"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

94 | novembre 2011

9788898260393

Andrea Porcheddu
Teatro 'bene comune'
Appunti e riflessioni a quattro mesi dall'occupazione del teatro Valle di Roma

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Viene da chiedersi perché l’occupazione del Valle stia sparigliando, così tanto, le regole del gioco. Perché, insomma, stia diventando un “fenomeno” così ribollente, al punto che, alla Biennale Teatro di Venezia, il regista tedesco Thomas Ostermeier abbia dedicato il Leone d’Oro al popolo degli occupanti. E, con lui, anche Stefan Kaegi, ricevendo il Leone d’Argento, ha speso parole di entusiasmo per l’occupazione. Copertine di giornali, articoli in tutto il mondo, documentari, conferenze. L’occupazione dello storico palcoscenico romano – dove nel 1921 debuttavano i Sei personaggi di Pirandello – iniziata a giugno, il giorno dopo i referendum, ha certamente scosso un mondo magmatico eppure statico. Fino a contagiare, mesi dopo, anche la scintillante laguna veneziana inebriata dalla Mostra del Cinema con l’occupazione del teatrino Marinoni, nel complesso ospedaliero del Lido di Venezia (sull'occupazione si veda anche il contributo di Marco Baravalle in questo stesso numero).

Non si possono che condividere, naturalmente, molte delle denunce espresse dagli occupanti (dal futuro del Valle alla gestione della cultura in Italia, dalla lottizzazione del Lido allo scarso sostegno per il cinema italiano; su tutto questo si veda il sito ufficiale dell'occupazione). Ma quel che più di tutto stupisce, in questa lunga e per tanti aspetti encomiabile avventura, è l'assordante silenzio delle istituzioni. Il totale menefreghismo della politica, di quanti, cioè, dovrebbero reagire - nel bene o nel male - all'occupazione. Ancora oggi, salvo qualche frettoloso commento imbarazzato, tutto tace.

Al Valle gli occupanti non sono stati sgombrati (per fortuna, aggiungiamo, contrariamente a quanto accaduto per via Nazionale): ma logica vorrebbe che lo Stato "tutelasse" un così importante bene storico. E se qualcuno occupasse, che so, il Colosseo? Sembra quasi, al contrario, che questa attività, fatta con volontariato e entusiasmo, faccia comodo a tutti. Di fatto, però, si crea il precedente (ambiguo) di una robusta programmazione 'gratis' anche per un teatro importante, centrale e storico, che di fatto viene gestito come un centro sociale: e se il Comune la proponesse anche per la prossima stagione? Andrebbero ancora tutti gratis a fare spettacolo? Tornerebbero i vari Jovanotti, Arbore, Baricco, Orlando e via citando? Insomma: perché stanno ancora chiusi lì dentro?

Anche nelle dichiarazioni fatte dagli occupanti si avverte che i piani erano diversi: dovevano occupare tre giorni o poco più. E ormai sono mesi. Una azione simbolica, un blitz, è diventata una normalità 'tollerata' se non incoraggiata. Certo è davvero curioso che Stato, Comune, Regione, Teatro di Roma non abbiano fatto nulla. Non è incredibile che se ne freghino così tanto?

Il pubblico comunque ha risposto in maniera entusiasta, fa la fila per entrare, con una adesione che non si vedeva nemmeno nei beati anni dell'Eti. Ma questo si sa: il pubblico va a teatro, sempre e sempre di più, ovunque e con passione. Solo i politici non se ne sono accorti. Allora di questo, forse, proprio prendendo spunto dalla vivacissima risposta del pubblico, vale la pena parlare adesso.

Il 'caso Valle' riconferma una tendenza in atto già da tempo, almeno nella Capitale. È evidente come, ormai, siano gli spazi 'alternativi', marginali, periferici, spesso occupati, ad essere i veri motori, i centri pulsanti della vita artistico-culturale. Si tratta, in sostanza, di far uscire il ragionamento dalla logica contingente dell’occupazione militante, per riflettere sul fatto che le evoluzioni sociali in atto – quel ribaltamento internazionale e nazionale variamente definito degli Indignados, oppure Cittadinanza attiva o Green Society, ossia una dimensione sociale intermedia, relazionale, trasversale –  possano scaturire anche dal teatro. In questa prospettiva, però, sembra necessario superare logiche e prospettive consolidate, mutando o addirittura invertendo graduatorie di priorità e possibilità.

Per affrontare questo tema, prendo spunto dal bel saggio di Rafael Spregelburd su Prospettiva, libro di Fabrizio Arcuri e Ilaria Godino per Titivillus Editore. Il regista e autore argentino scrive, tra l’altro, della dialettica Centro/Periferia, riferendosi alla relazione Europa/Argentina, ma la sua analisi può servire anche a valutare quanto accade in Italia non solo nel rapporto tra Roma e la periferia, ma anche – e soprattutto – nella dialettica tra grandi istituzioni culturali e spazi periferici o occupati.

Vediamo, per sommi capi, cosa dice il drammaturgo e regista argentino. Il Centro (l'Europa per Spregelburd) ha bisogno di un Altro per autoaffermarsi. Questo Altro è una illusione storica, costruita dal punto di vista Centrale: il Centro desidera essere informato sullo "stato di crisi", ossia desidera avere narrazioni che funzionino come notiziari, diari naif su vite possibili in mondi lontani. L'Europa si arroga il diritto di costruire miti e visioni in cui "fissare" culturalmente l'Altro.

Interrompo subito Spregelburd: ci sono esempi che confermano il ragionamento. Cito solo alcuni spunti:
- Il mito della grande città resiste (dal cinema di Fellini a La strada per Roma di Volponi, a La vita agra di Bianciardi), e in provincia il 'vengo da Roma' fa ancora effetto.
- Il successo degli spettacoli dialettali o regionali (fissati su un immaginario standard: il crudo Nordest, la selvaggia Sicilia, l'arcaica Sardegna, la comica Toscana, la passionale Napoli…).
- Ancora oggi la 'consacrazione' si ottiene con un passaggio in uno dei teatri della capitale.
E mi chiedo: è valida anche la prospettiva contraria? La Periferia ha bisogno del Centro per esistere? La Lega esisterebbe senza "Roma ladrona"?

Ma torniamo a Spregelburd. Nei Centri, dice il regista argentino, le relazioni culturali si dispiegano (o almeno si dispiegavano) a livelli di Alta Cultura, nelle grandi istituzioni consacrate dalla storia (grandi musei, teatri storici). Nelle periferie si aprono fratture, spazi interstiziali liberi da ambiti consacrati: spazi off, centri sociali, luoghi non convenzionali, alternativi, popolari. Aggiunge il drammaturgo: anche la creatività è eurocentrica e sembra che possa nascere solo nel Centro. Tutte le avanguardie provengono dall'Europa (o dalle capitali: Parigi, Roma, Mosca). Ma dobbiamo intenderci anche sulle definizioni, conclude l'autore: cosa è 'avanguardia'? Chiamiamo 'contaminazioni' ciò che nelle Fiandre sarebbe addirittura 'classico'; chiamiamo 'ricerca' quello che in Germania è 'tradizione'. La suggestione sottotraccia, nel saggio di Spregelburd, è chiara: rimettere in discussione la dialettica Centro/Periferia. Se l'autore argentino è la dimostrazione vivente di come gli equilibri creativi intercontinentali stiano mutando, anche in Italia le cose cambiano. È il centro che irradia le novità? Sono le grandi istituzioni a fare cultura?

La scena teatrale nazionale vive sempre più di geografie alternative, di spazi indipendenti, che tracciano nuove mappe. Basti pensare a Dro, Bassano, al teatro Fondamenta Nuove di Venezia, al Css di Udine, al festival Casteldeimondi di Andria, a Castiglioncello, Prato, Castrovillari, alla storica Santarcangelo. Sono queste le nuove capitali del teatro contemporaneo: ed ecco che la mappa della vivacità teatrale Italiana si fa "centrifuga", anziché centripeta. E sono proprio i piccoli festival, i teatri occupati, le residenze a creare e cogliere le tendenze teatrali del nostro tempo. Allora intendiamoci sul significato delle parole: se la Capitale non è più capitale, le "Eccellenze" non sono più eccellenze. I modelli territoriali in fatto di politiche culturali e teatrali sono invertiti: non più le grandi istituzioni, ma, oggi più che mai, nuovi riferimenti diffusi che agiscono "dal basso", variabili e alternativi. Così, allora, il Valle occupato potrebbe porsi, e si sta ponendo, nel ruolo di futuro sistema modernizzante e modellizzante di cultura e vita teatrale. Se facciamo una rapidissima carrellata storico-cultural-sociale, non possiamo non notare come e quanto siano stati importanti alcuni 'centri sociali occuapati' nello scenario nazionale. Come hanno fatto il Leoncavallo nella Milano degli anni Settanta e Ottanta; il Link di Bologna o il DAM di Napoli negli anni Novanta; così, per anni, a dar impulso alla scena romana hanno pensato, tra i tanti, il Rialto Occupato, il Forte Prenestino, il Kollatino Underground...
(E forse, a ripensarci a distanza di anni, uno degli errori madornali della generazione di artisti romani anni Novanta - quella, per intenderci di Accademia degli Artefatti, Roberto Latini, Ascanio Celestini e molti altri - è stata proprio quella di 'sgombrare' il teatro India dopo una fugace e simbolica occupazione del 2000).

Spazi 'sociali', dunque occupati che, seppure in condizioni di disagio, si assumevano l’onere (e l’onore) di presentare novità, giovani gruppi, tendenze artistiche, di aprire produzioni a contaminazioni e sguardi stranieri. Nel frattempo, i 'teatroni' vivacchiavano inseguendo pubblici e spettacoli impolverati dal tempo e dal senso. Allora, oggi più che mai, sono dunque queste le nuove eccellenze. La mappa dei luoghi occupati è molto più vasta: comprende non solo gli storici centri sociali, ma anche spazi alternativi dalla natura la più varia (non esclusi pub, locali popolari, gallerie d’arte, o altro). Sono questi i luoghi di incontro, di scambio, di riflessione e qui si stanno disegnando, senza demagogia, le possibilità della suddetta Green Society. Luoghi, allora, che sono proprio quelli del 'grande Altro', di ciò che si muove ai margini, in periferia, o addirittura in contrasto con il consolidato, grazie a piattaforme relazionali inedite. Se Facebook e Twitter sono stati fondamentali nella primavera araba, è chiaro che la società si relaziona immediatamente e liberamente, superando le grandi istituzioni culturali.

Green society significa rete di luoghi attivi, produttivi, diffusi, capaci di cogliere le dinamiche creative, di intercettare flussi sociali dal basso, dove forte è la componente giovanile: luoghi in cui sperimentare linguaggi diversi, più ampi e articolati di quelli abituali.
In questo senso, anche il concetto di 'eccellenza artistica' o di 'teatri d'eccellenza' è destinato a scadere, se non è già del tutto scaduto.
Così come i grandi musei cambiano modalità di esposizione e fruizione, anche certi teatri hanno saputo ripensarsi, favorendo un radicale ricambio generazionale nei flussi di ricezione. Allora, eccellenze consolidate come quelle – che so – della Scala o dell'Arena di Verona, contenitori certo di grande qualità e notorietà, diventano meno interessanti nella prospettiva della Green Society: addirittura inutili nell'eventualità, poi non così remota, che restino legati al loro consolidato patrimonio tradizionale.

Ed è in questa chiave, finalmente, che possiamo leggere l’accelerazione impressa dal Valle all’orizzonte nazionale, la ventata d’aria calda che avvolge elementi contrastanti in un’unica vertigine: la tradizione e la storia dell’edificio con la freschezza di un popolo giovane e ribelle; una cittadinanza attiva che assume su di sé l’impegno; il rinnovato ruolo di 'bene comune' del teatro. Tutto si intreccia, in una fase di grave crisi economica e sociale, e configura scenari futuribili eppure molto reali, presenti, concreti.

Addirittura, scrive Romeo Castellucci a proposito del Marinoni occupato:

"questo significa dare un nome alle cose. Teatro al teatro. Cittadinanza ai cittadini. Possibilità alla cultura. Cibo alla fame. 
Perché non hanno chiesto il permesso? La risposta - che mi verrebbe da urlare - è semplice: a chi? 
Allora dico che oggi la creazione artistica - passatemi queste parolone - passa anche per l'invenzione di luoghi pubblici perché il Marinoni è per me una vera invenzione".

Insomma, luoghi re/inventati per una società re/inventata: invertendo l’ordine delle eccellenze, il mondo cambia…

Andrea Porcheddu
Theatre as 'commons'
Remarks and considerations after four months since the squatting of theatre Valle in Rome


In June 2011 the Teatro Valle in Rome started to be squatted by a group of artists, actors, directors and showbiz workers. The intentions were to focus the public opinion on the dramatic situation of culture funding in Italy and to experiment new ways of management. Now, four months after the occupation, Valle is still squatted. Free shows, public conferences, debates, readings are always sold out, and following this example another theatre has been reopened: Marinoni at the Lido in Venice.
This incredible success and the good reception in the world of culture find little or no attention in politics.
Valle management leads to focus on the importance of what Argentinian director Spregelburd wrote about the dialectic between center/periphery, big institutions and small cultural realities. The most powerful and innovative performative shows in the last decade have come from little festivals and squatted places.