English abstract
Apparizioni metagrammatiche e autobiografia per immagini
Allegorie, ammiccamenti e ritratti di spettatori nei racconti evangelici del Greco del periodo italiano
Lionello Puppi
Ai fini di una plausibile, concreta restituzione della vicenda biografica di Domínicos Theotocópoulos – che sarà detto il Greco – negli anni del suo soggiorno in Italia, perdurando la stasi del contributo archivistico, non sarà ozioso tornar a riflettere su qualche passaggio non proprio insignificante della pur notissima lettera (fu edita dal Ronchini per la prima volta or è quasi un secolo e mezzo) con cui Giulio Clovio, addì 10 novembre 1570, al cardinal Alessandro Farnese, ai servigi del quale allora si trovava, chiedeva l’ospitalità “solo de una stanza” all’ultimo piano “nel palazzo” del prelato a Roma, per un “giovane candiotto discepolo di Titiano”: ch'è per l'appunto il nostro Domínicos. Sappiamo che la petizione del miniatore croato (di nascita, ma d’origine macedone) sarà accolta e che il pittore raccomandato sarà prontamente ammesso a far parte del prestigioso circolo farnesiano, che frequenterà con assiduità stringendo rapporti di confidenza con suoi esponenti di spicco e, segnatamente, con il bibliotecario Fulvio Orsini, sino all’estate del 1572, allorché ne sarà bruscamente allontanato per ragioni che, più avanti, sarà giocoforza perseguire.
Ma veniamo a quei passaggi della breve missiva cloviana glissati o scansati dai più tra gli studiosi, cominciando da quell’allusione a un discepolato presso Tiziano del “giovane candiotto”: che sappiamo esser giunto tra le lagune al finir del 1566 o all’inizio del 1567 – dunque, sui venticinque anni per esser nato ne1 1541 – provenendo dall’isola dove già si era affermato come “maestro pittore” presso la comunità latina minoritaria, e professar fede cattolica a dispetto dell’appartenenza a famiglia di confessione ortodossa (per una sintesi, vedi Panagiotakis 1986, 37 sgg., Costantoudaki.Kitromilides 1999). Somma prudenza, voglio dire, è d’obbligo, e a maggior ragione in quanto il Clovio era ben edotto del peso che il nome di Tiziano doveva avere sul cardinale la cui consuetudine con il Vecellio, seppur ad intermittenze, risaliva a più di venticinque anni prima (ancorché, per ciò che noi sappiamo, si fosse interrotta ad una lettera inviata dal pittore il 10 dicembre 1568: vedi Tiziano. L’epistolario, doc. 259). Ma è sull’ambiguità della nozione di discepolo che convien stare in guardia, sconsigliando affrettate e perentorie conclusioni. Posto ch’è stato provato (Puppi 2004, 28-30), non esser più possibile riconoscere Domínicos nel “molto valente giovine mio discepolo” che il Vecellio segnale a Filippo II in lettera del 3 dicembre 1567 (Tiziano. L’epistolario, doc. 244) e che va correttamente identificato con Emanuel Amberger, è tuttavia da escludere l’ipotesi, ricorrente, della coincidenza del ruolo di “discepolo” con quello di “aiuto” o “collaboratore”; d’altra parte alla data del 1567, la compagine della bottega del pittore cadorino – da tempo formata nei modi di una struttura altamente specializzata, sostenuta e garantita da un vicendevole rapporto fiduciario, ch’era stato costruito sulla consuetudine quotidiana nell’applicazione al lavoro governata implacabilmente dall’autorità del Maestro – è da considerarsi tutt’affatto impermeabile a nuove ed estemporanee assunzioni. Sappiamo, tuttavia, che Tiziano ammetteva accanto a sé e per periodi di variabile durata, affinché imparassero il mestiere guardandolo dipingere, giovani di talento e delle più diverse provenienze (la testimonianza vasariana ha il suffragio dei documenti) sulla malleveria, però, o, se possiam dir così, sulla cauzione, di raccomandazioni autorevoli e tali, magari, da far immaginare contropartite.
Il ‘discepolato’ del Theotocópoulos non poteva che rientrare in siffatto meccanismo: ma chi sarà stato l’avallante? Accantoniamo, per un momento, la presunzione di conferirgli nome e cognome, per avanzare il sospetto che si sia trattato di chi aveva propiziato il transito del giovane maestro da Creta a Venezia, garantendogli alloggio ed occasioni di lavoro che il maggior fratello Manoussos – esattore fiscale della Serenissima a Candia e ancora nelle nient’affatto mediocri condizioni economiche che gli avevano consentito di curare l’educazione non solo artistica di Domínicos – difficilmente si sarebbe potuto permettere. E ciò nel momento in cui il “giovane candiotto” rinunziava a trovar riparo, e lavoro, nell’ambito della Comunità veneziana dei Greci (meta obbligata, viceversa, dei pittori suoi conterranei, quali un Giorgios Klontzes e un Michail Damaskinos), a riprova della già avvenuta conversione alla fede cattolica, senza, però, doversene curare e potendosi anzi prender la libertà di trafficar disegni, trovar clienti e praticar atéliers prestigiosi, giacché è fuor di dubbio che, non solo allo studio tizianesco al Biri Grande abbia avuto accesso, ma anche a quello del Tintoretto a San Giacomo dell’Orio. Porsi, a questo punto, l’ulteriore quesito se non siam al cospetto dello stesso deus ex machina che sta dietro al passaggio del Theotocópoulos a Roma, è inevitabile, così come il ritorno ad un altro passaggio finora scarsamente approfondito della lettera del Clovio al Farnese da cui abbiam preso le mosse.
Allorché il miniatore croato raccomanda al Farnese il suo giovane protetto, quest’ultimo è già arrivato a Roma, ma dai più sembra non essere stato notato che è già riuscito a prendere contatto con esponenti di quel mondo pittorico, per un verso esibendo ad essi con successo un proprio autoritratto, e per l’altro agganciando il Clovio e ottenendone la lettera di raccomandazione per i Farnese. Torniamo così al nodo di una accorta regia superiore, e non ignara – ad esempio – che quel Clovio che doveva rientrar nella sfera delle sue relazioni, dai Farnese era di casa, e al cardinal Alessandro legato da un rapporto di sincera ed affettuosa dimestichezza. In mancanza d’alternative più convincenti e sovrattutto fondate su prove inoppugnabili, resto ancora aggrappato all’ipotesi – suffragata solo dalla suggestione implicita nell'attribuzione al Theotocópoulos del Ritratto di Giovanni Soranzo già nel Chrysler Museum di Norfolk, VA – che il Candiotto possa esser giunto a Roma aggregandosi al corteo che accompagnò quel patrizio, eletto ambasciatore straordinario della Serenissima presso la corte papale per mettere a punto i termini della partecipazione veneziana alla Lega antiturca e che attinse l’Urbe all’inizio dell’ottobre del 1570, e trovando provvisoriamente alloggio presso il palazzo di San Marco (Puppi 1999, 350-351).
Ciò non impedisce, però, che la regia governante le peripezie di Domínicos da Creta a Venezia e da Venezia a Roma sia da riconoscersi in un legame del pittore con esponenti della famiglia patrizia dei Grimani, stabilito (siccome già convincentemente suggerito da Marías 1997, 53, 71, 72, 74; Marías 1999, 51 e da Calì 1999, 302-303), e converrà, una volta per tutte, approfondire. Ma intanto, con Claudia La Malfa, è il caso di rammentare che, prima di passar al servizio, sul finir degli anni Trenta, del cardinal Alessandro Farnese, allora insediato nel palazzo della Cancelleria (La Malfa 2010, 264), Giulio Clovio era stato assiduo di “Marino cardinal Grimani, appresso al quale – lo afferma il Vasari, confortato dalla testimonianza di Francisco de Hollanda che incontrò il miniatore nella residenza romana della famiglia veneziana – attese lo spazio di tre anni a disegnare […] a penna minutissimamente e con estrema e quasi incredibile diligenza”. È verisimile, pertanto, che la consegna, per dir così, del giovane protetto candiotto al Clovio affinché lo raccomandasse al cardinal Farnese, sia stata effettuata dal fratello di Marino, Giovanni Grimani, un cui intervento esplicito e diretto presso il prelato romano, del quale pur vantava l’amicizia (Arch. di Stato, Parma. ‘Carteggio farnesiano estero’. Venezia, 509, passim), era, tuttavia, sconsigliato dal perdurar dei sospetti d’eresia al di là dell’assoluzione tridentina, e insomma dall’ostilità della Curia verso il veneziano che, dal consanguineo, e sin dal 1546, aveva ricevuto il titolo di patriarca di Aquileia (Firpo 2005, 841 ss.) e, in quanto tale, prima di incamminarsi verso l’Urbe, potrebbe averlo ritratto proprio il Theotocópoulos (Puppi 2007, scheda 118).
Spremuta la missiva di spalleggiamento del Clovio quanto bastava per spillarne almeno il succo di quesiti non più eludibili, continua a restarci preclusa la conoscenza degli accordi in base ai quali Domínicos fu accolto in Palazzo Farnese: ove è ragionevole pur ammettere che, in cambio di prestazioni artistiche, il Candiotto ricevesse vitto e alloggio (ma difficilmente anche il paio di servitori e il cavallo ch’eran stati a suo tempo concessi al Clovio), è da escludere che avesse sottoscritto l’impegno ad ottemperare a regole di comportamento, una trasgressione alle quali avrebbe comportato – secondo la maggior parte di chi ha ritenuto di soffermarsi su siffatto dettaglio – il brusco licenziamento comunicato da Ludovico Tedeschi, maggiordomo del cardinale che si trovava allora a Caprarola, al pittore in Roma all’avvio dell'estate del 1572.
In effetti, protestando nella lettera datata a 6 luglio, emersa dalle emerite ricerche di Perez de Tudela 2000 – ed è epistola d’elegante dettato volgare, da far insorgere il dubbio che sia stata stesa dal Clovio o dall’Orsini –, di “non trov[are] en [sé] né occasione né causa per la quale meritass[e] questo scorno”, e chiedendo di poterle conoscere “per soddisfattion” sua e “come huomo che n’a caro l’honor” suo, il Theotocópoulos è in buona fede, giacché non poteva nemmeno immaginare ciò che invece sarà chiarissimo al suo primo biografo Giulio Mancini (Puppi 1984, 145-146), vale a dire che una sua avventata boutade arrogante su Michelangelo e il suo Giudizio lo rendeva immediatamente e irreversibilmente incompatibile con il circolo farnesiano e con l’ambiente romano tout-court. Neppur si cura, il cardinal Alesssandro, di replicar qualcosa alle accorate, e dignitose, proteste del pittore e, sempre per il tramite del maggiordomo, si limita a reiterar l’ingiunzione che costringerà Domínicos a mettersi in proprio, previa l’ascrizione d’obbligo alla Corporazione di San Luca, cui provvederà il 18 settembre di quello stesso 1572. Ma chi poteva trovar il coraggio di offrir lavoro al dissacratore di Michelangelo ch’era incorso nell’ira di uno tra i maggiori potenti, e capace perdipiù di rancori implacabili, di Roma?
Che, a condizioni siffatte, e prima di guadagnar la Spagna tra 1576 e 1577, al Theotocópoulos non restasse che riguadagnar la patria veneziana e riaffidarsi a chi fin là lo aveva protetto, a me continua a parer ovvio pur nella persistente, ostinata assenza di prove sicure. Ma possiamo davvero dichiararla perentoriamente, codesta assenza, ammettendone la definitiva e irrimediabile ineluttabilità, e mettendoci quindi una croce sopra, o non sarà il caso di domandarci se non sia per avventura l’esito progettato e ben costruito di una scelta lucida e imperterrita? Ostile a lasciar tracce di sé, Domínicos sembra sin dal momento in cui lascia l’isola natia; al di là del licenziamento da casa Farnese e dell’ascrizione alla Fraglia, e per quattr'anni, quel disagio sembra tradursi in contrarietà e ripulsa. Ma non sarà, tuttavia, che, nascondendosi, si preoccupasse di informarci, e sia pure in forma criptica, attraverso l’insinuazione, entro il tessuto narrativo delle opere che, pur parsimoniosamente veniva sfornando, d’apparizioni anomale, quali metagramma o sciarada?
La cacciata dei mercanti dal Tempio, conservata presso l’Institute of Arts di Minneapolis, ma proveniente dalla Collezione del Duca di Buckingham in York House, è caposaldo del periodo italiano del Theotocópoulos, garantita dalla firma ΔΟΜΗΝΙΚΟΣ ΘΕΟΤΟΚΟΠΟYΛΟΣ ΚΡΗΣ ΕΠΟΙΕΙ è generalmente riferita al momento del soggiorno in Roma. Iconograficamente, l’opera obbedisce ad uno schema ben divulgato e dallo stesso pittore collaudato in una precedente redazione, sulla quale converrà tornare, oggi presso la National Gallery di Washington: la scelta del soggetto, e l’interpretazione di esso, rispondono, come ho già cercato d’argomentare (Puppi 1994) all’intransigenza di una fede cristiana inconciliabile con qualsivoglia tentazione di profitto materiale e ch’è speculare, nell’esercizio dell’arte, al rifiuto dell’arbitrio della licenza.
Ora, se il primo dato adombra l’intima, profonda conflittualità che dovette presiedere alla scelta, da parte del Nostro, della fede cattolica chiedendo d’esser placata e riscattata dalla ‘militante’ certezza rappresentata nell’allegoria del miles cristiano dello scomparto centrale del trittichetto dell’Estense di Modena, l’altro designa i valori inalienabili dell’arte pittorica – colore, disegno,‘maniera piccola’ – attraverso i ritratti del volto di chi aveva saputo asserirli alla perfezione – Tiziano, Michelangelo, il Clovio – e di chi aveva saputo raccoglierne e farne propria la lezione: e si tratta, nella sfilata in basso a destra, dell’enigmatico personaggio all’estremità.
Intorno all’identificazione dei primi tre, non possono sussistere dubbi, giacché disponiamo dei riscontri inequivocabili e, del resto, con il Cadorino e il Croato, Domínicos aveva abbastanza confidenza da trattenerne, nitida, la memoria delle fattezze (e, mentre, del secondo, le riprenderà sempre dal vivo nel bellissimo ritratto oggi a Capodimonte, preferirà modellare quelle del secondo sul ricordo di un Autoritratto simile a quello attualmente nella Gemäldegalerie di Berlino, se non lo stesso trattenuto dal Maestro nell’atelier di Biri Grande), laddove per il Buonarroti poteva contare su una tra le numerose derivazioni della celeberrima ‘icona’ di Daniele Ricciarelli, ora nel Metropolitan Museum di New York, puntualmente elencate da Andrea Donati (Donati 2010, 299-308), sebbene qui sorprenda l'impostazione in controparte.
Il quarto personaggio, viceversa, intriga assai, siccome attesta la fragilità deludente delle proposte (Raffaello, Correggio) sin qua più frequentemente avanzate: le quali, quantunque più eccezionalmente e flebilmente, neppur hanno escluso l’ipotesi di un autoritratto: ch’è di contro, a nostro avviso (e a dispetto di precedenti, diverse convinzioni), pur nella consapevolezza del limite costituito dall’assenza d’ogni sicura referenza iconografica di comparazione – a cominciare da quel “ritratto di se stesso” che fa “stupire tutti questi pittori di Roma” rammentato dal Clovio nella lettera al Farnese – la congettura più plausibile: e si faccia caso come l’indice del Clovio s’appunti sul giovane misterioso quasi a denunciar in lui l'erede di Michelangelo e Tiziano – come chi, cioè, prometteva di conciliare, purificandoli, i valori del colore e del disegno nella perfezione di una sintesi compiuta.
Il dipinto assume – pertanto, il significato duplice di una sorta d’orgogliosa autocertificazione e di un impegno come promessa: se vogliamo, e in ultima istanza, di un ‘manifesto’ che, in quanto tale, non poteva non dislocarsi in un sistema di riferimenti imperniato su una committenza e un pubblico, la cui identificazione ci è negata dalla completa e disarmante mancanza d’ogni documento esterno, nel momento in cui, tuttavia, viene insinuata in un criptico messaggio del pittore, peraltro tutt’affatto coerente con la logica – se possiamo esprimerci così – dell’evocazione visiva di sé e dei propri maestri all’interno di una compagine con la cui esposizione istoriale non ha relazione veruna.
Ove appena si ponga qualche attenzione, infatti, alla rappresentazione del racconto evangelico (Giovanni II, 13-16), è agevole constatare che non solo le quattro figure suscitate nel margine destro del dipinto si sottraggono alla trama narrativa, ma anche altre raggruppate altrove: l’estraneità delle quali è posta in evidenza, vuoi dall’atteggiamento apparentemente distaccato, vuoi dalla foggia contemporanea degli abiti che indossano. Alludo ai personaggi i cui volti affiorano alle spalle dell’ignudo che rovescia all’indietro il capo stretto tra le braccia: che son altrettanti ritratti di personaggi con i quali il pittore riprende, alla luce della convocazione di sé accanto al Clovio, a Tiziano e a Michelangelo, un dialogo avviato qualche tempo innanzi, e forse ancora in Venezia, nell’altra redazione della Cacciata, che abbiam dinanzi citata e che si trova oggi nella National Gallery di Washington.
Si tratta di una prima redazione della messinscena di quell’episodio evangelico nel suo significato di invito perentorio al rifiuto della venalità indecente e insopportabile insita nel coinvolgimento e nella compromissione temporali della Chiesa, che, veramente, la redazione di Minneapolis replica quasi alla lettera, solo modificando la scenografia architettonica, mutando il colore di qualche abito, eliminando animalucci in primo piano, e scrigno e bisaccia, per disporvi a destra la sfilata dei busti degli artisti. L’unanimità degli studiosi s’è limitata ad insistere sulla maturazione del senso compositivo e della manipolazione del linguaggio – i cui venetismi, oltre che da Tiziano, da Tintoretto e dal Bassano, nella versione di Washington non sono ancora ben assimilati – intervenuta nel quadro di Minneapolis, ipotizzandolo eseguito successivamente all'arrivo a Roma, nel momento in cui rimetteva l’altro alla vigilia della partenza da Venezia, supportando la conclusione con la constatazione esser gli sfondi architettonici, l’uno di suggestione veneta, anzi veneziana, e l’altro di impronta toscoromana.
Se tutto ciò è, ovviamente, incontestabile, mi par che sia scorretto accantonare o scartare il quesito perché e per chi Domínicos abbia replicato pressoché alla lettera la composizione pur dovendo onestamente ammettere che, per adesso, non disponiamo della risposta: la quale potrà venire solo dall’identificazione dei personaggi raggruppati a sinistra in quanto interlocutori di un dialogo col pittore, cominciato a Venezia ma che il Theotocópoulos decide di riprendere a Roma, non tanto per ribadire i convincimenti già espressi, ma per segnalarne l’approfondimento, la piena maturazione, le garanzie, intervenuti, e già includenti prime, non svagate, riflessioni sui Commentari vitruviani del Barbaro (1556) attestate dalle postille giunte a noi e che possiam leggere nella edizione esemplare di Marías e Bustamante 1981 (cfr. Puppi 1984, 145-147).
All’insistenza sul tema della ‘cacciata dei mercanti’, Domínicos affianca quella sulla ‘guarigione del cieco’, in primo luogo come spunto evangelico di una allegoria dell’illuminazione alla vera fede ma, al tempo stesso, capace d’accogliere, entro la compagine delle dramatis personae del discorso narrativo, spettatori del suo svolgimento la cui convocazione potesse agganciare motivazioni d’interesse autobiografico. Si tratta di tre redazioni oggi conservate nella Gemäldegalerie di Dresda, nella Galleria Nazionale di Parma e nel Metropolitan Museum di New York (Collezione Weightsman), la prima delle quali cronologicamente riferibile al soggiorno veneziano (1567-1570) e le altre alla prima fase romana (1570-1572). Com’è noto, l’episodio appare nei Vangeli sinottici quale prova della profezia di Isaia (LXI, I e sgg.) intorno all’annuncio da parte del Battista della venuta del Messia (Matteo IX, 5; Luca IV, 18-19 e VII, 21-22) peraltro glissata nell’episodio del cieco di Gerico narrato da Marco (X, 46-52) o ripreso dello stesso Luca (XVIII, 35-43), ancorché la versione pittorica ora a Dresda sembri derivare dall’ampio passo di Giovanni (IX, 1-41) dove è il riferimento, assente in Matteo e Luca, all’impressione della mano di Cristo sugli occhi del non vedente e alla piscina di Siloe, la quale, in effetti, si profila nel bordo inferiore del dipinto, denunciando una prima allusione autobiografica. Abbiamo, più indietro, accennato (sulle conclusioni della circostanziata indagine archivistica di Panagiotakis 1996) all’appartenenza della famiglia di Domínicos alla comunità ortodossa, sottolineando l’inevitabile conseguenza di una sua conversione alla fede cattolica.
Ora, nel passo di Giovanni illustrato nel quadro di Dresda, l’uomo guarito da Cristo, è “cieco nato”, ma la sua condizione non deriva da peccato che, consapevolmente, fosse stato commesso da lui o dai suoi genitori, e tuttavia viveva privo della luce cui il Messia lo restituisce. Cogliere, pertanto, l’allegoria di una conversione – della propria conversione – non par azzardato, ancorché l’impaginazione dell’immagine include presenze che restano enigmatiche. Se infatti, come già m’è accaduto di insistere (Puppi 1999, 104-105), il cane e la ‘natura morta’ al centro e in primo piano, possono costituire un accorgimento funzionale alla sua costruzione prospettica, sembra assai difficile spiegare le figure del vecchio e dell’adolescente disposte in profondità tra il gruppo dominato da Cristo e quello dei Farisei: forse un richiamo alla parabola del figliuol prodigo – riportata, però, solo da Luca (XV, 2-32) – non incongruo con il senso sotteso dal tema del recupero della luce (in particolare, 20-24). Ma, sovrattutto, si trova inquietante l’apparizione dello spettatore di cui solo emerge il volto sovrastante la disputa dei Farisei; è evidente che, se vi si potesse cogliere un autoritratto (ma tornano i conti con i connotati del misterioso giovane additato dal Clovio nella Cacciata di Minneapolis?), l’ipotesi interpretativa che abbiamo qui sopra arrischiata, ne sarebbe, se non proprio suffragata, certamente confortata.
Rispetto a codesta, prima redazione, la versione di Parma risulta di dimensioni appena più ridotte nel momento in cui all'evidente arricchimento del vocabolario e alla ben più sicura complessità compositiva confida una diversa intenzione di significati.
L'avanzamento in primo piano dei gruppi degli 'attori' (più folto quello dominato dal Cristo), coerente con l'abbassamento retrostante del piano scenico che allontana, rimpicciolendolo nel mezzo del quadro, il dialogo affettuoso tra il vecchio e l'adolescente, non è mero espediente formale per un più pronunciato effetto prospettico. Del pari, l'introduzione della figura seminuda di schiena, a sinistra, che guarda e addita in alto, non deve interpretarsi quale puro esercizio virtuosistico e “adorno retorico”, né casuale è da considerarsi l'introduzione di nuovi e altri testimoni, così come la sostituzione a fuoco architettonico, del rudere delle terme di Diocleziano all'arco corinzio timpanato. Tralasciamo, tuttavia, quest’ultimo spunto (che rimanda al contesto presiedente alla trasformazione michelangiolesca del reperto nelle chiesa di Santa Maria degli Angeli), per indugiare su altri nodi compositivi. Quando si faccia caso, infatti, che lo spostamento verso la ribalta cancella il richiamo alla piscina di Siloe, non è improprio domandarsi se Domínicos non abbia accantonato il testo giovanneo, utilizzato nella redazione di Dresda, per raccogliere ed illustrare un altro dei racconti evangelici relativi alla guarigione del cieco. Ed è precisamente il personaggio che volge la schiena ignuda, la presenza la quale consente, insieme, risposta affermativa e individuazione della nuova fonte in Matteo (IX, 27-31), dove è narrato aver Gesù ridato la vista a due ciechi, di guisa che esso viene ad interpretare il ruolo di colui che, per primo, esulta per la luce ritrovata.
Quanto agli spettatori, gli studiosi, una volta di più, o non ci hanno fatto caso, o son stati svagati e generici, o ne han contati troppi. Ad esempio, si prova abbastanza forzata l’individuazione di un ritratto (proposto da Buendia 1984, 23-24) nel barbuto che volge lo sguardo al cielo dietro al braccio proteso del cieco guarito, e addirittura riprenderebbe il volto del vescovo eterodosso fra’ Bartolomé de Carranza che il Theotocópoulos avrebbe incontrato mentre era detenuto in Castel Sant’Angelo (dove perderà la vita il 2 maggio 1576). Evidenza incontestabile di ritratti hanno viceversa, sempre sulla sinistra, i volti dei personaggi – in abiti, a riprova, di foggia moderna – collocati ai lati della testa dell’altro barbuto a figura intera e ignuda (questa sì, forse, solo citazione retorica della celebre statua d’Ercole posseduta dai Farnese).
A partir dalla proposta di du GUÉ-TRAPIER 1958, quello al limite del quadro raffigurerebbe un esponente proprio della famiglia Farnese, più volentieri precisato in Alessandro, figlio di Ottavio duca di Parma; l’altro il Theotocópoulos stesso. Orbene – la prima congettura è plausibile e convincente solo che si confronti quel volto con i ritratti che riprendono il personaggio in più giovane età (era nato a Roma il 28 agosto 1545), dipinti da Antonio Moro (Parma, Galleria Nazionale; Dallas, Texas, Meadows Museum), da Girolamo Mazzola Bedoli (Napoli, Museo di Capodimonte), da Sofonisba Anguissola (Dublino, National Gallery of Ireland, con le derivazioni del Museu de Arte antiga di Lisbona e del Museum of Fine Arts di Boston), nonché dell’immagine, nella Sala dei Fasti a Caprarola, di Taddeo Zuccari (e per non convocare un suggestivo exploit del Tintoretto su cui sarà il caso d’intervenire in altra occasione).
Aleatoria è, viceversa, l’altra ipotesi di identificazione, e non solo per i motivi che, più sopra in questa stessa sede, ci hanno indotto alla prudenza, ma perché concreti termini di confronto ci assicurano che, nel personaggio ritratto, possiamo agevolmente riconoscere Juan de Austria, il fratellastro di Filippo II, sulla referenza dei dipinti di Alonso Sanchez Coello nell'antica Galleria del Pardo, di Cristobal de Morales nel Monastero de las Descalzas Reales di Madrid, di Anonimo nell’Ospedale di Santa Cruz a Toledo.
Ci è ben noto che, non solo vincoli di parentela stretta legavano i due giovani (Alessandro era stato messo al mondo da Margherita d’Austria, figlia di Carlo V e, pertanto, sorellastra di don Juan), ma di affettuosa, profonda amicizia, nata e cresciuta presso la corte di Madrid, dove il Farnese era approdato adolescente per esservi educato, e cementata nell’epica giornata di Lepanto dove avevano combattuto l’uno accanto all’altro. Il ritorno di Alessandro in Italia non aveva allentato i contatti e, ogniqualvolta capitasse occasione propizia, i due non mancavano di incontrarsi. Per certo, ciò avverrà a Parma tra aprile e maggio 1574 nell’occasione del viaggio di don Juan a Milano toccata nel giugno successivo (e sarà prodiga di festeggiamenti culminati, il 26, in uno spettacolo grandioso e memorabile: Fea 1886, 36): ma di cosa avran discusso, cosa si saran detti? Non disponiamo di resoconti e, perciò, ovviamente, non lo sappiamo, ma possiamo non arbitrariamente immaginare che si siano accalorati sull’episodio, ancor bruciante, della pace stipulata da Venezia con la Sublime Porta, unilateralmente, all’indomani della vittoria di Lepanto, e sulla necessità, condivisa, non solo da Filippo II ma dai principi italiani filospagnoli con i Farnese di Parma in testa, di convincere la Dominante a rientrare nella Santa Lega, messa in crisi dalla Real Politik della sua diplomazia.
E, poiché non è affatto da escludere che Domínicos, dopo la cacciata dal circolo del cardinal Alessandro e il vano tentativo di mettersi in proprio, nel suo viaggio di ritorno e Venezia possa aver fatto sosta presso i congiunti di chi lo aveva messo alla porta, i Farnese di Parma (una città che, nelle postille all’edizione giuntina delle Vite vasariane, prova di conoscere benissimo), ed essere stato, in qualche guisa, testimone dell’incontro tra Alessandro e Juan, la rappresentazione della Guarigione (che, non per caso, precisamente a Parma si conserva) potrebbe, allora, leggersi e intendersi nel contesto del dibattito intorno al cedimento della Serenissima alla Mezzaluna, bollato da papa Gregorio XIII come perfido “mancamento” al “giuramento fatto a Dio” e, dunque, peccaminoso ottenebramento, ‘cecità’, che si impetrava a Cristo di guarire.
E se è un fatto – a parer nostro di notabile suffragio – che, sul tema della Santa Lega, Domínicos tornerà di lì a poco predispondendo ancor in Italia il bozzetto (ora nella National Gallery di Londra) dell’Adorazione del nome di Cristo dipinta dopo l’arrivo in Spagna e conservata all’Escorial, la ripresa del tema evangelico del cieco guarito nella versione oggi nel Metropolitan Museum, pur replicando l’intelaiatura architettonica e la composizione dei gruppi della versione di Parma, sposta l’offerta della chiave interpretativa dalla soppressione dei volti di Alessandro Farnese e don Juan, allo sbalzar sul filo della ribalta di una misteriosa accoppiata di personaggi en abîme (come gli offerenti del Crocifisso oggi al Louvre), ma è messaggio di cui, fino ad adesso, non siamo riusciti a immaginare il contenuto e a identificare il destinatario.
A Monica, che, nel nome di Warburg, è riuscita a scaraventarmi dentro all’universo immateriale e volubile dell’on line, con rinnovata ammirazione e stima. E con l’affetto di sempre.
Nota bibliografica
Il presente intervento ripropone, enfatizzandoli e riordinandoli, spunti presentati in disparate occasioni e rimasti aperti, per una ripresa del dibattito in vista delle iniziative (mostre e convegni) annunciate nell’occasione della ricorrenza del quarto centenario della morte del Greco (1614-2014). Di chi qui scrive si vedano, dunque, almeno: Puppi 1984; Puppi 1995; Puppi 1996; Puppi 1997; Puppi 1999a; Puppi 1999b; Puppi 2005. Posto che referenza necessaria per qualsivoglia approcio storico-critico serio al Greco e alla sua opere è costituita dal monumentale Lopera 2005 (ma non si trascuri il precedente, lucido, abregé Lopera 1993), ci si limiterà a elencare qui di seguito i contributi citati in forma abbreviata nel testo e in questa stessa nota. Quanto alle fonti, le lettere di Tiziano sono citate dall’edizione Tiziano. L’epistolario, a cura di L. Puppi, Firenze 2012; il testo di Vasari da G. Vasari. Le Vite, a cura di G. Milanesi, vol. IV, Firenze, 1906.
Riferimenti bibliografici
- Buendia 1984
J. R. Buendia, Humanismo y simbologia en El Greco. El tema del serpiente, in El Greco: Italy and Spain, “Studies in the History of Art” 13, National Gallery of Art, Washington D.C., 1984, 35-48. - Calì 1995
M. Calì, Il Greco fra Venezia e Roma: cultura e orientamenti, in El Greco in Italy and Italian Art, Atti del Convegno internazionale di Studi (Rethymno, 22-24 settembre 1995) a cura di N. Hadjinicolaou, Rethymno 1999, 291-314. - Costantoudakis-Kitromilides 1999
M. Constantoudaki-Kitromilides, La pittura a Creta nei secoli XV e XVI, in El Greco. Identità e trasformazione. Creta. ltalia. Spagna, catalogo della mostra (Atene, Roma, Madrid, 1999), a cura di J. Alvarez Lopera, ed. it. Milano 1999, 83-94. - Donati 2010
A. Donati, Ritratto e figura nel Manierismo a Roma, San Marino 2010. - Fea 2005
P. Fea, Alessandro Farnese, duca di Parma [...], Firenze 1886. - Firpo 2005
M. Firpo, L’iconografia come problema storiografico [...], in “Rivista Storica Italiana”, CXVIII, 3, 2005, 825-871. - Du Gué-Trapier 1958
E. du Gué Trapier, El Greco in the Farnese Palace, Rome, Paris 1958. - La Malfa 2010
C. La Malfa, Artisti a Palazzo, in Palazzo Farnese. Dalle collezioni rinascimentali ad Ambasciata di Francia, a cura di F. Duranelli, Firenze 2010, 262-265. - Lopera 1993
A. J. Lopera, El Greco. La obra esencial, Madrid 1993. - Lopera 2005
A. J. Lopera, El Greco. Estudio y Catalogo, vol. I, Madrid, 2005. - Mancini 1956
G. Mancini, Considerazioni sulla Pittura, I, a cura di A. Marucchi Roma 1956. - Marías 1997
F. Marías, Biographie d’un peintre éxtravagant, Paris 1997. - Marías 1999
F. Marías, Il pensiero artistico del Greco, in El Greco. Identità e trasformazione. Creta. ltalia. Spagna, catalogo della mostra (Atene, Roma, Madrid, 1999), a cura di J. Alvarez Lopera, ed. it., Milano 1999, 179-199. - Marías, Bustamante 1981
F. Marías, A. Bustamante, Las ideas artisticas del Greco, Madrid 1981. - Marías, de Salas 1992
F. Marías, X. de Salas, El Greco y el arte de su tiempo, Toledo, 1992. - Panagiotakis 1986
M. N. Panagiotakis, E Kretiké periodos tes zoes tou Domenikou Theotokopolou, Athinai 1986. - Perez de Tudela 2000
A. Perez de Tudela, Una carta inédita de El Greco al Cardenal Alessandro Farnesio, in “Archivo Español de Arte” LXXIII (291), jul-sep 2000, 267. - Puppi 1984
L. Puppi, Il soggiorno italiano del Greco, in El Greco: Italy and Spain, “Studies in the History of Art" 13, National Gallery of Art, Washington D.C., 1984, 133-152. - Puppi 1995
L. Puppi, Ancora sul soggiorno italiano del Greco, in El Greco of Crete, Atti del convegno internazionale di studi (Heraklion, 1990), a cura di N. Hadjinikolaou, Heraklion 1995, 251-254. - Puppi 1996
L. Puppi, Ritratti di spettatori discreti e di committenti ‘in abisso’ nell’opera del Greco, in Il ritratto, a cura di G. Fossi, Firenze 1996, 173-185. - Puppi 1997
L. Puppi, I testimoni impassibili. Ritratti di spettatori nei drammi evangelici dipinti dal Greco in Italia, in Scritti e immagini in onore di Corrado Maltese, a cura di S. Marconi, M. Emiliani Dalai, Roma 1997, 285-296. - Puppi 1999a
L. Puppi, El Greco da Venezia a Roma e da Roma a Venezia (per la via di Parma), in Scritti in onore di A. M. Romanini, Roma 1999, 119-128. - Puppi 1999b
L. Puppi, El Greco in Italia e l’arte italiana, in El Greco. Identità e trasformazione. Creta. ltalia. Spagna, catalogo della mostra (Atene, Roma, Madrid, 1999), a cura di J. Alvarez Lopera, ed. it. Milano 1999, 95-114. - Puppi 2004
L. Puppi, Su/per Tiziano, Milano 2004. - Puppi 2005
L. Puppi, L’arrivo del Greco in Spagna, in El Greco. The First Twenty Years in Spain, Atti del Convegno internazionale di studi (Rethymno, 22-24 ottobre 1999), a cura di N. Hadjinicolaou, Rethymno 2005, 1-12. - Puppi 2007
L. Puppi, Tiziano. L’ultimo atto, catalogo della mostra (Belluno – Pieve di Cadore 2007), a cura di L. Puppi, Milano 2007, scheda 118, 422-423. - Ronchini 1865
A. Ronchini, Giulio Clovio, in “Atti e Memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria per le Province modenesi e parmensi” III, 1865, 259-270.
English abstract
Few written records tell of the arrival and the Roman period and the Greek painter born in Crete Domínicos Theotocópoulos, more known by the pseudonym of El Greco. After years spent in Venice, where he got to join actively with leading painters of his time such as the late Titian and the very active Tintoretto, in 1570 Domínicos arrives in Rome. It is Giulio Clovio, the well known Croatian miniaturist who had been working for many years for some of the most famous important families in Rome, who introduces him and supports him in the lavish court of Cardinal Alessandro Farnese, admirer of Venetian painting and of Titian in particular who had portrayed him on different occasions several years earlier. But it was Michelangelo with his work who had celebrated more than any artist of his era the Majesty of Rome and its powerful men. Probably just an unfavorable opinion from El greco in respect of the Tuscan master and his work as well as a constant criticism of excessive opulence of the Roman curia, the reasons for the peremptory dismissal of the Greek painter in 1572 by the Farnese House. The scarcity of documentation doesn’t give any chance to give answers to many different questions that could rise up regarding the matter. Domínicos’ paintings remain the most eloquent document of that Roman period 1570-1572. His pictures and in particular those that with slight and subtle changes tell the story of Christ healing the blind man and The expulsion of merchants from the Temple, through the use of “imagistic syntax” or “metagrammatical formulae” reveal and highlight for those able ‘to read’ the complexities and the problems of an age full of cultural, political and sociological contradictions.
keywords | El Greco; Giulio Clovio; Cardinal Alessandro Farnese; Michelangelo; Rome; Images; Autobiography.
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Puppi, Apparizioni metagrammatiche e autobiografia per immagini. Allegorie, ammiccamenti e ritratti di spettatori nei racconti evangelici del Greco del periodo italiano, “La Rivista di Engramma” n. 100, ottobre 2012, pp. 210-224 | PDF