Andrea Mantegna: Spiel-Drama del pathos e ritmo eroico dell'antico.
Una proposta di lettura della Tavola 49 dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg*
Giulia Bordignon
*già in Engramma n. 24, aprile 2003, riedizione dicembre 2012
Protagonista assoluta di tavola 49, la personalità del Mantegna esemplifica secondo Warburg la capacità di alcuni artisti del Rinascimento di proteggere “l’autonomia della propria individualità” e delle proprie scelte stilistiche dalla deriva ‘manierista’ legata al confronto con i modelli antichi, e di opporre una resistenza creativa alla resa senza condizioni nei confronti della retorica gestuale dell’arte pagana; infatti “fin dalla seconda metà del Quattrocento gli artisti italiani cercano nel tesoro riscoperto della plastica antica, con eguale zelo, tanto i modelli di una mimica intensificata quanto quelli di una serenità classicamente idealizzante” (Warburg, Dürer e l’antichità italiana, 1905).
Nel montaggio del pannello le opere di Mantegna (e della sua cerchia) sono disposte secondo una netta linea di cesura tematica: da un lato le figure hanno per oggetto il valore etico della virtus, sia essa civica o religiosa (Trionfo di Cesare, Cibele, Eroine romane, Giudizio di Salomone, Ludovico Gonzaga e la corte, Pala di San Zeno); dall’altro lato – segnatamente nella ‘serie’ verticale di immagini a destra – le immagini propongono invece esempi, tutti pagani, di incontinentia (Lotta di dei marini, Baccanale, Morte di Orfeo).
Mantegna è capace di mantenere un atteggiamento di distacco e padronanza nei confronti dei valori espressivi preformati dell’antichità: insieme ad Albrecht Dürer, che verrà in contatto con lo ‘stile anticheggiante’ italiano proprio grazie alle incisioni presentate in questa tavola, Mantegna è l’artista rinascimentale che opera una scelta e una accettazione non incondizionata di questi valori. Nella prospettiva di Warburg, Mantegna sta in equilibrio, grazie a un “consapevole lavoro formale sulla limitazione” (Introduzione all’Atlante Mnemosyne, 1929), tra le richieste spirituali della moderazione apollinea e quelle della sfrenatezza dionisiaca. Ovvero, in termini di stile, “l’eroico pathos teatrale con cui si presentano le figure antiche del Mantegna” sta “fra le graziose mobilità del Poliziano e il violento manierismo del Pollaiolo” (Warburg, Dürer e l’antichità italiana, 1905).
In un appunto Warburg delinea, all’interno del ‘sistema linguistico’ dell’arte rinascimentale, tre gradi di intensità espressiva: “Positiv (ornamental-physiognomik) – Comparativ (Spiel-Drama) – Superlativ (dynamisch-patetisch)” (WIA ms. W. 72, f. 9; 1906-07): tra la resa statica e descrittiva dell’oggettività fisiognomica e la retorica muscolare patetica ed enfatica, Mantegna occupa la posizione intermedia della eloquenza gestuale drammatica, capace di confrontarsi con le formule espressive tramandate dall’antichità senza rifiutarle e senza rimanerne prigioniero.
Secondo le parole di Warburg (Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino, 1902), rispetto all’arte cortese che dà sfogo, con l’intensificazione dei gesti, al piacere
“energicamente erompente della esistenza festosamente movimentata e sfarzosa, […] soltanto nel Trionfo di Cesare del Mantegna questa vivacità effimera ha imparato dagli antichi a presentarsi in un raccolto ritmo eroico” .
Anche il ritratto ‘borghese’, illustrativo e prosastico, del principe rinascimentale, genere che avevamo già incontrato nel placido realismo che animava i ritratti medicei del Ghirlandaio, è improntato a una dignitas tutta romana, la stessa che pervade il Giudizio di Salomone, raffigurato en grisaille sul trono, e la figura in maestà della Vergine di San Zeno.
Contegno e gravitas accomunano personaggi pagani e cristiani, stanti o solennemente ingredienti, sotto il segno di un “ipertono di calma forza di resistenza” (caratteristica che Warburg assegna al campione dell’imperturbabilità nordica, Dürer): nella ratio ermeneutica di tavola 49 è possibile istituire un confronto etico parallelo tra la virtù delle eroine romane Tuccia e Sofonisba e la devozione dei santi in sacra conversazione con la Madonna e il Bambino, in una ideale continuità tra mondo classico, ante legem, e mondo cristiano, sub lege.
Ma poiché l’artista rinascimentale poteva vedere contemporaneamente “sui sarcofagi pagani Dioniso nel corteo barcollante del suo seguito orgiastico e sugli archi romani della vittoria il corteo trionfale dell’imperatore” (Warburg, Introduzione all’Atlante Mnemosyne, 1929), l’eloquenza mimica delle formule di pathos antiche servì anche a Mantegna per rappresentare l’espressività istintuale delle passioni, incarnata nell’incontinentia delle figure del mito, ebbre o in lotta. Nella trasmutazione di valori tra mondo pagano e mondo cristiano, l’abbandono sfrenato all’impulso diventa, nel sistema etico cristiano, vero e proprio vizio: la lotta tra gli dei marini è allegoria dell’invidia, personificata nella figura di vecchia della seconda incisione.
Ma a differenza di Ghirlandaio, che secondo le parole di Warburg fa parte di quella schiera di “liberti dell’antica mimica patetica [che] non si lasciavano più trattenere a una pia distanza” (Le ultime volontà di Francesco Sassetti, 1907) rispetto al confronto con il modello antico e alla intensificazione espressiva che lo caratterizza, Mantegna dimostra un atteggiamento di distacco e di forte coerenza interna.
Infatti, negli affreschi di Ghirlandaio si fa progressivamente strada un adeguamento ‘incondizionato’ al modello, tanto che il pathos pagano anima non più soltanto le figure en grisaille dei rilievi nello sfondo architettonico, ma arriva a muovere anche i personaggi ‘reali’ che agiscono in primo piano negli eventi raffigurati: dall’antichità irrompe direttamente sulla scena la figura ‘aliena’ della ninfa nella Nascita del Battista (tav. 45).
Nell’uso metaforico della grisaille Mantegna mantiene invece una rigorosa – diremmo: lapidaria – coerenza: l’antico è sempre fictum, è sempre, in un certo senso, spolium, testimonianza materiale di un mondo altro, già oggetto di una precoce erudizione archeologica. Da un lato infatti ci sono le scene, insieme tutte antiche e ‘all’antica’, dei trionfi e degli exempla virtutum pagani, narrate secondo ritmi composti, e le agitate scene in monocromo dei baccanali, delle contese mitologiche e delle punizioni mitiche; dall’altro lato, nel quarto inferiore sinistro del montaggio, ci sono le variopinte scene che rappresentano la realtà (la corte del principe), o la verità (l’evento religioso). Il ritratto di Ludovico Gonzaga e della sua famiglia risponde alle esigenze illustrative e rappresentative dell’arte cortese: in Mantegna l’istanza realistica, pur improntata a una resa idealizzante, è assoluta, nel senso che non c’è compenetrazione su un medesimo piano, come nel caso di Ghirlandaio, tra la raffigurazione naturalistica e quella pateticamente intensificata del movimento.
Ancora più evidente è il mantenimento della distanza nella pala di San Zeno, dove la mimica che esprime il pathos antico ‘dionisiaco’ (lotta, ratto, dominio) resta relegata nello sfondo architettonico, finta nei tondi e nei bassorilievi ‘classici’, e i reali attori del ‘dramma’ sono caratterizzati da compostezza e da padronanza di sé: è la medesima padronanza e compostezza che Mantegna dimostra nei confronti dell’antichità.
English abstract
According to the author, Warburg sees condensed in this painter and in his work the ability of some Renaissance artists to protect "the autonomy of their own individuality" and their stylistic choices from the 'mannerist' drift linked to the comparison with ancient models, and to oppose a creative resistance to the unconditional surrender to the gestural rhetoric of pagan art.