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Alcuni temi iconografici in Roma città aperta di Roberto Rossellini
Matteo Zadra
Roma città aperta segna l’ingresso del cinema in un nuovo territorio, uno spostamento che introduce nuove regole nella rappresentazione e nella costruzione di un racconto. Roberto Rossellini comprende la necessità di mettere a fuoco un nuovo sguardo e la traduce in un’inedita interpretazione di quello che il film può offrire come strumento narrativo. Questa ridefinizione, che si dirige verso un drastico ampliamento dei confini tradizionali di quanto viene filmato, nelle intenzioni di Rossellini non può in alcun modo limitarsi a rimanere un movimento autonomo del film: è un’esplorazione che deve contemporaneamente immaginare un proprio pubblico. Roma città aperta lancia una sfida continua agli spettatori, invitandoli – anche insistentemente – a assumere una propria posizione e accettare un coinvolgimento radicalmente diverso, senza dubbio più doloroso, rispetto a quello che il cinema tradizionalmente offre in forma di spettacolo.
Questa inedita attenzione che Rossellini dedica alla percezione degli spettatori di Roma città aperta si traduce innanzitutto nella composizione di un racconto che alterna repentine oscillazioni tra il registro comico e quello tragico. Questi capovolgimenti emotivi, dove numeri comici perfettamente orchestrati (fig. 1) si alternano a momenti di insostenibile violenza, svolgono in fondo una doppia funzione, sottilmente ambigua: una gag può concedere un istante di leggerezza, alleviando la tensione del racconto, ma funziona anche come invito ad abbassare la guardia, così che nel giro di pochi minuti ci si ritrova ancora più esposti alle immagini di orrore estremo che scandiscono il film.
Parallelamente a questa efficace disposizione di ripide alternanze tra emozioni contrapposte, Rossellini ha intessuto Roma città aperta con una complessa trama iconografica che, grazie a un gioco di rimandi interni, struttura in profondità lo sviluppo della vicenda. Inquadrature, pose, situazioni e oggetti ritornano a più riprese da un capo all’altro della pellicola e la frequenza di queste occorrenze contribuisce in modo decisivo a creare la sostanza emotiva e morale del film.
Nei momenti cruciali di Roma città aperta ritroviamo ad esempio alcuni oggetti quotidiani, come le calze di tre personaggi femminili: la piccola Andreina, Marina Mari (Maria Michi) e Pina (Anna Magnani). Il ruolo delle calze delle tre donne non si limita a una funzione descrittiva o ambientale ma caratterizza profondamente il personaggio che le indossa. Quelle bucate di Andreina, che vorrebbe unirsi alle missioni di sabotaggio dei giovani ragazzi capeggiati da Romoletto, fanno capolino nella scena in cui Francesco (Francesco Grandjacquet) mette a letto il figlio di Pina, Marcello (Vito Annichiarico). Le vediamo al bordo dell’inquadratura (fig. 2) di un neonato seduto su di un vaso da notte: le calze bucate, per quanto defilate, attirano l’attenzione grazie al giocherellare continuo dei piedi di Andreina e rimandano alla sua condizione di povertà e innocenza. A queste si contrappongono le calze eleganti di Marina Mari nel corso della scena del litigio con il partigiano Giorgio Manfredi (Marcello Pagliero). Marina se le sfila nervosamente (fig. 3) mentre reclama i sacrifici compiuti per guadagnarsi un vuoto benessere materiale, di cui le calze rappresentano l’emblema, conquistato a scapito della libertà personale: pochi minuti dopo assisteremo alla sua delazione che porterà all’arresto di Giorgio.
Ma è soprattutto nel momento emotivamente più celebre e sconvolgente del film, la scena dell’uccisione di Pina mentre insegue la camionetta su cui è stato caricato il suo promesso sposo Francesco, che le calze assumono un ruolo centrale. La sequenza si apre con l’arrivo dei soldati italiani e tedeschi che circondano lo stabile in cui abitano Pina e Francesco e danno disposizioni per l’evacuazione del caseggiato, radunando gli inquilini (unicamente donne e bambini) lungo la strada. La scena del rastrellamento insiste ossessivamente sulle rozze molestie da parte dei soldati dell’esercito tedesco nei confronti delle donne romane. È in questa cornice di incombente violenza sessuale che vediamo un gruppo di militari scendere nei sotterranei del condominio e un soldato affacciarsi da un piccola finestrella collocata esattamente sotto al marciapiede dove sono allineate le donne evacuate. Questo brevissimo inserto si compone di due passaggi: prima ci viene mostrato il militare che si sporge e alza lo sguardo con un sorriso ottuso (fig. 4), quindi vediamo una ripresa soggettiva del suo punto di vista (fig. 5) che osserva, da sotto, le gambe delle donne. E’ un’inquadratura priva di voyeurismo, come se la soggettiva non coincidesse con lo sguardo lubrico del soldato, restituendoci invece l’immagine agghiacciante di una serie di corpi femminili allineati, indifesi e privi di riconoscibilità.
Un’immagine analoga torna dopo pochissimi minuti per raccontare la morte della protagonista del film, Pina. Se nel precedente caso del soldato la macchina da presa lanciava uno sguardo in verticale verso le gambe delle donne allineate, ora l’inquadratura si colloca raso terra per ritrarre il corpo morto di Pina in mezzo a Via Montecuccoli (fig. 6). Pina viene uccisa nel giorno in cui avrebbe dovuto sposarsi e per questo, a differenza delle precedenti scene, indossa delle calze nere. La sua morte violenta diventa il risvolto dell’oltraggio al pudore perpetrato dai nazifascisti nei confronti delle donne lungo tutto il film. L’immagine delle calze di Pina è l’emblema della crudeltà di un’esecuzione pubblica e brutale.
L’iconografia del corpo morto di Pina si contrappone al corpo privo di sensi di Marina Mari, poco prima del finale. Davanti al cadavere di Giorgio, trucidato dai torturatori, Marina cade a terra priva di sensi, realizzando tardivamente le proprie responsabilità. In questo caso la macchina da presa non si abbassa raso terra, come aveva fatto in precedenza con Pina, ma riprende il suo corpo dall’alto (fig. 7), come se venisse calpestato e umiliato dalle scarpe dei presenti che si muovono intorno a lei, completamente indifferenti al suo stato.
Diametralmente opposto è lo sguardo che Rossellini riserva al cadavere di Pina, lontanissimo da ogni figura umana e quasi sospeso nella strada (fig. 8). Chi trova il coraggio di avvicinarsi è innanzitutto il figlio Marcello e, poco dopo, padre Piero Pellegrini (Aldo Fabrizi), che raccoglie Pina proteggendola dagli sguardi dei presenti (fig. 9). È a questo punto che Rossellini mette in scena una pietà rovesciata (fig. 10), in cui è la figura femminile a essere sorretta da quella maschile. Sarà sempre padre Piero ad assistere l’altro martire del film, Giorgio Manfredi, morto per le torture sopportate senza che gli venisse estorta alcuna confessione. Il primo piano del viso insanguinato e tumefatto di Giorgio (fig. 11) richiama l’immagine di un Cristo flagellato, pochi istanti prima del finale in cui assistiamo alla fucilazione di padre Piero davanti allo sguardo disperato dei ragazzi del suo oratorio.
Bibliografia
- BRUNI 2006
D. Bruni, Roberto Rossellini. Roma città aperta, Torino 2006 - BRUNI 2006
V. Fantuzzi, Riflessi dell'iconografia religiosa nel film "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, in «La civiltà cattolica», 3489, 1995 - ROSSELLINI 1987
R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Venezia 1987
Roberto Rossellini assigns to the audience of Roma città aperta a new role in the movie’s reception. He also creates an original iconographic structure through using both references to classical images of christian art (the Piety, the scourged Christ) both everyday objects like stockings, which assume different meanings in reference to different characters.
keywords | Cinema; Neorealism; Rossellini; Roma città aperta.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Zadra, Alcuni temi iconografici in Roma città aperta di Roberto Rossellini, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 310-312 | PDF