Nell’affresco scoperto nel 2008 sul fondo della galleria al primo piano del palazzo, è riconoscibile tra le colonne una figura femminile che rivolge lo sguardo verso un’altra figura alata che le vola incontro. La donna indossa una veste azzurra e un mantello rosso ed è distesa a terra: con la mano sinistra tiene stretto a sé un fascio littorio, mentre una spada giace ai suoi piedi.
A una prima lettura si potrebbe immaginare che la donna distesa sia spaventata dall’improvvisa apparizione dell’ ‘angelo’, ma guardando al complesso della composizione appare probabile che il motivo della paura sia la spada, persa a terra: la donna appare disarmata, atterrita, sconfitta. Osservando più attentamente l’ ‘angelo’, è possibile notare che la figura alata regge nella mano destra una tromba, attributo che promette un annuncio probabilmente glorioso. E in effetti il contenuto del lieto annuncio è indicato dalla figura alata con la mano sinistra, che attira e orienta lo sguardo dell’osservatore: il nunzio celeste indica in alto lo stemma della famiglia Berlendis, posto al centro dell’affresco.
Sullo sfondo della scena è presente un’isola con di fronte un’imbarcazione. Ecco ricomparire, anche in questo dipinto che pare sintetizzare in figure allegoriche il senso del ciclo, il motivo marittimo, sempre presente negli affreschi del piano superiore del palazzo.
Ma prima di tentare un’interpretazione iconologica del tema degli affreschi del palazzo, affrontiamo il tema della datazione e della possibile attribuzione a un importante artista attivo sul territorio a cavallo tra XVII e XVIII secolo.
Una ipotesi di attribuzione
L’analisi del contesto storico, le vicende genealogiche pubbliche e private della famiglia Berlendis, la datazione degli affreschi fissata su base stilistica a cavallo tra fine XVII secolo e inizi XVIII secolo, consentono di avanzare un' ipotesi di attribuzione. Nella zona, negli ultimi decenni del XVII secolo, è molto attivo Domenico Ghislandi (1620?-1717), padre del più noto Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario. Non c’è alcuna evidenza documentaria positiva sul fatto che il quadraturista bergamasco, allievo di Gian Giacomo Barbello, abbia lavorato a Capriolo, ma è importante sottolineare che Domenico Ghislandi muore nel 1717, abbiamo numerose informazioni sulla sua attività fino al 1680 e, dopo questa data, mancano completamente notizie sull’artista e sui suoi lavori (NORIS 1985, p. 279).
Domenico Ghislandi inizialmente si era distinto aiutando il Barbello, suo maestro, negli affreschi di Villa Vimercati Sanseverino a Vaiano Cremasco. Poi prende parte, ancora una volta insieme al suo maestro, alla grande decorazione di Palazzo Terzi nel 1655 (NORIS 1985, p. 278) a Bergamo, affiancando Gian Cristoforo Storer, e alla decorazione di alcune sale di Palazzo Moroni dal 1650 al 1653, sempre nella stessa città (NORIS 1985, p. 278). Successivamente intraprende una strada autonoma che lo porta a sviluppare una sua poetica individuale; in particolare la sua passione per le finte architetture si svilupperà sempre di più con il passare degli anni, fino a prevalere nettamente dal 1676 in Palazzo Pelliccioli del Portone ad Alzano Lombardo, dove le quadrature hanno il sopravvento. Egli non inserisce più delle figure al centro della volta, come era solito fare nelle sue opere precedenti: ora è l’architettura che prevale, propriamente come sarà a Capriolo. L’artista affresca anche Villa Pesenti a Sombreno (1676) e Palazzo Tasso a Bergamo (1680), che lo portano all’apice della sua produzione artistica (NORIS 1985, p. 278). Da questa data in avanti, come si è detto, le fonti tacciono. L’assenza di notizie costituisce un buco cronologico lungo ben trentasette anni, un lasso temporale in cui è possibile ipotizzare la presenza dell’artista a Capriolo. Così Fernando Noris, il più importante esperto di Ghislandi, riassume le caratteristiche principali della pittura dell’artista: primo tra tutti la “verità delle scelte cromatiche e costruttive” (NORIS 1985, p. 282), infatti, il pittore si impegna particolarmente nel far sì che le sue architetture non tradiscano le leggi della prospettiva e dell’architettura. In secondo luogo l’interpretazione rigidamente naturalistica del paesaggio, il più possibile veritiera e presente (NORIS 1985, p. 283). Ghislandi adotta anche il “punto di fuga mobile” teorizzato dai pittori bresciani, da cui il suo maestro cremonese Barbello aveva imparato (NORIS 1985, p. 283).
Per questi motivi i caratteri della pittura di Domenico Ghislandi, in età matura (dal 1676 in poi), si possono sintetizzare in una serie di ambienti dipinti, volumetricamente e strutturalmente immaginati dall’artista in modo completo (nulla infatti è distorto o lasciato al caso), con ampie cornici architettoniche da cui l’artista fa penetrare la visione – tutta immaginale – della natura circostante. La definizione che Noris dà delle architetture “pinte” del pittore bergamasco è “strutture scatolari”: non sfondo, ma per l’appunto cornice, dalla quale poter guardare un mondo (il più possibile veritiero) composto di ruderi e paesaggi in cui si impone, forte, la presenza della natura. Per l’artista, dunque, la natura – o per meglio dire il paesaggio costituito di ambienti naturali con edifici, rovine, personaggi – non costituisce uno sfondo immobile, ma è un vero ‘personaggio’ che anima dall’interno le sue rappresentazioni. Attraverso queste grandi calotte traforate l’esterno penetra in modo fluente, grazie ai festoni contornati di fiori, ai cieli nuvolosi e, soprattutto, alla luce che fa sì che la scena sia mossa e viva, come una apparizione mobile e cangiante a seconda dell’ora del giorno; ed ecco che i cieli dei suoi soffitti si riempiono di nuvole rossastre come accade al tramonto o all’alba (NORIS 1985, p. 283).
Così scrive del pittore il conte Francesco Maria Tassi nelle sue Vite, alla fine del XVIII secolo: “Dirò per fine, di Domenico, che fu molto fondato nella prospettiva, e nell’architettura, la quale pinse ornata bensì, ma con fondamento e naturalezza maggiore di quello si faccia oggidì dalla maggior parte; usò poche tinte, naturali, e tolse dalla verità e non dal capriccio; […] non le facea come si fanno per abbagliare gli sciocchi, né di marmi tersi e politi, né con colonne od altre di tali cose azzurre e gialle e più risplendenti che non è l’iride; ma di color vero e sodo, e che dimostra antichità”. Una lettura critica che si adatta perfettamente anche agli affreschi di Palazzo Berlendis.
Ma anche gli elementi architettonici che Fernando Noris individua come ricorrenti nella pittura di Domenico Ghislandi sono esattamente gli stessi che ritroviamo negli affreschi di Capriolo: “colonne binate, le balaustre e i balconi aperti sul cielo, i vistosi plinti agli angoli, i festoni decorativi, […] medaglioni classici, […] grandi calotte traforate” (NORIS 1985, pp. 283-284). La rappresentazione dei diversi luoghi si divide in due tipi: vi sono, infatti, paesaggi “di finzione”, dipinti nei medaglioni, e paesaggi “veritieri”, nella parte centrale degli affreschi (NORIS 1987, p. 266): ancora esattamente come a Capriolo.
Altri elementi a sostegno di questa ipotesi attributiva sono: la vicinanza spaziale tra Palazzo Pelliccioli del Portone e Palazzo Berlendis ad Alzano Lombardo, luogo in cui i Berlendis avevano residenza (ora pesantemente rimaneggiata) e soprattutto il centro di lavorazione della seta e della lana, attività a cui dovevano la loro ricchezza; la vicinanza cronologica tra il ciclo di Palazzo Pelliccioli (1676), di Palazzo Tasso in Pignolo a Bergamo (1680) e l’acquisto da parte della famiglia Berlendis della casa di Capriolo (a partire dal 1685). Tutti dati che concorrono ad avvalorare l’ipotesi secondo cui l’artefice del ciclo può essere identificato con Domenico Ghislandi.
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La sala da pranzo |
Probabilmente non tutti gli affreschi del palazzo, allo stato in cui li vediamo oggi, possono essere considerati completamente di mano del Ghislandi. Infatti se nella sala da pranzo al pian terreno caratterizzata da quadrature, è più che plausibile riconoscere la mano del pittore bergamasco, negli affreschi del salone e della sala est tutte le caratteristiche depongono a favore dell’attribuzione allo stesso artista, ma i colori lasciano ipotizzare la presenza di restauri successivi, se non già l’intervento di aiutanti del pittore che nel momento in cui avrebbe affrescato il salone era avanti con l’età e comunque in grado di avvalersi di una bottega all’altezza di committenze tanto impegnative.
Va inoltre segnalato, a ulteriore conforto dell’ipotesi attributiva, che Camillo Berlendis negli ultimi due decenni del XVII secolo risiede stabilmente ad Alzano, paese in cui la famiglia si era stabilita a partire dal ‘500 (ANGELINI 1964, p. 6); è del tutto plausibile pertanto la frequentazione tra Camillo e le famiglie nobili bergamasche committenti del Ghislandi e quindi di una relazione diretta con il pittore, considerato anche che il suo diretto concorrente, il pittore bresciano Giovanni Battista Azzola – l’unico artista degno di nota nella bergamasca nel campo delle quadrature – era morto nel 1670.
Un ultimo dato: l’esecuzione degli affreschi di Capriolo si colloca con tutta probabilità tra il 1687 – anno in cui viene acquistato il palazzo dai Berlendis – e il 1710, data che viene indicata come terminus ante quem da Marie Roques Bizot, proprietaria del palazzo nel XX secolo, nelle sue memorie manoscritte, di cui questa ricerca tiene conto per la prima volta (la datazione proposta dalla signora Roques Bizot si basa su documenti per noi perduti o forse, più probabilmente, su una tradizione orali: vide ApRB 1973).
Per tutti questi vari e diversi motivi il ciclo degli affreschi di Capriolo va attribuito, con un buon margine di probabilità, a Domenico Ghislandi, della cui attività mancano notizie proprio nella finestra cronologica in cui i dati documentari e l’analisi stilistica collocano l’esecuzione dell’opera. Una serie di motivi infelicemente concorrenti ha causato l’oblio del nome di Domenico Ghislandi come autore del ciclo di Palazzo Berlendis: il cambiamento del gusto della committenza nella transizione tra XVII e XVIII secolo, rispetto al paesaggismo e alla celebrazione storico-allegorica che è la cifra dell’ultima fase dell’attività del Ghislandi; la riservatezza, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, dei proprietari del palazzo e la conseguente scarsa visibilità degli affreschi; la fama di Fra’ Galgario, il figlio Vittore che di fatto oscura il nome del padre; e da ultimo la disattenzione della critica che si è occupata dell’artista in riferimento soltanto alle località del bergamasco in cui è stato attivo il pittore, trascurando il palazzo di Capriolo che, pur vicino ad Alzano Lombardo e alla stessa Bergamo, si trova in territorio bresciano.
Nelle pitture di Palazzo Berlendis assistiamo a una particolare, singolarissima, commistione tra una poetica improntata su un paesaggismo tardo secentesco e il gusto della celebrazione dei fasti gentilizi. E proprio da questa prospettiva, che interessa il contesto storico in cui si concretizza l’incontro tra la committenza e l’artista, va interrogato il tema iconologico del ciclo di affreschi.
Una lettura iconologica
Il ritrovamento dell’affresco ‘allegorico’, avvenuto nel 2008, è con tutta probabilità la chiave che rende leggibile l’intero ciclo pittorico del palazzo.
Preliminarmente sarà da notare come molto stretti siano sempre stati i rapporti tra la famiglia Berlendis, originaria di Bergamo, e la Repubblica di Venezia. I Berlendis divennero Patrizi Veneti il 28 marzo 1662 in seguito a una cospicua donazione alla Serenissima (ASVE, Barbaro, Reg I, divis. A-B, cc. 473, p. 3); all’epoca dell’acquisizione del patriziato i legami tra la famiglia e Venezia erano però già consolidati da un secolo. Nell’ultimo quarto del XVI secolo Giacomo, figlio di Paolo Berlendis (architetto militare distintosi nella costruzione delle mura di Bergamo per conto della Repubblica di San Marco [Maironi 1819, voll. I, p. 162. Cfr. Belotti 1989, vol. IV, p. 150.]), militare di professione, dopo essersi distinto a Cipro durante l’assedio di Famagosta (BELOTTI 1989, vol. IV, p. 175) nel 1571 e a Lepanto, viene mandato come “Provveditore alle fortezze” dell’isola di Creta (cfr. CORRER, Fondo Cicogna 2612, n.61) e più precisamente di “Candia, Rettimo [costruita dal 1573 al 1582], La Canea, Suda, Spinalunga e Carabusa” (TASSI 1970, vol. II, p. 214). Già anziano, dopo esser stato nominato generale d’artiglieria, viene inviato dal Senato anche a combattere gli Uscocchi nella guerra di Gradisca (1615-1617) dove si distingue, con il suo concittadino Alessandro Agliardi, durante gli attacchi a Trieste e Segna (BELOTTI 1989, voll. IV, p. 175).
Analizzando con attenzione i dettagli degli affreschi presenti nel salone è possibile riscontrare evocazioni di luoghi precisi dell’isola di Candia, mentre nella sala est potrebbe essere rappresentato un episodio particolarmente celebre della guerra di Candia.
Torniamo sull'analisi degli affreschi del salone.
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Salone, lato est: particolare dell'affresco |
Il primo riquadro presenta analogie con una planimetria dell’epoca della città di Candia, l’attuale Iraklion, realizzata dall’ingegnere Daniele Vincenti nel 1641 in cui “sono evidenti i forti e il porto” (ASVE, P.T.M. Busta F. 794, n. 343). Nel dipinto la nave tirata in secca ci consente di capire che siamo in un porto; inoltre nell’affresco si può vedere una rappresentazione del “castello da mar” sul promontorio di Candia in secondo piano, come nella planimetria risalente al XVII secolo (ASVE, Prov. Fortezze, Busta 43, n. 223.); il castello in primo piano, invece, potrebbe corrispondere al forte rappresentato anch’esso sulla planimetria seicentesca.
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Salone, lato nord: dettaglio delle rovine antiche |
Nel secondo riquadro del salone l’isola di Creta, con i suoi villaggi costieri e gli alti monti, resta visibile sullo sfondo, ma l’ambientazione è ora spostata alla piccola isola di Koufonissi, l’antica Leuce, posta a sud di Creta e ricordata già da Plinio il Vecchio (Plinio,
Naturalis Historia, IV 61), anticamente celebre per l’estrazione della porpora, per le terme e anche per un teatro (
vedi il censimento dei Teatri greci e romani pubblicato in Engramma).
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Salone, lato ovest: dettaglio dei 'Monti bianchi' |
Creta, Monti Bianchi (foto 2011) |
Proseguendo in senso antiorario, nel riquadro successivo si trova un paesaggio contraddistinto da montagne che scendono ripide al mare: la roccia è di colore bianco e il dato non è spiegabile con una copertura nevosa, dato che le pendici scoscese arrivano fino al mare. Con tutta probabilità si tratta di una raffigurazione della catena dei Λευκά Όρη o ‘Monti bianchi’, il rilievo dell’isola di Creta così detto per il colore della pietra calcarea che caratterizza questo elemento geografico in modo specifico; particolarmente elevati (2450 metri slm.) sul versante a sud i ‘Monti bianchi’ digradano velocemente verso il mare, a ridosso del quale ci sono solo piccoli villaggi di pescatori. La raffigurazione nell’affresco non rimanda quindi a un paesaggio generico, ma alla composizione minerale di un preciso dettaglio orografico che caratterizza l’isola di Creta.
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Salone, lato sud: dettaglio della gola |
Creta, gola di Samaria (foto 2011) |
Nell’ultimo riquadro non è possibile individuare con precisione un paesaggio specifico: si può solo ricordare che Creta, nella sua estensione, ha parecchie vallate piene di essenze dove scorrono fiumi impetuosi, si ricorda fra tutte la gola di Samaria.
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Sala est: dettaglio del lato sud con la città arroccata |
Nella sala est, sul lato sud, viene dipinta una città arroccata su di un’altura; mettendo a confronto la veduta con le mappe storiche di Creta (ASVE, Prov. Fortezze, Busta 43, dis 153, pos 216), è possibile trovare punti di contatto con Rettimo che era, insieme a Candia, una delle principali città dell’isola e che – ricordiamo – era già stata sotto la guida di Giacomo Berlendis. Comparando il dettaglio del dipinto con i disegni della città cretese risalente alla prima metà del XVII secolo, conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia, è possibile trovare precisi punti di contatto: la rocca fortificata sulla montagna e il porto cinto di torri da cui fuoriescono navi sulle quali sventolano bandiere rosse – come quella di San Marco.
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Sala est: dettaglio del lato nord con nave e fortezze |
Sulla parte del soffitto contrapposta, come se ci trovassimo sull’altra sponda del mar Egeo – e infatti al centro della volta vi è un cielo azzurro, dove fanno capolino le nubi – si vede una nave che resiste ai colpi di artiglieria provenienti dalle fortezze. Si tratta verosimilmente della rievocazione di un episodio fra i primi e più celebri della guerra di Candia, risalente al 1646 (EICKHOFF 1991, p. 53). L’episodio è del marzo del 1646: Tommaso Morosini aveva concepito il piano strategico di tagliare gli approvvigionamenti alle truppe turche non intercettando i bastimenti in mare aperto, ma fermandole all’uscita dello stretto dei Dardanelli. Morosini si presentò davanti allo stretto con solo 22 su 40 delle sue armatissime galee. Dopo essersi rifornito d’acqua, incurante dei cannoni di Tenedo, veleggiò all’interno dello stretto sfilando davanti alle due fortezze costruite da Maometto II alla metà del secolo XV. I Turchi furono più stupiti che spaventati mentre osservavano questa strana processione; infatti il Morosini fece scivolare i bastimenti sotto costa, con le bandiere spiegate e i marinai in piedi in uniforme rossa da parata sopracoperta. Il comandante veneziano fece squillare le trombe e battere i tamburi, ma non rispose alle fitte salve di cannone; infine si mise all’ancora fuori del tiro delle artiglierie ottomane (EICKHOFF 1991, p. 53). Si tratta di uno degli episodi fra i più celebri della guerra di Candia. Nell’affresco si notano personaggi con turbanti che accorrono sconcertati davanti al forte, ultimo baluardo della città rappresentata sullo sfondo. Tra le fortificazioni della città dipinta svetta una torre caratterizzata da un tetto a punta; risulta pertanto possibile avanzare l’ipotesi che l’autore volesse rappresentare la Torre di Galata, che per la sua altezza e la particolare copertura costituisce uno degli edifici simbolo della capitale ottomana.
La fortezza rappresentata in primo piano potrebbe essere identificata con quella di Cimenlick e, data la particolare attenzione dimostrata dal pittore con cui sono state dipinte le varie scene che compongono il ciclo, l’artista potrebbe aver usato un disegno della fortezza come modello. Un altro dettaglio importante è la forma della galea: l’imbarcazione dipinta, infatti, dimostra l’attenzione ai dettagli dell’artista. Si tratta di una ‘galea sottile’, dal castello di poppa di dimensioni ridotte (cfr. CONCINA 1990, p. 96), adottata dai Veneziani nel 1685. Questo particolare ci consente di datare con una certa precisione il ciclo di affreschi: l’artista fa riferimento non già, filologicamente, alle imbarcazioni veneziane in uso nel 1645, durante la guerra di Candia, ma alle nuove imbarcazioni in uso soltanto a partire dal 1685.
L’insieme di questi dettagli rende molto plausibile l’ipotesi che il ciclo di affreschi abbia come soggetti Creta e la guerra di Candia, occasione in cui i Berlendis si distinsero per valore nella guerra condotta dalla Serenissima. La famiglia Berlendis, infatti, come si è detto, fu iscritta nell’elenco dei Patrizi Veneti nel 1646 grazie alla donazione di 100.000 ducati in favore della Repubblica, devoluti per sostenere i costi dell’onerosissima guerra di Candia in cui Venezia sarebbe stata impegnata per più di vent’anni (dal 1645 al 1669) contro l’Impero Ottomano.
Conclusioni: tempi di gloria e tempi di oblio
Gli affreschi nel loro insieme esaltano il dominio marittimo e la fama della Serenissima, uscita vittoriosa dalla lunga guerra: ma la committenza tiene a sottolineare l’apporto alle glorie di Venezia offerto dalla famiglia Berlendis, fin dai leggendari scontri contro i Turchi del XVI secolo. In questo senso la chiave per la lettura dell’intero ciclo è la coppia allegorica dell’affresco della galleria, scoperto nel 2008: la figura femminile è Venezia, con le armi a terra, prostrata dagli sforzi della guerra; ma appare una figura alata – insieme ‘angelo’ della buona novella e figura della Fama – che porta l’annuncio che i Berlendis –il cui stemma, indicato dall’’angelo’, sovrasta la scena – vengono in aiuto alla Repubblica, dandole sostegno. La famiglia vanta già nel suo curriculum imprese coraggiose compiute per la Serenissima come quelle che avevano visto protagonista Giacomo Berlendis a Famagosta, a Lepanto e nella guerra di Gradisca; e nella più recente guerra di Candia grazie alla generosa sovvenzione in denaro Venezia si risolleva dalle difficoltà e vince la guerra per il possesso dell’isola di Creta e l’egemonia sul mar Egeo.
La celebrazione delle glorie famigliari connesse alla recente vittoria della Serenissima assume un particolare valore enfatico: i visitatori del palazzo si trovavano davanti agli occhi la raffigurazione del prestigio raggiunto dalla famiglia Berlendis che, grazie al valore dei suoi uomini e al denaro impegnato nel sostegno di Venezia, come era avvenuto per pochissime famiglie in queste province, era salita agli onori del patriziato.
In seguito all’estinzione della famiglia, quasi contemporanea alla caduta della Repubblica, e al passaggio nel 1802 alla famiglia Renier, più precisamente nella persona di Bernardino figlio di Alvise e Caterina Berlendis (prima mecenate di Antonio Canova), sul ciclo pittorico e sul suo autore cominciarono a calare il disinteresse e l’oblio. Certamente i Renier, data la loro ben più antica antica nobiltà (avevano ottenuto il patriziato nel XIV secolo, in occasione della guerra di Chioggia), non erano interessati nella celebrazione delle imprese della famiglia Berlendis e tanto meno si sentivano rappresentati dalle loro glorie.
Il processo di oscuramento del valore e del senso del ciclo di affreschi si compie con gli ultimi proprietari del palazzo di Capriolo: la famiglia Roques Bizot, originaria di Parigi, a cui per linee di successione oblique arriva il palazzo nel 1850. Per tutto il XX secolo sugli affreschi che celebravano le imprese antiche della famiglia Berlendis e le glorie della Serenissima nella leggendaria guerra di Candia era calato il velo spesso dell’oblio. L’unica traccia, come si è visto utilissima per la datazione, sono i preziosi – e per quanto era possibile precisi– appunti che la signora Marie Roques Bizot annota sulle pagine a quadretti del suo quaderno di memorie.
FONTI ARCHIVISTICHE
ApRB (Archivio privato Roques Bizot) 1973
M. Roques Bizot, Memorie di Marie Roques Bizot datate 1973, Capriolo, Archivio privato Roques Bizot
ASVE (Archivio di Stato di Venezia) BARBARO
M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, Reg I, divis. A-B, cc. 473
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ANGELINI 1964
P. Angelini, 12 palazzi bergamaschi di provincia, Bergamo 1964
BELOTTI 1989
B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1989
CONCINA 1990
E. Concina, Navis: l’ umanesimo sul mare, 1470-1740, Torino 1990
EICKHOFF 1991
E. Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi, Milano 1991
MAIRONI 1819
G. Maironi Da Ponte, Dizionario odeporico o sia storico politico e naturale della provincia bergamasca, Bergano 1819
NORIS 1985
F. Noris, Domenico Ghislandi, in I pittori bergamaschi, Il Seicento, III, 1985, pp. 275-311
NORIS 1987
F. Noris, La grande decorazione, in Il seicento a Bergamo, catalogo della mostra, Bergamo 1987, pp. 261-287
ROQUES BIZOT 1973
M. Roques Bizot, Memorie dell’autrice del 1973, Capriolo, Archivio privato Lantieri de Paratico
TASSI 1970
F. M. Tassi, Vite de' pittori, scultori e architetti bergamaschi, [Bergamo 1793] Milano 1970