of our countrymen who have seen it and of many of our Italian acquaintance, who insist on its strong likeness to the original. I shall inclose it to you, though but a wretched attempt in my opinion (Miller 1776, II, 216-217).

[Presi una matita dalla tasca e iniziai a fare un abbozzo approssimativo di quel cervo, con l’intenzione, se possibile, di fare lo stesso con la prospettiva. Tuttavia, la mia guida, nel modo più insistente possibile, mi supplicò di smettere: mi assicurò di aver visto alcuni soldati su un’altura non molto distante e che, se io fossi stata notata, egli avrebbe dovuto subire le conseguenze della sua disattenzione, e persino io sarei stata severamente rimproverata dal governo. Cercai di convincerlo a concentrare tutta la sua attenzione sul cavaliere che era rimasto indietro (perché, a quel punto, ero certa che avesse copiato l’iscrizione), ma lui si rifiutò di lasciarmi e stava persino per prostrarsi ai miei piedi, implorandomi, per il timore di essere condannato alle galere a vita, così come era accaduto a un suo compagno tre settimane prima per un’infrazione simile. Cedetti: la sua supplica era troppo toccante per essere ulteriormente ignorata. Tuttavia, mentre continuava il suo discorso, riuscii comunque a completare lo schizzo del cervo e l’ho poi rifinito ad acquerello il più fedelmente possibile in base ai miei ricordi. Ha ricevuto l’approvazione sia di alcuni dei nostri connazionali che l’hanno visto, sia di molti dei nostri conoscenti italiani, i quali insistono sulla sua forte somiglianza con l’originale. Te lo invierò in allegato, anche se, a mio avviso, non è che un misero tentativo (traduzione di chi scrive)].

Non mancarono, inoltre, veri e propri atti di corruzione per vincere le resistenze degli addetti alla vigilanza e riuscire quindi a riprodurre con un po’ di agio ciò che era emerso dagli scavi, come ammette candidamente Vivant Denon, futuro direttore generale dei musei francesi e primo ordinatore del Museo del Louvre, nel suo Voyage au royaume de Naples (1778):

Nous corrompîmes, comme nous nous l’étions promis; mais comme notre coquin de ce jour-là n’était qu’un coquin subalterne, qu’un ouvrier qui avait envie de garder notre argent sans cesser de faire son métier de sentinelle, il nous tourmentait pendant notre travail, et nous ne pûmes que lever une petite partie du plan qu’il nous fallait, et que nous eûmes à force de soins, de tentatives, de travail et d’argent (Denon 1997, 118).

[L’abbiamo corrotto, come ci eravamo promessi di fare; ma poiché il furfante di quel giorno non era che un furfante subalterno, un operaio che voleva tenersi il nostro denaro senza smettere di fare il suo mestiere di sentinella, ci tormentava durante il nostro lavoro e non riuscimmo a rilevare che una piccola parte della pianta di cui avevamo bisogno, che ottenemmo solo con grande impegno, tentativi, fatica e denaro (traduzione di chi scrive)].

Un caso limite, infine, è quello dei furti di antichità commissionati a Pompei ed Ercolano direttamente dal conte di Caylus che, a Parigi, stava mettendo mano al suo monumentale Recueil d’antiquités (Pagano 2007, 115). L’imposizione del segreto sugli scavi era considerata inaccettabile da Caylus che, a più riprese, nei suoi scambi epistolari con l’antiquario Paolo Maria Paciaudi, criticava “le vilain Tanucci” [il villano Tanucci] senza risparmiare gli stessi napoletani che, a suo dire, “sont des barbares et ce sera toujours mon refrain” [sono dei barbari, e questo sarà sempre il mio ritornello] (Pagano 2007, 115). A sua volta, Paolo M. Paciaudi condivideva l’irritazione di Caylus, che si spiega bene anche alla luce del divieto, oppostogli proprio da Tanucci, di rimettere piede nel museo di Portici. Un’interdizione perpetua che sarebbe stata causata, a suo dire, dalla gelosia dell’Accademia Ercolanense verso le ricerche antiquarie che stava portando avanti nei siti di Pompei e Stabia, e quindi dal timore che potessero essere divulgati dati e informazioni scientificamente rilevanti attraverso la sua fitta rete di corrispondenti oppure nel corso dei suoi frequenti viaggi (Paciaudi 1802, 270).

“Nicht blos Neapel, sondern der ganzen aufgeklärte Welt”: dal paradigma proprietario alla dimensione universalistica delle testimonianze del passato

La politica borbonica, attraverso il rigido sistema di restrizioni sin qui esemplificato, soffocava di fatto la ricerca antiquaria ostacolando quella virtuosa circolazione di dati e informazioni tra eruditi che, nel corso del XVII e XVIII secolo, era stata uno dei cardini della République des Lettres. Il mondo occidentale aveva rivolto le sue attenzioni su Ercolano e Pompei sin dal momento della loro scoperta, sino a farne una meta privilegiata del Grand Tour. E dunque non poteva rimanere inosservata quella pesante trama di vincoli imposti a livello di documentazione. Maturò infatti da subito la consapevolezza dell’impatto negativo che essa poteva avere nei confronti degli studi umanistici, delle arti e, in generale, del mondo della cultura e che andava ben oltre i confini del Regno di Napoli. Ne sono testimonianza eloquente le parole dello scrittore e drammaturgo tedesco Carl Martin Plümicke che, nel 1795, rivendicava l’appartenenza al mondo intero delle antichità di Ercolano e Pompei, le quali non potevano quindi continuare a essere trattate come proprietà esclusiva del re di Napoli:

Unverantwortlich […] ist es übrigens, wie mit diesen Schätzen des Alterthums, welche nicht blos Neapel, sondern der ganzen aufgeklärte Welt zugehören, verfahren wird (Plümicke 1795, 72).

[È, del resto, irresponsabile il modo in cui si trattano questi tesori dell’antichità, che non appartengono solo a Napoli, ma al mondo intero civilizzato (traduzione di chi scrive)].

Ludwig Plümicke, che aveva viaggiato in Italia al seguito del duca Peter von Biron facendo tappa a Pompei, lamentava le difficoltà di accesso al museo, dimostrate trascrivendo l’esemplare di un’autorizzazione regia, ma riteneva ancor più intollerabile il monopolio scientifico che l’Accademia stava esercitando sullo studio delle città vesuviane danneggiando le ricerche di grandi intenditori e antiquari che, come lo stesso Winckelmann, proprio a causa di questo meschino comportamento erano stati dissuasi dal fare osservazioni dalle quali il mondo letterario avrebbe avuto assai da guadagnare:

Schon mancher grosse Kenner und Alterthumsforscher (und leider! Winckelmann selbst) ward durch dieses kleinliche Benehmen von Beobachtungen abgeschreckt, bei denen die litterarische Welt vieles gewonnen hätte (Plümicke 1795, 73).

[Già molti grandi intenditori e studiosi dell’antichità (e purtroppo lo stesso Winckelmann!) sono stati scoraggiati da questo meschino comportamento dall’effettuare osservazioni da cui il mondo letterario avrebbe potuto trarre grande beneficio (traduzione di chi scrive)].

Plümicke, infine, racconta, riprendendo osservazioni già espresse dall’ufficiale prussiano Johann Wilhelm von Archenholz (Archenholz 1787, V, 202-203), che tra la gente comune si era persino insinuata la superstizione, alimentata dall’ignoranza dei locali, in base alla quale gli scavi di Ercolano e Pompei fossero in realtà tesori magici custoditi da spiriti (Plümicke 1795, 73). Il regolamento borbonico aveva acquistato così tratti leggendari che finivano così per renderlo più accettabile, duraturo ed efficace.

Nei racconti dei viaggiatori stranieri sin qui citati emerge lo stupore, quando non l’indignazione, di intellettuali che non si erano mai confrontati in precedenza con limitazioni così stringenti. Ed è proprio il rifiuto del regolamento a indurli a trovare gli espedienti più originali per eluderlo, rendendo ai loro occhi legittima, e anzi persino necessaria, la sua violazione, che di fatto era l’unica via per poter soddisfare i propri interessi di ricerca. Il museo di Portici rappresentava, al massimo grado, il prototipo del gabinetto segreto del sovrano che, di fatto, sarebbe stato esteso anche all’esterno fino a includere i siti di Ercolano e Pompei. Ciò avveniva però in un continente ormai pregno delle idee illuministe e in un secolo che aveva visto nascere un nuovo modello di museo, non più legato alla dimora del sovrano e a forme di accesso contingentate, come dimostrava il caso emblematico del Museo Capitolino a Roma, aperto al pubblico nel 1734 per volontà di papa Clemente XII a seguito dell’acquisto della celebre collezione statuaria della famiglia Albani.

Nei resoconti dei viaggiatori stranieri costituisce un motivo ricorrente la denuncia della gelosia dei custodi del Museo di Portici che si manifestava nel timore nei confronti di una diffusione incontrollata di informazioni. Qualunque riproduzione delle antichità era vista, pertanto, come un vero e proprio ‘furto’ ai danni del patrimonio della corona. Nella gestione delle memorie del passato si possono così isolare i tratti caratteristici di un paradigma ‘proprietario’ che si scontrava con l’emergere di una concezione opposta, che vedeva invece nelle vestigia di Ercolano e Pompei un patrimonio ‘universale’ la cui conservazione era messa a rischio da scavi mal condotti e la cui accessibilità scientifica, agli occhi degli intellettuali europei, veniva ripetutamente ostacolata, come ricordava Jean-Jacques Barthélemy l’11 dicembre 1755 in una lettera a Caylus:

Mais je n’ai pas vu encore Portici; tout ce qu’on en dit est bien singulier; les fouilles mal conduits, souvent abandonnées et reprises par le même caprice qui les avait fait abandoner. Un mystére impenetrable règne sur toutes ces opérations; des orders sévères et terribles empêchent toute communication (Barthelemy 1821-1822, III, 529).

[Ma non ho ancora visto Portici; tutto ciò che se ne dice è davvero singolare: gli scavi, mal condotti, sono spesso abbandonati e ripresi per lo stesso capriccio che li aveva fatti interrompere. Un mistero impenetrabile regna su tutte queste operazioni; ordini severi e terribili impediscono qualsiasi comunicazione (traduzione di chi scrive)].

Si può anzi ritenere che l’aspirazione ‘universalistica’ di Plümicke nasca proprio in reazione al modello di gestione borbonico. Il Museo Ercolanense, collocato non a caso all’interno della Reggia di Portici, non era che una vetrina del potere, e non uno strumento di diffusione del sapere. Non diversamente dai volumi delle Antichità di Ercolano esposte che re Ferdinando IV, succeduto al padre Carlo III, si rifiutò di commercializzare perché avrebbero dovuto continuare a essere ciò che sino a quel momento erano stati, vale a dire doni e omaggi della corona verso un pubblico altamente selezionato. A nulla, ad esempio, era valso l’invito in questo senso che il segretario d’ambasciata del re, Ferdinando Galiani, da Parigi, aveva rivolto a Bernardo Tanucci nel 1767:

Ma, dice V. E., ci sono duemila compratori? Certamente, se si vogliono cercare duemila antiquari e letterati ricchi per lo mondo non si trovano; ma l’Ercolano ha un altro uso qui. Tutti gli orefici, bigiuttieri, pittori di carrozze, di sopraporte, tappezzieri, ornamentisti hanno bisogno di questo libro. Sa V. E. che tutto si ha da fare oggi à la greque, che è lo stesso che à Erculanum. Quella pittura d’una donna che vende amoretti come polli, io l’ho vista ricopiata in più di dieci case. Or, ciò posto, vede benissimo che V.E. l’uso e il consumo che si farebbe dell’Ercolano ristampato (cit. in D’Alconzo 2017, 139).

La vendita dell’opera ne avrebbe facilitato la diffusione a beneficio di un’ampia platea di potenziali fruitori che, soprattutto in Francia, avrebbero ben saputo come reimpiegare le iconografie degli affreschi di Ercolano e Pompei intercettando il gusto à la grecque che stava allora imperversando. I sovrani borbonici invece non vollero o non seppero fare di quell’immenso patrimonio figurativo che andava emergendo dagli scavi un modello di rinnovamento della produzione artistica napoletana contemporanea. In altri termini il Regno di Napoli, come è stato osservato da Paola D’Alconzo, “perse l’occasione per diventare uno dei centri di elaborazione di un nuovo stile che recepisse gli stimoli delle sensazionali scoperte ercolanesi e pompeiane” (Alconzo 2017, 127). Lo aveva bene inteso un fine economista e osservatore della realtà francese come Galiani, il quale era invece perfettamente in grado di riconoscere il potenziale valore d’uso di quelle immagini, che andava ben al di là dei più ristretti confini della speculazione erudita. Mutatis mutandis, quello del riuso commerciale e creativo delle riproduzioni del patrimonio culturale è un tema che, come vedremo, oggi si riscopre in tutta la sua attualità.

Dal disegno alla fotografia. La riproduzione nei musei nelle prime leggi di tutela dello Stato unitario

Non è ancora stato chiarito quanto a lungo siano effettivamente sopravvissuti i divieti di riproduzione a Ercolano e Pompei dopo il citato provvedimento del re Giuseppe Bonaparte del 1807 che, come s’è detto, aveva confermato la validità delle prescrizioni originarie, sia pure limitatamente ai monumenti ancora inediti. Il terminus ante quem dovrà essere, in ogni caso, fissato al 1860, alla fine cioè del regno borbonico. Da allora in poi il neonato regno d’Italia si sarebbe preoccupato di dotarsi di una normativa unitaria per la tutela del patrimonio archeologico, storico-artistico e architettonico in sostituzione degli ordinamenti preunitari. Nel 1892 una delle proposte di legge che ambiva a raggiungere questo scopo, e che portava il nome dell’allora ministro della pubblica istruzione Pasquale Villari, aveva risollevato il problema della riproduzione delle opere conservate nei musei e nelle pinacoteche statali, sia pure in un contesto politico-culturale che aveva ormai definitivamente sepolto la memoria dei regolamenti borbonici. Anche la tecnologia aveva fatto nel frattempo enormi progressi, dal momento che il mezzo privilegiato di riproduzione delle opere d’arte da tempo non era più il disegno, ma la fotografia, che ora si proponeva di tassare allo scopo di garantire un ritorno economico per lo Stato da reinvestire nella conservazione delle antichità e delle belle arti. Pertanto, nell’ipotesi del legislatore, chiunque intendeva scattare una fotografia all’interno dei musei avrebbe dovuto corrispondere all’erario una somma predeterminata dalla legge. La fotografia, come era stato vero in precedenza per il disegno, era ormai divenuta un mezzo insostituibile di documentazione dei monumenti e del patrimonio museale italiano, ma risultava altrettanto insostituibile per gli storici dell’arte, i quali ormai avevano imparato a servirsene per procedere a confronti stilistici tra opere conservate in luoghi diversi. Ben si comprendono quindi le proteste contro la proposta di tassazione che si levarono da parte delle ditte fotografiche, delle camere di commercio e persino da parte del ministro dell’agricoltura, industria e commercio che si era fatto carico di queste istanze. L’idea di una tariffa sulla riproduzione fotografica sarebbe infine naufragata insieme alla proposta di legge che l’aveva prevista, non riuscendo a passare il vaglio delle aule parlamentari.

Il pericolo però fu sventato solo temporaneamente, perché una tassa sulla fotografia sarebbe stata effettivamente introdotta in Italia pochi anni dopo, nel 1902, con l’approvazione della legge Nasi (l. 185/1902), che è ricordata per essere la prima legge di tutela dell’Italia unita, anche se, a ben vedere, avrebbe avuto vita assai breve. La tassa fu infatti stroncata nel merito da una commissione parlamentare, istituita nel 1906 e presieduta dal sen. Giovanni Codronchi, che l’avrebbe infatti fatta sparire dal testo della successiva legge di tutela, la Rosadi-Rava del 1909 (l. 364/1909). La relazione della commissione, in particolare, aveva elencato i danni che questa misura aveva procurato dal 1902 non solo all’industria fotografica italiana, ma anche alle ricerche nel campo della storia dell’arte e al turismo, dal momento che i maggiori fotografi di allora, come Broggi, Anderson e Alinari avevano di fatto evitato l’Italia per andare “a far la propaganda dell’arte straniera” (cit. in Modolo 2023a, 36, 60). In sintesi la legge Nasi, secondo la commissione, invece di proteggere l’arte aveva finito per perseguitarla.

La ripresa del dibattito negli anni Sessanta e la costruzione di un diritto ‘dominicale’ (o ‘pseudocopyright di Stato’) sulle immagini di beni culturali pubblici

2 | Articolo di "Paese Sera" del 29 dicembre 1962 dal titolo: “È proprio giusto proibire di fotografare nei musei?”.

Dopo una lunga pausa il dibattito si riaprì solo all’inizio degli anni Sessanta nell’Italia del boom economico che aveva ritrovato slancio anche attraverso l’industria turistica. Un articolo a firma dell’antropologa Annabella Rossi, uscito il 29 dicembre 1962 su “Paese Sera”, riportava un titolo autoparlante: “È proprio giusto proibire di fotografare nei musei?” [Fig. 2]. In esso si denunciavano le difficoltà che, da poco tempo, incontrava chi desiderava fotografare opere conservate nei musei pubblici.

Se, fino a qualche mese fa il visitatore di qualsiasi museo italiano poteva fotografare i quadri e le statue che vedeva (magari senza cavalletto in virtù di vecchissime disposizioni che non contemplano il progresso tecnico) non lo può più fare: una circolare dell’Intendenza di Finanza in data aprile dello scorso anno proibisce infatti che qualsiasi pezzo artistico appartenente al patrimonio statale sia fotografato, a meno che non venga pagata una certa cifra (la cui entità varia a seconda dei casi) per la concessione. […] Questa circolare della finanza, oltre che ritardare in molti casi i lavori di studiosi e studenti, colpisce la stampa, impedendo a essa quella grande opera di diffusione e di propaganda che le è affidata. Il grosso pubblico infatti se è assolutamente insensibile a uno squallido depliant, è convinto in misura assai maggiore a visitare questo o quel museo da un articolo intelligente corredato da belle foto (Rossi 1962).

L’articolo era inoltre provocatoriamente illustrato da fotografie scattate abusivamente dall’autrice all’interno di Palazzo Venezia, come veniva curiosamente esplicitato in didascalia: “Queste foto sono state scattate di nascosto nel museo di Palazzo Venezia”. Ecco allora che una plateale infrazione, incarnata da quelle due immagini, diveniva così parte integrante della notizia per denunciare l’insensatezza di una norma che andava a colpire la fotografia nei musei. Il problema, che continuò ad avere certo seguito nella stampa e in parlamento, avrebbe trovato in seguito una soluzione con la l. 340/1965 ma, soprattutto, con il suo regolamento di attuazione, il d.p.r. 2 settembre 1971, n. 1249 (Modolo 2023b).

Una svolta ancor più decisiva nel percorso di formazione dell’attuale disciplina delle riproduzioni si sarebbe avuta con l’emanazione del regolamento della legge Ronchey, il d.m. 8 aprile 1994, il quale portò con sé novità che sarebbero state in seguito recepite dalla normativa successiva, vale a dire dal testo unico del 1999 e infine dal vigente codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 (d.lgs. 42/2004, artt. 107-108). Qual era il senso dell’innovazione? Per capirlo occorre fare riferimento al sistema di concessione d’uso del demanio culturale in essere sino al 1994, che prevedeva un’autorizzazione e il pagamento di un canone per eventuali scopi commerciali nel caso in cui qualcuno avesse richiesto di effettuare riprese fotografiche all’interno di un museo statale. Il canone per l’uso commerciale era dunque ben circoscritto a fotografie da scattare non solo ex novo, ma anche nel chiuso di un museo. Il citato regolamento della Ronchey avrebbe invece esteso quel canone di concessione all’uso di qualunque riproduzione di qualunque bene culturale, indipendentemente dal fatto cioè dal fatto che l’immagine fosse già a disposizione dell’utente o che dovesse essere appositamente prodotta, e indipendentemente dal fatto che l’opera si trovasse all’interno o all’esterno di un museo. Da una tassa sullo scatto nei musei si passava a una sorta di ‘pseudocopyright di Stato’ su qualsiasi tipo di bene culturale pubblico. Un’esclusiva che, per la sua valenza ‘dominicale’ (e cioè proprietaria) non aveva però nulla a che vedere con i diritti di proprietà intellettuale: lo Stato, in quanto proprietario (dominus) dei beni si trovava (e si trova tuttora) a esercitare un controllo esclusivo sulle immagini dei propri beni. La natura di questo paradigma “proprietario” non è quindi dissimile da quella che caratterizzava il divieto borbonico e che impediva a monte (al di là quindi di ogni autorizzazione) di eseguire riproduzioni del patrimonio archeologico di proprietà del monarca.

Liberalizzare lo scatto fotografico nei musei (2014) e poi negli archivi e nelle biblioteche (2017)

Il 2014 ha segnato un altro importante momento di svolta: con l’emanazione del decreto legge Art Bonus (d.l. 83/2014) e la conseguente introduzione dell’art. 108 comma 3-bis nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, veniva soppressa qualunque forma di autorizzazione preventiva per gli scatti fotografici nei musei, innovando la disciplina del codice che sino a quel momento aveva previsto un’autorizzazione all’ente pubblico proprietario del bene per qualunque riproduzione di un bene culturale d’appartenenza pubblica. Dal giugno del 2014 qualsiasi divieto di fotografare esibito all’interno di musei pubblici sarebbe perciò divenuto illegale. Da quel momento in poi tutto ciò che era bene culturale pubblico diveniva liberamente fotografabile e le fotografie così prodotte erano liberamente divulgabili se ciò avveniva per scopi diversi dal lucro. Con un’eccezione, tuttavia, importante: rimasero infatti clamorosamente esclusi dal regime di liberalizzazione dell’Art Bonus i beni archivistici e librari, con grave danno per la ricerca storica. Chi consultava documenti o libri antichi all’interno di archivi e biblioteche non avrebbe potuto utilizzare il proprio dispositivo di riproduzione (smartphone, fotocamera o tablet) oppure, laddove gli fosse stato consentito, avrebbe dovuto corrispondere all’istituto una tassa di tre euro per ogni faldone riprodotto. Il malcontento degli studiosi, i più colpiti da questa parziale liberalizzazione, sin dall’inizio prese la forma del movimento di idee Fotografie libere per i beni culturali, che promosse una petizione con la quale si chiedeva di estendere la libertà di riproduzione agli archivi e alle biblioteche per agevolare l’attività degli studiosi, al pari di quanto già avveniva in altri grandi istituti europei. Tra gli slogan che allora vennero diffusi online dal movimento uno, in particolare, rievocava il topos della fotografia come “furto”: “Foto libere in archivi e biblioteche. La foto non è un furto, l’utente non è un ladro” [Fig. 3], mentre tra le testimonianze degli studiosi pubblicate in rete a sostegno della raccolta firme, merita di essere citata quella di uno studioso che scelse uno pseudonimo (“Giacomo”) per testimoniare il suo ricorso – abusivo – alla fotocamera del telefonino in sala studio eludendo la vigilanza del personale delle sale studio. Una pratica che non era infrequente tra gli studiosi e che si poneva in contrasto con un divieto che, il più delle volte, era motivato solo dal contratto di esclusiva che l’istituto stabiliva con la ditta privata di riproduzione, la quale aveva tutto l’interesse a mantenere in vita lo status quo. La testimonianza, pubblicata sul sito del movimento Fotografie libere per i beni culturali, è la seguente:

Voglio dire due parole sulle foto fatte comunque – perché la ricerca non si può ingabbiare – ma di nascosto, con la mano sudaticcia e tremolante, e in condizioni di luce pessime – sai che belle foto! ma sufficienti per lo scopo, che non era quello di pubblicarle in un articolo sul Burlington, ma semplicemente quello di agevolare la trascrizione di un inventario o di una manciata di sonetti, da poter copiare con calma a sera, dopo una giornata trascorsa a radunare il materiale nelle varie biblioteche, o al dì di festa, se proprio i tempi stringevano. Spesso i sorveglianti, troppo presi a discutere del banchetto per la comunione della nipote, non si accorgevano di nulla, di quegli strani movimenti, di quell’espressione vacua che ci si stampava in faccia, non dissimile da quella di un gatto intento ai suoi bisogni. Ma se disgraziatamente si veniva scoperti, ecco che i cantori di banchetti, impegnati fino a poco prima a ostacolare lo studio con il loro cicaleccio, si ergevano a tutori della legge, a paladini dell’ordine costituito, a difensori ultimi della civiltà scritta di fronte alla barbarie, intimando a gran voce la cessazione di ogni attività illegale, pena l’espulsione da quella biblioteca e forse da tutte le altre del Regno. Io non sono mai riuscito a ‘farmi il pelo’ in queste situazioni, pur avendone vissute parecchie: la mia reazione era sempre più o meno la stessa, battito cardiaco alle stelle, sudorazione in ulteriore aumento, maldestro tentativo di accennare una protesta, senso di umiliazione e frustrazione: vogliamo davvero che questa triste situazione continui sempre a ripresentarsi? (Foto libere 2015).

Altri ancora facevano notare che vietare la fotografia nel XXI secolo sarebbe stato come vietare o tassare l’uso della matita nelle sale studio per prendere appunti, giacché la macchina fotografica svolgeva a tutti gli effetti le funzioni di una matita “digitale”. Una realtà che, letta in questo senso, poteva ricordare da vicino le restrizioni che vigevano nel Museo di Portici nella seconda metà del XVIII secolo.

Le proteste degli studiosi non rimasero inascoltate. Tre anni dopo l’entrata in vigore dell’Art Bonus nel 2014, che aveva determinato il casus belli, la l. 124/2017 avrebbe infatti concesso la facoltà agli utenti di archivi e biblioteche di utilizzare liberamente il mezzo proprio per riprese effettuate a uso personale e di divulgare le immagini a scopi non commerciali. Il libero uso del mezzo proprio, che prima del 2017 era considerato violazione di norma, fu finalmente consacrato a principio di legge, al quale si sarebbero dovuti adeguare archivi e biblioteche di Stato, regioni, province e comuni italiani.

Tassare la ricerca e l’editoria culturale: il tariffario ministeriale (d.m. 161/2023)

I termini attuali della discussione in corso non sono più legati alla libertà d’uso del mezzo di riproduzione (e dunque allo scatto, ormai liberalizzato), bensì all’uso commerciale delle immagini di beni culturali pubblici, che rimangono soggette ad autorizzazione e al pagamento di una tariffa da determinare, secondo il codice dei beni culturali, in rapporto alla presunta entità dei benefici economici che potrà trarne il richiedente.

Una discussione pubblica su questo tema si è riacceso a seguito della recente adozione del d.m. 161/2023, con il quale il Ministero della Cultura ha sottoposto a tariffazione qualsiasi tipo di uso editoriale delle riproduzioni, annullando così ogni gratuità che fino ad allora era stata garantita per l’editoria scientifica. Il decreto era dettato da un miope desiderio di massimizzare la redditività del patrimonio culturale pubblico, che però trascurava del tutto l’impatto che avrebbe avuto, ancora una volta, sulla ricerca scientifica. Si finì allora per paralizzare l’editoria culturale che dell’immagine del bene culturale si serviva (e si serve) non tanto sul piano della mera illustrazione esornativa, bensì del contenuto, dal momento che in questi casi l’immagine è parte costituiva, e insostituibile, del prodotto editoriale. In ragione di ciò sul decreto si riversò subito un profluvio di critiche da parte delle associazioni, delle società degli storici e delle consulte universitarie, che furono a più riprese veicolate dalla stampa e dai social media. La fibrillazione raggiunse livelli tali che vi fu anche chi incoraggiò apertamente forme di ‘disobbedienza civile’ rispetto a un tariffario giudicato incondivisibile: “di fronte a tali assurdità imposte da un anacronistico decreto ministeriale (d.m. 161/2023) le reazioni sono le più diverse. Ci sono alcuni (tra cui chi scrive) che propongono la disobbedienza civile anche a costo di affrontare un processo. Ci sono altri (la maggior parte) che adottano una variante “italica” della disobbedienza civile: si fa finta di niente, si pubblica come si è sempre fatto, non si chiedono autorizzazioni, tanto nessuno controlla” (Volpe 2024).

Anche in questo caso la mobilitazione civile non fu vana, se si considera che l’anno seguente il Ministero della Cultura avrebbe emanato un nuovo tariffario, il d.m. 108/2024, che rettificava il precedente rendendo gratuita la pubblicazione di immagini nell’editoria accademica e culturale, in quest’ultimo caso subordinando però la gratuità al difficile riconoscimento del carattere “culturale” dell’opera da parte dell’istituto statale. Si trattava di una significativa marcia indietro da parte del ministero, che in effetti recepì buona parte delle osservazioni critiche, ma che non si sarebbe mai verificata senza il sussulto dell’opinione pubblica.

Il riuso commerciale delle immagini di beni culturali. Minaccia o opportunità?

Se è vero che nell’ultimo decennio sono stati fatti passi avanti significativi nella liberalizzazione delle riproduzioni, è altrettanto vero che l’orizzonte di una piena liberalizzazione, auspicato da più parti e in più occasioni, appare ancora piuttosto remoto. Il principale ostacolo a questa meta è il limite del lucro al libero riuso delle immagini stabilito dal codice dei beni culturali (artt. 107-108), sul quale aveva fatto leva, come s’è visto, il d.m. 161/2023 per assecondare, al contrario, spinte in direzione della massima redditività del patrimonio. Proprio sul tabù del lucro si concentra il fuoco del dibattito attuale che da tempo divampa anche al di là dei confini nazionali. Ne sono prova le politiche intraprese nell’arco degli ultimi vent’anni da un numero crescente di musei in tutto il mondo, come il Metropolitan Museum di New York, la National Gallery di Washington, il Rijksmuseum di Amsterdam, i musei statali di Berlino e molti altri ancora. Questi istituti hanno puntato a rendere scaricabili in rete le immagini delle proprie collezioni per qualsiasi finalità, anche commerciale. Il passato diventa la materia prima per ispirare nuove forme di creatività, le quali hanno bisogno di farsi impresa commerciale per sopravvivere e continuare a produrre opere dell’ingegno. Di conseguenza in questi casi il lucro non solo è permesso, ma è anche promosso attivamente dagli istituti attraverso il download di immagini di ottima qualità. L’alta risoluzione rappresenta anzi la precondizione per un riuso che solo così può essere incentivato al massimo grado, non da ultimo mediante la promozione di veri e propri concorsi banditi dai musei per premiare l’uso più creativo delle immagini delle loro opere. Quelle stesse opere, una volta digitalizzate e aperte agli usi più diversi, solo così divengono realmente ‘di tutti’, acquistando quella dimensione universale che sognava Plümicke per le antichità di Ercolano e Pompei nel lontano 1795, e che è stata richiamata, nel 2019, dal direttore del Cleveland Museum of Art, William M. Griswold al momento del lancio del programma Open Access: “with this move to Open Access, we have transformed not only access to the CMA’s collection but also its usability inside and outside the walls of our museum. Whenever, wherever, and however the public wishes to use, reuse, remix, or reinvent the objects that we hold, our collection is available – as it should be – for we are but caretakers of these objects, which belong to the artistic legacy of humankind” [con il passaggio all’Open Access, abbiamo trasformato non solo l’accessibilità alla collezione del Cleveland Museum of Art, ma anche la sua utilizzabilità dentro e fuori le mura del nostro museo. Ogni volta, ovunque e in qualsiasi modo il pubblico desideri utilizzare, riutilizzare, remixare o reinventare gli oggetti che custodiamo, la nostra collezione è disponibile – così come dovrebbe essere – poiché noi siamo solo i custodi di questi oggetti, che appartengono al patrimonio artistico dell’umanità] (Griswold 2019).

In Italia i musei (soprattutto quelli statali) sembrano essere invece vittime di ansie provocate dal timore di possibili abusi connessi con la diffusione incontrollata delle immagini, che li proiettano in una sindrome da perenne ‘stato d’assedio’. Il lucro non autorizzato diventa qui un potenziale danno da prevenire attraverso la pubblicazione online di immagini degradate, non scaricabili oppure ancora marchiate indelebilmente da una filigrana invasiva tesa a rendere l’immagine inutilizzabile a priori per scoraggiare possibili ‘malintenzionati’, oppure è un’azione da reprimere o sanzionare in sede giudiziaria quando il danno è stato già perpetrato e i buoi sono quindi ormai fuggiti dal recinto. Con una significativa inversione di senso, ciò che in Italia rappresenta una minaccia da cui difendersi, all’estero diventa, al contrario, uno degli obiettivi principali che il museo dovrebbe perseguire come istituto culturale. Anzi, forse non è improprio affermare che sono state proprio le politiche Open Access ad aver contribuito a ridefinire la natura di musei, archivi e biblioteche, che da ‘attrattori culturali’ hanno assunto il ruolo di ‘attivatori culturali’, vale a dire di centri propulsori di innovazione e crescita per la società a tutti i livelli. Questa nuova chiave interpretativa supera quindi il modello tradizionale impostato sulla conservazione, sulla fruizione ‘passiva’ e su meccanismi di rendita parassitaria (licensing e e-commerce) che hanno a lungo caratterizzato le politiche di gestione delle immagini.

Uso (e abuso) dell’immagine del bene culturale tra ricerca della redditività e tutela del decoro

 3 | Manifesto diffuso dal movimento “Fotografie libere per i beni culturali”.

Le obiezioni alla tesi della liberalizzazione dell’uso delle immagini non rispondono solo a esigenze di redditività, peraltro spesso più illusorie che reali, come certifica la stessa Corte dei Conti (Corte dei Conti 2022, 126). Emergono infatti anche profili di tutela del ‘decoro’ e dell’identità collettiva nazionale rispetto a usi commerciali che potrebbero risultare irrispettosi o poco consoni con il carattere storico-artistico del bene. Sono aspetti diversi, redditività e decoro, ma in realtà finiscono spesso per darsi una mano reciprocamente, come testimoniano recenti sentenze di tribunali che, non senza contraddizione, invocano risarcimenti sia per il danno erariale che per il danno immateriale dovuto alla presunta lesione del valore simbolico del bene culturale oggetto di riproduzione non autorizzata. La giurisprudenza sembra arricchirsi periodicamente di casi di questo genere, senza che esistano strumenti efficaci per prevenire o anche semplicemente rintracciare casi di infrazione della norma. Pensare infatti di rincorrere in tutto il mondo ogni possibile abuso è pura utopia, essendo tecnicamente impossibile impiantare forme di monitoraggio di scala globale, per di più su un patrimonio che, come quello italiano, è ovunque diffuso e sconfinato per qualità e quantità di beni culturali. E anche laddove vi fosse questa possibilità, l’onere economico derivante dalle spese per i contenziosi legali la renderebbe antieconomica. La scommessa è quindi persa in partenza, al punto che le regole sembrano quasi essere state concepite per essere violate.

Se si può dimostrare che i diritti sulle immagini costituiscono un business model il più delle volte fallimentare per i musei, è invece più sfuggente la definizione del concetto di ‘decoro’, ed è quindi ancor più difficile riuscire a provare la sua lesione. Eppure il Tribunale di Firenze, nell’aprile del 2023, è riuscito a fare riferimento a una pretesa lesione del ‘genio italico’ che sarebbe stata arrecata a seguito della pubblicazione, con tecnica ‘lenticolare’, dell’immagine del David michelangiolesco sulla copertina di un noto magazine giungendo a riesumare espressioni retoriche che, da almeno ottant’anni, s’era persa l’abitudine di leggere in pronunce giudiziali. Le crociate come questa contro la pubblicazione ‘abusiva’ dell’immagine del David, oltre a risultare incomprensibili ai più, non tengono conto a sufficienza del fatto che questo capolavoro ha acquisito ormai la forza di simbolo universale, che travalica i confini nazionali e che, per questo motivo, continuerà a essere rappresentato ovunque e in qualunque sembianza senza che i tribunali possano fare molto per invertire la rotta.

Nell’ideologia del decoro confluiscono logiche proprietarie e identitarie ispirate a forme di ‘sovranismo culturale’ che annullano, in nome di uno ‘Stato etico’, le prospettive di democrazia della cultura che il digitale, invece, potrebbe e dovrebbe abilitare, soprattutto se si tiene a mente che l’espansione dei diritti proprietari non è mai a somma zero: un diritto in più per qualcuno equivale sempre a un diritto in meno per altri.

Per di più un’autorizzazione preventiva che valuti la compatibilità delle immagini rispetto al decoro si rivela essere uno strumento assolutamente sproporzionato rispetto all’obiettivo che si propone, in quanto viola il principio costituzionale della libertà di espressione (art. 21 Cost.), e in ogni caso risulta insufficiente allo scopo se si pensa che la divulgazione delle immagini di beni culturali pubblici è già libera per fini diversi dal lucro, entro i quali si possono inquadrare rielaborazioni ‘indecorose’ di immagini. Queste ultime, in altri termini, possono già circolare ‘impunemente’ nel web attraverso canali non commerciali. Senza contare che oggi il pensiero si trova a essere sempre di più veicolato dalle immagini, che fanno quindi parte integrante del linguaggio contemporaneo. È allora giusto continuare a porsi il problema? Situazioni eventualmente giudicate critiche da qualcuno potrebbero in ogni caso essere stigmatizzate, a valle, dalla pubblica opinione mediante i mezzi di comunicazione di cui dispone una moderna società democratica, senza necessità quindi di ricorrere a bavagli di qualunque tipo. È innegabile che il riuso dell’immagine possa anche produrre esiti di dubbia qualità, se non addirittura scadenti, ma il principio della libertà d’espressione esiste per permettere a tutti di esprimersi, indipendentemente dalle qualità del soggetto che prende la parola e dal contenuto del messaggio, e senza alcun obbligo di anticipare alcunché innanzi all’autorità pubblica. Da questo punto di vista la proposta di istituire un’agenzia deputata al controllo della circolazione delle immagini (Tarasco 2019, 162, 214, 282) può suscitare numerose perplessità e più di qualche inquietudine (Manacorda 2020, 55).

Possiamo giungere ad affermare che il valore storico-culturale di un bene è meritevole di un’autonoma protezione sotto il profilo ‘immateriale’? Dal punto di vista amministrativo è noto che un bene culturale può essere individuato come tale a seguito di un procedimento finalizzato al riconoscimento di un interesse culturale che identifica nella ‘cosa’ un ‘bene’ sulla base di una valutazione tecnico scientifica svolta al fine di assicurarne la conservazione e, possibilmente, la fruizione pubblica. Il valore storico-culturale ‘immanente’ al bene è funzionale, quindi, alla tutela del bene materiale. Posto che ci sarebbe anche da discutere su tale immanenza (dal momento che il valore dei beni culturali non è un ‘valore in sé’ ma un ‘valore relazionale’, come insegna la Convenzione di Faro del 2005), il riconoscimento del valore storico-culturale in ogni caso costituisce un mezzo, e non il fine della tutela, oppure il pretesto per venerare un feticcio. Al contrario la sopravvalutazione del cosiddetto valore immateriale/spirituale sembra postulare una forma di culto ‘animistico’ del patrimonio culturale, espressione di una ‘sacralità laica’ che in Italia sembra essere particolarmente avvertita. In questa stessa direzione sembra infatti procedere la citata sentenza del Tribunale di Firenze, la quale ha artificiosamente costruito un ‘diritto all’immagine’ del patrimonio culturale, trasferendo alle cose (res) un diritto che, fino ad allora, era stato riconosciuto alle persone, vale a dire il diritto di ciascuno a che la propria immagine non venga divulgata, esposta o comunque pubblicata senza il proprio consenso (Caso 2023). Si è giunti così a una sorta di ‘personalizzazione’ del bene culturale tesa a giustificare forme di tutela dell’immagine del bene culturale, le quali comportano però – è bene ricordarlo – anche un ridimensionamento della tutela di diritti costituzionali, come la libertà di espressione o di iniziativa economica. In altre parole si tratta di una forma di censura culturale che finisce per ammettere un venir meno dei principi di democrazia che dovrebbero caratterizzare il nostro vivere quotidiano.

Conclusioni

Il panorama sin qui delineato ci spinge a credere ancora nel potere trasformativo del pensiero militante espresso da singoli e da associazioni. Ci insegna anche che le mobilitazioni collettive per affermare questioni di principio possono trovare oggi ancora un senso. Esse infatti sono servite per riconoscere il diritto alla libera riproduzione del patrimonio culturale, che per lungo tempo è stato limitata, quando non interdetta, replicando inconsapevolmente situazioni che, secoli prima, si potevano osservare nel museo reale di Portici. Si pone ora all’ordine del giorno il problema dell’uso commerciale di quelle immagini, un uso che trascende le finalità strettamente scientifiche e culturali care a chi studia, tutela o gestisce il patrimonio e che intercetta da vicino le esigenze dei più diversi portatori di interesse a cui quel patrimonio in egual misura appartiene. Sono quelle forme d’uso cui faceva esplicito riferimento Ferdinando Galiani a metà Settecento quando scriveva a Tanucci per invitarlo a commercializzare i volumi delle Antichità di Ercolano Esposte: nel richiamare l’uso che avrebbe fatto di quelle stampe, egli ricordava in realtà la doppia funzione delle stampe dall’antico che, a partire dalla metà del Seicento, vennero veicolate in tutta Europa attraverso la vendita degli atlanti figurati illustrati da Pietro Santi Bartoli e commentati dall’antiquario Giovan Pietro Bellori (Modolo 2018). Questo patrimonio figurativo fu oggetto di studio da parte di eruditi e antiquari, ma fu altrettanto essenziale per artisti e committenti, che si servirono di quelle stesse incisioni per dare vita a un nuovo linguaggio artistico fondato sul riuso dell’antico. E non è un caso se ritroviamo i medesimi motivi iconografici e decorativi veicolati da quelle stesse incisioni sulle volte affrescate di mezza Europa (Aymonino 2021, 132-201). E oggi, a ben vedere, è possibile riconoscere proprio in quegli artisti e committenti gli imprenditori culturali, i creativi e i pubblicitari di oggi che ridanno vita al passato rielaborando le immagini delle opere d’arte custodite nei musei in nuove opere e prodotti.

Anche se la matrice proprietaria della disciplina delle riproduzioni che si ritrova nel codice è la stessa che si leggeva nei regolamenti borbonici, il contesto di riferimento di oggi è abissalmente diverso sotto ogni altro punto di vista. Anzitutto perché nella realtà democratica i beni culturali sono a vocazione inclusiva, appartengono a tutti, e non sono più beni esclusivi di un sovrano assoluto, ma soprattutto perché esiste una dimensione democratica fondata su un quadro costituzionale di riferimento che dovrebbe coerentemente orientare la produzione normativa, anche rispetto alla riproduzione del bene culturale. Tutto questo va tenuto presente quando ci si interroga sull’effettiva opportunità che lo Stato continui a essere titolare, per legge, di privative in materia di riproduzione fondate sulla proprietà pubblica del patrimonio culturale. Se i beni sono di tutti, come già sosteneva Plümicke alla fine del Settecento, allora dovrebbero venir meno anche tutti quei profili aggiuntivi di tutela dettati dall’ideologia della redditività o dall’aspirazione a malintese forme di sovranità culturale. In altre parole l’esperienza del passato sembra indirizzarci verso una visione non più ‘statocentrica’, bensì orientata in modo più diretto verso le esigenze più diverse dei fruitori, anche potenziali, del patrimonio culturale.

Riferimenti bibliografici
English abstract

Mirco Modolo’s contribution traces a historical genealogy of restrictions on the reproduction of cultural heritage, from Bourbon-era bans on copying antiquities in Herculaneum and Pompeii to recent Italian legislation. Through emblematic cases drawn from diaries and archival sources, the article reveals how the state has consistently asserted exclusive control over public heritage, fostering a regulatory regime often marked by irrationality and limited enforceability.

keywords | Cultural Heritage; Public Domain; Herculaneum; Pompeii; Bourbon Regulations; Foto Libere.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Mirco Modolo, Riprodurre il patrimonio culturale. Quando l’abuso diventa (la) regola, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.