Dando notizia dell’apertura della nuova sede del Warburg Institute, il “Times Literary Supplement”, il 23 maggio 1958, così lo definiva:
If the Institute were not called after its founder, tout court, and had to find a compendious title to describe its activities, it might surely best be called an Institute of Iconology, as being a body dedicated to the study and interpretation of historical processes through visual images.
La parola-chiave ‘Iconology’ indica la direzione di lettura dominante, specialmente nei paesi di lingua inglese, dove Warburg è stato visto sostanzialmente attraverso Panofsky, proiettando all’indietro la distinzione fra ‘iconografia’ e ‘iconologia’ che Panofsky ha reso canonica. Così Warburg, si ripete, ‘anticipa’ Panofsky, e Panofsky ‘sviluppa’ Warburg; ma in verità appiattire l’uno sull’altro non giova a comprendere nessuno dei due: e anzi questa lettura di Warburg nuoce a lui non meno che a Panofsky, spesso caratterizzato, riduttivamente, come colui che:
Transmitted Warburg’s ideas to American scholarship and thus contributed to their worldwide dissemination (G. Schiff, German Essays on Art History: Winckelmann, Burckhardt, Panofsky, and others, New York 1988, LXI).
Questa falsa immagine di Warburg può ben caratterizzare il suo destino: che è stato di essere a lungo ignorato, e considerato quasi solo il fondatore di una biblioteca un po’ speciale; poi, di colpo, esaltato a ‘classico’, ma un classico che non c'è bisogno di leggere, e che semmai può essere oggetto di studi particolari, altamente specializzati. Questa situazione può essere spiegata, almeno in parte, da fattori esterni. Prima di tutto, Warburg non ebbe mai una scuola in senso proprio; la sua Kulturwissenchaftliche Bibliothek, anche se strettamente connessa con la storia della nascente università di Amburgo, restò sempre un’istituzione privata, e dopo l’avvento del regime nazionalsocialista fu trapiantata da Fritz Saxl in terra inglese, e inserita nel sistema universitario e nella vita intellettuale di quel Paese. Questa fu la principale preoccupazione di Saxl dal 1933 fino alla sua morte prematura (1948): spiegare i problemi intorno ai quali era stata costruita quella biblioteca voleva dire spiegare i problemi di Warburg. Ma si trattava di problemi (o almeno di un modo di porre e di affrontare quei problemi) del tutto estranei alla tradizione inglese. Scrive Fritz Saxl:
La Biblioteca restava un corpo estraneo rispetto alla cultura inglese, eppure il suo futuro, e quello di chi aveva legato ad essa il proprio destino, dipendeva dalla possibilità di trovarle un posto nella vita accademica inglese.
L’attività di Saxl nei suoi anni londinesi va ricondotta al progetto di “adjusting his scholarship to a different academic tradition”, in un paese dove la storia dell’arte non solo non aveva un ruolo definito nel sistema universitario, ma era guardata generalmente “with more than slight suspicion” (così Gertrud Bing). A quello scopo erano dirette le conferenze e mostre che egli organizzò, fra cui la celebre British Art and the Mediterranean (1941). In quel contesto, un problema era particolarmente evidente e cruciale: la difficoltà di classificare la figura e l’opera di Warburg assegnandole un posto in un sistema accademico. La sua era stata “una disciplina che, all’opposto di tante altre, esiste ma non ha un nome” (Robert Klein), e manca soprattutto di un luogo nel sistema disciplinare: l’esplorazione di una terra di nessuno che confina con l’antropologia e la storia dell’arte, la religione e la magia, l’archeologia classica e la storia della scienza. Il suo luogo non poteva che essere la Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg: ma il suo destino fu di venire a patti col sistema accademico e disciplinare, per poter garantire la propria stessa esistenza fuori del proprio terreno naturale, la cultura tedesca.
Warburg era ben consapevole della difficoltà di ‘leggere’ dietro i suoi studi eruditi la trama di un complessivo disegno, e già assai precocemente, nel 1907, trovava la voglia e le parole per scherzarci su:
Di queste mie idee generali, a cui io dò tanto valore, forse più tardi si dirà o si penserà: queste idee erronee hanno almeno avuto l’effetto positivo, di spingerlo a scoprire, scavando qua e là, singoli dati di fatto prima ignorati. Insomma, il mio lavoro sarà caratterizzato come quello di un cane da tartufi.
Il problema era, dunque, di mostrare quelle “allgemeine Ideen” attraverso la somma di singole scoperte di fatto, Einzeltatsachen: ma più tardi il modo più efficace di rendere accettabile Warburg e “il Warburg” sarà proprio quello di mettere in evidenza l’utilità e l’importanza delle sue singole scoperte, in quanto garantite da procedure disciplinari specifiche. Oggi abbiamo assistito, ad abundantiam, all’inverarsi di quella ironica profezia di Aby Warburg sopra se stesso. Questo incrocio di piani (allgemeine Ideen / Einzeltatsachen) è vitale per comprendere Warburg, e lo si dovrebbe mostrare attraverso l’analisi di tre aspetti della sua opera: gli scritti (compresi quelli inediti), la struttura della Biblioteca, e infine Mnemosyne. Alluderò solo brevemente ai due primi punti, e mi concentrerò invece su due problemi, strettamente connessi fra loro: le Pathosformeln di Warburg e il suo ‘atlante’, Mnemosyne. Ma prima è necessario tentare di spiegare in che senso gli scritti, la Biblioteca e l’Atlante dovevano integrarsi in un unico progetto.
La domanda da cui parte il lavoro di Warburg è, mi pare, l’emozione (o la risposta) estetica di fronte alle immagini: un sentimento umano universale e importante, del quale egli intese cercare la fonte prima e il valore fondamentale, prescindendo dallo status dell’‘arte’ nella società contemporanea, e cioè dall’‘artisticità’ come valore. Questo non significa in nessun modo che Warburg negasse il problema della qualità nell’arte: ma egli ne cercava una spiegazione più onnicomprensiva e profonda, che come tale doveva liberarsi dal linguaggio degli ‘entusiasti’, osservatori ‘laici’ o storici dell’arte che fossero. Nella risposta estetica dell’uomo moderno, egli riconosceva un nocciolo intimo e remoto, proprio della natura umana e perciò identico a quello che caratterizza le reazioni alle immagini (e al mondo) dell’uomo primitivo: un nucleo incandescente, che all’origine – nelle fasi più antiche della storia umana – faceva delle immagini uno degli strumenti per l’orientamento dell’uomo nel mondo, per la sua faticosa ricerca di un equilibrio attraverso il controllo dell’altro-da-sè, e che si è perpetuato, per così dire filogeneticamente, fino a noi, trasformandosi profondamente. Secondo l’insegnamento del suo maestro di Bonn, il filologo classico Hermann Usener, ritrovare quel nucleo originario corrispondeva a un processo propriamente ‘etimologico’.
Questo è il quadro che dà senso al suo interesse per il Nachleben der Antike, e più in generale per il problema delle riprese di formule e stili, a distanza di secoli. Questo processo, infatti, può essere descritto come un’alternanza, altamente drammatica, di perdita di significato, a cui corrisponde l’irrigidirsi in formule, e riacquisto di significato, a partire dalle formule che erano sembrate, per secoli, inerti e morte. Questa improvvisa riappropriazione di un antico patrimonio artistico (per esempio, nel Rinascimento fiorentino) non si può spiegare se non attraverso un processo simpatetico, un atto di Einfühlung che implica una sorta di pulsione etimologica, la riscoperta del significato (cioè delle emozioni connesse) dietro la rigidità della formula ormai fuori uso. Il modello che Usener aveva usato nei suoi Götternamen (un libro fondamentale per capire Warburg), secondo cui il ‘nome’ del dio contiene il nocciolo della sua ‘essenza divina’, andava usato per la storia dell'arte: alla divinatio etimologica è assegnato il compito di scoprire, nel nome di un dio o in una Pathosformel, l’originario nucleo di emozione dal quale l’uno e l’altra sono scaturite.
Uno strumento essenziale in tal senso era per Usener la comparazione dei Greci e dei Romani con altri popoli (in particolare, con usanze ‘primitive’), e questa fu anche la strada di Warburg. Sarebbe pertanto sbagliato dire che Warburg “si recò dagli Indiani d’America senza un vero piano scientifico in mente”: piuttosto, dobbiamo ripetere con Saxl che “Warburg si recò nel New Mexico proprio come scolaro di Usener”. In un appunto del 1923, Warburg stesso dà le ragioni del suo viaggio:
Davanti alla storia dell’arte estetizzante, provai un vero e proprio moto di disgusto. Mi parve che la trattazione puramente formale delle immagini finisse col generare solo uno sterile gioco di parole; a meno che le immagini non vengano intese come un prodotto umano biologicamente necessario, a metà fra la religione e la pratica artistica.
Questa necessità biologica delle immagini, come un prodotto sospeso a metà fra religione e pratica artistica, può essere una buona formula per caratterizzare il progetto di Warburg. Nel New Mexico, egli cercava materiale di comparazione per costruire una fondazione antropologica della risposta estetica, o una storia naturale dell’arte, basata sull’individuazione di un nocciolo espressivo forte delle immagini, che possa costituire un filo continuo dall’arte ‘primitiva’ a quella ‘civilizzata’, e servire a spiegare sia il problema delle ‘riprese’, e in particolare il Nachleben der Antike, sia l’emozione estetica; in ultima analisi, anche la qualità artistica, e perfino la storia dell’arte ‘estetizzante’. La scelta tematica del Nachleben der Antike non è in nessun modo una nuova forma di classicismo: è la sua centralità nella cultura europea che ne faceva una scelta obbligata, come campo di sperimentazione privilegiato del problema delle ‘riprese’.
Usener valse per Warburg come modello proprio perché non aveva temuto di varcare i confini del terreno suo proprio, la filologia classica, per avventurarsi in altri campi, costruendo (a partire dai Greci) una Kulturwissenschaft con specifiche valenze antropologiche, in particolare attivando procedure di classificazione e di comparazione. Il progetto di Warburg, analogamente, si costruisce per gradi: la sua Kunstgeschichte va intesa come Kunstwissenschaft, e in quanto tale caratterizzata come Ausdruckskunde, scienza dell’espressione; ma questa Kunstwissenschaft ha senso solo in quanto Kulturwissenschaft: l’arte riguarda l’uomo, non l’artista. Ha senso parlare dell’arte (come dei nomi degli dei) solo intendendola come una mediazione fra l’uomo e il mondo, che ci consenta (ancora) d’intendere l'uno e l'altro. È proprio in questo senso che, nella conferenza sul Déjeuner sur l’herbe di Manet (Roma, 1929), Warburg ha proposto “la funzione fondante e caratterizzante delle divinità elementari del paganesimo” come un elemento determinante “per lo sviluppo del sentimento moderno della natura”. Senza il modello antico, mediato da Raffaello e da Marcantonio Raimondi, le figure di Manet non sarebbero pensabili, ma la pura derivazione iconografica non è che la ‘pelle’ del problema; la sua carne è che, senza questa trafila, neppure sarebbe comprensibile il senso moderno della natura, in quanto sorto da una “forza illuminata in un proprio microcosmo, che spinse costantemente e in modo dirompente nella direzione del riconoscimento della latente operatività dinamica” delle immagini antiche. Perciò la storia dell’arte di Warburg, in quanto Kulturwissenschaft, passa necessariamente attraverso pratiche di classificazione delle forme (morfologia) e comparazione delle espressioni (funzione), dove ‘espressione’ va intesa come il rapporto fra forma e funzione.
La comparazione col ‘primitivo’ non è dunque occasionale per Warburg, ma finalizzata a intendere la fonte di quel nucleo incandescente di emozione estetica, l’arte in statu nascendi, l’arte senza storici dell’arte e senza salotti borghesi; in quanto Kulturwissenschaft, può e deve essere estetica, non può e non deve essere estetizzante. Questa doppia valenza, morfologica e funzionale, trova la sua formulazione più alta nella più celebre parola-chiave del vocabolario warburghiano, Pathosformel. Nell’introduzione all’edizione italiana del 1966 della Rinascita del paganesimo antico (prima traduzione di una parte delle Gesammelte Schriften di Warburg), Gertrud Bing per spiegare il significato di Pathosformeln ricorreva al concetto di topos letterario:
In retorica, una forma divenuta convenzionale, usata correntemente per comunicare un significato o uno stato d’animo, è detta topos. Il Warburg stabilì l’esistenza di qualcosa di analogo nelle arti figurative.
È chiaro che questa lettura di Warburg non sarebbe stata possibile prima della pubblicazione del grande libro di Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948), dove la nozione antica di topos è il motivo-guida per la lettura di una tradizione letteraria e del suo rapporto con la propria antichità. Ora non c’è dubbio (e non solo perché Curtius ha dedicato il proprio libro a Warburg) che, se Curtius ha tratto dalla tradizione retorica antica la parola topos, l’uso che egli ne ha fatto è direttamente ricalcato su quello delle Pathosformeln di Warburg. Lo mostrano con molta evidenza sia il titolo di un saggio del 1950, Antike Pathosformeln in der Literatur des Mittelalters, sia l’uso di Pathosformel come sinonimo di topos nelle pagine di Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, in particolare con riferimento alle ‘armonie per contrasto’, come ‘puer senex’ o il ‘locus amoenus’ su cui incombe una selvaggia foresta. È dunque chiaro che l’identificazione delle Pathosformeln coi topoi è una rilettura di Warburg attraverso Curtius, legittima ma non sufficiente, in quanto serve più a spiegare Curtius che a intendere Warburg.
La prima operazione da fare per spiegare le Pathosformeln è la più ovvia: separare le due parole, Pathos e Formel, prima di rimetterle insieme. È chiaro che, se a Pathos sono legate nozioni di instabilità, movimento e istantaneità, Formel, al contrario, comporta fissità, ripetizione di stereotipi. Questo contrasto è centrale, e segna la direzione interpretativa. Nella tradizione antica pathos è – secondo la definizione del trattato Sul Sublime 20,2 – φορὰ ψυχῆς καὶ συγκίνησίς ἐστιν, “un’agitazione e un impeto dell’animo”. La Formel che lo contiene e lo esprime è, al contrario, una convenzione espressiva destinata a perpetuarsi nel tempo, a passare di generazione in generazione. Disseccata e irrigidita, potrà essere riconosciuta e rivitalizzata mille anni dopo (secondo il meccanismo del Nachleben der Antike). Il pathos è istantaneo, la Formel è durevole.
Questa semplice osservazione può essere appoggiata da una congettura. Nella tradizione degli studi di archeologia classica, schemi iconografici specifici erano stati definiti con il termine neutro Bildformel. Guardiamo, per esempio, allo schema ‘del ginocchio piegato’ (una gamba tesa e l’altra flessa, col ginocchio piegato e puntato ad es. a terra, su un altare o sul dorso di un animale). Esso può essere usato per significati opposti: se è applicato a Cassandra che si rifugia nel tempio di Atena puntando il ginocchio presso la statua della dea mentre Aiace la aggredisce, indica il pathos del vinto; quando è usato per Mitra che punta il ginocchio sul dorso del toro che sta uccidendo, indica il pathos del vincitore. Esempi come questo corrispondono a quello che Warburg chiamava Polarisierung. D’altra parte Fritz Saxl studiò in particolare, nel libro su Mitra e in una Lecture del 1947, proprio questo schema del ‘ginocchio puntato’. Ora, proprio su questi schemi aveva lavorato e scritto, molto tempo prima, l’archeologo Karl Dilthey, fratello del filosofo Wilhelm e di Lilly Dilthey, che era moglie del maestro di Warburg, Hermann Usener). Ma proprio se è vero che, leggendo di Bildformeln in testi archeologicici, Warburg ‘inventò’ le Pathosformeln, più ancora ne risalta il carattere marcatamente innovativo: Bildformel è termine descrittivo e neutro, Pathosformel è – al contrario – carico di connotazioni di storia della cultura. Parola ‘esplosiva’, contiene in sé tanto la rigidità della formula quando l’impeto del pathos: in questa interna tensione è la sua ricchezza e la sua fecondità.
Ora, le Pathosformeln possono essere definite in almeno due modi (convergenti):
a) come repertorio di forme per esprimere il movimento e le passioni, messo a punto dagli artisti antichi, tramandato e ripreso nel Rinascimento;
b) come classificazione delle formule usate nella tradizione figurativa europea; classificazione operata dagli storici dell’arte (in particolare, da Warburg) allo scopo d’intendere il meccanismo di quella tradizione.
In prima approssimazione, si è tentati di dire che la stessa possibilità di elencare le Formeln del Pathos è una forma ritualizzata di controllo sulle passioni (come per un Indiano del New Mexico poteva esserlo il gesto di mettersi in bocca il serpente). La creazione di un repertorio di Pathosformeln da un lato (da parte degli artisti antichi), la ricostruzione e classificazione dello stesso repertorio in tabelle o in atlanti, dall’altro lato (da parte degli storici dell’arte) potrebbero essere intesi come due atti, convergenti o simmetrici, di controllo sulle passioni o, rispettivamente, sulle emozioni estetiche. Ne nascono naturalmente due domande:
1) c’è stato, nella Grecia classica, un processo consapevole di creazione e fissazione di un repertorio di formule iconografiche destinate a esprimere questo o quel pathos? O, al contrario, la formazione di quel repertorio è un’operazione interpretativa propria dell’età moderna?
2) quale era, per Warburg, il significato operativo di questo ricorso alla pratica della classificazione secondo Pathosformeln rispetto al suo progetto di una ‘nuova’ storia dell’arte, mai interamente definito ma abbozzato in alcuni testi fra cui una lettera ad Adolf Goldschmidt?
Cominciamo dalla seconda domanda. L’individuazione delle Pathosformeln come una strada di ricerca che segna una reazione alla detestata storia dell’arte estetizzante è molto netta in un testo precoce di Warburg, il frammento di romanzo epistolare sulla Ninfa, scritto a Firenze nel 1900 con l’amico olandese André Jolles. Esso aveva come tema una figura della Nascita del Battista del Ghirlandaio a Santa Maria Novella (l’ancella che porta un cesto di frutta), ed era imperniato su una precisa distinzione dei ruoli dei due amici: da un lato, l’improvvisa passione amorosa di Jolles per la ‘Ninfa’, che ne fa il tipo dell’esteta che dalle immagini dipinte trae solo piacere; dall’altro, il ruolo che Warburg riservava a se stesso era quello di chi vuole rivelare a poco a poco, nel corso della corrispondenza, la natura e la storia della ‘Ninfa’, la cui essenza pareva al principio inafferrabile:
Anch’io sono nato in Platonia e vorrei stare con te, sulla cima di un’alta montagna, a osservare il volo circolare delle Idee, e non appena la nostra signora arrivi di corsa, svolazzare con lei giosamente, vorticosamente (freudig mit ihr wirbelnd fortschweben). Ma a me una sola cosa è data, e cioè di guardare (invece) all’indietro, per gustare nel bruco lo sviluppo della farfalla. Quanto a te, tu sei tentato di seguirla, come un’alata Idea, attraverso tutte le sfere celesti, in un’ebbrezza d’amor platonico. Io no: io mi sento invece costretto da lei a indirizzare il mio sguardo filologico al suolo da cui essa è nata, e a domandarmi con stupore: ma davvero questa rara pianta, così delicata, ha le sue radici nel prosaico suolo di Firenze?
La risposta sarà, ovviamente, che la ‘Ninfa’ è una pianta esotica, trapiantata a Firenze dall’antica Grecia: questo vuol dire lo “sguardo filologico”, questo vuol dire “cercare nei bruchi lo sviluppo della farfalla”.
André Jolles non era solo un qualsiasi ‘amico olandese’. Anche se la sua contorta biografia (conclusasi infelicemente con l’adesione al nazismo e poi il suicidio) ha allontanato da lui l’attenzione, la sua amicizia non solo con Warburg, ma anche con Huizinga, ne fa una figura molto interessante. Prima archeologo e storico dell’arte, poi della letteratura, fu in connessione, prima del 1900, coi simbolisti francesi e olandesi, nel gruppo di ‘Nieuwe Gids’ che disegnava, in quegli anni, un percorso da stemming (Stimmung) a expressie (Ausdruck). La sua opera più nota (che ha avuto, si può dire, destino e fortuna quasi contro la sfortuna del suo autore) è Einfache Formen (1929), dove altrettante parti sono dedicate a definire le ‘forme semplici’ della tradizione letteraria: Leggenda, Saga, Mito, Indovinello, Proverbio, e così via. Questo approdo di Jolles a una ricerca letteraria di carattere spiccatamente morfologico ne fa un interlocutore particolarmente interessante per il progetto sulla ‘Nympha’, e ci spinge a leggere le Pathosformeln non solo come elementi di classificazione di un repertorio, ma come nuclei elementari di espressione, che si prestano a modifiche e a combinazioni (che Warburg proverà a descrivere, caratteristicamente, con terminologia desunta dalla grammatica: vi saranno così ‘comparativi’ e ‘superlativi’ di una formula data). Alle ‘forme semplici’ corrispondono Pathosformeln minimali, suscettibili di accrescimento e di combinazione in relazione alla loro funzione in contesti diversi e in diversi momenti storici. L’approccio morfologico comporta dunque necessariamente una marcata valenza funzionale.
Questa spinta morfologica, che per Warburg era una reazione alla storia dell’arte estetizzante, non era però del tutto estranea ai Greci. Parlando della danza, Aristotele nella Poetica (1447a) dice che i danzatori, mediante gli schemi ritmici della danza (διὰ τῶν σχηματιζομένων ῥυθμῶν μιμοῦνται), imitano i caratteri, le emozioni e le azioni (μιμοῦνται καὶ ἤθη καὶ πάθη καὶ πράξεις). L’idea della corrispondenza di un determinato schema di danza a un determinato ethos o pathos poteva tradursi anche nelle arti figurative: lo stesso Aristotele, nella Politica (1340a), distingue fra gli artisti quelli che (come Polignoto) erano capaci di produrre μιμήματα τῶν ἠθῶν, “imitazioni dell’ethos”; più tardi, Eliano (Varia Historia IV,3) dichiara che Polignoto veniva imitato πάθος καὶ ἦθος καὶ σχημάτων χρῆσις, “per il pathos, per l’ethos e per l’uso degli schémata”. A ogni pathos, il suo schema: è quello che dice di alcuni personaggi di Eschilo (un poeta che voleva produrre egli stesso gli schemi di danza per le proprie tragedie) uno scolio omerico: “Siedono in silenzio, atteggiato ciascuno secondo uno schema, del dolore o della meraviglia o di qualche altro pathos”. Si potrebbe continuare, ma bastino questi assaggi per mostrare che una forte tensione classificatoria di schémata delle figure (della danza o della pittura) in relazione al pathos e all’ethos era di fatto presente nella cultura greca. L’uso di Pathosformeln nell’arte antica aveva dunque un alto grado di consapevolezza, che doveva naturalmente includere gli artisti (delle immagini, del teatro, della danza) e il loro pubblico.
La funzione delle Pathosformeln nella cultura figurativa antica può essere pertanto duplice: da un lato, esse hanno articolato e reso possibile i meccanismi della tradizione artistica e di bottega, ma anche quelli della recezione e della ‘lettura’ delle immagini; dall’altro, hanno funzionato – analogamente ai testi di etica o di fisiognomica – come un meccanismo di classificazione e di controllo delle passioni umane. E infatti Platone, in un contesto in cui parla dell’educazione dei giovani, raccomanda che, poiché ci sono schémata buoni e schémata cattivi, lo Stato deve obbligare i drammaturghi a usare al teatro solo gli schémata ‘buoni’ (Leggi II, 656 D sgg.). Nella tensione così peculiarmente greca fra individuo e tipo, i testi antichi che mostrano un grado di consapevolezza così alto della pertinenza di determinati schémata ad altrettanti pathe evidenziano una tendenza (evidente, per quanto inattesa) a stabilire mediante formule iconografiche una tipologia delle emozioni.
La forte tensione alla classificazione morfologica e funzionale delle immagini, implicita nell’idea stessa di Pathosformeln, è del tutto estranea (se non ostile) alla pratica storico artistica del tempo di Warburg (e non solo), in quanto ricerca nessi genetici analizzando le forme artistiche nella loro ‘serialità’, prima che per la loro ‘qualità’. Questa tensione va ricollegata, in ultimo, alla radice della Formenlehre di Goethe, e in particolare all’analogia fra la Natura e l’Arte. Come per Goethe, lo studio delle forme vi è concepito come “necessariamente, studio di trasformazioni”; la Ninfa, come una farfalla, è un organismo vivente, e vive perchè si trasforma (tuttavia, è riconoscibile). Proprio perchè continuamente soggetta a metamorfosi, la “forma vivente” delle immagini dev’essere “afferrata” mediante la classificazione; ma la classificazione non la esaurisce mai del tutto. Come un entomologo che catturi una farfalla per strapparle i suoi segreti, vedere in essa il bruco da cui è nata, Warburg scriveva della ‘Ninfa’:
La mia più bella farfalla, con le ali spiegate, rompe il vetro, e si mette a svolazzare beffarda nell’aria blu.
Dentro la Formel, per sua natura ‘fredda’, c’è sempre un nucleo di pathos, ‘caldo’ e capace di generare forme sempre nuove. L’intima tensione fra Formel e Pathos si risolve così in un potente strumento di conoscenza: proprio perchè contiene in sé, quasi atomon comparationis, un originario nucleo di pathos, la formula si presta alla comparazione antropologica. Individuare l’atomon comparationis (il “dettaglio”, dove “si nasconde il buon Dio”, secondo il celebre detto adottato da Warburg) è perciò costituire l’oggetto della propria ricerca, in una Formenlehre dove l’individuazione di tratti comuni si traduce prima in istanza storica, come individuazione di formule accorpabili per prossimità morfologica; e quindi in istanza comparativa, come ricerca del loro intimo nucleo espressivo. Perciò è anche possibile, per Warburg, comparare i Greci agli Indiani del New Mexico. La costruzione della serie morfologica e la comparazione antropologica hanno dunque bisogno l’una dell’altra: ed è la necessità di raccogliere i materiali per comprendere la loro interazione che ha generato la KBW (Kulturwissesnchaftliche Bibliothek Warburg).
Perciò era importante per Warburg:
1. costruire un sistema di Kulturwissenschaft di cui la produzione artistica facesse parte essenziale; e questa fu la Kulturwissenschaftliche Bibliothek.
2. costruire un sistema di classificazione morfologica che raccogliesse, accorpandole, le Pathosformeln, per poterne estrarre, ‘etimologicamente’, il nocciolo; e questo fu il Mnemosyne-Atlas.
3. dimostrare l’operatività del progetto, traducendolo in modelli di ricerca, dove quelle idee generali fossero sperimentate attraverso prove filologiche: e questi furono i suoi scritti.
Quanto agli scritti di Warburg, vorrei dire solo ricordare che i due volumi pubblicati al principio del 1933 col titolo Die Erneuerung der heidnischen Antike non coincidono affatto con l’opera omnia di Warburg, ma sono solo i primi due di un complessivo piano di pubblicazione, che non fu mai realizzato. Perciò essi hanno un doppio frontispizio: il primo reca ‘Gesammelte Schriften’, con riferimento all’intero piano di edizione, il secondo si riferisce solo a quei due volumi, che raccolgono quanto Warburg pubblicò in vita. L’abitudine di citare questi due volumi come le Gesammelte Schriften di Warburg, è non solo scorretta, ma sviante: ‘chiude’, senza dirlo espressamente, il corpus degli scritti di Warburg, che doveva invece proseguire con altri volumi.
Il piano originario di pubblicazione, delineato nella prefazione al primo volume, comprendeva prima gli scritti già pubblicati da Warburg in vita (i due volumi del 1933), poi l’Atlante ‘Mnemosyne’ come terzo volume, la cui pubblicazione sembrava imminente, poi altri scritti (quelli inediti), infine il catalogo della biblioteca, presentato come una tappa finale, molto avanti nel tempo. Paradossalmente, solo quest’ultimo punto è stato realizzato. Dei saggi inediti di Warburg, solo due sono stati pubblicati. Il primo è quello sull’Ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del Rinascimento, pubblicato solo in traduzione italiana nel volume curato da Gertrud Bing nel 1966, e mai in tedesco (anche la recente traduzione francese (1990) si è dovuta basare sul testo italiano). Il secondo è la conferenza tenuta da Warburg a Kreuzlingen il 21 aprile 1923 sulla sua visita in New Mexico, pubblicata in inglese, per iniziativa di Saxl (in “Journal of the Warburg Institute” II, 1938-39), col titolo A Lecture on Serpent Ritual, e poi tradotta in italiano nel 1984. Soltanto nel 1988 Ulrich Raulff ha curato la prima edizione del testo tedesco, col titolo Schlangenritual. Ein Reisebericht, Berlin 1988.
La pubblicazione di questi due testi va considerata un frammento del progetto di Saxl e della Bing di rendere nota l’intera opera inedita di Warburg. Se consideriamo questi due testi insieme con altri inediti di Warburg, e disponendo gli scritti in ordine cronologico, è possibile tracciare un indice immaginario (secondo i progetti del 1933) di un volume delle Gesammelte Schriften di Aby Warburg. Questo potrebbe essere il sommario congetturale di quel volume inesistente:
Unveröffentliche Vorträge und kleinere Abhandlungen
A) Vorträge
1. Leonardo – 3 o 4 conferenze, Amburgo 1899 [AWI G.3, W.49-50]; 7 frammenti pubblicati in E. Gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography, London 1970, pp. 100-104.
2. Ghirlandajo – 3 conferenze, Amburgo 1901; [AWI G.4, W.51,cfr. 53-54]; “largely used for Francesco Sassettis letzwillige Verfügung”, 1907 (Gombrich, op. cit., p. 344).
3. Einführung in die Kultur der italienischen Renaissance – 7 o 8 conferenze, Amburgo 1909 [AWI G.8, W. 74]; 2 frammenti pubblicati in Gombrich, op.cit., pp. 158 e 161.
4. Über astrologische Druckwerke aus alter und neue Zeit – conferenza Amburgo 1911 [AWI G.10, W. 81]; 1 frammento pubblicato in Gombrich, op.cit., pp. 199 sg.
5. Die Wanderungen der antiken Götterwelt vor ihrem Eintritt in die italienische Hochrenaissance – conferenza Göttingen 1913 [Bing: riassunto in Die Erneuerung; AWI G.12, W.84.85]; 1 frammento pubblicato in Gombrich, op.cit., p.202.
6-7. Die antike Sternbilderwelt in der Kunst neuerer Zeiten [AWI G.13, probabilmente includendo i due testi successivi].
6. Die Fixsternhimmelsbilder der ‘Sphaera Barbarica’ auf der Wanderung von Ost nach West, conferenza Amburgo 1913 [AWI W.87].
7. Die Planetenbilder in ihrer Wanderung von Süd nach Nord und zurück nach Italien, conferenza Amburgo 1913 [AWI W.88].
8. Der Eintritt des antikisierenden Idealstils in die Malerei der Frührenaissance – Bing; riassunto in Die Erneuerung , op. cit., pp. 175 sg.; pubblicata nel 1966 in traduzione italiana: La rinascita del paganesimo antico, pp. 283-307.
9. Schlangentänze der Indianer (= Schlangenritual) – [Bing; pubblicato in inglese nel 1939, e poi in italiano e in tedesco]
10. Die Einwirkung der ‘Sphaera Barbarica’ auf die kosmischen Orientierungsversuche – conferenza Amburgo 1925 [AWI G.17, W.94a]; 1 frammento pubblicato in Gombrich, op. cit., pp. 228-29.
11. Italienische Antike im Zeitalter Rembrandts – conferenza Amburgo 1926 [AWI Bing; G.19, W. 97]; 6 frammenti pubblicati in Gombrich, op. cit., pp.231-238.
12. Mediceische Feste am Hofe der Valois auf flandrischen Teppichen in der Galleria degli Uffizi – conferenza Firenze 1927 [AWI G.,20; W.,96,3], riassunto in Die Erneuerung, cit., pp. 257-258. .
13. Die Briefmarke als bildmäßiges staatspolitisches Machtssymbol – conferenza Amburgo 1927 [AWI Bing; W., 93,4].
14. Mediceisches Festwesen – conferenza Amburgo 1928 [AWI G.23, W. 98,3]; 2 frammenti pubblicati in Gombrich, op. cit., pp. 269-271.
B) Abhandlungen
1. Über ein frühes Inventar der Medici – [AWI Bing].
A partire dagli anni ’90 del XX secolo, un comitato internazionale (che comprende M. Warnke, H. Bredekamp, K. W. Forster, N. Mann, e me stesso) ha riaperto questo archivio, in vista dell’edizione degli inediti di Warburg. Al tempo stesso, il Getty Center ha messo in cantiere una traduzione inglese completa dei due volumi già pubblicati di Gesammelte Schriften.
Egualmente breve sarò nel considerare la struttura della Biblioteca, tanto più che il mio articolo su questo problema si può leggere in francese, con una nuova Appendice, nel volume Le pouvoir des bibliothèques pubblicato nel 1996 da Albin Michel, e curato da Marc Baratin e Christian Jacob. In essa, attraverso un costante lavoro che parte con Warburg, continua con Saxl e la Bing, e giunge fino al trasferimento a Londra, in sedi temporanee e poi in quella attuale, la disposizione dei libri fu organizzata in modo da riflettere il pensiero di Warburg, suggerendo ai lettori dei percorsi di ricerca determinati, nei quali ogni libro doveva disporsi accanto agli altri secondo un principio ‘di buon vicinato’. A tale scopo, lo stesso Warburg aveva voluto costruire in Amburgo un edificio apposito (quello dove la Biblioteca fu dal 1924 al drammatico esilio nel 1933): poiché l’edificio era in quattro piani, la struttura fu adattata ad esso disponendo i libri secondo quattro principali settori, il cui ordine (anche se fu inizialmente modificato) era carico di implicazioni, quasi a costruire un albero della conoscenza che corrispondesse alle direzioni potenziali del pensiero di Warburg.
La sequenza delle ‘parole d’ordine’ ad Amburgo nel 1932, subito prima del trasferimento, era:
Orientierung (I piano)
Wort (II piano)
Bild (III piano)
Dromenon (IV piano).
L’ultima parola indica una direzione interpretativa, poiché è tolta dal linguaggio greco dei misteri, in particolare eleusini. In essi, i testi antichi distinguono “ciò che è mostrato” durante i riti misterici (δεικνύμενον), “ciò che viene detto” (λεγόμενον) e “ciò che viene fatto, performed” (appunto, δρόμενον). Il gioco fu probabilmente di alludere a Bild e a Wort attraverso il richiamo implicito, rispettivamente, a δεικνύμενον e a λεγόμενον. In tale sequenza, la ricerca di Orientierung da parte dell’uomo nel mondo mediante la costruzione emotiva e/o intellettuale di determinate rappresentazioni del cosmo e di corrispettivi meccanismi di conoscenza, di controllo e di comportamento è presentata come il presupposto della produzione di parole (Wort) e di immagini (Bild); mentre i modelli dell’organizzazione sociale e i fatti della storia sono presentati, nella sezione Dromenon come conseguenti a quella Orientierung, in un mondo, per così dire, già popolato di parole e di immagini. Nella sezione Orientierung, trovano posto la religione e la filosofia, ma anche la scienza: la storia della magia e della cosmologia, che illustra lo sviluppo dall’alchimia alla chimica, dalla stregoneria alla medicina, dall’astrologia all’astronomia. Religione, filosofia e scienza sono dunque meccanismi di controllo dell’uomo sul mondo, che orientano le sue azioni, e l’espressione (per immagini o per parole), Ausdruck, trova il suo quadro interpretativo nello studio dei meccanismi della memoria sociale, che si muovono fra i poli opposti di Orientierung e Dromenon.
Vengo ora al mio ultimo punto, l’Atlante Mnemosyne. Cominciamo col ripercorrerne la storia esterna. Almeno dal dicembre 1927 Warburg aveva annunciato l’intenzione di pubblicare l’Atlante, e già nel 1928 fu stesa una bozza di contratto con l’editore berlinese Frederichsen, De Gruyter & Co.. Nel suo ultimo anno di vita, egli presentò Mnemosyne in una conferenza su Die römische Antike in der Werkstatt des Domenico Ghirlandajo tenuta nella Bibliotheca Hertziana il 19 gennaio 1929, in presenza di numerose tavole dell’Atlante allineate tutto intorno; inoltre, per un pubblico più ristretto, tenne quattro ‘visite guidate’ dello stesso materiale (una è la lezione su Manet).
Dopo la morte di Warburg, alla cerimonia commemorativa tenuta nella Biblioteca, la Bing espose e commentò alcune tavole dell’Atlante. Dal 1929-30 in poi comincia il lavoro di Saxl, della Bing e di altri per una pubblicazione imminente, come è chiaro da una lettera all’editore Teubner di Lipsia, lo stesso che stamperà Die Erneuerung der heidnischen Antike. Al IV congresso di Estetica, (Amburgo, ottobre 1930), Edgar Wind parlò nella Biblioteca sul Warburgs Begriff der Kulturwissenschaft und seine Bedeutung für die Æsthetik in presenza delle tavole di Mnemosyne. In un altro congresso ad Amburgo, quello della ‘Deutsche Gesellschaft für Psychologie’ (aprile 1931) Saxl parlò di Ausdrucksgebärden der bildenden Kunst davanti a una serie di tavole dell’Atlante di Warburg. Si ripeteva così la scena della Bibliotheca Hertziana: ed è assai caratteristico che i continuatori di Warburg usassero l’Atlante incompiuto per rendere noti gli scopi e le caratteristiche della Biblioteca, e che lo facessero davanti a un pubblico, rispettivamente, di studiosi di estetica e di psicologi.
L’avvento del nazismo, il trasferimento della Biblioteca e i problemi che seguirono bloccarono anche questo progetto. Uno dei problemi era certamente quello della lingua: pubblicare Warburg in tedesco sarebbe stata la cosa più naturale; ma come farlo, proprio mentre lo sforzo era di integrare il nascente Warburg Institute nel sistema accademico inglese? Si sarebbe potuto fare eccezione – può parerci oggi – per Warburg, ma evidentemente non era così; e ne testimonia la decisione di pubblicare in inglese la Lecture on Serpent Ritual e il fatto che al giovane Gombrich fosse richiesto di approntare, in inglese, un commento a Mnemosyne.
Ma mentre l’inglese era diventato la lingua d’elezione, l’intero staff del Warburg Institute pensava in tedesco, e così anche i fratelli di Warburg, che volevano vedere proseguita l’opera di lui. Perciò la prima cosa che Gombrich fece fu di approntare un’edizione parziale di Mnemosyne con introduzione e commento in tedesco (basati sui testi di Warburg), che Max Warburg ricevette già nel giugno 1937 come regalo di compleanno e anticipazione augurale della pubblicazione imminente. Gombrich aveva selezionato 23 tavole (mentre ne erano previste almeno 79) reimpaginandole con nuovi criteri. Questa edizione rimase anch’essa incompiuta, e totalmente sconosciuta fino al 1983 (anche perchè lo stesso Gombrich non la menziona nel suo libro), quando Eric M. Warburg la donò al Warburg Institute. Si può congetturare che questa prima versione in tedesco, una volta completata, dovesse costituire la base dell’edizione a stampa in lingua inglese che era stata assegnata in compito a Gombrich. Da allora in poi, la storia di Mnemosyne è quella delle riproduzioni delle sue tavole. Essa è oggi un oggetto depositato in una sorta di memoria archivistica, ma non è quel messaggio operativo che doveva essere nelle intenzioni dell’autore: più che stimolare nuove strade per la storia dell’arte, provoca lavori di ricostruzione, letteralmente, ‘archeologica’ dello stesso Atlante; insomma, sembra essersi chiusa su se stessa.
Tratterò qui solo uno degli aspetti dei molti che il Mnemosyne-Atlas invita a considerare: e cioè, la struttura delle tavole e il significato degli accostamenti delle varie immagini. Prenderò come esempio la tavola 7, e ne metterò a confronto le due versioni: quella di Warburg (1929), e quella approntata da Gombrich nel 1937. La tavola faceva parte di una serie (tavv. 4-8) dedicate a illustrare le “parole primordiali del linguaggio delle passioni nei gesti” (Urworte leidenschaftlicher Gebärdensprache): gli dèi dell’Olimpo e dell’Ade; le antike Pathosformeln; la Menade e il dionisismo; la guerra, la vittoria e il trionfo; il mitraismo. Guerra, vittoria e trionfo sono il collante tematico della tav. 7. Confrontando le due versioni, è subito evidente una differenza non solo nella collocazione, ma nel numero delle immagini: quella di Warburg ne ha 22, quella di Gombrich 13. Vediamo in dettaglio le differenze. Nella versione originaria abbiamo:
1) una moneta greca di Siracusa con Nike su quadriga;
2) l’arco di Costantino;
3-4-5) particolari dell’arco di Costantino: i due rilievi con Traiano in battaglia e Traiano incoronato, e un particolare del fianco, col medaglione dove c’è la quadriga del Sole;
6) i rilievi interni dell’arco di Tito, con l’imperatore su quadriga e il corteo trionfale dopo la guerra giudaica;
7) un fianco dell’arco di Costantino;
8) pittura di Pompei, Casa del Naviglio, con Diana (?) portata in cielo da figura alata;
9) Victoria di Ostia;
10) un imperatore bizantino innalzato sullo scudo (miniatura del sec. X);
11) la Gemma Augustea: vittoria e coronamento di Augusto;
12) Adriano assiste all’apoteosi della moglie Sabina, trasportata in cielo da una figura alata;
13) una figura alata trasporta in cielo Antonino Pio e Faustina;
14) una scena di battaglia (rilievo romano);
15) Nike presso il cavallo di un imperatore (rilievo tardo-antico);
16) il Grande Cammeo di Francia (battaglia e coronazione);
17a-b-c) due scene della Colonna Traiana, e un disegno rinascimentale da una delle due;
18) Apoteosi di Napoleone I (Milano, Andrea Appiani);
19-20) Monete con tipi del potere imperiale.
L’arco di Costantino – esso stesso luogo di assemblaggio antico di materiali ancora più antichi – domina la tavola, e ne costituisce sia l’asse di focalizzazione che il centro di distribuzione tematica. La quadriga del Sole, data in particolare, evoca da un lato il remoto modello siracusano e dall’altro i rilievi dell’arco di Tito: il legame, che vi è stabilito, fra battaglia e trionfo ‘chiama’ nella tavola la Gemma Augustea e il Grande Cammeo di Francia; il legame fra vittoria, trionfo e apoteosi è ribadito, con forza seriale, dalle monete, e riaffermato nelle apoteosi di Sabina e della coppia imperiale (Antonino-Faustina), accostate a una pittura pompeiana dove una figura alata trasporta in cielo non un Cesare, ma un dio. Il legame fra vittoria e potere sovrumano dell’imperatore torna nelle scene dalla Colonna Traiana, di una delle quali (quella in cui i Daci sembrano messi in fuga dalla sola apparizione di Traiano) è dato anche un disegno rinascimentale. Il ruolo dell’imperatore è riaffermato in due direzioni: la cerimonia germanico-bizantina dell’innalzamento sugli scudi e l’apoteosi di un nuovo Cesare, Napoleone. A un estremo (in alto), la moneta greca appare come un flash-back; all’altro estremo (in basso) il disegno rinascimentale e la ripresa neoclassica consegnano l’antichità romana all’Europa moderna.
La tavola corrispondente assemblata da Gombrich è più ordinata di aspetto, ma ha perso molto per strada. Mancano, fra l’altro, i pannelli dell’arco di Tito, e con ciò si perde l’imperatore in quadriga; manca la pittura pompeiana che offriva un precedente alle scene di apoteosi dei Cesari; mancano le monete (salvo una), e con ciò si perde l’impatto seriale del discorso; mancano le scene della Colonna Traiana, e il relativo disegno rinascimentale. Queste assenze possono servire qui a evidenziare una difficoltà e una domanda: che cosa veramente tiene insieme le figure di una singola tavola di Mnemosyne? Nessun trattato di iconografia raccoglierebbe mai sotto lo stesso lemma le disparate figure della tavola che abbiamo sotto gli occhi.
Sulla base di questo solo esempio, vorrei proporre due diverse e convergenti risposte. In primo luogo, quale è la natura della serie che Warburg in questa tavola ci propone? In generale, possiamo distinguere serie monotetiche, composte da individui che si assomigliano per le stesse ragioni; e serie politetiche, composte da individui che si somigliano per ragioni diverse, come qui nel diagramma che segue, per una certa ‘aria di famiglia’, difficile da definire.
A m n o
B o p q
C q r s
D s t u
A, B, C, D = serie monotetiche
A + B + C + D = una serie politetica
‘Aria di famiglia’ è un termine entrato in uso in questo senso almeno da quando l’antropologo inglese Francis Galton nel 1879 cercò di individuare, mediante la fotografia, quell’indefinibile prossimità fra membri della stessa famiglia che, appunto, ce li fa riconoscere per tali, ma si esprime difficilmente con parole; ma le implicazioni logiche ed epistemologiche sono state analizzate molto tempo dopo da Ludwig Wittgenstein e sono oggi, specialmente per merito di Rodney Needham, al centro del dibattito fra gli antropologi; Carl Ginzburg, da ultimo, ne ha proposto l’uso per le scienze storiche.
Quella della tavola di Warburg è indubbiamente una ‘serie politetica’, e proprio in ciò risiede, mi pare, la difficoltà di intenderne i nessi, se cerchiamo di leggerla, seguendo le normali procedure disciplinari, in base a categorie monotetiche. Una serie monotetica può essere costruita per sola classificazione morfologica; per costruire una serie politetica, occorre integrarla mediante l’ipotesi antropologica. La morfologia warburghiana è costruita sulla base di nessi funzionali, centrati sull’Ausdruck come rapporto fra forma e funzione, con marcate valenze socio-culturali. La serie tematica e funzionale si costruisce intorno a un nucleo minimo ma forte di valori espressivi, che attivano modalità di presentazione affini e sostanzialmente intercambiabili sulla base della prossimità non del tema, ma del sentimento e del valore che lo sostanziano (per esempio, la maestà e il potere del Cesare possono essere espresse mostrandolo mentre o combatte, o calpesta il nemico, o trionfa in quadriga, o è incoronato dalla Vittoria, o è innalzato al cielo fra gli dèi). Il carattere non-disciplinare e politetico della costruzione warburghiana ne rende più difficile la comprensione; ma, una volta individuato, può segnare – lo spero – una nuova strada esegetica.
Tentiamo ora la seconda risposta. Come abbiamo visto al principio, il progetto di Warburg di una storia dell’arte non-estetizzante si organizzava intorno ad alcune precise istanze, o valori: l’autenticità dell’arte, l’universalità del sentimento che la genera e della risposta estetica che essa genera, la lotta contro i meccanismi di impoverimento di questi valori. Sono istanze che, negli anni di Warburg, avevano trovato espressione forte presso gli artisti, e in particolare quelli del Blaue Reiter. Mi ha perciò molto colpito l’osservazione recente di Nadja Podziemskaja che ha rilevato, proprio nell’almanacco del Blaue Reiter, meccanismi di accostamento delle immagini che, senza essere identici a quelli di Warburg, li ricordano però da vicino. Non è solo un parallelo suggestivo, dato che Warburg nel 1916 comprò un quadro di Franz Marc (I cavalli azzurri ), che era appeso nell’ingresso della casa di Heilwigstraße; e perchè Franz Marc, insieme con Dürer, è uno dei due nomi che egli cita in un appunto del 1918 come esempi di un artista che “nel proprio stile, per le proprie figure interiori, ha trovato una forma di mediazione fondata sulla necessità di natura (naturnotwendige)”. L’uso paritetico di materiali ‘alti’ e ‘bassi’ (francobolli e ritagli di giornali, arte popolare, disegni di bambini etc. è un aspetto importante del problema, del resto già sottolineato da Martin Warnke. Un aspetto non meno importante è che le illustrazioni del Blaue Reiter sono ricche di accostamenti fatti in base a una certa ‘aria di famiglia’, dietro la quale è (sulla base dei testi dello stesso almanacco) l’istanza suprema dell’autenticità dell’esperienza artistica; o, nei termini di Kandinsky, la forma come scaturita dalla necessità interiore. Secondo le parole di August Macke, “inafferrabili idee si esteriorizzano in forme afferrabili. Afferrabili attraverso i nostri sensi come stella, tuono, fiore: come forma” (in W. Kandinsky, F. Marc, Il cavaliere azzurro, Milano 1988, 49). Potremmo dire che quello di Mnemosyne è il percorso inverso: raggiungere le idee e i sentimenti partendo dalle forme (dall’analisi morfologica). Leggiamo ancora un passo di Kandinsky:
Il lettore di questo libro... passerà da un ex-voto a un Delauney, da un Cézanne a una illustrazione popolare russa, da una maschera a un Picasso, da una figura su vetro a un Kubin, e la sua opera si arricchirà allora di molte vibrazioni che lo faranno entrare nel regno dell’arte.
Queste parole segnano analogie, ma anche una divaricazione dell’esperienza del Blaue Reiter da quella di Warburg. Warburg voleva sì comunicare ‘vibrazioni’, ma insieme anche definirle, attraverso una teoria generale della cultura e dell’uomo che recuperasse in pieno l’autenticità dell’espressione mediante immagini.
Quella che egli andava intrecciando era ed è una corda tesissima, e sempre prossima a spezzarsi, proprio perchè i suoi due estremi sono così lontani l’uno dall’altro. A un estremo, l’autenticità dell’esperienza artistica, in quanto “biologisch notwendig” per l’uomo, il suo ancorarsi profondo al sentimento, il suo slancio espressivo-comunicativo e la sua validità come punto di partenza per intendere la cultura dell’uomo. All’altro estremo, la severità dell’indagine storica e filologica, la ricerca del documento, degli anelli intermedi della catena. La più alta razionalità dell’uomo civilizzato andava usata proprio per scoprire in lui il selvaggio e il bambino. La grandezza di quel progetto, e insieme la ragione della sua intrinseca incompiutezza, è il desiderio di coniugare due dimensioni così distanti come l’intuizione di grandi disegni e parametri storici e la dimostrazione filologica, sperimentata su problemi singoli, che però valessero come altamente rappresentativi di una totalità e – in quanto ‘verificabili’ secondo i criteri in uso nella pratica disciplinare – valessero come ‘prova’ rispetto al disegno di cui erano esperimento e parte. Di qui l’importanza cruciale di una spola continua fra ‘scoperte di dettaglio’ che avessero uno specifico statuto disciplinare, e ‘idee generali’. Sappiamo ora quello che è avvenuto: per gli storici dell’arte calati nella propria disciplina, quello che resta sono le ‘scoperte di dettaglio’ di Warburg, e le ‘idee generali’ tendono a sfumare in remota, e quasi imbarazzante, cornice; per storici delle idee, studiosi di estetica e di filosofia, quelle idee rimandano a linee di pensiero e le singole scoperte di fatto hanno valore solo disciplinare. L’intima unità del lavoro di Warburg va così perduta, e quella sua “scienza senza nome” e senza luogo tende a dissolversi e a biforcarsi in due strade che non comunicano fra loro.
L’uso di Warburg ha preso questa strada soprattutto perché i suoi scritti, per quanto incompiuti, segnano strade radicalmente alternative alla storia dell’arte per come si è sviluppata in questo secolo. La ‘storia dell’arte’ di Warburg non esiste come disciplina a se stante; le istituzioni accademiche si organizzano tipicamente intorno a pratiche autoassertive di autonomia di questa o quella disciplina, mentre la Biblioteca Warburg intendeva proprio negare – o meglio ignorare – un tal principio, collocando non ‘la storia dell’arte’, ma il suo oggetto (le immagini prodotte dall’uomo) entro un percorso conoscitivo assolutamente non-disciplinare. Terminerò con le parole di Huizinga nella recensione all’edizione delle Gesammelte Schriften del 1933:
Malgrado l’altezza del suo spirito e l’eccellenza del suo lavoro, in ampiezza e in profondità, resta intorno alla figura di Warburg qualcosa di tragico, qualcosa di non completamente dispiegato. Uno dei suoi collaboratori parlava del suo animo posseduto dal demone del ‘dar forma’ (“vom Dämon des Gestaltens besessenen Sinn”). E infatti egli intuì le grandi forme e connessioni e seppe evocarle, ma non gli riuscì veramente di operare quel suo Gestalten, e anzi appena cominciò a provarci, limitandosi a quelli che egli stesso chiamava Bohrarbeiten, ‘lavori di sondaggio’.
Ritroviamo qui quella stessa dialettica fra ‘idee generali’ e ‘lavori da cane da tartufi’ di un appunto autobiografico di Warburg. Quel Dämon des Gestaltens, che incessantemente voleva dar forma alla memoria dell’Occidente, ancora parla attraverso la forza esemplare di quei singoli ‘sondaggi’, ma anche dispiegando (in forma aforismatica nell’Atlante, in forma gerarchica e sequenziale nella Biblioteca) un gran lavoro incompiuto intorno alle ‘idee generali’, alle “grandi forme e connessioni”. Il problema è se riusciamo ad ascoltarlo ancora.
English abstract
The intersection between “general ideas” (allgemeine Ideen) and “single facts” (Einzeltatsachen) is a fundamental issue in understanding Warburg’s thought, as it is evident considering three aspects of his work: the writings (including unpublished ones), the structure of his Library, and the Mnemosyne Atlas. The starting question in Warburg’s work deals with man’s aesthetic response towards images: Warburg intended to seek the primary sources and values of this universal human feeling, with no regard to the status of ‘Art’ in contemporary society. Warburg’s Kunstwissenschaft distinguishes itself as Ausdruckskunde (“discipline of expression”) and Kulturwissenschaft (“science of culture”): in this anthropological perspective art regards the man, not the artist. The sudden re-appropriation, during the Renaissance, of the legacy of images from Antiquity can be explained via an empathetic process that can be interpreted - according to the work of Warburg’s teacher, Hermann Usener - as an etymological urge, i.e. the necessary rediscovery of the expressive significance of images, beyond their figurative form. This double-edged value of images, both morphological (patterns) and functional (expressions), finds its highest definition in Warbug’s Pathosformel, the “emotive formula” whose antecedents can be traced back in ancient thought. In Warburg’s Pathosformel the intimate tension between “Formel” and “Pathos” is solved in a powerful instrument of knowledge: precisely because it contains an original ‘core’ of pathos, the emotive formula lends itself to anthropological comparison. Pathosformeln are collected by Warburg in a morphological-functional system, the Mnemosyne Atlas, in which images are juxtaposed in ‘polythetical’ – i.e. manifold connected – series (a principle that can be recognized also in the books classification in Warburg’s Library). During Warburg’s years, this peculiar approach towards the connection of different images found strong expression by artists, in particular those of the Blaue Reiter circle. The greatness of Mnemosyne’s project, as well as the reason of its intrinsic incompleteness, consists in the desire to combine two dimensions so distant as the intuition of a large historical drawing and the philological demonstration experimented on individual issues, regarded as highly representative of a totality and – according to philological criteria – ‘tested’ within the design of which they are part.
keywords | Warburg; Mnemosyne atlas; Pathosformel; Warburg’s Library Iconography.
*Grazie alla generosa disponibilità dell’autore, pubblichiamo qui, senza aggiornamenti nel contenuto né dell’informazione bibliografica, il testo di una lezione che Salvatore Settis ha tenuto in diversi luoghi e circostanze negli anni ’90 (fra cui: Amburgo 1991; Parigi 1995). Il testo nel suo complesso è inedito: una pubblicazione parziale (rivista e aggiornata) è in Pathos und Ethos, Morphologie und Funktion, “Vorträge aus dem Warburg-Haus” I, 1997 (tradotto successivamente in italiano: Pathos ed Ethos, morfologia e funzione, in Pathosformeln, retorica del gesto e rappresentazione: Ripensando Aby Warburg, fascicolo speciale della rivista “Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura” VI, 2004 [ma: 2006], nr. 2, 23-34). Il testo che presentiamo è stato anche la traccia del seminario sull’Atlante di Aby Warburg, tenuto da Salvatore Settis a Venezia, il 24 febbraio 2000 (vedi, in questo stesso numero di Engramma, l’Editoriale di Monica Centanni).
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Settis, Aby Warburg, il demone della forma. Antropologia, storia, memoria, “La Rivista di Engramma” n. 100, ottobre 2012, pp. 269-289 | PDF