Giovanni Cerri
Il dialogo tragico e il ruolo della gestualità
Riassumo in estrema sintesi quanto da me sostenuto e, credo, dimostrato in un precedente saggio, frutto di lunga riflessione e ricerca (Cerri 2005):
1. I tragici del V secolo mostrano, attraverso l’oggettività delle loro opere, di aver voluto rappresentare non tanto fatti mitici e gesta eroiche, quanto il meditare e il discutere degli eroi su tali gesta e fatti. Le tragedie sono prevalentemente dialoghi problematici e tormentosi, non sceneggiature di eventi. Sono caso mai sceneggiatura appunto di dialoghi.
2. I teorici della poesia operanti nel IV secolo, soprattutto Platone e Aristotele, mostrano a tratti una chiara consapevolezza di questa poetica operativa sottesa alla produzione tragica, recependola in alcune formulazioni di carattere generale. La nuova prospettiva così acquisita mi ha permesso di focalizzare meglio, in un intervento successivo, un altro aspetto fondamentale dell’arte tragica: la sua componente realistica ovvero, per dirla in termini classici, la sua imitazione della realtà e la sua verosimiglianza (in greco, mimesis e eikos: Cerri 2009).
Argomento narrativo della tragedia sono i miti eroici e divini della tradizione, cioè storie di un’epoca appartenente a un lontano passato, insieme storica e meta-storica, nella quale gli uomini erano super-uomini e intrattenevano continui rapporti di interscambio con le divinità; essi stessi erano di norma figli di un dio e di una donna, oppure di una dea e di un uomo, oppure appartenenti a una famiglia così iniziata poche generazioni prima. Un’esperienza preclusa per definizione alla gente dell’età attuale, nella quale vige lo statuto opposto della separazione tra uomini e dèi, che possono ormai comunicare fra loro solo attraverso il canale del rito. Di conseguenza, gli avvenimenti propri dell’età eroica sono tutti improntati allo strabiliante, al meraviglioso, quando non al miracolo in senso stretto, e tutto sono fuorché verosimili, se confrontati con la realtà della vita presente. Eppure i pubblici contemporanei percepivano quello spettacolo come specchio della vita reale e lo giudicavano 'verosimile'. E così continuarono a giudicarlo anche i pubblici delle generazioni successive e i critici letterari fino alla fine del mondo antico. Perché? Che cosa trovavano di verosimile in quegli avvenimenti, tanto inverosimili alla stregua della loro esperienza quotidiana?
In realtà, quegli avvenimenti non erano l’oggetto diretto della rappresentazione. Ne costituivano piuttosto l’antefatto, rievocato nel prologo in forma dialogica o monologica, oppure, se qualcuno di essi doveva accadere contemporaneamente all’incontro dialogico visualizzato sulla scena, si immaginava essere accaduto fuori scena, e veniva raccontato poi sulla scena da un personaggio-messaggero. Oggetto diretto della rappresentazione erano le reazioni logiche, emotive e decisionali degli eroi investiti dall’evento; reazioni perfettamente conformi alla mentalità, al mondo di valori, agli usi, cioè ai nomoi vigenti tra i Greci. Qui dunque, nel commento discorsivo, che costituiva l’opera originale del drammaturgo e la specificità del singolo dramma rispetto alla tradizionalità del mito, risiedeva l’elemento realistico, l’imitazione della vita, la verosimiglianza dell’invenzione poematica.
Il pubblico, appena iniziata la rappresentazione, appena uditi i nomi degli eroi personaggi della vicenda, sapeva a priori quale storia stava per ascoltare, ne conosceva lo svolgimento almeno nelle grandi linee, fino alla conclusione finale, felice o infelice che fosse. Da questo punto di vista, nessuna suspense. La sua ansia, la sua curiosità, il suo interesse convergevano invece su ciò che ancora non sapeva: come i fatti ben noti sarebbero stati impostati e spiegati dai personaggi in azione, cioè impegnati in un discorso interpretativo nel quale sarebbero venute fuori le motivazioni logiche, etiche e passionali degli eventi sia precedenti sia successivi, in una dinamica umana ricostruita dal drammaturgo con arte maggiore o minore, vale dire in maniera più o meno 'verosimile'1. E, attraverso questa 'verosimiglianza' poetica, il mito continuava a esercitare, in forme sempre nuove, il suo ruolo di paradigma, di modello comportamentale.
Ansia, curiosità, interesse: un atteggiamento in prima battuta intellettualistico, che però, nel corso dello spettacolo, diveniva catalizzatore di un coinvolgimento emozionale pieno e ingenuo (sempre che il drammaturgo fosse all’altezza): lo spettatore si identificava con il personaggio e provava, come se si trattasse di se stesso, tutte le passioni espresse da lui. Soprattutto 'temeva' per lui e 'compiangeva' le sue sventure (phobos e eleos). Nessuno meglio di Gorgia seppe riassumere in poche parole questa fenomenologia della ricezione tragica: “Un inganno, attraverso le parole e le passioni, nel quale chi sia riuscito ad ingannare è più giusto di chi non ci sia riuscito, e chi si sia lasciato ingannare è più intelligente di chi non sia caduto nell’inganno” (Fr. 23 D.-K.) ; “Di fronte alla buona e alla cattiva sorte di vicende e persone estranee [fatti e personaggi del dramma], l’anima [dello spettatore], grazie alla mediazione delle parole, soffre quasi un suo personale patimento” (Hel. 9). In sostanza: compresenza di inverosimile e di verosimile nella trama di ogni tragedia, ma non pertinenza dell’inverosimile e pertinenza del verosimile al livello della ricezione spettacolare e del giudizio critico.
Coerenti con questo quadro sono alcuni dati, ben noti alla tradizione degli studi, relativi al tipo e al grado di gestualità del personaggio e dell’attore che lo rappresenta sulla scena tragica. Gestualità e mobilità del personaggio sono ridotte al minimo necessario: ingresso e uscita di scena, gesto oratorio, darsi la mano, consegna di qualche oggetto, lettura di una lettera, coprirsi e scoprirsi il volto per vergogna o dolore, espressioni di sofferenza fisica o psichica, ecc.2 Gesti o azioni che esulino da tali categorie sono l'eccezione, non la regola. Per usare una terminologia propria del teatro romano, si può ben dire che la tragedia greca è per eccellenza fabula stataria, non fabula motoria. Ferimenti, morti, uccisioni, suicidi, scontri armati, che costituiscono tanta parte dei miti sceneggiati, non avvengono mai sulla scena, ma sulla scena vengono soltanto narrati da personaggi-testimoni oculari. Nemmeno i sacrifici religiosi di vittime animali sono mai esibiti agli occhi del pubblico (Arnott 1962, pp. 53-56). In generale sono esclusi dalla scena tutti gli avvenimenti extra-verbali, che non siano registrati in diretta dal dialogato e non siano immaginabili sulla sua sola base, anche senza guardare la scena. Cioè non capita mai che dal seguito del dramma si debba dedurre che prima si sia svolta sulla scena qualche azione pratica non verbalizzata in contemporanea (l'apparizione di qualcuno, una colluttazione, la preparazione di un pasto, una vestizione o svestizione, ecc.). Al massimo può succedere che qualche evento molto semplice (entrata o uscita di scena di un personaggio, un gesto, uno spostamento) preceda immediatamente i versi che lo descrivono e impongono al regista la sua realizzazione scenica. 'Immediatamente', cioè senza interposizione di altri versi tra l’evento stesso e la relativa 'didascalia interna'.
Tutti questi divieti apparenti, ma non reali in quanto 'divieti', trovano la loro spiegazione più soddisfacente in un principio compositivo unitario, che dovette guidare il lavoro degli autori, quello della 'mimesi verbale di un evento verbale': il poeta tragico si propone come suo fine di narrare solo attraverso i discorsi diretti degli eroi e considera oggetto della narrazione, non le loro azioni fisiche, bensì il loro dialogare, a commento di quanto è già avvenuto e a progettazione del da farsi, per risolvere i conflitti interpersonali venutisi a creare di conseguenza. La tendenza teorica di Aristotele a porre fuori campo lo 'spettacolo', la opsis, affermando a più riprese che la tragedia deve produrre il suo effetto artistico anche al solo ascolto o alla sola lettura, cioè a prescindere dalla messinscena, non è affatto arbitraria; è al contrario congruente con la poetica operativa del genere: perché, nella tragedia attica, la opsis si risolve davvero nella semplice visione di personaggi dialoganti fra loro e la gestualità dell’attore si risolve, quasi senza residui, nel gesto oratorio che accompagna la parola. Passiamo ora ad esaminare due passi della Poetica che vertono su questo tema, il primo propedeutico al secondo, il quale, se correttamente interpretato, ci mostrerà come il ragionamento da noi svolto sia stato in qualche modo accennato da Aristotele stesso:
ἔστιν μὲν οὖν τὸ φοβερὸν καὶ ἐλεεινὸν ἐκ τῆς ὄψεως γίγνεσθαι, ἔστιν δὲ καὶ ἐξ αὐτῆς τῆς συστάσεως τῶν πραγμάτων, ὅπερ ἐστὶ πρότερον καὶ ποιητοῦ ἀμείνονος. δεῖ γὰρ καὶ ἄνευ τοῦ ὁρᾶν οὕτω συνεστάναι τὸν μῦθον ὥστε τὸν ἀκούοντα τὰ πράγματα γινόμενα καὶ φρίττειν καὶ ἐλεεῖν ἐκ τῶν συμβαινόντων˙ ἅπερ ἂν πάθοι τις ἀκούων τὸν τοῦ Οἰδίπου μῦθον. τὸ δὲ διὰ τῆς ὄψεως τοῦτο παρασκευάζειν ἀτεχνότερον καὶ χορηγίας δεόμενόν ἐστιν.
[...] ἐπεὶ δὲ τὴν ἀπὸ ἐλέου καὶ φόβου διὰ μιμήσεως δεῖ ἡδονὴν παρασκευάζειν τὸν ποιητήν, φανερὸν ὡς τοῦτο ἐν τοῖς πράγμασιν ἐμποιητέον.
Po. 1453b 1-14
Può accadere che terrore e pietà conseguano alla visione, come può accadere che conseguano alla struttura stessa delle azioni, il che viene prima ed è proprio di un poeta migliore. In effetti bisogna che, anche a prescindere dalla visione, il racconto sia strutturato in maniera tale che chi ascolti [senza guardare] le azioni in atto, provi terrore e pietà in conseguenza di quanto accade; come in effetti sperimenterebbe chi seguisse con il solo ascolto la trama dell’Edipo. Ottenere lo stesso effetto [terrore e pietà nel pubblico] attraverso la visione è meno specifico dell’arte (poetica) ed è invece da addebitare alla coregìa [cioè, all’organizzazione dello spettacolo].
[...] Dal momento che il poeta deve procurare il piacere che deriva attraverso l’imitazione dalla pietà e dal terrore, è evidente che ciò debba essere inserito poeticamente nelle azioni.
Il discorso è lineare, di lettura facile e senso indiscutibile. Lo spettacolo tragico, nella sua concretezza teatrale, integra fra loro due componenti: il testo poetico, che è oggetto di studio proprio dell’arte poetica, e la messinscena (scelta e addestramento degli attori e dei coreuti, pannelli dipinti, arredi ecc.), che dipende invece dalla coregìa, cioè dalla somma stanziata dal corego e dall’arte di varie figure professionali, diverse dal poeta, il quale può anche intervenire su questo secondo elemento, ma casomai in qualità di regista, non in quanto poeta. Fine dello spettacolo tragico è, sul piano emotivo, produrre nel pubblico 'pietà' e 'terrore': è evidente che questo effetto può essere prodotto sia dal testo poetico sia dall’elemento spettacolare. Se le due componenti agiscono insieme e sinergicamente, nulla quaestio. Resta inteso però che l’elemento primario dello spettacolo è il testo poetico, mentre la messinscena è solo l’elemento secondario; la tragedia deve essere pienamente fruibile anche al solo ascolto, anche se, per ipotesi assurda, lo spettatore chiudesse gli occhi e si limitasse a sentire il dialogato. È perciò deplorevole, è segno di inettitudine, che un poeta non sia capace di destare pietà e terrore con il solo testo, affidandosi per questa funzione alle risorse estrinseche della coregia. Esempio positivo è, come al solito, l’Edipo re di Sofocle (il testo dice semplicemente "dell’Edipo", ma, dato il registro stilistico sommario e brachilogico del trattato, si riferisce senza il minimo dubbio a questa tragedia), nel quale è il processo verbale in se stesso ad attanagliare l’uditorio nella morsa dell’emozione e della commozione.
Il brano, chiarissimo nel contenuto e nella terminologia, ci servirà da chiave ermeneutica nei confronti di un brano successivo, che è molto simile ad esso, e che preso isolatamente è molto meno perspicuo, ma contiene ciò che qui ci interessa in particolare. Vale allora la pena di enucleare, dalla lettura fatta, alcuni dati pertinenti alla concezione e al linguaggio di Aristotele: la distinzione fra testo e spettacolo si esprime nella coppia oppositiva σύστασις τῶν πραγμάτων, ‘struttura/assemblaggio delle azioni, cioè dei fatti narrati’, e opsis, ‘visione’. L’espressione σύστασις τῶν πραγμάτων, di significato indiscutibile, può essere sostituita nel prosieguo del discorso dal semplice πράγματα, termine che risulta del tutto equipollente alla locuzione estesa. Opsis è la visione da parte degli spettatori, cioè tutto quello che essi vedono guardando alla scena: corpi umani fermi o in movimento, oggetti, sfondi pittorici. La preposizione ἄνευ nell’espressione ἄνευ τοῦ ὁρᾶν, sinonimica di ἄνευ τοῦ ὄψεως, significa ‘senza’, ma anche ‘a prescindere da’, perché si riferisce sia all’atto concreto (ma improbabile) del chiudere gli occhi da parte degli spettatori sia all’operazione astrattiva del prescindere dall’elemento spettacolare in sede di critica poetica. Data la loro opposizione polare alla opsis, ‘visione’, le espressioni σύστασις τῶν πραγμάτων e πράγματα vengono a indicare, come abbiamo già detto, il ‘testo’, vale a dire né più né meno che il ‘dialogato’. Ebbi a rilevare già nel mio primo saggio sull’argomento, a proposito di altri passi della Poetica, che i termini aristotelici πράττειν e δρᾶν, pur mantenendo il significato generico di ‘agire’, sembrano restringere vieppiù il loro ambito denotativo in una direzione per noi francamente paradossale: in fin dei conti, si riferiscono al ‘parlare’. Ma la parola, se produce ripensamento e decisione, non è in qualche modo ‘azione’? Dunque, pragma è l’‘azione verbale’, pragmata sono le ‘azioni verbali’, σύστασις τῶν πραγμάτων è la ‘strutturazione delle azioni verbali’ che, nel loro insieme, costituiscono il dramma.
Ma torniamo ora alla Poetica di Aristotele:
τὰ μὲν οὖν περὶ τὴν διάνοιαν ἐν τοῖς περὶ ῥητορικῆς κείσθω˙ τοῦτο γὰρ ἴδιον μᾶλλον ἐκείνης τῆς μεθόδου. ἔστι δὲ κατὰ τὴν διάνοιαν ταῦτα, ὅσα ὑπὸ τοῦ λόγου δεῖ παρασκευασθῆναι. μέρη δὲ τούτων τό τε ἀποδεικνύναι καὶ τὸ λύειν καὶ τά πάθη παρασκευάζειν(οἷον ἔλεον ἢ φόβον ἢ ὀργὴν καὶ ὅσα τοιαῦτα)καὶ ἔτι μέγεθος καὶ μικρότητας. δῆλον δὲ ὅτι καὶ ἐν τοῖς πράγμασιν ἀπὸ τῶν αὐτῶν ἰδεῶν δεῖ χρῆσθαι ὅταν ἢ ἐλεεινὰ ἢ δεινὰ ἢ μεγάλα ἢ εἰκότα δέῃ παρασκευάζειν˙πλὴν τοσοῦτον διαφέρει, ὅτι τὰ μὲν δεῖ φαίνεσθαι ἄνευ διδασκαλίας, τὰ δὲ ἐν τῷ λόγῳ ὑπὸ τοῦ λέγοντος παρασκευάζεσθαι
καὶ παρὰ τὸν λόγον γίγνεσθαι. τί γὰρ ἂν εἴη τοῦ λέγοντος ἔργον, εἰ φαίνοιτο ᾗ δέοι3 καὶ μὴ διὰ τὸν λόγον;Po. 1456a 33 – b 8
1. Ciò che riguarda il pensiero [contenuto nelle rheseis] si legga nei libri Sulla retorica: infatti appartiene piuttosto a quella linea di ricerca.
2. Sono secondo pensiero tutte le cose che debbono essere espresse dal discorso [ma qui logos si riferisce in particolare alla rhesis]. Loro elementi sono il dimostrare, il risolvere problemi, l’esprimere/suscitare passioni (come pietà, terrore, ira e quant’altro) e ancora grandiosità o meschinità.
3. È evidente che anche nelle azioni [cioè nei dialogati] bisogna attingere a tali categorie4,quando sia necessario esprimere/suscitare sensi di pietà o di timore o di grandiosità o di quotidianità5.
4. Senonché la differenza è in ciò: le passioni del primo tipo [cioè quelle a livello di pensiero' della rhesis] debbono manifestarsi a prescindere dalla rappresentazione drammatica; mentre quelle del secondo tipo [cioè quelle a livello di 'azioni'/dialogati (vedi terza sezione del brano)] debbono essere espresse nel discorso [dialogico] da chi (di volta in volta) parla ed emergere secondo il discorso [dialogico].
5. Infatti, quale sarebbe la funzione del parlante, se si manifestassero validamente anche non attraverso il discorso? [Cioè: se si manifestassero validamente attraverso la sola gestualità e non anche attraverso la parola?].
La prima cosa di cui bisogna rendersi conto, per comprendere a pieno il passo, è il referente (piuttosto che il significato) di διάνοια, ‘pensiero’. Nella teoria antica del discorso, significa esattamente ‘contenuto noetico’ e si contrappone polarmente a λέξις, ‘elocuzione’, la quale si determina attraverso due operazioni espressive distinte e complementari, la 'scelta' e la 'disposizione' delle parole (ἐκλογὴ καὶ σύνθεσις ὄνομάτων). Nella Poetica di Aristotele mantiene certo questo significato primario, ma subisce una ben precisa limitazione di uso: si riferisce per lo più al contenuto noetico delle rheseis, cioè delle ‘tirate’, dei discorsi prolungati che di quando in quando i personaggi fanno sulla scena senza essere interrotti dall’interlocutore, per esprimere compiutamente un loro punto di vista6. In questo senso, è per Aristotele uno degli elementi costitutivi della tragedia, affiancandosi a μῦθος, ἦθος, λέξις, μελοποιία, ὄψις. Ed è elemento sia sul piano qualitativo, in quanto come ‘pensiero’ si distingue dalla ‘trama’ dell’opera, dal ‘carattere’ dei personaggi, dal ‘dettato’, dalla ‘musica’ e dallo ‘spettacolo’, sia sul piano quantitativo, perché riguarda solo parti determinate del testo drammatico, appunto le rheseis. Ciò premesso, cerchiamo di spiegare nella loro sequenza le cinque sezioni in cui si articola il brano.
Sezione 1) La διάνοια è il ‘pensiero’ espresso da un personaggio in un discorso prolungato, con il quale egli mira a convincere l’interlocutore (nonché il pubblico teatrale); un discorso di questo tipo è ipso facto un discorso oratorio; le norme che ne regolano la διάνοια (come del resto quelle che ne regolano la λέξις) Aristotele le ha già esposte analiticamente nella Retorica, alla quale perciò, per non ripetersi inutilmente, rinvia il lettore.
Sezione 2) Di quali elementi (μέρη) si compone in sostanza la διάνοια? Di elementi logici, quali i procedimenti dimostrativi (τό τε ἀποδεικνύναι καὶ τὸ λύειν); di elementi emotivi, come le passioni (πάθη ... οἷον ἔλεον ἢ φόβον ἢ ὀργὴν καὶ ὅσα τοιαῦτα) e di connotazioni valutative, miranti a esaltare o ridimensionare ciò di cui si parla (μέγεθος καὶ μικρότητας).
Sezione 3) Aristotele, a scanso di equivoci, chiarisce che nella tragedia gli elementi emotivi, i πάθη (soprattutto pietà e terrore) e le connotazioni valutative (esaltazione eroica e riduzione alla verosimiglianza quotidiana), sono, anzi debbono essere diffusi in tutto il corpo del dramma, “anche nell’azione” dialogica (καὶ ἐν τοῖς πράγμασιν), dal momento che è fine specifico dell’intera tragedia suscitarle nell’animo degli spettatori. Ci mancherebbe altro che 'pietà' e 'terrore', 'grandiosità' e 'quotidianità' fossero limitati alle sole rheseis!
Sezione 4) Tra elementi emotivi contenuti nella διάνοια delle rheseis (sezione 2) ed elementi emotivi contenuti nel resto dell’azione (sezione 3) c’è però una notevole differenza di statuto compositivo e ontologico. I primi, essendo funzione di un discorso oratorio in se stesso autosufficiente, che produce il suo effetto appunto come tale, “debbono manifestarsi a prescindere dalla rappresentazione drammatica (ἄνευ διδασκαλίας)". Vale a dire: il discorso del personaggio (il logos-rhesis), costruito come un vero discorso oratorio compiuto, deve scatenare l’emotività di chi lo recepisce anche se decontestualizzato dal resto del dramma e dalla messinscena (anche se preso isolatamente e letto a tavolino o recitato, ad esempio, nel corso di un simposio o di una lezione scolastica o di una presentazione antologica). Il termine διδασκαλία ha così il suo abituale significato tecnico-teatrale di ‘messinscena’, ‘produzione drammatica’, ‘organizzazione dello spettacolo’. Viceversa, gli elementi emotivi contenuti nell’azione dialogica non debbono scaturire dalla singola battuta (come quegli altri scaturiscono dalla singola rhesis), bensì debbono derivare dalla sequenza orchestrata delle battute dei personaggi dialoganti, per di più debbono emergere in stretta connessione con le loro parole (καὶ παρὰ τὸν λόγον γίγνεσθαι). C’è qui un riferimento evidentissimo alla componente gestuale, alla gestualità mimetica dell’attore, che è però un bene solo se è illustrata preventivamente dal dialogato, se si limita a seguire passo passo la parola poetica (logos), mai prescindendone o trascendendola. Il principio operativo è lo stesso che era stato enunciato in maniera più diffusa nel brano precedente, nel quale la gestualità in opposizione alla parola veniva ricompresa nell’ambito della opsis, la ‘visione/spettacolo. Ma qual è la ragione profonda della norma? Eccola:
Sezione 5) “Quale sarebbe la funzione del parlante, se (gli elementi emotivi) si manifestassero validamente anche non attraverso il discorso?”. Aristotele dunque, con la quarta e con la quinta sezione di questo brano, giunge ad affermare esplicitamente proprio ciò che dicevamo all’inizio: oggetto dell’arte poetica è la parola, non il gesto; il gesto, nella misura in cui sia opportuno, deve seguire e assecondare la parola, non scavalcarla, deve essere παρὰ τὸν λόγον.
Del brano or ora analizzato sono state date le più diverse interpretazioni, nessuna delle quali risulta convincente. Lo ammettono con franchezza alcuni dei commentatori. Ad esempio, Hardy 1932 annota alla fine: “Le texte et le sens de cette phrase sont très douteux”; Lucas 1968: “It cannot be claimed that this section on διάνοια is satisfactory. It remains obscure how διάνοια is expressed if not in speech”. Vorrei soffermarmi un momento sull’errore comune ai più, i quali, nella quarta sezione, hanno riferito τὰ μὲν agli elementi emotivi menzionati nella terza e τὰ δὲ a quelli menzionati nella seconda, laddove nell’uso greco τὰ μὲν e τὰ δὲ in genere si riferiscono rispettivamente a quanto detto prima e a quanto detto da ultimo. Lo hanno fatto perché fuorviati da un richiamo illusorio: è sembrato loro che τὰ δὲ ἐν τῷ λόγῳ ὑπὸ τοῦ λέγοντος παρασκευάζεσθαι καὶ παρὰ τὸν λόγον γίγνεσθαι (sezione 4) fosse una ripresa evidente del concetto iniziale ἔστι δὲ κατὰ τὴν διάνοιαν ταῦτα, ὅσα ὑπὸ τοῦ λόγου δεῖ παρασκευασθῆναι (inizio della sezione 2). Di qui un groviglio di aporie, tra le quali ne segnalo in particolare tre. Una volta identificati τὰ μὲν con gli elementi emotivi inerenti all’azione, ἄνευ διδασκαλίας avrebbe a un dipresso il senso di ‘senza commento verbale da parte del personaggio’. Di conseguenza, il termine διδασκαλία verrebbe ad assumere in questo contesto un significato davvero improbabile, più ancora che insolito; si fa dire ad Aristotele una cosa palesemente in contrasto con la sua dottrina, cioè che l’emotività inerente all’azione debba essere comunicata al pubblico dal solo gesto, senza intervento della parola. Una volta identificati i τὰ δὲ con gli elementi emotivi inerenti alla διάνοια trasmessa dal λόγος, dire di essi che “debbono essere espressi nel discorso da chi parla ed emergere secondo il discorso” è banale tautologia; e il commento successivo, “quale sarebbe la funzione del parlante, se si manifestassero validamente anche non attraverso il discorso?” è insieme truismo ridicolo e contraddizione in termini penosa: come prospettare, sia pure per deprecarla, l’eventualità che i contenuti del pensiero espresso da un personaggio attraverso il discorso (soggetto dei verbi successivi) siano espressi senza il suo discorso e che perciò il suo discorso resti defunzionalizzato? Potrebbe Aristotele, fondatore della logica formale, parlare in maniera così sgangherata? Ha proprio ragione Lucas 1968: “It remains obscure how διάνοια is expressed if not in speech”. Ma l’espressione ironica si ritorce proprio contro il suo modo di leggere!
Dunque, il gesto dell’attore deve essere paralogico, nel senso che segue passo passo il contenuto del λόγος dialogato e si limita ad attuarne le indicazioni, essendo esclusi tassativamente gesti che non rientrino in questa categoria, che non trovino supporto diretto nella parola pronunciata dai personaggi. Lo dice Aristotele, e così è nella realtà delle tragedie conservate. Se si rileggono tutte con l’attenzione rivolta a ciò, ci si accorge immediatamente che è possibile individuare tre tipi fondamentali di gestualità, in base alla specificità del rapporto con quanto detto da chi la mette in opera ovvero dal suo interlocutore.
Primo tipo) L’attore gestisce, mentre parla o ascolta, così come fanno i comuni parlanti nella conversazione quotidiana. Gran parte di questi gesti non trovano riscontro esplicito nel contenuto del dialogato, ma dobbiamo comunque immaginarli, perché certi gesti, al pari del lessico, della morfologia e della sintassi, sono dettati dalla norma linguistica, sono per eccellenza παρὰ τὸν λόγον, per il semplice fatto che ne fanno parte integrante. Solo in determinati casi l’autore li rileva nel contenuto del dialogato, e ciò avviene quando ritiene opportuno che siano evidenziati dalla recitazione e rilevati distintamente dal pubblico. Potremmo chiamarla 'gestualità retorica paralogica', ma l’espressione, letta da chi non fosse stato particolarmente attento al ragionamento preparatorio, ingenererebbe qualche equivoco, potrebbe fare corto circuito con il termine filosofico paralogismo; la chiameremo perciò 'gestualità retorica paraverbale'. In effetti, si tratta proprio di quel fenomeno linguistico o paralinguistico oggettivo dal quale prendono le mosse i trattati retorici antichi, nella loro ultima sezione canonica dedicata alla ὑπόκρισις/actio, per proporne una stilizzazione tecnica7.
Secondo tipo) L’attore compie un singolo atto gestuale, non 'retorico' ma operativo, suggerito dal contenuto del dialogato a livello di comando o di semplice constatazione. Si siede, si alza, si avvicina, si allontana, si prosterna, si mette o si toglie un mantello, porge un oggetto, ecc. Potremmo chiamarla 'gestualità operativa ipologica', in quanto appunto è suggerita puntualmente dalla parola dei personaggi-attori, ὑπὸ τοῦ λόγου. Ma anche in questo caso ripiegheremo su un’espressione scevra di connotazioni filosofiche estranee: 'gestalità operativa ipoverbale'.
Terzo tipo) Ci sono poi casi, veramente rari, nei quali la parola del dialogato lascia intendere che uno o più attori inscenino un’azione pratica complessa, cioè composta di una serie coordinata di gesti successivi, non registrati uno per uno dalla parola stessa; una sorta di mimo gestuale, fruibile solo attraverso la visione, non attraverso l’ascolto. Potremmo chiamarla 'gestualità pratica metalogica', in quanto è sì annunciata dal discorso, ma lo trascende nella visualità pura. Dimensione extra-verbale e rarità statistica la connotano come eccezione alla norma. Diremo: 'gestualità pratica metaverbale'.
Per chiarire il discorso, illustrerò brevemente qualche caso accentuatamente gestuale del secondo tipo e qualcuno dei rarissimi casi del terzo tipo, individuabili nel corpo delle tragedie superstiti. Per quanto riguarda il primo tipo, è onnipresente ed è affidato alla competenza linguistico-gestuale dell’attore (magari consigliato dal regista), dunque a sue scelte ampiamente libere, per giunta variabili da una messinscena all’altra; non è perciò passibile di analisi positiva. Per spiegarmi meglio, posso fare qualche exemplum fictum. Poniamo che un personaggio stia narrando un episodio della sua vita passata e abbia a dire: “Vedevo tutte le navi sul mare allontanarsi dalla riva…”. L’attore avrà certo accompagnato queste parole con qualche gesto, ma con quale in particolare? Avrebbe potuto 'fare solecchio', per rievocare il suo scrutare il mare; oppure avrebbe potuto distendere il braccio in avanti con l’indice puntato all’infinito, alludendo alle navi ormai lontane; oppure avrebbe potuto portare la mano destra alla spalla sinistra e poi ruotare circolarmente il braccio semipiegato verso destra, a indicare l’allontanarsi in atto della flotta. Oppure la mano sinistra alla spalla destra?
“Volto caro di mia sorella, del mio stesso sangue!”: che avrà fatto l’attore? Avrà teso le braccia verso l’altro attore ad accennare un abbraccio; oppure avrà accostato tra loro le due mani semiaperte, ad accennare la forma del volto amato; oppure si sarà portato una mano al petto (cioè 'al cuore'), a significare affetto struggente. L’attore sceglieva di volta in volta liberamente, come sceglieva di volta in volta il tono, il volume, la sillabazione e l’articolazione fonetica di ogni singola parola da lui pronunciata. In qualche caso specifico, il poeta può aver sentito il bisogno di rilevare a livello testuale qualche singolo gesto di questo tipo, per esempio un segno di diniego con la testa: ma allora il gesto in questione, in quanto registrato nel testo, ricade 'per definizione', ipso facto, nel secondo tipo.
Esempi di gestualità operativa ipoverbale (secondo tipo)
Eschilo, Eumenidi, vv. 34-38: la Profetessa annichilita dalla vista delle Erinni.
La Profetessa di Delfi, pronunciata la prima parte del prologo, che consiste in una preghiera agli dei, augurale per la giornata di lavoro che la attende, entra nel tempio per raggiungere il tripode dal quale dovrà vaticinare, dunque esce di scena attraverso una porta praticata sul fondo scenico, ma riesce immediatamente fuori, cioè rientra sulla scena, in una postura davvero insolita. Terrorizzata da quanto ha visto nel tempio (Oreste sporco di sangue in atto di supplice sull’omphalòs e intorno a lui le Erinni addormentate) le sono venute meno le gambe, è costretta a muoversi carponi e così continua a fare per il tempo necessario a pronunciare i primi cinque trimetri della seconda parte del prologo:
“Cosa orrenda a dirsi, orrenda a vederla,
m’ha ricacciato fuori dalla casa del Lossia,
non riesco a reggermi, non sto in piedi,
cammino con le mani, non sulle gambe:
una vecchia impaurita è niente, è solo una bambina”.
Euripide, Eracle, vv. 629-636: Eracle si trascina dietro i figli piccoli, abbarbicati alle sue vesti.
Il finale del secondo episodio è una vera e propria scenetta di genere, quasi un mimo, che potremmo intitolare Il ritorno del soldato, un ritratto di famiglia con papà, mamma, figli e nonno: i bambini, ancora pieni della paura accumulata negli ultimi giorni e nelle ultime ore, ma felici del sospirato ritorno del loro padre invincibile, gli si avvinghiano intorno, afferrano convulsamente i bordi del suo vestito, impedendogli di procedere e di riportarli all’interno della casa; egli si schermisce, cercando invano di staccarli da sé ed apostrofandoli con battute scherzose, ma alla fine si rassegna a camminare così e a trascinarseli dietro, “come una nave che traina barche a rimorchio” (v. 631 sg.).
Euripide, Troiane, vv. 740-763: abbracci e baci tra Astianatte e Andromaca.
Andromaca è già sul carro che deve portarla alla nave di Neottolemo, cui è stata assegnata come schiava di guerra. In braccio o accanto a lei è Astianatte, ancora piccolissimo, incapace di parlare e di capire quello che si dice (così al v. 749). Sopraggiunge l’araldo ad annunciarle che non può portare con sé il piccolo, perché gli Achei hanno deciso di ucciderlo ora, prima della partenza della flotta; le ingiunge anche di sopportare la disgrazia senza tentare di resistere e senza abbandonarsi ad offese verso i vincitori: altrimenti il corpicino sarà per giunta escluso dalla sepoltura. Non avendo scelta, Andromaca si attiene al consiglio tremendo; tuttavia pronuncia una rhesis accorata, nella quale effonde disperazione, strazio per il distacco e per la sorte della sua creatura, amore materno frustrato nella maniera più atroce. Le sue parole visualizzano una serie di gesti, compiuti sia dal figlio che da lei, delineando nel loro insieme uno schizzo pantomimico: il bambino scoppia a piangere e si avvinghia alla madre, come se capisse quello che sta succedendo (vv. 749-751); Andromaca lo abbraccia teneramente, struggendosi all’odore della sua pelle (v. 757 sg.); infine lo bacia sulla bocca (v. 763). Resta un dubbio riguardo alla messinscena. L’infante era impersonato da un bambino di quattro-cinque anni, che fosse capace di eseguire le istruzioni di regia? Era solo un bambolotto, spupazzato dall’attore impersonante Andromaca, e il suo vagito era prodotto da un doppiatore invisibile? O era davvero un infante, maneggiato come un bambolotto? O ci troviamo di fronte ad uno dei tanti casi di 'scenografia verbale' e tutto era lasciato all’immaginazione del pubblico, sulla base delle parole pronunciate dal personaggio? Ognuna di queste soluzioni presenta margini consistenti di inverosimiglianza. È probabile che, nelle varie messinscena del dramma, i registi abbiano optato ora per una ora per un’altra. Impossibile indovinare quale sia stata quella prescelta nella presentazione originaria all’agone del 415: sarebbe tentativo presuntuoso, dunque anche futile.
Sofocle, Filottete, III-IV episodio: accenni di colluttazione fisica.
Primo accenno (v. 974 sg.): Neottolemo fa l’atto di restituire l’arco a Filottete. Odisseo, entrato improvvisamente sulla scena, gli blocca il braccio e gli impedisce di farlo. I due gesti avvengono simultaneamente tra primo e secondo emistichio del v. 974, in antilabé8.
Secondo accenno (vv. 999-1005): Filottete fa il gesto di avvicinarsi allo strapiombo roccioso, per gettarsi in mare; Odisseo ordina l’intervento immediato dei suoi uomini, che lo bloccano, tenendolo per le braccia. Tutto ciò si evince dal dialogato ed è evidente che gli attori si comportano di conseguenza. Poi il dialogo continua senza ulteriori colpi di scena, ma Filottete parla restando in questo stato di costrizione fino al v. 1054, quando Odisseo comanda di lasciarlo libero.
Terzo accenno (vv. 1254-1258): Odisseo vuole impedire a Neottolemo di tornare da Filottete a restituirgli l’arco, ma non riesce a convincerlo. Passa allora a minacciarlo fisicamente: “Non vedi la mia destra che corre all’elsa della spada?”. Neottolemo reagisce impavido: “Ma vedrai anche me fare lo stesso, senza indugiare un attimo!”. Odisseo desiste prudentemente: “Bene, ti lascio perdere; ma andrò a raccontare i fatti a tutto l’esercito, che ti darà la giusta punizione”. I due attori sono costretti l’uno dopo l’altro a compiere il gesto di portare la mano all’elsa della spada, come per sfoderarla; alla minaccia dell’uno si contrappone il gesto di sfida dell’altro; poi il primo dei due fa l’atto di desistenza9.
Euripide, Oreste, vv. 208-315: Elettra assiste Oreste malato.
All’inizio del dramma si vedono sulla scena Elettra, che pronuncia il prologo, e Oreste, addormentato sul suo letto di malato. La malattia è psichica: continue crisi allucinatorie nelle quali gli compaiono minacciose le Erinni, proiezione mentale del rimorso o, meglio, dell’orrore per il matricidio da lui commesso, per quanto giusto e inevitabile fosse stato. Ma la malattia psichica è anche fisica, perché ogni crisi allucinatoria lo spossa e si conclude con la caduta in un sonno morboso. Ora appunto sta dormendo e continua a dormire per tutta la durata del prologo e della parodo. All’inizio del primo episodio, finalmente si risveglia e prende a dialogare con la sorella. Ogni battuta dell’uno e dell’altra allude e implica un atto di cura di lei verso di lui, in una sequenza che si risolve in una mimesi insieme verbale e gestuale dell’assisteza infermieristica prestata da una sorella affettuosa a un fratello ridotto in uno stato deplorevole, anche dal punto di vista igienico: lo solleva, per metterlo in posizione seduta; gli deterge la bava dalla bocca e le secrezioni dagli occhi affaticati; lo sorregge, perché non cada di fianco; gli toglie dagli occhi i capelli raggrumati dalla sporcizia; su sua richiesta, lo rimette in posizione supina; lo solleva di nuovo, perché il malato desidera essere sollevato quando è steso ed essere steso quando è sollevato, non trovando requie; lo fa scendere dal letto e gli fa fare qualche passo per sgranchirgli le gambe. Poi Oreste è ripreso dall’allucinazione erinnica: l’attore si esibisce nella mimesi del folle in pieno stato confusionale. Elettra cerca a più riprese di bloccarlo e calmarlo, ma viene scambiata da lui per un’Erinni che lo voglia ghermire. Alla fine Oreste riprende coscienza, obbedisce alla sorella e torna a letto, si riaddormenta.
Euripide, Oreste 1567-1624: sequestro di persona.
Siamo verso la fine del dramma, che va assumendo un ritmo sempre più concitato, quasi da film di violenza. Oreste e Pilade, penetrati avventurosamente all’interno della reggia, hanno scannato Elena e sequestrato Ermione, la figlia di Elena e Menelao. Tutto ciò, secondo la norma, è avvenuto fuori scena, appunto all’interno del palazzo: Coro e pubblico ne sono stati informati prima dall’ascolto di frasi urlate all’interno ma che si sentono distintamente anche all’esterno, poi dal racconto del servo Frigio, uscito in funzione di exaggelos. Ha inizio poi la trattativa tra Menelao e Oreste, che è uscito sul terrazzo della reggia (in termini teatrali, sul theologeion), insieme a Pilade ed Ermione, tenuta prigioniera dai due. È questa appunto la scena ricca di mimica gestuale: i rapitori tengono la spada vicino al collo dell’ostaggio e fanno ripetutamente l’atto di sgozzarla sotto gli occhi del padre (e del pubblico), perché Menelao rifiuta di accedere alle loro richieste di impunità. La situazione impossibile sarà a breve risolta dall’intervento del deus ex machina.
Esempi di gestualità pratica metaverbale (terzo tipo)
Eschilo, Coefore, vv. 1048-1064: Oreste in preda ad un accesso di follia.
Concluso l’ultimo stasimo, ha inizio l’esodo. L’interno del palazzo, con i cadaveri di Clitennestra ed Egisto, è reso visibile al pubblico. Ne esce Oreste, il quale pronuncia di nuovo, ad esecuzione avvenuta, il suo atto di accusa contro coloro che ha appena giustiziato ed esibisce come prova dell’antico delitto l’accappatoio ancora sporco di sangue, con cui Agamennone era stato a suo tempo intrappolato. È il trionfo della vendetta. Ma, in questo stesso momento, il trionfatore, colui che ha spinto la vendetta fino al matricidio, diviene a sua volta il bersaglio privilegiato della vendetta. Lo presente, lo sente, e vede le Erinni. È un’allucinazione, un parto della sua coscienza ormai malata, dato che le vede solo lui, nessun altro le vede. O forse invece è una teofania reale, anche se esclusiva, dato che subito dopo le Erinni si concretizzeranno sulla scena e costituiranno il Coro dell’ultima tragedia della trilogia. Comunque, per ora, è una visione solo sua, ed egli la descrive a chi non vede, e perciò lo giudica impazzito in conseguenza dell’enormità di quanto ha fatto. Oreste inizia a descrivere la visione con un grido inarticolato, extra metrum: ἀᾶ. Poi, nel giro di 17 versi, ripartiti tra battute sue e battute del Coro, rappresenta il suo incubo. Al termine, fugge via precipitosamente, verso Delfi.Dal contenuto e dal dettato risulta evidente che l’attore, in questo breve squarcio onirico, deve simulare e mimare la gestualità concitata propria di chi sta uscendo di senno, stravede, è posseduto da dèmoni maligni.
Eschilo, Eumenidi, vv. 117-142: incubo delle Erinni e risveglio dal sonno.
Dopo il v. 63, l’interno del tempio appare al pubblico, che finalmente vede con i propri occhi la scena appena descritta dalla Profetessa. Dopo il v. 93, Oreste, per ordine di Apollo stesso, sfugge alle Erinni addormentate e si avvia verso Atene. A questo punto compare il fantasma di Clitennestra. È una scena davvero singolare: il fantasma visualizza agli occhi del pubblico il sogno delle Erinni; meglio, il sogno è rappresentato realisticamente, secondo la superstizione più arcaica: il fantasma del defunto è venuto fuori dall’Ade e incombe fisicamente sul dormiente, che di conseguenza lo vede in sogno e ascolta le sue parole. Clitennestra esorta le Erinni a svegliarsi al più presto e a riprendere l’inseguimento del fuggiasco; le dèe, addormentate profondamente, stentano a risvegliarsi. Le battute di Clitennestra descrivono al vivo le reazioni delle Erinni addormentate e sognanti; ma è evidente che il Coro è qui costretto a mimare concretamente i ronfi, i mugolii, i gemiti, i contorcimenti delle dormienti ossessionate dall’incubo e indotte a poco a poco a svegliarsi. Ed è questo uno dei pochi casi in tutta la tragedia greca nei quali alle informazioni fornite dal testo poetico si aggiungono didascalie fuori testo: 'mugolio', 'lamento', 'duplice mugolio di tono acuto'. A un certo punto le Erinni sognano di essersi già svegliate e di aver ripreso la caccia, mentre in realtà dormono ancora; e sotto l’effeto del sogno, pronunciano davvero parole di esortazione reciproca. Ne viene fuori il seguente trimetro:
"Acchiappa, acchiappa, acchiappa, acchiappa, attenta!”.
I tre trimetri finali del brano sono anch’essi attribuiti al Coro e suonano così:
“Svegliati, e tu sveglia lei, ed io te, dormi? alzati! scaccia via il sonno, vediamo se c’è del falso in questo proemio”.
Sembra probabile che ogni segmento sia pronunciato da un singolo e diverso coreuta, mentre il Coro nel suo insieme mima il risveglio progressivo del gruppo. L’espressione “questo proemio” è à double face: si tratta del sogno, che sarebbe preludio al nuovo inseguimento, se Oreste fosse fuggito davvero, ma potrebbe essere anche un preludio illusorio, se il sogno fosse stato falso e Oreste stesse ancora lì; nel contempo si tratta del pantomimo fonico-gestuale inscenato dalle Erinni, che fa oggettivamente da 'proemio' alla parodo che sta per essere intonata.
Sofocle, Filottete, vv. 730-826: urla e spasmi di dolore.
Filottete cade in preda a un accesso acuto della sua malattia, con dolori lancinanti. È una scena di realismo crudo: entrambi gli attori, che impersonano rispettivamente il malato e Neottolemo intento ad assisterlo, sono impegnati in una mimica gestuale esagitata. In particolare, quello che impersona Filottete è impegnato anche in una mimica fonica, con grida reiterate e guaiti inarticolati, spasmodici, che si espandono fino a colmare la misura di interi versi. Il brano fuoriesce volutamente e platealmente dal canone di compostezza gestuale che di solito accompagna il dettato tragico; è infranto contestualmente il principio in base al quale il messaggio è integralmente filtrato attraverso la parola, mentre gesto e voce degli attori mantengono un ruolo soltanto sussidiario. E questa volta non si tratta di pochi versi, ma di un intero episodio.
Sofocle, Edipo a Colono, vv. 833-886: rissa tra vecchi.
Creonte è venuto a Colono per convincere Edipo, con le buone o con le cattive, a tornare con lui in Beozia. Prima cerca di persuaderlo che è meglio per lui, poi cerca di persuadere i vecchi del Coro a lasciarglielo portare via di forza, sostenendo di averne diritto, in quanto re di Tebe e capofamiglia della stirpe regale. Quando si rende conto che tanto Edipo quanto i vecchi sono irriducibili, passa a vie di fatto. Fa presente di aver già sequestrato Ismene nei paraggi del luogo in cui si svolge la scena e di tenerla in ostaggio. Si accinge a fare altrettanto con Antigone, in maniera che Edipo, per riavere le due figlie, sia costretto a sottomettersi al suo volere. Dà ordine alle sue guardie di prenderla e trascinarla via (v. 826 sg.). Si scatena la bagarre: i vecchi si frappongono tra Antigone e le guardie, contrastandole fisicamente; entra nella mischia anche Creonte, che poi prende a pretesto una maledizione lanciata da Edipo per afferrare anche lui e farlo direttamente prigioniero; la baruffa continua tra urla e spintoni, finché non arriva sulla scena Teseo stesso, il re di Atene; a questo punto Creonte desiste dal suo atto di forza e la scena torna tranquilla, almeno dal punto di vista gestuale. Tutto ciò è descritto efficacemente dal dialogato, ma gli attori sono costretti a una mimica attiva, che segue bensì il dialogato, ma lo trascende a livello di spettacolo. Sofocle sottolinea in maniera plateale, con un artificio metrico-lirico, il carattere insolito della violenza sulla scena: apre e chiude il brano con due strofette isolate di undici versi ciascuna, in responsione fra loro: vv. 833-843 e 876-886. Il ritmo è agitatamente giambico-docmiaco. Il che significa poi che il quadretto inaudito risultava agli occhi del pubblico incastonato tra due movenze musicali, che lo qualificavano come parentesi pantomimica.
Si potrebbero fare vari altri esempi sia del secondo sia del terzo tipo, fino a esaurire la casistica reperibile nelle trentuno tragedie superstiti. Ma non intendevo offrire un repertorio completo, che del resto è stato già redatto da altri10, anche se ovviamente non nel quadro della mia concettualizzazione e catalogazione. Volevo invece limitarmi a dare una breve esemplificazione di quest’ultima, per mostrarne la genesi concreta nei testi. Vorrei però aggiungere qualche parola sulla qualità del rapporto che a mio giudizio si deve postulare tra gestualità di primo tipo da una parte e gestualità di secondo e terzo tipo dall’altra: non metterei in opera un’opposizione 'regola' vs. 'eccezione', quale ha una sua plausibilità in grammatica, nonostanti le obiezioni molteplici che le si possono muovere in sede di linguistica teorica e storica; ricorrerei piuttosto all’opposizione istituita dalle varie teorie moderne dell’istituzione letteraria tra 'canone' e 'infrazione' o 'deviazione' voluta rispetto al canone, concependo quest’ultima come operazione artistica coscientemente mirata a ottenere determinati effetti sul piano del messaggio e della ricezione.
Obiettare, come in questi ultimi tempi è divenuto vezzo frequente tra gli studiosi del dramma antico, che abbiamo troppo poco della tragedia attica effettivamente prodotta nel V secolo a.C. per distinguere 'canone' e 'infrazione', non mi sembra pertinente rispetto alla realtà dei testi a nostra disposizione: trentuno tragedie intere, tutte più lunghe di mille versi ciascuna, non sono un campione troppo ristretto per stabilire linee di tendenza compositive e concezioni poetiche. Non si tratta di redigere una statistica astratta, espressa con una frazione che abbia al numeratore il numero delle eccezioni/infrazioni registrate e al denominatore il numero delle tragedie disponibili (appunto trentuno). Questa sì, che sarebbe una rilevazione insignificante! Si tratta invece di constatare come un tipo di gestualità risulti assolutamente dominante all’interno di ogni singolo dramma, nonché di tutti i drammi superstiti presi insieme; e come tipi di gestualità diversi risultino relativamente rari, e perciò portatori di senso teatrale specifico. Tanto più che la teorizzazione conseguente trova poi riscontro positivo nelle affermazioni di carattere generale depositate da Aristotele nella Poetica.
Insistere sull’obiezione che le tragedie in nostro possesso sono troppo poche, rispetto a quelle che furono scritte realmente, può anche sembrare ragionevole, ma non lo è affatto. Se la stessa obiezione venisse mossa alla storia della letteratura greca nel suo complesso, e venisse per giunta accolta, dovremmo gettare alle ortiche tutto (dico: tutto) quanto crediamo di sapere al riguardo, in considerazione del fatto che tutta la letteratura greca superstite è quantitativamente poca cosa rispetto a quella che fu effettivamente scritta e che è andata perduta. E lo stesso varrebbe per tutte le storie di letterature antiche, medioevali, moderne e, perché no?, contemporanee: certo la letteratura contemporanea non ha conosciuto ancora il fenomeno della sparizione massiccia di un’alta quantità di opere, ma obiezioni del tutto analoghe, se assunte sine grano salis, potrebbero portare allo stesso 'scetticismo (im)metodico': quante sono le opere scritte nel corso dell’Ottocento e del Novecento restate inedite? e che percentuale delle opere effettivamente scritte ed edite è effettivamente conosciuta dagli studiosi? non operano anche i contemporaneisti su una selezione molto ristretta, determinata non dalla sparizione di opere, ma dalla loro stessa mole ingovernabile? non opera anche in loro un 'canone' di tipo 'classicistico', sdegnosamente respinto in sede teorica, ma praticato di fatto, per i limiti oggettivi della mente umana? È allora evidente che c’è un’unica via: elaborare con giudizio il materiale a disposizione, quando appaia verosimilmente rappresentativo del fenomeno oggetto di studio.
Note
1. La 'verosimiglianza' investe globalmente la personalità dei personaggi (e, di riflesso, la ricezione da parte del pubblico), coinvolgendo in una unità inscindibile sia la sfera razionale sia la sfera passionale. Ciò tanto nella realtà delle tragedie quanto nella teorizzazione di Aristotele. Vedere in quest’ultima una contraddizione continua, un’impossibilità di conciliare 'risultato cognitivo' e 'impatto emotivo' della tragedia, è frutto di puro e semplice fraintendimento, indotto da categorie filosofiche sclerotizzate. È l’equivoco in cui è caduta gran parte della critica moderna; in misura davvero pesante Donini 2004, passim, soprattutto p. 37 sg.
2. Repertori tendenzialmente completi si possono trovare in Capone 1935, pp. 92-97; Shisler 1945. In particolare sui casi di contatto fisico tra i personaggi, vedi Kaimio 1988.
3. ᾗ δέοι è congettura di Vahlen; i codd. A e B portano ἡδέα e così doveva essere anche nel cod. greco a monte della versione araba; quello a monte della traduzione latina di Guglielmo di Mörbeke (che traduce con idea) doveva portare ἡ ἰδέα, congetturato come lez. originaria da Maggi. Come vedremo, la varietà di queste lezioni e congetture è sostanzialmente ininfluente agli effetti del senso globale della frase, che resta comunque univoco.
4. Di norma χρῆσθαι, ‘servirsi di…’, regge il dativo semplice; qui, eccezionalmente, un complemento di origine/provenienza con la preposizione ἀπὸ: è probabilmente un’espressione colloquiale, sul cui senso finale non possono sussistere dubbi.
5.