Le ‘vignette’ della Tabula Peutingeriana
Problemi di interpretazione iconologica e proposte di lettura*
Olivia Sara Carli
English abstract
La carta itinerario nota come Tabula Peutingeriana**, scoperta nel 1507 dall’umanista tedesco Conrad Celtes (1459-1508) e ora conservata a Vienna (Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Codex Vindobonensis 324), è un documento fondamentale per la storia della cartografia antica essendo uno degli esemplari più completi di itineraria picta a noi giunti. L’uso di questo tipo di mappe – assimilabili alle odierne carte stradali – è attestato nel testo del comandante romano di IV secolo Vegezio, che ci da conferma di come in epoca tarda la tradizione antica di “itineraria […] non tantum adnotata quam etiam picta” si fosse mantenuta viva almeno per quanto riguarda l’uso militare (Vegetius, Epitoma Rei Militaris, III, 6). Benché Vegezio tratti di documenti elaborati a scala regionale, la descrizione che egli fa di uno strumento cartografico capace di restituire oltre alle informazioni necessarie agli spostamenti sul territorio – già presenti negli itineraria adnotata (la distanza tra due punti, la qualità delle vie e informazioni simili) – anche le informazioni topografiche e darne descrizione visiva, sembra perfettamente congruente con i contenuti della Tabula.
La caratteristica principale della mappa è la fitta rete di linee rosse che si stende su tutta la sua superficie, nella quale gli studiosi riconoscono il disegno delle principali infrastrutture viarie tardo-antiche. E, sebbene la Tabula si sia conservata solo attraverso una copia del XIII secolo prodotta in area alemanno-bavarese (Dalché in Prontera 2003, 45-6; Talbert 2010, 83), gli studiosi concordano nell’attribuire al copista modifiche soltanto marginali cosicché, osservandola, vediamo restituita un’immagine originale del mondo così com’era noto in epoca tardo-romana (Levi 1978, 151).
Di particolare interesse è anche il peculiare formato del rotolo di pergamena: composto dall’assemblaggio di undici fogli, è lungo 7,4 m e alto solamente 37 cm – proporzioni tanto disomogenee rispetto a una rappresentazione cartografica ‘realistica’ da provocare sensibili deformazioni al disegno dell’ecumene che viene allungata in senso longitudinale fino a schiacciare i mari e a ridurli a sottili strisce verdi-blu. Tale particolarità si deve però leggere non già come un errore del compilatore, quanto piuttosto quale frutto di necessità derivanti dal suo uso pratico e dall’esigenza di rendere efficace la comunicazione dei suoi contenuti. Nella cartografia romana, a differenza di quella di tradizione greco-ellenistica, si rileva spesso la preferenza accordata a rappresentazioni ‘funzionali’ e non scientificamente esatte, tanto che ogni carta sarebbe da ritenersi “più o meno deformata” (Levi e Levi 1978, 25). Inoltre, nel caso specifico della Tabula, il prototipo potrebbe essere stato su rotolo di papiro, pensato per essere facilmente trasportato all’interno di una capsa e consultato durante i viaggi lungo le strade dell’Impero (Dilke 1987, 238).
Alla luce di tali considerazioni bene si comprende la distorsione impressa al documento, non conforme a nessun tipo di proiezione e non corrispondente ad alcun rapporto di riproduzione omologo. Oltre alla facile fruizione, tale formato permette inoltre di leggere molto chiaramente la viabilità che, distesa in senso orizzontale, risulta di immediata comprensione (Prontera 2003, 39). È quindi nell’analisi della fitta rete di tracciati rossi, vero e proprio centro della rappresentazione e nelle numerosissime icone – raffiguranti edifici stilizzati – che si deve ricercare la via interpretativa per giungere alla comprensione della funzione e del senso della Tabula.
Se fin dall’editio princeps del 1598 la mappa viene definita ‘Tabula Itineraria’, e quindi la sua funzione viene indiscutibilmente riconosciuta, la sua destinazione è rimasta invece a lungo incerta: in dubbio è se essa fosse stata redatta per l’uso privato o piuttosto nell’ambito del contesto pubblico. La maggior parte della critica – ad esclusione di alcune nuove e discusse interpretazioni secondo cui la Tabula non sarebbe mai stata utilizzata nella sua forma attuale (Whittaker 1999, Salway 2005) – tende a riconoscere che lo sforzo necessario all’acquisizione e alla gestione di una tale mole di informazioni fu verosimilmente possibile solo a livello istituzionale, nel contesto dell'organizzazione ufficiale della res publica: nella Tabula si dovrebbe riconoscere pertanto un documento ufficiale (Levi e Levi 1978, 98), e non una mappa redatta per l’uso privato (come invece sostenuto in Miller 1916).
Annalina e Mario Levi grazie all’analisi e all’interpretazione puntuale delle singole vignette e agli studi relativi le modalità di viaggio durante l’antichità, hanno creduto possibile riconoscere nella mappa la raffigurazione del cursus publicus (la 'posta di stato'). I due studiosi hanno rilevato la mancanza, sulla mappa, di elementi grafici riconducibili al suo uso da parte di privati cittadini, quali potevano essere commercianti o pellegrini: non sarebbero, infatti, individuabili informazioni direttamente legate al commercio, né un numero sufficiente di riferimenti ai luoghi di culto tale da giustificare l’uso della Tabula per il pellegrinaggio. Le vignette rappresenterebbero, invece, quegli edifici di costruzione e gestione pubblica che si trovavano lungo il percorso della posta di stato, al servizio di militari, diplomatici, funzionari statali e anche della stessa corte imperiale. La presenza di percorsi e vignette anche all’esterno dei confini dell’Impero verrebbe, infine, giustificata dalla necessaria conoscenza di questi da parte dei funzionari impiegati e attivi nelle istituzioni pubbliche e aggiornati dal punto di vista diplomatico (Levi e Levi 1978, 101 e ss.).
Elementi iconografici e convenzioni rappresentative
Sulla pergamena vediamo raffigurata l’ecumene nella sua totalità, dalle colonne d’Ercole (nella prima sezione, mancante nell'esemplare esistente) alla Cina (Sera Maior), secondo un modello di derivazione eratostenica, non congruente con le più avanzate conoscenze geografiche dell'epoca (IV-V secolo d.C.), a denotare un certo disinteresse verso la scientificità della rappresentazione, in favore di una comunicazione visiva aderente alla funzione della mappa. Una prova si ha osservando i vari elementi rappresentati sulla Tabula. Oltre ai percorsi e alle vignette, di cui tratteremo in seguito, si possono riconoscere i principali elementi morfologici del territorio, la cui raffigurazione non ha, però, alcuna pretesa realistica; la loro indicazione e localizzazione sembra essere un mero corredo grafico, a miglioramento dell’orientamento lungo i percorsi. Si osserva, così, che i mari sono ridotti a sottili fasce verdi di separazione dei continenti, sviluppati in senso orizzontale, mentre le catene montuose sono disegnate come quinte bidimensionali ribaltate sul piano (Cinque 2002, 474); ugualmente i fiumi, definiti da una linea blu ondulata, appaiono essere “senza stretto rapporto con la realtà fisica, salvo per le loro origini o foci” (Prontera 2003, 10), e neppure il disegno delle coste fornisce alcuna informazione circa la loro morfologia, limitandosi a registrare solo i principali golfi.
Non possiamo, dunque, concordare con l’interpretazione avanzata da Bosio (Bosio 1983, 109-110) e poi ripresa da Prontera (Prontera 2003, 15), che legge la mappa come una rappresentazione paesistica e prospettica. Infatti, leggendo una volontà di resa spaziale e di veduta “dall’alto” nelle singole iconcine, Bosio estende tale volontà anche al disegno geografico e interpreta quindi la Tabula come una rappresentazione prospettica; così facendo però incorre in un inganno ottico-interpretativo dovuto allo sguardo contemporaneo con cui osserva la mappa. L’errore nasce, e trova conferma implicita, nell’uso inappropriato del termine ‘a volo d’uccello’, introdotto da Levi e Levi 1967 per la descrizione delle iconcine e poi non più emendato: una tale espressione implica, difatti, concezioni prospettiche impensabili al tempo della redazione e che di fatto falsano l’interpretazione delle volontà del disegnatore (De Rosa 2000, 103). Sarebbe, piuttosto, consigliabile l’impiego dei termini rappresentazione ‘obliqua’ (come anche in Talbert 2010, 118) o ‘in pseudo-assonometria’, più corretti anche da un punto di vista tecnico-proiettivo. E non potendosi negare l’evidente volontà di resa pittorica – non tanto prospettica quanto tridimensionale – delle vignette identificabili con le aquae, le città murate e gli horrea, per esse si deve ricercare una ragione più fondata e plausibile.
Per fare ciò prenderemo in analisi le diverse vignette a partire dallo studio di Annalina e Mario Levi, il primo lavoro che affronta sistematicamente la questione della loro interpretazione e che rimane tuttora fondamentale punto di partenza per l’analisi della pergamena (Levi e Levi 1967). In precedenza, gli altri studiosi che si erano occupati della tavola, pur riconoscendo nell’uso delle vignette l’applicazione di un rigoroso codice convenzionale, non ritenevano possibile arrivare a una loro interpretazione. Levi e Levi hanno trovato invece elementi utili alla loro decodificazione nelle fonti iconografiche antiche, mettendo a confronto le vignette delle Tabula con diverse altre iconografie contemporanee. A questa lettura affiancheremo inoltre alcune considerazioni strettamente geometriche (riguardanti le convenzioni proiettive utilizzate per la rappresentazione simbolica degli edifici) per mostrare come le due letture possano procedere in parallelo e mettere in evidenza alcune questioni che rimangono di difficile interpretazione quali, ad esempio, la presenza sulla mappa di differenti e molteplici aggiunte che complicano la sua datazione.
Le ‘vignette’ della Tabula
La critica procede solitamente nella descrizione delle 555 vignette ordinandole in base a macro famiglie dettate dall’importanza e dalla diffusione delle stesse: ‘doppia torre’ (429), aquae (52), ‘a tempio’ (44), e così via fino ai tipi secondari e alle varianti horrea, ‘cerchia di mura’, ‘fari-porti’, ‘personificazioni’. Si preferisce qui seguire, invece, un diverso tipo di lettura che privilegia i metodi di rappresentazione e i diversi livelli di semplificazione e simbolizzazione delle icone riscontrabili sulla mappa. Analizzeremo quindi le diverse vignette in ordine di complessità figurativa, senza però addentrarci nello studio delle numerose varianti dei tipi principali – spesso molto complesse – poiché, per la maggior parte, esse sembrano verosimilmente attribuibili alla mano dei copisti piuttosto che a diversità tipologiche (Levi e Levi 1978, 120-21; Dalché in Prontera 2003, 44 e ss.).
1. Raffigurazioni simboliche planimetriche e 'iconografiche'
Are e altari (5 icone)
Interpretabili grazie alle didascalie che li accompagnano i simboli di are – tra i meno diffusi, ma non per questo di minore importanza – si trovano a segnare i confini e i limiti del mondo noto. Si osservano due diverse rappresentazioni; per tre volte, nelle sezioni orientali, le are sono indicate con due rettangoli concentrici; quello interno – colorato – ospita un simbolo stilizzato associato da alcuni all’antico segno del fuoco (Miller 1916, XLV; Weber 1976, 16). Questo tipo raffigura l’altare secondo una vista dall’alto in cui la concentricità dei rettangoli si propone come una schematizzazione della successione dei gradini dell’altare. Il secondo tipo (le Arae Philenorum in Cirenaica) è disegnato sempre con due rettangoli concentrici ma con qualche differenza: il rettangolo interno presenta due tacche nere, poggiate sulla base inferiore, interpretabili forse come porte o finestre (Weber 976, 16). In tal caso si dovrebbe riconoscere una doppia proiezione: il rettangolo maggiore starebbe a raffigurare la pianta della base dell’altare, mentre quello minore indicherebbe una facciata stilizzata ribaltata sul piano di calpestio. Ma, poiché l’intepretazione architettonica di tali elementi rimane dubbia, basta ricordare che, all’interno della tradizione iconografica individuata in Levi e Levi 1967, prevale la vista dall’alto, in pianta. Ed è certo che tale simbolizzazione fosse molto nota e utilizzata dato che numerosi sono gli esempi a noi noti, sia numismatici che musivi (Levi e Levi 1967, 130-31).
Fari (2 icone)
I fari sono raffigurati secondo un canone molto diffuso che prevede il disegno di un prospetto per mostrare la successione di tre piani di altezza decrescente, sormontati dalla lanterna (Levi e Levi 1967, 127 e ss.). Con questo simbolo nella Tabula sono indicati solamente il Faro di Alessandria e il Faro del Corno d’Oro; si osserva però anche un terzo faro che non sembra riconducibile iconograficamente allo stesso modello e che tratteremo insieme alla vignetta del porto di Ostia.
Doppia torre (429 icone)
Si tratta dell’iconcina più ricorrente, su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione della critica, senza trovare però un'interpretazione univoca e fondata. La vignetta raffigura due edifici affiancati, in proiezione frontale, sviluppati in altezza e coronati da un tetto triangolare. Nella maggior parte dei casi sono disegnate le porte di accesso su ogni prospetto ed è possibilie osservare una finestrina inserita nella falda. In questa vignetta, come nelle precedenti, la rappresentazione rimane però sempre molto schematica e astratta e le rare pittoricizzazioni sono da imputare a modifiche successive; le varianti più frequenti (coperture romboidali o cupoliformi, et sim.) si muovono, invece, sempre all’interno di un ristretto schema simbolico ed è possible ricondurre ciascuna di esse alle iconografie convenzionali.
Nello studio di Levi e Levi si dimostra come, nell’iconografia romana, questo tipo di raffigurazione sia molto frequente nelle scene rurali e di viaggio, sin dal II secolo d.C., e come essa sia comune a tutte le regioni dell’Impero. Sarebbe quindi stata utilizzata inizialmente per figurare le ville fortificate con torri, che caratterizzavano la campagna antica e, successivamente, la rappresentazione deve aver assunto una caratterizzazione più generica, venendo a significare un luogo di ristoro: si troverebbe conferma di ciò anche nel confronto con il mosaico di Madaba, ove icone simili sono associabili ai caravanserragli (Levi e Levi 1978, 115-16). All’interno dell’organizzazione del cursus publicus, rappresentato sulla Tabula, l’iconcina a ‘doppia torre’ indicherebbe dunque la posizione di “quelle costruzioni (mansiones) che […] offrivano la possibilità di riposare e cambiare gli animali”; tuttavia Bosio rileva come, se si considerano questi i luoghi di tappa ufficiali, la loro non uniforme distribuzione metterebbe in dubbio l’interpretazione della Tabula quale rappresentazione dei percorsi della posta di stato. A volte, infatti, intercorrono tra due vignette molte più miglia di quelle calcolabili per una singola giornata di viaggio, mentre altre volte le vignette sono troppo vicine per rappresentare i due capi del cammino giornaliero. Dunque per non smentire l’interpretazione della Tabula come rappresentazione del cursus publicus, lo studioso sembra nuovamente tornare a negare il valore delle vignette, riducendole a “punti topografici di riferimento” utilizzati durante il tracciamento della carta (Bosio 1983, 109).
2. Raffigurazioni simboliche di tipo 'scenografico'
Edifici 'a tempio' (44 icone)
Il disegno presenta un edificio a pianta rettangolare, coronato da copertura a doppia falda e fronte timpanata, di cui sono disegnati – ribaltati sullo stesso piano – il prospetto frontale e il laterale destro. In questo tipo di rappresentazione si osserva un primo tentativo di rendere la tridimensionalità della figura, pur mantenendo l’utilizzo delle sole proiezioni ortogonali. La denominazione ‘a tempio’ deriva dal significato attribuito all’icona dalla maggior parte degli studiosi che hanno rintracciando in fonti diverse la presenza in prossimità della vignetta, di luoghi cultuali. In ben 15 casi però, questa corrispondenza viene a mancare, non essendo possibile individuare nelle fonti l’esistenza di templi o santuari di significativa importanza presso le località contrassegnate dalla vignetta in questione. L’approccio di Annalina e Mario Levi torna nuovamente utile, poiché gli studiosi mettono in evidenza come, nell’iconografia antica, al significato di tempietto sembrerebbe affiancarsene uno più generico: questo edificio con tetto a spiovente potrebbe essere dunque identificato a volte con una casa, altre con una capanna. Se, infatti, modellini di tempietti-capanna sono frequenti tra i materiali votivi, rappresentazioni simili a quella della Tabula si ritrovano anche nelle scene di viaggio e sullo scudo di Dura Europos, dove indicherebbero “i luoghi destinati ad alloggiare le truppe” (Levi e Levi 1978, 116-17). Per Levi e Levi 1978 la vignetta, venendo ad attenuarsi il significato prettamente militare, indicherebbe luoghi di sosta e sarebbe stata preferita alle due torri nei casi in cui i nomi delle tappe “suggerivano la presenza di un tempio”, anche in vista del fatto che presso i santuari era prevista un’ampia disponibilità di alloggi per il pernottamento. Bosio e Magini ribadiscono il significato della vignetta come segnale di luoghi di culto, confermando che la mancata corrispondenza tra luoghi segnalati e santuari noti deriverebbe dalla nostra lacunosa conoscenza della fitta costellazione di templi e santuari nel mondo antico (Bosio 1983, 92 e ss., Magini in Prontera 2003, 12). Anche Bosio pone l’accento sul fatto che i santuari offrivano “ospitalità e pernottamento ai viandanti” e ritiene che la presenza di un’icona paragonabile a quella della Tabula sullo scudo di Dura Europos si possa spiegare con la presenza, in prossimità dei luoghi di culto, di importanti mansiones.
Horrea (10 icone)
L’iconcina figura, in pseudo-assonometria, un edificio composito dato dall’affiancamento di due o più blocchi a pianta rettangolare e copertura a doppio spiovente. In questo tipo di vignetta la critica concorda nel riconoscere i depositi di cereali e i magazzini destinati alla conservazione dei prodotti alimentari (Prontera 2003, 13). In Levi e Levi 1978 si avanza anche l’idea che essi rappresentino i depositi appartenenti al fisco e ai quali, secondo le fonti, si sarebbero appoggiate successivamente le stazioni di posta (il che confermerebbe una committenza o una funzione di tipo pubblico).
Aquae (52 icone)
Il disegno presenta un edificio a corte centrale rappresentato in pseudo-assonometria per permettere la visione della corte interna, dipinta di blu in quasi tutte le icone. In 28 casi la figura è accompagnata dalla scritta aqua o aquae (con significato di sorgente minerale o bagno) o da altri termini che possono rimandare alla presenza di sorgenti (come nel caso di Fonte Timavi, f. III). Dei 24 casi rimanenti, 14 sono icone appartenenti a questo stesso tipo ma non accompagnate da un nome riferito a sorgenti ovvero, in qualche caso, indicate come praetoria o tabernae. I rimanenti 10 casi non sono formalmente comparabili con quelli precedenti poiché, pur presentando edifici quadrangolari in proiezione obliqua, il disegno è molto variabile nelle coperture e nei dettagli.
Secondo Bosio la denominazione è sufficiente per identificare questi edifici con centri termali (Bosio 1983, 98). Secondo Levi e Levi, invece, essendo presente con frequenza, nell’iconografia antica, disegni simili come rappresentazioni di edifici diversi rispetto agli stabilimenti termali, si potrebbe riconoscere un riferimento a edifici dotati di attrezzature più elaborate rispetto alle mansiones. Inoltre, edifici del tutto simili a quelli raffigurati sulla mappa (edifici a corte centrale) sarebbero stati gli alberga del mondo greco, utilizzati poi anche in epoca romana e probabili precursori dei ‘khans’ orientali: quindi edifici di accoglienza, bene attrezzati ma non necessariamente con caratterizzazioni curative o termali (Levi e Levi 1978, 118-20).
Porti (2 icone)
Sulla Tabula solo due dei porti indicati sono corredati da una vignetta: il porto detto Fossis Marianis e quello di Ostia. Seppur simili – un edificio circolare in proiezione obliqua secondo un modello molto comune (Levi e Levi 1967, 125) – la vignetta di Ostia è più dettagliata in quanto raffigura anche i moli e il faro. Il dato si potrebbe spiegare, seguendo l’ipotesi di Stanco, con l’aggiunta della figura in un momento successivo alla prima redazione (Stanco 2000, 238); si nota, infatti, che le vicine notazioni topografiche sono state obliterate dal disegno dello scalo, e vi sono evidenti differenze formali tra il disegno del faro ostiense e quello delle costruzioni omologhe di Alessandria e del Corno d’Oro. Prova dell’aggiunta posteriore sarebbe anche la doppia indicazione di Ostia, essendo anche segnalata con una vignetta a doppia torre una tappa di nome Hostis a destra della foce del Tevere. Inoltre l'ipotesi che le due vignette siano attribuibili a due diverse mani si sostiene anche sul fatto che esse vengono fatte intereagire in modo diverso con il disegno costiero. Tale presupposto però ci porta a leggere la presenza del porto di Ostia come un dato previsto già nella fase di disegno della costa, mentre la Fossis Marianis sembrerebbe essere stata prevista solo in un momento successivo rispetto al tracciamento della linea costiera. Senza negare la validità di queste osservazioni si può dire che l’inserimento del Porto di Ostia segue una più attenta e precisa volontà rappresentativa rispetto all’altro porto.
3. Raffigurazioni urbane figurative
Cerchia di mura (6 icone)
Sei città (Aquileia, Ravenna, Tessalonica, Nicomedia, Nicea, Ancyra) sono poste in evidenza per mezzo di una figura più elaborata rispetto alle vignette finora esaminate. Molto diverse fra loro, queste icone rappresentano le città attraverso la cinta muraria in proiezione obliqua, seguendo un codice figurativo molto vicino alle illustrazioni dei manoscritti tardo-antichi (Virgilio Vaticano 3225, Corpus Agrimensorum), già diffuso nel periodo ellenistico (Levi e Levi 1967, 134 e ss., Harvy 1980, 54).
Per quanto però gli ideogrammi siano così complessi si può notare come le sei icone non spicchino per grandezza e si mantengano sempre di dimensioni inferiori alle vignette delle aquae: sembra esservi un salto di scala nella raffigurazione della ‘cerchia di mura’ rispetto alle vignette finora descritte, i cui principali simboli (doppia torre, tempietti, aquea e horrea) mostrano proporzioni simili e sembrano ottenuti attravarso rapporti scalari omogenei. Si potrebbe quindi supporre, come già in Levi e Levi 1967, che queste vignette siano state inserite in un secondo momento, databile con una certa esattezza al V secolo, sulla base della fortuna delle singole città e in modo particolare per Ravenna, già importante per il Porto di Classe, ma che quando nel IV secolo divenne una capitale dell’Impero d’Occidente, provocò il riassetto delle vie di comunicazione dell’area circostante. L'assenza di altre città d’importanza pari alle precedenti – Alessandria, Tarso e Cartagine – si dovrebbe spiegare con una dimenticanza del copista (o con l’incompiutezza della riproduzione), come sembra far supporre lo spazio lasciato per la vignetta in corrispondenza delle prime due (Levi e Levi 1978, 129).
Personificazioni di città (3 icone)
Sono queste le tre figure più complesse, da un punto di vista formale e interpretativo, presenti sulla Tabula. Esse rappresentano, secondo un codice iconografico in uso fin dall’età adrianea, le maggiori città del mondo antico attraverso la loro personificazione (Shelton 1979, 29 e ss.). Roma, Costantinopoli e Antiochia sono rappresentate come figure femminili, ammantate e sedute in trono, in posa similare; ciascuna città è caratterizzata da un certo numero di attributi, perlopiù monumenti noti, che permettono la sicura identificazione della città.
L’interesse che la critica ha rivolto alle tre vignette è stato quasi del tutto focalizzato sulla ricerca di indizi utili alla ricostruzione della cronologia del documento originale. Più volte è stata tentata una datazione del modello tardo-imperiale sulla base dei monumenti scelti per caratterizzare le tre città: così facendo, tuttavia, è stata trascurata l’analisi e il confronto delle uniche tre raffigurazioni a una scala maggiore, e la verifica della congruenza temporale tra il disegno della mappa e quello delle singole vignette. Altresì, la volontà di spiegare la presenza delle tre metropoli antiche con motivazioni di carattere politico o simbolico – e i tentativi di dimostrare la centralità di Roma all’interno dell’intera rappresentazione – hanno spesso portato in secondo piano la lettura formale delle tre vignette. È appunto questa la lettura che si vuole qui tentare poiché, all’interno dello schema figurativo che accomuna le tre figurazioni, si possono mettere in rilievo alcune significative differenze che potrebbero essere il sintomo, forse, dell’uso di diversi modelli.
Roma. La rappresentazione di Roma richiama fortemente le raffigurazioni monetali della città. La figura è seduta in trono di tre quarti, girata verso destra; con la mano sinistra tiene una lancia in posizione obliqua e con la destra regge un globo, simbolo “del primato del mondo” che, secondo Levi e Levi 1978, il compilatore avrebbe voluto attribuire alla capitale più antica. La figura è inscritta all’interno di un doppio anello da cui si irradiano le strade consolari facenti capo all'Urbe; le dodici arterie sono qui indicate con la loro denominazione specifica, diversamente dal resto della mappa dove la denominazione delle vie non compare. Poco fuori dalla città, lungo la via triumphalis, è disegnato un tempietto, più dettagliato delle altre vignette ‘a tempio’, e accompagnato da una scritta rossa che lo identifica con la Basilica di San Pietro.
È interessante notare la relazione che intercorre tra la vignetta di Roma e il disegno del Tevere, soprattutto per le considerazioni che si faranno in seguito in relazione alla raffigurazione di Antiochia. Il Tevere, considerato come elemento della cartografia geo-morfologica è qui, di fatto, integrato all’interno dell’icona, intersecando il doppio anello e passando sotto il trono in un interessante cortocircuito tra l’apparato descrittivo-cartografico della Tabula e l'apparato iconografico e simbolico cui l'immagine si ispira. Sarebbe interessante un’indagine attenta del disegno sulla pergamena per determinare l’esatto ordine con cui i diversi segni sono stati tracciati. Ma sia che disegno del Tevere preceda il disegno dell’anello, sia che lo segua, spicca la capacità del disegnatore di far interagire e legare i due livelli (simbolico e morfologico), senza accontentarsi di una semplice sovrapposizione.
Costantinopoli. La figura si presenta in posa lievemente diversa da quella di Roma (di cui mantiene, però, la posizione di tre quarti), con il braccio sinistro aperto verso l’esterno, poggiato sullo scudo, e il braccio destro levato a indicare un monumento, identificato dai più con la colonna di Costantino (Bosio 1983, 87; Prontera 2003, 11; Shelton 1979, 34); soltanto Levi e Levi vedono in tale costruzione una rappresentazione del faro della città, poiché la sua forma, con i “ripiani a larghezza decrescente”, rimanderebbe alla raffigurazione degli altri fari della Tabula (Levi e Levi 1976, 86). A una stima più attenta, però, tale considerazione sembra infondata, poiché i fari della prima stesura sono del tutto simili tra loro (Alessandria e Bosforo), mentre questo edificio-colonna, sembra molto più simile al Faro di Ostia, aggiunto in un secondo momento (Stanco 2000, 238). Levi e Levi vorrebbero ricondurre alla vignetta costantinopolitana, oltre alla colonna e alla figura, anche il tempietto indicato come Sycas (antico sobborgo della città), considerando che edifici ‘a tempio’ sono presenti nelle raffigurazioni di Roma e Antiochia (Levi e Levi 1978, 135). Si deve però rilevare come nel caso di Costantinopoli la relazione fra i diversi elementi della raffigurazione sia molto più labile e incerta rispetto agli altri due casi.
Antiochia. Questa vignetta si distingue nettamente dalle precedenti per composizione e complessità. La figura è seduta in trono frontalmente; la mano destra regge la lancia, tenuta verticale, mentre la sinistra è poggiata sul capo di un fanciullo, personificazione del fiume Oronte. I monumenti che identificano la città sono l’acquedotto cittadino e il tempio di Apollo, arroccato sull’altura piantumata con lauri e disegnato in modo tanto dettagliato da indicare la trama dell’opera isodoma delle sue pareti.
Oltre a presentare una maggior cura dei particolari, questa vignetta sembra più attentamente progettata, tanto da proporsi come riproduzione di una piccola ‘veduta’ cittadina. Seguendo il flusso del fiume si osserva che esso si divide in due corsi minori; il primo passa sull’acquedotto mentre il secondo va a delineare la riva su cui è poggiato il trono; la sponda prosegue poi fino all’altura del tempio ove, sul versante opposto del massiccio, si innesta l’acquedotto; al centro del fiume si scorge anche l’isola cittadina, ora collegata alla terraferma e un tempo centro monumentale, sede del Palazzo di Diocleziano e della chiesa voluta da Costantino e consacrata nel 341 d.C. (Leylek 1993, 203-4). Una così stretta interrelazione tra i diversi elementi della vignetta non si riscontra per Costantinopoli, in cui personificazione e colonna sono leggibili come un unicum solo grazie al gesto della figura; come si è visto per Roma si deve invece fare una diversa osservazione tenendo conto che il debole legame tra il tempietto (San Pietro) e la personificazione è dovuto a un'aggiunta certamente posteriore.
Ulteriore differenza nella concezione della rappresentazione della metropoli siriana si riscontra osservando il rapporto tra la Tyche poleos e il fiume; vediamo, infatti, che non qui è possibile fare un'analisi come quella operato nella lettura del rapporto Roma-Tevere. Ad Antiochia la rappresentazione del fiume non viene a intersecarsi con la vignetta e, anzi, costringe il disegnatore ad adattare la riproduzione dei piloni dell’acquedotto, denunciando un errato calcolo dello spazio dedicato alla vignetta, e forse la sua aggiunta (Patroncini 1980, 201). Infine, la presenza del fiume all’interno della figura, come elemento della ‘veduta’ è un fatto che, a mio avviso, dimostra una concezione estranea a quella maturata nel disegno di Roma, dove si realizza efficacemente una migliore sintesi compositiva; nella veduta di Antiochia, infatti, il fiume figura in modo pleonastico, disegnato sia come elemento dell’idrografia, sia come elemento della veduta, e presente anche mediante la sua personificazione.
Lo spiccato pittoricismo della vignetta non trova paralelli all’interno della tradizione iconografica antica, poiché lo schema della personificazione della città si era affermato già nel IV secolo a.C., su modello della statua bronzea di Eutychide, e aveva goduto di una lunga fortuna, permanendo invariato fino al periodo tardo imperiale (Shelton 1979, 30). La raffigurazione di Antiochia come Tyche in trono affiancata da Oronte fanciullo (ritratto nell’atto di nuotare) si ritrova sia nelle riproduzioni statuarie sia nelle più schematiche rappresentazioni numismatiche. Perciò la variazione dal modello presente sulla Tabula non è facilmente giustificabile. Infatti, sebbene gli studi dedicati alle personificazioni antiche abbiano dimostrato l’impossibilità di individuare un canone comune alle raffigurazioni di una stessa città (Bühl 1995, 130), per la città di Antiochia l’iconografia pare alquanto stabile. Rimane, quindi, senza soluzione la ricerca delle motivazioni che avrebbero favorito la scelta di un tipo di rappresentazione così poco attestato.
Da quanto esposto sopra, sembra assai verosimile che la vignetta di Antiochia sia stata aggiunta in un momento successivo: tale intervento ex post sarebbe giustificabile all’interno di una rielaborazione della Tabula operata in ambito orientale e databile al V secolo (Levi e Levi 1978, 151 e ss.). A supporto di questa ipotesi possiamo qui rilevare la particolare attenzione prestata all’area anatolica che risulta evidente dal confronto tra la Tabula e la mappa degli itinerari terrestri descritti nell’Itinerarium Antonini, dove nell’area in esame si registra un numero di percorsi nettamente inferiore. L'evidenza riservata ad Antiochia e la maggiore grandezza della sua vignetta potrebbe forse rendere conto della volontà del compilatore di portare l’attenzione dell’osservatore sulla metropoli orientale, divenuta con il tempo uno fra i più importanti centri commerciali del mondo antico e nota in estremo Oriente come la “vera capitale dell’impero romano” (Levi e Levi 1978, 136).
Rimane ancora irrisolta la questione del rapporto tra le icone di Roma e Costantinopoli. Nella tradizione tardo-antica le Tychai delle due città si trovano spesso raffigurate affiancate e solitamente la differenziazione di posa e vestiario (evidentemente per poter distinguere al meglio le due personificazioni) è molto più marcata di quanto non sia nella Tabula. Fin dalla fondazione costantiniana la città è raffigurata con attributi femminili, interpretati da alcuni come segno di cultura e civilizzazione, cui si oppone la declinazione tutta marziale di Roma (Longo 2006, 324). Nel caso in cui si accolga l’ipotesi di Levi e Levi che pone la prima stesura della tavola all’inizio del III secolo, la vignetta risulterebbe posteriore alla prima redazione (così anche Patroncini 1980). Tuttavia, attraverso uno studio iconologico più dettagliato, sarebbe forse possibile individuare la cronologia precisa del modello utilizzato per il disegno. Purtroppo gli studi fino ad ora dedicati alle Tychai poleon hanno toccato tangenzialmente le tre vignette della Tabula, e si sono sempre appoggiati sulle datazioni della critica consolidate in bibliografia e via via discusse nell'ambito delle diverse ipotesi interpretative. Uno studio di dettaglio delle tre raffigurazioni, operato attraverso il confronto serrato con altri esempi noti dalle rappresentazioni numismatiche e artistiche, potrebbe portare a interessanti risultati per la datazione delle aggiunte e delle rielaborazioni che il documento ha certamente subito nel corso della sua storia, molto prima della copia medievale.
Ipotesi di datazione della Tabula
Che la Tabula sia quindi “opera composita, […] risultato di numerose elaborazioni e aggiornamenti” è fatto riconosciuto da tutta la critica. Più volte si è tuttavia tentato di individuare, all’interno di tale continuità temporale, alcuni principali snodi della vicenda redazionale. Rimandando per l’approfondimento e la bibliografia specifica a Bosio 1983, qui si vogliono ricordare solamente le principali ipotesi ricostruttive, utili per una lettura critica della Tabula, anche alla luce dell’analisi grafica più sopra proposta.
L'ipotesi di datazione che continua a essere considerata più valida, seppur con maggiore cautela per quanto riguarda l’individuazione esatta dell’anno di redazione, è quella proposta da Konrad Miller all’inizio del secolo scorso, secondo cui sarebbe possibile collocare la stesura della mappa esattamente tra il 365 e il 366 d.C., anni in cui Roma, Costantinopoli e Antiochia (le tre città rappresentate nella Tabula tramite personificazione) furono contemporaneamente capitali imperiali. Ma, dal momento che, per tutto quanto si è cercato di argomentare più sopra, è da mettere in dubbio la presenza delle tre vignette nel prototipo della Tabula, la datazione proposta su una tale base pare non fondata, in quanto da considerare un esempio di esercizio ermeneutico basato su un circolo vizioso.
Un primo interessante tentativo in tal senso è stato tentato da Levi e Levi, che ritenendo l’ipotesi di Miller fondata “sproporzionalmente sulla presenza delle tre grandi figure”, e riprendendo in parte la tesi di Bagrow e Skelton, hanno ritenuto di poter individuare due diverse e consecutive stesure della Tabula: una prima, riferibile al III secolo d.C., e una seconda collocabile tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C. Con l’obiettivo di dar conto delle due redazioni (all’interno della loro interpretazione della Tabula come mappa del cursus publicus) Levi e Levi hanno ricercato nella storia tardo-antica i momenti di maggiore interesse per l’organizzazione infrastrutturale, fondando la loro cronologia su fattori politici e amministrativi, piuttosto che sugli indizi figurativi presenti nel documento. Di fondamentale importanza per il loro studio è stato anche il confronto della Tabula con alcune rappresentazioni geografiche affini e databili con precisione; primo fra tutti è il frammento di pergamena noto come ‘scudo di Dura Europos’, databile entro il 260 d.C. e che, come la Tabula, presenta una “lista di toponimi … disposta sul fondo di una carta geografica senza un’orientazione o una scala precisa” e delle vignette del tutto paragonabili agli edifici ‘a tempio’ (Levi e Levi 1978, 28) . Altri indizi che rimanderebbero al III secolo sarebbero la cronologia dell’Itinerarium Antonini, il più esteso itinerarium adnotatum a noi noto, e la Forma Urbis Romae, testimoni “dell’interesse e della perizia” raggiunti all’epoca di Settimio Severo nella descrizione pratico-funzionale del territorio. Poiché fu proprio questo imperatore a promuovere un imponente progetto di miglioramento della rete infrastrutturale romana nonché la regolamentazione del cursus publicus, la redazione di una mappa organica potrebbe essere considerata l’esito e la sintesi coerente di tale impegno organizzativo e finanziario profuso dal governo centrale di Roma (Levi e Levi 1978, 151).
La seconda redazione sarebbe, invece, da collocare all’inizio del V secolo, periodo durante il quale Levi e Levi hanno sottolineato un momento di rinnovato interesse per l’organizzazione del cursus publicus; l’ipotesi sarebbe anche suffragata dall’icona ‘a cerchia di mura’ associata a Ravenna, indice del prestigio che la città ottenne solo all’inizio del V secolo, con lo spostamento della capitale imperiale presso il centro adriatico.
Nello studio non si indaga sulla possibilità che vi siano state rielaborazioni intermedie del modello severiano, il che ha portato Bosio a proporre un’ipotesi alternativa, dando un peso maggiore ai numerosi elementi riferibili al IV secolo, secondo lo studioso sufficienti per giustificare un abbassamento della datazione alla seconda metà del 300 d.C. (Bosio 1983, 151): l’uso del nome Costantinopolis (post 324), la Basilica di San Pietro (edificata a partire dal 322), il Tempio di Apollo ad Antiochia (distrutto nel 362 da un rovinoso incendio) e la presenza di Nicea tra le città turrite (possibile solo dopo il Concilio del 325). Si nota però che l’unico indizio che porterebbe a escludere la datazione di Levi e Levi, posteriore di pochi decenni, sarebbe la presenza nella vignetta antiochena del Tempio di Apollo: al tema è dedicato l’approfondito studio di Hanry Leylek che giunge a datare la raffigurazione della città siriana tra il 361 e il 363 d.C. e su questa base data anche la Tabula. Per quanto abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo contributo, riteniamo però più corretto restringere la datazione precisa alla sola vignetta del Tempio di Apollo e non a una fase di redazione della Tabula, dato che è impossibile dimostrare la contemporaneità tra i modelli delle personificazioni e il disegno della mappa. Allo stato degli studi torna quindi a essere plausibile una datazione della redazione definitiva della Tabula, così come la vediamo nell’esemplare del Codex Vindobonensis, all’interno di un arco temporale più ampio, estendibile nuovamente fino all’inizio del V secolo: non oltre, data la scarsità di elementi legati al culto cristiano, che risulta, nella pur complessa situazione storica politica e religiosa che la Tabula registra, una presenza ancora poco significativa.
*Si ringrazia in particolar modo il prof. Vladimiro Valerio per l'attenta lettura del saggio e i preziosi suggerimenti.
English abstract
The Peutinger Map (Codex Vindoboniensis 324) is one of the most important documents of the history of ancient cartography being the better preserved itineraria adnotata of late Roman Empire. Although many studies have been carried out on different aspects of the map there is not yet an unique interpretation of its content and its function. Furthermore there is still the need for a synthesis of different regional studies which should be compared and systematically structured in order to contribute to the solution of remaining open questions. Hereafter the most consistent interpretations are reviewed with particular attention to icons and personifications of the three capitals of the ancient world (Rome, Costantinopolis and Anthiochia) from which dating of original document is considered to be around half of the fourth century A.D.
keywords | Peutinger Map; Codex Vindoboniensis; Map; Roman Empire; Rome.
Bibliografia essenziale di riferimento
** La mappa (Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Codex Vindobonensis 324) prende il nome dal secondo proprietario, l'editore e umanista tedesco Konrad Peutinger (Augusta 1465 - 1547), al quale passò con il vincolo di pubblicazione alla morte di Celtes. Tuttavia l'edizione venne più volte rimandata e, dopo morte di Peutinger, il documento giunse a Marc Welser che ne curò l'edizione integrale nel 1598 (Tabula Itineraria ex illustri Peutingerorum biblioteca, qua Augustea Vindel. est, beneficio Marci VELSERI septemviri in luce editam. Antverpiae e Typographeio nostro [Ioannis Moreti] Kal. Decemb. 1598). Di particolare importanza è poi l'edizione viennese del 1753 (Peutingeriana Tabula Intineraria, quae in Augusta Bibliotheca Vindobonensi nunc servatur, adcurate exscripta, numinio maietatiquae reggiane Augustae dicata a Fracisco Christophoro di SCHEYB, in Gaubickolheim patric. constant. Vindobonae ex Typographia Tratteriana 1753) poiché riproduce porzioni ora lacunose a causa del degrado della pergamena che, corrosa dai sali di rame utilizzati per la tinta blu del mare, è divenuta illeggibile in molte parti. Più recente ma d’uguale importanza è l’edizione del 1910 curata da Konrad Miller che propone una ricostruzione critica della prima sezione del rotolo sulla base di rilievi archeologici e dell'Itinerarium Antonini (Miller 1910). Si deve ricordare infine l'ultima edizione, Weber 1976, di particolare pregio per la riproduzione in facsimile della pergamena. Grazie alle risorse digitali contemporanee la Tabula si trova oggi pubblicata online su Euratlas, sito dal quale sono tratte le immagini del saggio (© 2010 Christos Nussli, www euratlas.com).
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Per citare questo articolo / To cite this article: O.S. Carli, Le ‘vignette’ della Tabula Peutingeriana, “La Rivista di Engramma” n. 106, maggio 2013, pp. 7-25 | PDF