Architettura e Archeologia: a proposito di alcuni progetti di Giorgio Grassi
Silvia Malcovati
English abstract
1. La nozione di “rovina”e una idea di architettura
Il rapporto tra architettura e archeologia appare come tema centrale nel lavoro di Giorgio Grassi fin dagli anni della sua formazione e delle sue prime esperienze didattiche. Dal 1961 al 1963, infatti, lavora al Politecnico di Milano (insieme a Francesco Tentori e Vittorio Gregotti) come assistente al corso di Caratteri Stilistici degli edifici tenuto da Ernesto Nathan Rogers – lo aveva ereditato, insieme agli assistenti Liliana Grassi e Carlo Perogalli, da Ambrogio Annoni [1] – che si occupava in senso ampio di architettura e città della storia.
È certamente all’insegnamento di Rogers che si può riferire l’idea di “un oggetto architettonico” come di un “organismo vivo” (ROGERS [1958] 1997, p. 31), che si trasforma nel tempo, come anche l’atteggiamento “tecnico” che l’architetto deve assumere di fronte alle rovine: “Se l’edificio è inutilizzato ma rimane, almeno parzialmente valida, l’intrinseca economia dei suoi rapporti strutturali, la commozione che proviamo è di natura architettonica; ma se anche l’economia intrinseca non è più rappresentata e ci troviamo di fronte ai ruderi, la commozione è di tutt’altra natura (plastica, letteraria, sentimentale)” (ROGERS [1958] 1997, p. 180).
Successivamente, nel 1965, al suo primo incarico didattico come assistente di Aldo Rossi al corso di Caratteri Distributivi degli edifici, Grassi dedica il suo contributo all’architettura del teatro greco, a partire dal “rapporto che unisce edificio e città, come istituzione ma anche come forma riconoscibile di questa”, e dalla nozione di “tipo” come fondamento della riflessione sull’architettura. A questo proposito fa riferimento agli studi di Carlo Anti e in particolare al libro Teatri greci arcaici (ANTI 1947), di cui evidenzia l’approccio basato sull’analisi formale dell’architettura, incrociandoli significativamente con quelli di Károly Kerényi sugli archetipi della mitologia ellenistica (KERENY [1940] 1940) e di Walter Friedrich Otto su religione e mitologia (OTTO [1929] 1968). Una bella comunicazione di quell’anno dal titolo L’architettura del teatro e la città greca è stata inserita nel 2000 nella raccolta degli Scritti scelti (GRASSI 2000, pp. 15-25).
Di questo interesse per l’architettura antica testimoniano anche numerosi viaggi, compiuti negli stessi anni e in quelli successivi: Paestum nel 1961, le città romane d’Algeria (Timgad e Djemila) nel 1969 – che diventeranno il punto di partenza di uno dei testi teorici più importanti di Grassi, Questioni di Progettazione del 1983 (GRASSI 2000, pp. 226-233) – Creta e la Grecia nel 1972 (Antalia, Efesto, Micene, Epidauro, Olimpia e Delfi), ancora Grecia e Turchia nel 1977 e poi in anni più recenti, 2001, Libia e Siria.
Proprio Rogers definiva i viaggi “materiale da costruzione” (ROGERS [1958] 1997, p. 8), e Grassi sembra aver assunto questo insegnamento alla lettera: a partire dalle mete classiche dell’archeologia, che appartengono al percorso tradizionale di formazione, è andato man mano costruendo un “itinerario” ideale che corrisponde alla sua stessa esperienza di architetto: dall’antichità greca a quella romana, con al centro sempre il teatro come sintesi di architettura e civiltà: da Arles a Orange passando attraverso Sabratha fino a Bosra, e naturalmente Roma, in particolare il Colosseo e il teatro di Marcello. Proprio il teatro romano di Arles rappresenterà materialmente, e soprattutto simbolicamente, il punto di inizio dei progetti spagnoli di Grassi tra archeologia e architettura.
Parallelamente alla conoscenza dell’antico, Grassi sviluppa, infatti, una decisa predilezione per alcuni momenti della storia dell’architettura e per alcuni edifici particolari, che diventano i fondamenti ma anche gli obiettivi del suo lavoro. Rispetto al tema architettura-archeologia si delinea da subito un rapporto privilegiato con l’architettura romana piuttosto che con quella greca. Un rapporto privilegiato che, prima ancora che un fatto occasionale, è una vera e propria scelta metodologica. Una scelta decisa, condivisa con autorevoli predecessori, nientemeno che con Leon Battista Alberti e Adolf Loos.
È stato Alberti – scrive Grassi – il primo ad affermare che l’architettura romana, per noi architetti eredi di quell’architettura, non era tanto un problema di ordini o apparati decorativi», ma era invece un problema che rovesciava letteralmente la questione «perché riguardava la costruzione di un sistema generale e complesso in cui erano impegnate tutte le forze di una cultura e di una civiltà in espansione, com’era allora quella romana», un sistema generale che comprendeva «un’architettura che potesse contare su poche, ben definite tipologie edilizie, facilmente descrivibili e riconoscibili per via delle loro forme caratteristiche e per la loro costruzione sempre uguale, […] un’architettura che utilizzasse sistemi costruttivi semplici, sicuri e facili da apprendere e mettere in opera, di materiali da costruzione reperibili ovunque, come il mattone o il conglomerato cementizio, e del maggior numero di elementi architettonici uguali e ripetibili, adatti a essere riprodotti in condizioni anche molto diverse. (GRASSI 2008, p. 36)
Lo stesso elemento rivoluzionario e assolutamente unico dell’architettura romana, che aveva colto anche Adolf Loos, quando diceva:
Non è un caso che i Romani non fossero in grado d’inventare un nuovo ordine di colonne, un nuovo ornamento. Per far questo erano già troppo progrediti. Essi hanno derivato tutto questo dai Greci e lo hanno adattato ai loro scopi. […] I Greci sprecarono la loro forza inventiva negli ordini delle colonne, i Romani applicarono la loro nel progettare edifici. E chi può risolvere grandi problemi di progettazione non pensa a nuove modanature. Da quando l’umanità ha compreso la grandezza dell’antichità classica, un solo pensiero unisce fra loro i grandi architetti. Essi pensano: così come io costruisco avrebbero costruito anche gli antichi romani.[2]
Si può con sicurezza affermare che Giorgio Grassi abbia sperimentato nel suo lavoro un rapporto con l’architettura romana, nel senso di un confronto diretto tra il suo compito di architetto e l’esperienza dell’architettura romana: "l’architettura romana – dice egli stesso – è da tempo l’unico termine di paragone per quello che faccio, ma anche per quello che potrebbe e che dovrebbe essere di nuovo l’architettura secondo me". (GRASSI 2008, p. 36)
C’è un ultimo aspetto, in questo avvicinamento al tema, che mi interessa sottolineare ed è il punto di vista, anzi i punti di vista, da cui Grassi guarda all’architettura romana. In particolare secondo me sono tre, che definirei l’occhio rinascimentale, l’occhio illuminista e l’occhio contemporaneo.
Scorrendo gli scritti, le immagini dell’architettura romana che Grassi utilizza per illustrare il suo pensiero sono i disegni degli architetti del Rinascimento (da Giovanni Antonio Dosio ai trattatisti, da Giuliano e Antonio da Sangallo fino a Piranesi), che mostrano una Roma semisepolta, in rovina, tuttavia indagata come un manufatto, come un’architettura da cui trarre insegnamento, dal punto di vista compositivo, tipologico, volumetrico e, non ultimo, costruttivo. L’occhio rinascimentale osserva, senza nostalgia per il passato e senza rimpianto per la perduta unità, per imparare e per fare.
C’è poi l’occhio illuminista che è l’occhio progressivo, quello delle 'restituzioni', cioè dei monumenti come oggetto di studio finalizzato alla comprensione e al progetto, laddove le rovine, l’impianto tipologico e le fonti ne forniscano una descrizione verosimile (gli envoyes dei pensionnaires dell’Accademia di Francia intorno alla metà dell’Ottocento), ma anche l’occhio ingegneresco dell’Enciclopédie, che indaga le tecniche costruttive nei minimi dettagli (Rondelet o Choisy).
Da ultimo l’occhio contemporaneo, nel senso di quello che guarda alle trasformazioni del monumento nel tempo come espressioni della cultura del progetto e del 'progresso' dell’architettura. In questo senso Grassi mostra una dichiarata propensione per il lavoro degli architetti che si misurano con le rovine da architetti del proprio tempo: da Leon Battista Alberti a Baldassarre Peruzzi a Raffaele Stern e Giuseppe Valadier fino, in tempi più recenti, a Giacomo Guidi e Giacomo Caputo a Sabratha.
La prima questione fondamentale che emerge da queste osservazioni è una nozione di archeologia intesa come parte integrante dell’architettura e, come diretta conseguenza, un’idea di 'rovina' come di una architettura che ha perso del tutto o in parte la sua condizione originaria, ma non per questo ha perso la sua struttura tipologica e formale. Non ha smesso di essere un'architettura.
La rovina, dunque, è una architettura 'regredita' ad uno stato antecedente il suo completamento, o, se la si guarda da una opposta prospettiva, è una architettura 'non finita', interrotta in un certo momento della sua costruzione.
A questo mondo di antichità fanno riferimento i concetti fondamentali per Grassi di "citazione" e "omissione", come qualcosa di sopravvissuto al suo tempo, la citazione, o perduto irrimediabilmente ma di cui si sente ancora il bisogno, l’omissione.
Concetti fondamentali per interpretare il rapporto tra architettura e archeologia ma anche il rapporto tra movimento moderno e tradizione classica dell’architettura, che è anche la condizione che consente all’architetto moderno di operare sull’antico senza soluzione di continuità [3].
La domanda che sorge spontanea è dunque: quale grado di completezza occorre per poter 'restituire' integrità a un edificio oppure, da opposta prospettiva, quale grado di astrazione può sopportare una architettura senza perdere di senso? Tornando all’iniziale affermazione di Rogers, fin dove arriva la "commozione architettonica" di fronte alle rovine e dove comincia invece la "commozione di tutt’altra natura"?
2. La teoria
A queste questioni Grassi si avvicina consapevolmente nel 1970, quando affronta per la prima volta il tema del 'restauro' con il progetto del Castello Visconteo di Abbiategrasso, che pone apertamente il problema del rapporto tra nuovo e vecchio, dove
il vecchio è lasciato intatto a testimoniare la sua vicenda e quella della città e dove il nuovo non rinuncia a essere prima di tutto se stesso, cioè architettura, e quindi testimone della storia nel senso più ampio. (GRASSI 2000, pp. 83-88)
In questo progetto si pone in termini chiari il tema della unità e univocità della forma architettonica e il tema della tipologia come elemento guida nel percorso di 'restituzione'.
Grassi si misura qui per la prima volta con un progetto di questo tipo e non può fare a meno, pur scegliendo una posizione dichiaratamente da architetto, di misurarsi con i problemi della conservazione e del restauro.
E lo fa in forma chiara e diretta, decisamente in contrasto con gli slogan più in voga dopo due decenni di discussione disciplinare sulla ricostruzione, attingendo a riferimenti teorici autorevoli, ma anche considerati 'materialisti' e 'superati', favorevoli alla continuità e all’integrazione, anche costruttiva e formale, e non al contrasto ricercato ed esibito tra vecchio e nuovo [4].
Il riferimento teorico privilegiato è, infatti, in questo scritto, Ambrogio Annoni (precisamente il congresso di Tokyo del 1929) e la sua teoria del "caso per caso", di cui Grassi condivide in pieno ipotesi e obiettivi. Sottolinea, in particolare, "l’interesse reale, attivo per il monumento, inteso in senso […] umanistico come testimonianza e come eredità culturale e storica e quindi, anzitutto, come lezione perenne di architettura" (GRASSI 2000, p. 86) e soprattutto la condanna di ogni forma di 'imbalsamazione', di sterile monumentalizzazione che privi l’edificio di un rapporto 'funzionale' con la realtà.
"[…] il restauro – dice – si presenta in primo luogo come problema d’architettura […] non v’è dubbio che si tratta di progettazione architettonica in senso stretto". E se il restauro è un problema di architettura, solo l’architettura può misurarsi con l’architettura.
Ma soltanto la vita e il rapporto con la vita della città può far sì che un monumento non diventi fatalmente una irriconoscibile effigie ma torni a misurarsi con la funzione, con l’uso quotidiano, che è condizione necessaria di ogni architettura.
Una posizione in netto contrasto con la contemporanea cultura della cosiddetta 'conservazione', che vede architettura e restauro come schierati su due fronti opposti e inconciliabili, l’uno destinato ad occuparsi del 'vecchio' in un senso tecnico, di consolidamento, risanamento e manutenzione, nel rispetto della presunta intangibilità del monumento, l’altra delegata al 'nuovo', tenuto a distanza come una minaccia ed esibito spettacolarmente in qualsiasi intervento di adeguamento.
E soprattutto, in contratto aperto con le Sovrintendenze ai Monumenti, non solo per le resistenze e gli ostacoli burocratici che hanno sempre frapposto alla realizzazione dei progetti, ma proprio rispetto alla visione complessiva del ruolo dei monumenti antichi nella realtà contemporanea.
Al progetto di restauro del castello di Abbiategrasso come nuova sede comunale (1970), seguono quelli per il castello di Fagnano Olona come sede municipale (1980) (GRASSI, GUAZZONI 1981), e per la ricostruzione della Chiesa madre di Teora, Avellino (1981-83) (GRASSI, RENNA 1982).
Questi progetti, pur realizzati solo parzialmente e in forma frammentaria, aprono all’interno della cultura architettonica un dibattito allargato facendo di Giorgio Grassi una figura di riferimento rispetto a questi temi anche in ambito internazionale.
Il progetto di Abbiategrasso, pubblicato sul n. 10 della rivista catalana 2C. Construcción de la Ciudad, numero monografico dedicato all’architettura di Giorgio Grassi, rappresenta, infatti, il punto di inizio del lavoro di Grassi in Spagna. È attraverso l’interesse per i suoi progetti di intervento su edifici preesistenti e per le riflessioni teoriche che li accompagnano, che Grassi– dopo un profetico incontro con i redattori della rivista nel teatro di Arles (GRASSI 2008) – riceve in Spagna, nella Comunidad Valenciana, l’incarico per una serie eccezionale di progetti su rovine archeologiche che rappresenta una esperienza unica ed esemplare.
Mi riferisco in particolare ai progetti per la restituzione del Bellveret di Xativa, 1983, per il restauro e riabilitazione del teatro romano di Sagunto, 1985-86 (1990-93) e per la restituzione del Foro Romano a sede del museo archeologico, sempre a Sagunto nel 1985.
3. I progetti: il teatro romano di Sagunto e il teatro romano di Brescia
Mi soffermerò in particolare, tra questi, sul teatro romano di Sagunto perché a dieci anni di distanza Grassi ha avuto la possibilità di fare un altro progetto per un teatro romano, quello di Brescia (Progetto di restituzione e rifunzionalizzazione del teatro romano di Brescia 1996-2000) e dal confronto tra queste esperienze, che definirei complementari, il suo punto di vista sul rapporto tra archeologia e architettura risulta definito in tutta la sua ricchezza di declinazioni.
Queste due esperienze sono separate da uno scritto importante, Un parere sul restauro, del 1989 (GRASSI 2000, pp. 295-299), oltre che dalle polemiche e vicende giudiziarie relative al teatro di Sagunto che tutti conosciamo [5]: una sorta di bilancio e insieme di programma sul rapporto tra architettura e archeologia il primo, un duro colpo dell’archeologia "imbalsamata" alle ragioni dell’architettura le seconde, che danno una misura alla distanza che nella pratica le separa. Se il progetto, infatti, nasce con le migliori intenzioni, sia nel rispetto della preesistenza sia con l’obiettivo di valorizzare il monumento e di restituirlo all’uso quotidiano, le polemiche suscitate dall’opera in ambito disciplinare e il suo iniziale rifiuto da parte degli abitanti del luogo, mostrano quanto la realtà culturale, ma anche legislativa e sociale, sia in difficoltà nell’accettare ogni trasformazione che leghi in un rapporto diretto rovine e vita della città.
Il progetto per il teatro romano di Sagunto è affrontato, a partire da queste premesse, sulla base di una profonda conoscenza del manufatto e di tutte le sue fasi di trasformazione, documentata nelle numerose pubblicazioni che hanno accompagnato la realizzazione, con due obiettivi precisi e definiti: "una restituzione chiara dello spazio architettonico del teatro romano […] nella sua completezza" e la costruzione di "un moderno spazio teatrale perfettamente funzionante". [6]
Il primo obiettivo è certamente il più importante e il più difficile, in quanto implica necessariamente la ricostruzione dell’impianto tipologico del teatro romano in tutte le parti necessarie alla sua comprensione e alla fruizione dello spazio architettonico. Una operazione plausibile e possibile in questo caso con ampio margine di sicurezza, dal momento che in poche esperienze, come in quella del teatro romano di epoca imperiale, gli edifici costruiti nel tempo tendono con tanta forza al tipo fino quasi al punto di poter affermare che coincidono con esso. E l’elemento costitutivo di questo tipo è il binomio cavea-scena, che definisce l’invaso spaziale dell’edificio, il suo spazio chiuso e definito, l’unità della forma architettonica: "una forma architettonica articolata e complessa, ma altresì assolutamente unitaria" (GRASSI, PORTACELI 1987, p. 16).
Un fatto particolarmente chiaro ed evidente a Sagunto anche per la localizzazione del teatro costruito a ridosso della collina, dominante sull’abitato e sul paesaggio.
È prioritario quindi partire dalla restituzione dello 'spazio architettonico' per rendere esperibile il teatro nella sua eccezionale dimensione volumetrica e per ripristinarne il ruolo urbano ricostruendo le relazioni spaziali di questo luogo.
Una condizione unica e irripetibile, che all’interno delle rovine dei teatri romani esistenti, anche quelle meglio conservate, è possibile solo immaginare: ad Orange, dove sopravvive la scena, ma manca la cavea, o ad Arles dove la cavea è visibile in tutta la sua apertura, ma non c’è quasi traccia del fronte scenico.
Forse sono Aspendos in Turchia e Bosra in Siria, gli unici esempi in cui la struttura del teatro è conservata nella sua interezza e sono sempre stati per Grassi un riferimento vivo e presente.
L’aderenza del manufatto al tipo del teatro fa sì che gli elementi della sua definizione siano pochi e definiti e il lavoro possa esser svolto «in economia», senza ricostruire nulla di più dello stretto necessario alla costruzione dello spazio architettonico: la scena fissa e i parasceni che la saldano alla cavea. Tutto ciò che appartiene al sistema della decorazione viene rimandato all’archeologia, cioè al teatro com’era.
È importante, infatti, sottolineare che tutto il lavoro di restituzione (quello più difficile e più complesso) è stato svolto in stretto e fecondo rapporto con gli archeologi che, come testimoniato anche di recente da Carmen Aranegui, hanno partecipato al lavoro con lo stesso entusiasmo e la stessa dedizione, verificando e confermando tutte le ipotesi nel corso del cantiere e degli scavi (ARANEGUI 2011, pp. 147-151). Ma la conferma più autorevole è arrivata dai resti stessi, da quell’unica colonna superstite emersa a lavori quasi ultimati e che riposizionata sullo scenafronte ha trovato la sua collocazione perfettamente, senza dubbi e senza forzature.
In questa stessa direzione va intesa la decisione di non ricostruire altrove il piccolo museo archeologico (demolito per fare posto a una delle torri di postscaenium) e di ricollocare i frammenti sul muro di postscaenium in forma di antiquarium, a sostituzione dell’apparato architettonico della scena-fissa, perduto e non riproponibile, ma altresì necessario.
La chiarezza e insieme la versatilità di questo impianto, la sua «disponibilità teatrale», è anche quello che ne consente, senza forzature, un uso contemporaneo.
Questa "scena fissa" come "supporto 'astratto' a drammatizzazioni differenti […] in cui teatro e architettura sono completamente confusi" (GRASSI 1987, p. 18) appartiene alla storia del teatro e ha dimostrato in questi anni di assolvere pienamente alla sua funzione, dando così risposta al secondo obiettivo del progetto.
Nel 1989, in occasione della sua partecipazione al Primer Seminario Internacional de Patrimonio Arquitectonico, proprio a Valencia, Grassi ha l’opportunità di tracciare un bilancio dell’esperienza di Sagunto e più in generale di confermare la propria posizione teorica in merito al rapporto tra architettura e archeologia. Nella sua relazione, pubblicata l’anno successivo in italiano con il titolo Un parere sul restauro (GRASSI 2000, pp. 295-299), Grassi fissa alcuni punti che rappresentano una posizione chiara e coerente sull’argomento, lontana tanto dalla conservazione intransigente, quanto dal nuovo a tutti i costi:
1. i manufatti antichi sono prima di tutto delle architetture, nel senso più ampio e generale del termine;
2. tra i manufatti antichi sono oggetto di interesse per l’architetto soprattutto quelli che hanno perduto nel tempo "un ruolo architettonico riconoscibile", in particolare le rovine, che si pongono come problemi aperti a una molteplicità di risposte;
3. proprio nel loro essere rovine, cioè nella loro incompiutezza, questi manufatti mostrano una nuova disponibilità, una nuova "virtualità" come architettura per il tempo presente (GRASSI 2000, pp. 295-296).
Rovina e incompiuto, presenza e assenza, memoria e futuro, sono sempre per Grassi opposti coincidenti che devono come tali, palesarsi anche nel progetto: ciò che non c’è più e ciò che deve esserci.
Che questo sia sempre accaduto nella storia dell’architettura non c’è bisogno di raccontarlo, bastano quei pochi esempi "straordinari" sempre citati da Grassi come pietre di paragone e come conferma [7]: conferma che è sempre il nuovo che si aggiunge al vecchio, ma negli esempi migliori, quelli più "giusti", "quello che appare alla fine è sempre il contrario» e «il vecchio diventa l’elemento veramente nuovo del progetto".
Una posizione così semplice ma per certi versi così avanzata da far finire appunto il teatro e tutti i suoi 'autori' in tribunale a rispondere del reato di 'ricostruzione'.
Il progetto di restituzione e riabilitazione del teatro romano di Brescia rappresenta in un certo senso il banco di prova di queste ipotesi, formulate nella teoria e nella pratica, sul ruolo dei monumenti nella città contemporanea. E l’esito tragico – nato come un incarico professionale, il lavoro si è concluso come un’esercitazione accademica a causa delle resistenze e degli ostacoli frapposti dalla burocrazia – mostra l’inadeguatezza delle strutture preposte ad affrontare responsabilmente il problema e a misurarsi consapevolmente con le proposte teoriche disciplinari [8].
Il progetto di Brescia offre tuttavia l’opportunità di dimostrare, dopo Sagunto, come il valore di una buona teoria, di un metodo di lavoro, di un "occhio" come Grassi lo definisce (DEGO, MALCOVATI 2003, p. 9), sta nella sua capacità di dare risposta a condizioni ogni volta diverse e particolari, con soluzioni che sono al tempo stesso generali e uniche, irripetibili.
A Brescia il teatro è immerso nella città, che ne ha nel tempo completamente cancellato le tracce, e, a differenza di Sagunto, non è possibile leggerne la volumetria ma si sono conservati, sepolti, molti elementi della decorazione architettonica della scena: "[…] a Brescia la restituzione del volume del teatro 'com’era' in nessun caso avrebbe avuto la stessa efficacia visiva né lo stesso valore a scala urbana dell’esempio di Sagunto" (DEGO, MALCOVATI 2003, p. 11).
Anche in questo caso l’obiettivo del progetto è chiaramente definito a partire dalla realtà del manufatto, e prevede una risposta per la cavea addossata alla collina e di cui si conservano la parte bassa (ancora da scavare) e i muri di contenimento delle praecinctiones superiori, e un’altra per scena che, come parte della città, rinuncia al fuori-scala del teatro per misurarsi piuttosto con l’adiacente palazzo e con le case circostanti.
In entrambi i casi, una risposta coerente e misurata, forse meno perentoria di quella di Sagunto – come meno certa è la condizione originaria del teatro [9] – ma non per questo meno 'giusta' ed efficace.
La cavea, in quanto soluzione ipotetica tra diverse soluzioni possibili, viene ricostruita in legno come segno di provvisorietà ma anche in memoria delle interpretazioni rinascimentali del teatro antico da Serlio a Palladio, mentre la scena rivive in tutta la sua materialità in una sorta di ricomposizione anastatica che raggruppa tutti i frammenti superstiti all’interno del primo ordine (quello che corrisponde all’altezza della città). Le tavole disegnate a colori con grande precisione e il modello restituiscono l’architettura, mai costruita, in tutta la sua realtà.
Un’ultima questione che mi sembra importante affrontare rispetto al tema architettura e archeologia riguarda i modelli, sempre presenti nel lavoro di Giorgio Grassi, dichiaratamente e programmaticamente:
Fin dai miei primi progetti io ho avuto ben chiaro che, per quello che intendevo affermare con il mio lavoro, era fondamentale che i miei modelli fossero espliciti, fossero parte necessaria del mio progetto. Fra il modello e il progetto per me non poteva esserci alcuna distanza, non doveva esserci, se non quella dovuta a tempi e circostanze diversi. […] Questi modelli sono tali perché il progetto vuole dichiarare che il suo obiettivo è quello di arrivare a quel risultato. Che poi lo raggiunga oppure no, o che perfino lo superi, questo è del tutto secondario. Il mio esplicito e preventivo legame col mio modello è in realtà una dichiarazione d’intenti grazie alla quale, diciamo così, io mi taglio i ponti alle spalle. Il mio progetto viene dopo, dopo aver dichiarato la sua ambizione e senza sapere se sarà in grado di soddisfarla. […] Il teatro di Sagunto del 1985 rimanda a due modelli, più volte richiamati e del resto facilmente riconoscibili: il teatro di Sabratha (restauro Guidi/Caputo 1930-35), con parte di un nuovo muro di postscaenium, quella necessaria per sostenere il frons scaenae interamente ricostruito coi suoi pezzi originali, un edificio incompleto quindi, che noi abbiamo voluto completare idealmente cinquant’anni dopo col nostro progetto per Sagunto; l’altro è il teatro di Aspendos, edificio molto ben conservato, che si presenta ancora oggi con un muro di postscaenium intatto nella sua struttura, un teatro che sembra una fortezza, per il suo volume compatto interamente di pietra, per la sua monumentalità severa fatta di elementi necessari, come avviene, almeno nelle intenzioni, anche nel progetto per Sagunto. (GRASSI 2008, pp. 14-15)
A questi modelli si sono aggiunti nel tempo Palmyra e Bosra, insieme al teatro di Serlio del Trattato sopra le scene e all’Olimpico di Palladio. Architetture lontane tra loro nel tempo e nello spazio che compongono un unico progetto all’interno del quale gli stessi progetti di Grassi trovano la loro giusta collocazione.
Bibliografia
- ANTI 1947
C. Anti, Teatri Greci Arcaici da Minosse a Pericle, Padova 1947 - ARANEGUI 2011
C. Aranegui, Un teatro è un teatro, in S. Malcovati (a cura di), Una casa è una casa. Scritti sul pensiero e sull’opera di Giorgio Grassi, Milano 2011 - DEGO, MALCOVATI 2003
N. Dego, S. Malcovati (a cura di), Giorgio Grassi. Teatro romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Milano 2003 - GRASSI 1987
G. Grassi, Progetto per il teatro romano di Sagunto, 1987 - GRASSI 2000
G. Grassi, Scritti scelti 1965-1999, Milano 2000 - GRASSI 2008
G. Grassi, Una vita da architetto, Milano 2008 - GRASSI, GUAZZONI 1981
G. Grassi, E. Guazzoni, Il vecchio e il nuovo, restauro e ampliamento del Castello di Fagnano Olona, in "Lotus", n. 32, 1981. - GRASSI, PORTACELI 1987
G. Grassi, M. Portaceli, Scena fissa, progetto per il teatro romano di Sagunto, in "Lotus", n. 46, 1985 - GRASSI, RENNA 1982
G. Grassi, A. Renna, Il quartiere, il castello, la chiesa, la via. Piano di recupero del centro storico di Teora (Avellino), in “Lotus”, n. 36, 1982. - KERENYI [1940] 1940
K. Kérenyi, Die antike Religion. Eine Grundlegung, Leipzig 1940, ed. it. La religione antica nelle sue linee fondamentali, Bologna 1940 - OTTO [1929] 1968
W. F. Otto, Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes, Bonn 1929, ed. it. Gli dèi della Grecia, Milano 1968 - ROGERS [1958] 1997
E. N. ROGERS, Esperienza dell´architettura, Milano 1997
Note
English abstract
This essay focuses on the connection between architecture and archeology in the work of Giorgio Grassi from the beginning of his studies to his teaching experiences.
keywords | Giorgio Grassi; Architecture; Archeology; Ruins.