"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

108 | luglio/agosto 2013

9788898260539

I nani così sterminatamente piangenti

Biancaneve, Disney, i compianti padani del Quattrocento*

Fabrizio Lollini

English abstract
I

Il fil rouge che lega immagini antiche e moderne, opere d'arte del mondo di oggi e di quello di ieri, tradizione 'alta' e 'bassa', è spesso basato su suggestioni e interpretazioni personali. Non sempre, però, queste si legano a fenomeni storici e culturali macroscopici identificabili (il recupero dell'Antico nel Rinascimento o nel Neoclassicismo, o la persistenza dell'iconografia imperiale dalla Roma dei Cesari fino al Novecento), a volontà citazionistiche specifiche (le pubblicità televisive o stampate, che grazie alla cultura di base di questo fotografo o di quel copywriter sfruttano esempi illustri e lontani nel tempo), o a quel complesso reticolo antropologico – oltre che psicologico e culturale – che sta alla base della lettura warburghiana della storia. Pure, capita talvolta che certi cortocircuiti avvengano, e debbano poi essere spiegati. Queste considerazioni derivano dall'impressione che mi aveva suscitato il lavoro di due giovani artisti bolognesi, PetriPaselli, che da ormai alcuni anni operano insieme, in una ricerca continua di senso applicata soprattutto a due grandi temi: la memoria e il collezionismo.

Nell'intenzione artistica della coppia, la loro usuale leggerezza era anche alla base dell'opera da cui vorrei qui partire, Il Compianto, che invece mi ha suggerito percorsi molto differenti e, tutto sommato, meno ironici e più drammatici (sia nel senso tecnico del termine, teatrale, sia in quello più comunemente recepito). Questa installazione site specific fu realizzata presso la sede di via Farini della galleria bolognese Oltredimore (appena dopo la sua acquisizione degli spazi, e prima quindi del successivo restauro che li hanno interessati), in occasione di Artefiera 2011, dal 28 al 30 gennaio; all'interno di una collettiva che, non per caso, si intitolava Non tutto è in vendita (a cura di Raffaele Gavarro), consisteva in una piccola stanza – appunto una di quelle che nell'impiego precedente del sito, occupato da un negozio di mobili, esponeva le camerette per i bambini [fig. 1]. Sulle pareti figuravano le pagine staccate da 55 versioni stampate e illustrate della favola di Biancaneve: ogni volta sempre la stessa, quella in cui i nani piangono la sua morte, prima o dopo averla deposta in una bara di cristallo nel bosco. Per terra, in un angolo, i libri da cui erano stati praticati i cutting. Un impianto sonoro diffondeva voci femminili che ne leggevano il testo, mantra ripetuto di morte e di pianto. La carta da parati a fiorellini, parte dell'allestimento originale del negozio ma confluita con nuovo senso estetico, allusivo a un passato un po' melanconico, nel progetto artistico, omogeneizzava la scena.

(fig. 1) PetriPaselli, Il Compianto di Biancaneve, installazione (Oltredimore), 2011.

L'opera è stata di recente riallestita dal 9 marzo al 14 aprile 2013 presso Novella Guerra, a cura di Annalisa Cattani, a Imola, per il progetto Unheimlich, nella camera da letto della figlia della gallerista [fig. 2] (dunque in un contesto con un impatto visivo molto meno assoluto e straniante dell'altro, accompagnato – non soffocato – dalle presenze consuete nelle stanze dei bambini: giochi, pupazzi, libri). Nella stessa occasione la coppia di artisti ha presentato una serie di calchi interni: hanno colato dentro giochi di plastica del cemento a presa rapida, che ha preso la forma del suo contenitore – talvolta più netta, talaltra più vaga e indistinta, a seconda dello spessore del suo guscio. Li hanno sventrati, ed estratto dai loro corpi la replica di due gruppi di oggetti: una serie di animali e altre piccole presenze ludiche e infantili, esposti in una camera nello stesso edificio di quella del Compianto, e un secondo insieme di Biancaneve morta e dei sette nani che la piangono, collocati nell'attiguo giardino [figg. 3-4].

(fig. 2) PetriPaselli, Il Compianto di Biancaneve, installazione (riproposizione Novella Guerra), 2013.

(fig. 3) PetriPaselli, calchi di giocattoli e pupazzi di plastica, 2013 – 4 PetriPaselli, Il Compianto di Biancaneve, calchi, 2013.

I progetti sulla principessa avvelenata dalla mela hanno costituito una delle linee di ricerca artistica di PetriPaselli, che spesso si muovono sulle orme di un citazionismo colto, come evidente per esempio nella fortunatissima serie dei Souvenirs d'Italie [fig. 5], in cui il gioco tra ricordo personale dello spettatore, citazione della tradizione artistica, rapporto con la produzione trash di oggettistica 'da viaggio', fino al Grand Tour, prendeva la forma di scatti fotografici di ricollocazione significante, su cui peraltro la critica ha già scritto molto. Vorrei ricordare qui anche Nano patrono, progetto 2011 per il pupazzo gigante del cosiddetto Vecchione, l'immagine totemica (fino a qualche anno fa ogni volta identica, e appunto corrispondente a un uomo anziano) che incarna l'anno trascorso, e viene bruciato in un grande rogo sulla piazza Maggiore di Bologna ogni vigilia di Capodanno; le forme – ancora una volta – del nano, in questo caso nella versione più standardizzata da arredo di giardino, si presentavano nella postura e con gli attributi del santo patrono della città, San Petronio, con un modellino della stessa nelle mani [fig. 6]; l'opera, poi, non è stata mai realizzata perché non scelta per l'evento, pur se segnalata; mentre di PetriPaselli è andata a buon fine, nel 2012, l'altra proposta per il medesimo impiego della Scimmia meccanica [fig. 7]. 

(fig. 5) PetriPaselli, Souvenirs d'Italie (Firenze), fotografia a colori, 2008.

(da sin. a des.: fig. 6) PetriPaselli, Nano patrono, bozzetto per il Vecchione, 2011; (fig. 7) Petripaselli, Scimmia meccanica, Vecchione, 2012.

(fig. 8) PetriPaselli, Il Compianto di Biancaneve, libro d'artista, 2013.

Dalla ricerca su Biancaneve, ancora in progress, e parallelo ad essa, è stato pubblicato a inizio 2013 un libro d'artista [fig. 8], accompagnato da un testo – che non voleva essere tanto di commento quanto di suggestione – che queste pagine, con molte aggiunte e modifiche, e un apparato bibliografico, in parte riprendono. Vorrei quindi mettere in evidenza una serie di tangenze che si avvertono tra la scena della lamentazione su Cristo morto esibita nei compianti padani del Quattrocento e l'episodio della manifestazione del lutto dei nani sul corpo apparentemente morto di Biancaneve. Queste prossimità porteranno poi a considerare anche alcuni spunti sui materiali della scultura (in questo caso, la terracotta, ma anche la cera) che più si prestano alla replicazione del reale; sulla corrispondenza con qualche topos di origine classica; e sul livello culturale di scelte artistiche apparentemente popolari.

II

"Le Marie di rilievo così sterminatamente piangenti sopra il Cristo morto": così l'erudito Carlo Cesare Malvasia, biografo degli artisti felsinei e descrittore delle emergenze artistiche della città, descrive il compianto di Niccolò dell'Arca in Santa Maria della Vita, uno dei capolavori assoluti della scultura rinascimentale [fig. 9]. Il Compianto sul Cristo morto è oggi collocato a destra dell'altare maggiore della sede religiosa, inserita originariamente nel più importante complesso ospedaliero bolognese, fondato dai Battuti, che a partire dalla soppressione napoleonica perse la sua destinazione e venne profondamente alterato. In pieno XIII secolo la confraternita, dopo la nascita in area perugina, aveva prima aperto una sua sede bolognese, poi avviato attività assistenziali. La posizione del gruppo scultoreo, anche per le ridefinizioni architettoniche che come appena detto ha subito nel corso dei secoli la chiesa e in generale tutta l'area, è peraltro mutata. Posto in un vano presso la porta che dava sulle vicine Pescherie, "delimitato intorno, verosimilmente per tre lati, da muri, restando ovviamente visibile dal quarto lato verso la navata" (Mario Fanti), poi trasferito in un camerino prope altare maius, dalla stessa parte dov'è oggi, l'insieme di statue arrivò a essere anche spostato in esterno, entro una nicchia, dove lo vide, commentandolo con parole celebri e immaginifiche, Gabriele d'Annunzio. Ciò ha ovviamente comportato pure alterazioni al ruolo e alla collocazione delle singole figure all'interno dell'insieme, su cui le ipotesi hanno variato molto.

(fig. 9) Niccolò dell'Arca, Compianto sul Cristo morto, gruppo di statue in terracotta, Bologna, Santa Maria della Vita, inizio anni Sessanta del XV secolo.

Lo svolgimento che vediamo oggi prevede il San Giovanni quasi come perno centrale dell'insieme, mentre il solido e drammatico continuum degli altri personaggi subisce una sorta di climax nelle due figure a destra, e culmina nella folle corsa della Maddalena, che, provenendo da un 'esterno' al frame della composizione, si getta visivamente dentro la scena. Altre soluzioni di grouping tentate, se ci limitiamo a quelle documentate dalle immagini fotografiche, erano più composte, e meno eclatanti: in occasione di un restauro recente, quando il compianto venne spostato per molto tempo presso la Pinacoteca Nazionale, per esempio, la figura della Maddalena era posta più centralmente, e la sua corsa era tangente, e non parallela, all'occhio di uno spettatore frontale alla serie. Non è chi non veda, in assenza di dati dirimenti sull'aspetto originario, due più o meno espliciti desideri alternativi, corrispondenti si può dire ad altrettante disposizioni – tanto di collocazione fisica quanto d'animo e di attitudine mentale verso il gruppo, si può dire: un compattamento più costruito e ordinato e un dispiegamento di emozioni e di pose meno controllate.

Non minore difformità di opinioni si è spesso riscontrata rispetto ad altri problemi. Come la datazione: fonti in apparenza inoppugnabili ci confermano una datazione ai primi anni Sessanta del Quattrocento. Ma c'è chi dapprima ha ipotizzato che i referti d'archivio si riferissero ad un altro manufatto artistico, di tipo più effimero – un complesso per periodiche rappresentazioni del dramma della Passione, o un apparato mobile per la sacra commemorazione del sepolcro di Cristo – proponendo invece per il compianto una collocazione cronologica molto successiva, nel nono decennio del secolo; poi, quando la trama archivistica si è fortificata ed è apparsa non cavalcabile, che il compianto sia stato sì iniziato ai tempi della data più alta, ma abbia avuto un completamento posteriore, e ciò soprattutto in riferimento alle tre Marie. La proposta posticipatrice, avanzata da Cesare Gnudi, è ormai abbandonata, anche se qualche volta una certa difficoltà ad accettare il 1462-63 come termine obbligato dei lavori da parte di Niccolò riemerge implicitamente nei commenti degli studiosi: la 'terribilità' drammatica, la foga emozionale, dispiega motivi di passionalità che agli occhi moderni tende talvolta a essere fruita come, quasi, troppo anticipata rispetto ai suoi tempi. Se la lettura di tutti è oggi dunque a favore della collocazione cronologica precoce e – per quanto possibile coi tempi di produzione – omogenea, il rapporto con la pittura e soprattutto con gli affreschi della cappella Garganelli di Ercole de Roberti già nella cattedrale di San Pietro (poi distrutti, e di cui rimane il solo frammento col volto della Maddalena in Pinacoteca Nazionale) viene a essere ribaltato; visti da Gnudi come necessario precedente – perché è nell'arte pittorica, tradizionalmente vista come 'maggiore', che gli spunti innovativi dovevano essere elaborati – i dipinti costituiscono in realtà un esempio di precoce fortuna visiva delle immagini di Niccolò, in un discorso che va quindi ribaltato. E d'altra parte è quasi ovvio oggi che sia la scultura, nella sua fisicità obbligatoriamente – vorrei dire – più vicina alla realtà tridimensionale, che più facilmente si apre alla raffigurazione di una realtà meno mediata: già dagli albori dei tempi. Proprio di terracotta è la scultura degli avi, dei tempi più antichi, già secondo i Romani.

Tanto per chiarire: del 1462 e 1463 sono alcuni documenti relativi alla presenza di Niccolò a Bologna, in cui risulta già legato a Santa Maria della Vita, e viene chiamato in almeno un caso magister figurarum de terra; un referto archivistico redatto tra 1596 e 1601 ricorda il gruppo dicendo che i confratelli dell'ospedale l'ebbero da Niccolò "nell'anno MCCCCLXIII, come appare al libro chiamato Campione, signato C, a folio 259 alla partita di Maestro Antonio Zanolino lanarolo, in suo credito, sotto li VIII Aprile del medesim'anno in una partita di £ 24, 7, 6" (avevo colpevolmente omesso di menzionarlo nella scheda in Emilia Romagna 2007, pp. 202-204). Del 1464, invece, è la prima testimonianza diretta e sicura sull'opera (fino a un certo punto, lo vedremo), una concessione di indulgenza rilasciata da dieci cardinali a chi visiterà la chiesa della sede ospedaliera, e daranno offerte "ad reparationem, conservationem, augmentationem" del sepolcro. I dubbi espressi a suo tempo da Gnudi erano due: che la testimonianza di fine XVI secolo fosse viziata da una lettura arbitraria, errata o comunque scorretta della fonte, che non è mai stata reperita (riferendo per logica traslazione un singolo pagamento di qualche tipo all'opera, firmata, che poteva vedere); e che anche la più autorevole attestazione del 1464 si riferisse a qualcosa di differente da ciò che vediamo oggi: un apparato effimero, costituito da oggetti mobili (in legno, magari); lo studioso modificò poi la sua posizione, ammettendo che a quelle date qualcosa doveva pur esserci ma non nelle forme a noi note, con progressive sostituzioni o integrazioni. Ciò gli permetteva di ipotizzare che la vera realizzazione delle figure fosse successiva ai primi anni Sessanta del XV secolo, o che almeno alcune di esse si scalassero in avanti nel tempo. Senza ritornare su argomenti fin troppo scrutinati, se è vero che è inutile e contra rationem posticipare il compianto, mi pare che prendere il 1463 di un inaffidabile documento come termine ante quem globale, certo e definitivo sia discutibile, come avevo sottinteso in modo forse caotico (Lollini 2007); ma che il gruppo, magari non del tutto terminato, esistesse sostanzialmente come lo vediamo ora nel 1464 è ormai acquisito. È appena il caso di ricordare che le pratiche della scultura, nelle loro varie forme tecniche, nei tempi più remoti sono sempre e in tutte le culture legate al ricordo dei morti e alla celebrazione degli dei e degli uomini illustri, prima che nella pittura: le 'immagini' su cui nella più antica tradizione monoteistica, quella ebraica, si canalizzano le proibizioni sono in primis quelle scultoree, tridimensionali, proprio perché più mimetiche e dunque più pericolose in un'ottica idolatrica che aveva in mente, appunto, le statue innalzate agli dei pagani.

(fig. 10) Gustave Doré, Rossini sul letto di morte, disegno a matita, Bologna, Museo della Musica, 1868.

Questa arte, peraltro (rispetto alla quale ci si affiderà qui alle straordinarie pagine – mai abbastanza citate – di Adalgisa Lugli nella monografia su Guido Mazzoni), si può raffinare nella sua versione più naturalistica a contatto materiale col mondo vero sulla base del rapporto con altre forme di plastica, in contrapposizione alla scultura in senso stretto e alla fusione in bronzo. Ciò avviene se prestiamo fede ai racconti provenienti dall'Antichità sulle repliche del corpo umano, col gesso e la cera disposti a cogliere dal corpo – morto ma anche vivo – le forme dell'individuo, con una valenza quasi da inventio mitica di questa tecnica, che si ripropone poi nel Medioevo, a partire dalla tradizione dei re di Francia (i calchi del volto – con barba e capelli veri – e delle mani vengono applicati a un manichino di legno abbigliato, accompagnato dalle insignia reali e disteso sul cataletto d'onore), poi ancora nel Rinascimento, giù fino ai secoli moderni fino ai giorni nostri. D'altra parte è la persistenza di certe forme culturali extrastilistiche – come in ambito politico l'autoasserita assoluta continuità dinastica dei sovrani d'oltralpe – che porta le pratiche medievali fino al realismo del XIX e del XX secolo (tra i cimeli dal Museo della Musica di Bologna, mi piace ricordarlo, figura il ritratto sul letto di morte di Rossini colto da Doré [fig. 10], che coincidentalmente cantò le glorie dell'ultimo re di Francia per diritto divino, Carlo X, nel suo Viaggio a Reims).

Rossini morì a Parigi il 13 novembre 1868; Doré, celeberrimo disegnatore e illustratore che coincidentalmente tornerà qui più avanti, era amico del musicista e frequentatore delle sue serate mondane e musicali nella capitale francese: venne chiamato dopo la morte del compositore per ritrarlo, cosa che fece con alcuni schizzi, da cui poi realizzò questo disegno, inv. n. B 38232, e altri analoghi, che furono donati ad intimi suoi e del musicista (la versione bolognese al clarinettista Domenico Liverani, grande amico del compositore pesarese); a posteriori l'inventio venne riversata in una litografia e a olio. 

Si parte da Plinio, che ricorda come:

Hominis autem imaginem gypso e facie ipsa primus omnium expressit ceraque in eam formam gypsi infusa emendare instituit Lysistratus Sicyonius, frater Lysippi, de quo diximus. Hic et similitudines reddere instituit; ante eum quam pulcherrimas facere studebant. Idem et de signis effigies exprimere invenit, crevitque res in tantum, ut nulla signa statuaeve sine argilla fierent. Quo apparet antiquiorem hanc fuisse scientiam quam fundendi aeri.

Il passo è da leggersi dunque in rapporto a una svolta formale, 'artistica' nel senso delle poetiche dello stile: l'uso della tecnica del calco come volontà di passare dall'idealizzazione al naturalismo. Ma ben più importante in rapporto al nostro discorso sono le due notissime citazioni legate alla ius maiorum sull'uso delle immagini dei progenitori nella cultura latina. Ne accenna ancora Plinio:

Aliter apud maiores in atriis haec erant, quae spectarentur; non signa externorum artificum nec aera aut marmora: expressi cera vultus singulis disponebantur armariis, ut essent imagines, quae comitarentur gentilicia funera, semperque defuncto aliquo totus aderat familiae eius qui umquam fuerat populus. Stemmata vero lineis discurrebant ad imagines pictas.

E ne parla diffusamente anche Polibio:

μετὰ δὲ ταῦτα θάψαντες καὶ ποιήσαντες τὰ νομιζόμενα τιθέασι τὴν εἰκόνα τοῦ μεταλλάξαντος εἰς τὸν ἐπιφανέστατον τόπον τῆς οἰκίας, ξύλινα ναΐδια περιτιθέντες. Ἡ δ' εἰκών ἐστι πρόσωπον εἰς ὁμοιότητα διαφερόντως ἐξειργασμένον καὶ κατὰ τὴν πλάσιν καὶ κατὰ τὴν ὑπογραφὴν. Ταύτας δὴ τὰς εἰκόνας ἔν τε ταῖς δημοτελέσι θυσίαις ἀνοίγοντες κοσμοῦσι φιλοτίμως, ἐπάν τε τῶν οἰκείων μεταλλάξῃ τις ἐπιφανής, ἄγουσιν ἐις τὴν ἐκφοράν, περιτιθέντες ὡς ομοιοτάτοις εἴναι δοκοῦσι κατά τε τὸ μέγεθος καὶ τὴν ἄλλην περικοπήν (Plinio, Naturalis historia XXXV, 6, e XXXV, 153; e Polibio, Ἰστορίαι VI, 53, 4-6).

La replicazione delle forme umane – e dei loro atteggiamenti, se la 'maschera' può anche passare come ben sappiamo a caratterizzare dei prototipi psicologico-attitudinali, come nel teatro – si legge, se meccanica e dunque quasi senza mediazioni interpretative, come vicinanza e (com)partecipazione, e come incitamento all'imitazione; non a caso, infatti, i passi appena citati continuano in un elogio di questa pratica come stimolo per i giovani, che possono trarre dalla visione degli 'uomini illustri' – qui ovviamente non ancora nell'accezione che avranno alla fine del periodo classico, e poi in forma più stabile dal Medioevo – linee guida per il proprio comportamento virtuoso, davanti a quelle immagini, su cui peraltro vengono applicati i topoi di tutta la produzione artistica. Ma in questo caso i volti che sembrano vivi poco devono all'abilità dell'artefice. L'identificazione tra l'individuo e la sua rappresentazione (il suo doppio, direbbe la letteratura e la filosofia di sensibilità novecentesca – ma da Sosia in poi il discorso ritorna costante nei secoli) è tale da arrivare a portare con sé il destino: Apelle dipinse immagini – parla ancora Plinio – tanto "similitudinis indiscretae […], ut – incredibile dictu – Apio grammaticus scriptum reliquerit, quendam ex facie hominum divinantem, quos metoposcopos vocant, ex iis dixisse aut futurae mortis annos aut praeteritae vitae" (Plinio, Naturalis historia XXXV, 88). La terracotta dal Medioevo in poi si assocerà sempre, sia per le pratiche di tipo tecnico sia come prossimità mentale e, diremmo noi, stilistica, alla coppia gesso-cera, come recettrice di forme vere; e sia per manufatti finiti, esteticamente compiuti, sia per l'uso dei tre materiali come medium di passaggio verso forme più compiute, dalla fusione e della lamina in metallo al marmo di cui la terracotta costituisce talora l'abbozzo. Dunque "la cera, in fatto di somiglianza, esagera" (Didi-Huberman 2011, 12); e sulla cera la rilettura di von Schlosser, dopo le straordinarie aperture di Warburg nel celebre saggio sulla borghesia fiorentina del 1902, apre davvero a orizzonti innovativi, che qui non è il caso ovviamente di seguire.

Il testo dello studioso di inizio Novecento resta un saggio davvero fondamentale per la lettura degli intrecci culturali tanto quanto per il nesso materia-forma così importante nella storia dell'arte. Lo studio di Schlosser non si amplia peraltro ad altre forme 'artistiche' in questo medium, come quelle anatomiche, dal valore scientifico e didattico ma pesantemente collegate a un contesto artistico (penso ai casi dei Musei dell'Università di Bologna, collegati alle varie specializzazioni delle scuole di anatomia), né – per ovvi motivi cronologici – alle opere realizzate nel Novecento (ma l'edizioni cui qui si fa riferimento riproduce come immagine di copertina Senza titolo, opera in cera e stoffa del 2001 di Maurizio Cattelan), lasciando aperte grandi aree di ampliamento rispetto a questo contesto seminale. La maschera funebre, dai reperti più antichi delle varie culture protostoriche in tutto il mondo, "prende le mosse da creazioni assai primitive […], passa attraverso lo stile ideale dell'arte classica nelle sue varie fasi e giunge a esiti di notevole realismo" (Schlosser 2011, 42); rispetto a questa evoluzione, l'uso del calco in cera o altro materiale plastico appare molto precoce, ma il tasso di oggettivizzazione naturalistica dipende poi dal trattamento che ricevono i materiali in cui il ritratto viene poi trasferito; sull'uso della cera e del calco nell'età classica (ibid., 41-62). Un esame del problema in relazione alla ritrattistica di età repubblicana in Papini 2011. Il realismo eccessivo della cera può essere ancor oggi alla base di pratiche devozionali: le immagini dei grandi monaci che 'presiedono' alla venerazione presso il Wat Phra Singh di Chiang Mai, per esempio, inducono il fedele a rivolgersi al Buddha come se fossero in presenza di entità reali; in questa forma di meditazione orientale il massimo grado di concentrazione prevede però che anche l'originale (il monaco) si avvalga di una totale e assoluta imperturbabilità, fissità e non-partecipazione, come fosse una statua di cera, rendendo il fraintendimento ancora più profondo e perturbante [fig. 11].

(fig. 11) Ceroplasta thailandese, Figura di monaco, fine XX secolo.

Lo sguardo diretto sulla verità, appunto, e sulle attitudini psicologiche, quasi sgomenta nel gruppo di Niccolò – cosa che ha portato a un'incredibile, forse abusata, fortuna visiva dell'opera, sia a livello alto che popolare, che conferma l'assoluta eccezionalità del livello qualitativo dello scultore in quest'opera, capolavoro assoluto della scultura di tutti i tempi. Ciò non ha fatto escludere dalla critica però ovviamente che Niccolò si rivolga non solo certo alla natura, ma anche all'ars che lo ha preceduto: per esempio, alla scultura funeraria gotica francese del secondo Trecento e del XV secolo, e a quella borgognona, Sluter in primis – basta scorrere le pagine e le foto della monografia di Gnudi del 1942 coi Profeti di Champmol e coi pleurants della Tomba di Filippo l'Ardito, oltre che con la sublime deposizione di Tonnerre dei de la Sonnette [fig. 12], che sono tra le più alte dello studioso; e ovviamente a Donatello. Ma lo scultore, coltissimo, guarda anche a tanto altro, palesando una cultura figurativa complessa e ricca, che si rivela peraltro nel corso dell'intera sua opera. Il catalogo di Niccolò, nonostante alcuni tentativi di attribuzione in aree extrabolognesi, non da tutti condivisi (e su cui in questa sede non insisterò), si gioca tendenzialmente per intero nel contesto felsineo, pur se l'origine dell'artista è documentata, come noto, de Apulia.

(fig. 12) George e Jean Michel de la Sonnette, Deposizione nel sepolcro, gruppo di statue in pietra, Tonnerre, Hotel Dieu, 1451-53.

La formazione di Niccolò, e la sua prima attività prima dell'arrivo a Bologna (dove è illogico pensare giungesse senza un pregresso tale da consentirgli un inserimento nel mercato del tempo), sono due grandi incognite, che non devono – a mio parere – svolgersi in parallelo assoluto. Le influenze stilistiche storicizzate, cui si accenna nel testo, non sono necessariamente ricadute di una specifica frequentazione geografica continua legata a una operatività, data la possibilità di brevi soggiorni, di metabolizzazioni indirette e altro ancora. Dal punto di vista del milieu precedente a quello felsineo le aree chiamate in causa sono differenti. Radicata in molta critica è l'idea di un Niccolò oggi diremmo croato, cioè dalmata, sulla base di quella circolazione tra le due sponde dell'Adriatico che conosciamo attiva in tante forme e per lungo tempo nella storia dell'arte, con fatti, nello specifico, legati ai Laurana, mentre speculare ma con contenuti formali analoghi è l'appartenenza stabile, al di là dell'origine familiare e di nascita, all'area pugliese; entrambe si richiamano ovviamente alla attestazioni in nostro possesso. Una più o meno lunga sosta a Ferrara, nei pressi di Cosmè Tura e di Domenico di Paris, viene proposta su base stilistica, soprattutto in riferimento a una figura di santa degli Staatliche Museen di Berlino per cui si è anche accennato a una possibile autografia. Recente è infine l'idea di una tappa napoletana, in un crogiolo dunque di influenze d'oltralpe, poi di un soggiorno abruzzese.

Il ruolo dell'artista nel panorama locale del periodo è in ogni caso straordinario, così come, fin da subito, la sua fama, anche in relazione a opere di estrema visibilità: la Madonna di piazza del 1478, che domina dall'alto del Palazzo Comunale, e viene vista da chiunque passi per il cuore di Bologna [fig. 13], o ancor più l'impresa, che sarà per Niccolò eponima, del coronamento dell'arca di San Domenico [fig. 14], in cui si rivela la sua abilità nell'uso del marmo, in una poliedricità tecnica che in zona doveva risultare ancora un'eccezione, almeno per gli scultori locali (nonostante l'attività in città di Jacopo della Quercia, del 'Maestro del sepolcro Fava' e dello stesso Donatello), e in cui la verosimiglianza della terracotta gioca un ruolo comunque fondamentale, come nei due busti di San Domenico, quello ancora presente nel Museo della sede dei Predicatori [fig. 15] e quello in collezione Sgarbi [fig. 16]: il fondatore dell'ordine è tramite esse fisicamente presente nei luoghi abitati dai suoi confratelli, tutela e guida ai frati dell'ordine che ha fondato, come se la testa staccata dal suo corpo inumato nell'augusta tomba di Nicola Pisano e dello stesso Niccolò si fosse trasferita nell'attiguo convento, e viva potesse parlare ai suoi seguaci.

(da sin a des.: fig. 13) Niccolò dell'Arca, Madonna "di piazza", rilievo in terracotta, Bologna, Palazzo Comunale, 1478; (fig. 14) Niccolò dell'Arca, Eterno (dal coronamento dell'Arca di San Domenico), statua in marmo, Bologna, San Domenico, cappella di San Domenico, 1470-73; (fig. 15) Niccolò dell'Arca, San Domenico, statua in terracotta, Bologna, San Domenico, convento, 1475 ca; (fig. 16) Niccolò dell'Arca, San Domenico, statua in terracotta, collezione Sgarbi, 1475-80.

I personaggi dei compianti, di base, sono otto: lo stesso Cristo, steso a terra come nei gisants della statuaria funebre; Maria e Giovanni Evangelista, la coppia di dolenti quasi per definizione; le tre Marie che conosciamo dai testi evangelici: Maria Salomè, Maria di Cleofa e la Maddalena; e ancora Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea, che compaiono nel racconto sacro in rapporto a due atti della vicenda tanto concreti quanto profondamente drammatici, che aiutano a compiere, il distaccamento dalla croce e la deposizione nel sepolcro. Le statue, nel caso di Santa Maria della Vita, sono invece sette: rispetto alle costanti iconografiche del soggetto trattato, mancherebbe Giuseppe d'Arimatea (per altri, invece, Nicodemo). In effetti, in non pochi compianti troviamo assenti alcune delle figure canoniche, mentre in altri se ne aggiungono di differenti, soprattutto presenze angeliche; in ogni caso è stato proposto, per Niccolò, che l'eventuale assenza sia dovuta alla distruzione dell'immagine dopo la cacciata della famiglia dominante in città, i Bentivoglio, agli inizi del XVI secolo, in relazione alla possibilità che l'immagine potesse recare i lineamenti di Giovanni II, ultimo signore di Bologna, colpito dunque da una damnatio memoriae. Dal punto di vista formale, è da ricordare come il numero dispari piuttosto che pari inclini anche verso una distribuzione più o meno bilanciata del gruppo delle figure, e i due repoussoirs formano spesso una coppia calibrata en pendant; come puntualizzato da Fanti, l'ipotesi si scontra poi con la non generalizzata distruzione delle immagini di Giovanni II nelle chiese bolognesi (si pensi a San Giacomo), e con la giovane età del signore di Bologna, che all'epoca avrebbe avuto una ventina d'anni e male avrebbe incarnato un personaggio in genere reso come anziano, o comunque maturo. La discussione sullo pseudo Giovanni II, che non manca di voci favorevoli alla presenza, anche autorevoli e recenti, come Ferretti, si basa comunque già in Gnudi anche sulla base della probabilità di un altro ritratto del principe da parte di Niccolò, che, solo sulla base di vicinanze iconografiche con le effigi certe (e dunque senza alcuna documentazione), lo avrebbe raffigurato nell'Arca nelle vesti di Sant'Agricola.

Col termine ripreso da PetriPaselli si deve intendere dunque quella scelta iconografica che mostra il momento della lamentazione sul cadavere di Cristo (che nelle fonti si trova però indicato in genere con altri nomi: "sepolcro", per esempio, o "mortorio"). Questo tema viene a essere svolto in forma di gruppi di figure: noi ci riferiremo a quelli realizzati in area padana, e specificamente emiliana, in terracotta dipinta e in dimensioni reali. La produzione mette in gioco nella ormai ricca produzione esegetica che gli è stata dedicata una serie di questioni di enorme rilievo metodologico, al di là dei più consueti problemi di filiazione formale applicati a questo o a quello scultore nel corso del tempo (quelli già ricordati sopra a proposito di Niccolò, la pittura fiamminga o a essa ispirata, da Jan van Eyck in poi, inclusa quella italiana, e dunque Piero della Francesca e i ferraresi legati agli Este, o Jean Fouquet; ma anche Antonello da Messina e Giovanni Bellini, fino – per i casi più tardi – a Raffaello). Oltre a quello bolognese di Niccolò anche altri compianti sono realizzati per realtà assistenziali: ospedaliere e non, di accompagnamento a una 'buona morte'. Sedi e patronati incentivano dunque a non lesinare occhi gonfi, rughe esibite, bocche semiaperte nello spasmo del dolore, in relazione alla mission dei siti; una politica di parallelismo visivo alla realtà naturale in parte analoga a quella che conosciamo bene di aiutarsi con le immagini nello svolgimento delle funzioni delle compagnie religiose – ma di laici, come quelle ospedaliere – che si occupavano di seguire le ultime fasi di vita dei condannati a morte. L'exemplum artistico conforta e assiste, chi muore e chi vede morire: sia un'esecuzione o una dolorosa agonia.

(fig. 17) Guido Mazzoni, Testa di vecchio, scultura in terracotta, Modena, Galleria Estense, 1475-80.

Nei compianti emiliani di terracotta, eccelso è spesso il trattamento della stesura che rende la materialità dei tessuti: uno degli indizi, oltre a quello somatico, che fa emergere con chiarezza un elemento fondante dei compianti emiliani, la specificità del nesso tra forma stilistica e materia. Come hanno insegnato tanti studiosi, la terracotta non detiene certo in questa tipologia produttiva un valore neutro apprezzato in sé; la sua facilità a essere plasmata (a differenza della scultura in senso stretto, quella 'per via di levare', eroica e quasi superomistica quando applicata al marmo), e ad adattarsi docilmente alle esigenze dell'artista, determina un tasso di realismo quasi fotografico, con scelte stilistiche basate su un mimetismo pressoché totale, che asseconda il tema iconografico altamente drammatico, e tende a raggiungere un apice espressivo. Il trattamento del sentimento è diretto e quasi brutale, specie in Niccolò dell'Arca e in Mazzoni [fig. 17] (più avanti nel tempo, per aggiornamenti stilistici, sarà in forma più trattenuta), in modi vicini alla pratica già ricordata della ceroplastica funebre (ma pure, in seguito, di quella scientifica: e sui rapporti tra i due contesti molto è infatti stato detto), probabilmente in nesso stretto con le volontà delle committenze, e comunque sempre filtrata da una profonda consapevolezza stilistica. Maschere funerarie, dunque, come i calchi degli animaletti e dei piccoli nani di PetriPaselli; oggetti che sforano il confine tra arte e vita, e tra la prima e la natura [fig. 18]. Come suggeriva peraltro von Schlosser parlando della ceroplastica, anche la terracotta e gli altri materiali che si plasmano sul calco dal vivo possono essere 'troppo reali' per essere arte, in una forma di sfortuna critica che si basa sul fatto che la mediazione dell'artista che ho appena ricordato – e che è sempre da tener presente – tende a sfarinarsi, quasi a scomparire, quando la mimesi del vero si appropria della forma artistica in modo totalizzante – e a che vale allora la docta manus, quando ci si avvicina a immagini contigue al feticcio, magari vestite di panni reali, o arricchite come detto da barbe o capelli finti, come avveniva per le immagini degli antenati presso i Romani?

(fig. 18) Particolari del Compianto di Niccolò dell'Arca.

Somiglianza per eccesso, diceva Horst Janson a proposito (ancora una volta) della cera, e in rapporto alla poetica donatelliana del vero, "che porta alla rovina qualsivoglia nozione di stile e addirittura ogni realismo autentico – leggi: artistico" (Didi-Huberman). Quasi a rinnovare il mistero fittile della creazione – Dio plasma l'uomo, non lo scolpisce – l'artista riproduce uomini e donne a sua immagine, in modo 'che sembrino veri': ciò è indice di una volontà realistica di tipo mimetico, che avvicini l'immagine al suo fruitore. Questo è da intendersi però – come altrove – su due binari, dopo quella intellettualizzazione del pubblico e delle sue qualità che si dipana nel corso del Trecento e culmina, come ci ha insegnato Baxandall, nella definizione di 'competenza' elaborata dal Petrarca: una, bassa, di pancia, quella degli incolti, che sbalordiscono davanti a cloni delle loro persone (l'osservazione udita anche oggi nelle mostre blockbuster per la quale un certo quadro 'sembra una fotografia'); e una, alta, che ripropone un topos per definizione all'antica, pur se assai distante dal modello usuale di classicità statica, 'apollinea', e invece, come è stato notato, con evidenti derivazioni – coscienti o meno – da Pathosformeln 'dionisiache', con le immagini che 'sembrano vivere' e pene spirantes, tanto apprezzato, già l'ho detto, dalla tradizione colta di tipo ecfrastico dei modelli retorici esemplari riciclati dall'antichità e fin troppo noti al pubblico dotto.

La contrapposizione tra spettatore avvertito e spettatore ignorante (parallela alle altre dicotomie allora-oggi, piacere dei sensi-piacere intellettuale, materia-forma, materia-abilità, e soprattutto – appunto – natura-arte) emerge in Petrarca specie nel De remediis (se ne veda la classica lettura di Baxandall 1994, 77-108), in cui Ratio afferma: "In tutte queste arti [la scultura, in senso lato] che paiono diverse c'è una sola attività manuale che imita la natura, quella che chiamano plastica, che opera col gesso e con la cera, o con la solida argilla; per quanto simile ad altre arti, è più vicina alla virtù e meno lontana dalla modestia e dalla sobrietà di quanto non mostrino le immagini di materiali più solidi, o addirittura d'oro, di dei e uomini; anche se non vedo che gusto ci sia ad osservare facce fatte di terra o di cera" (ibid., 98).

L'idea già citata secondo cui l'argilla modellata e cotta è un materiale non detentore in sé di un valore estetico autonomo e finito porta allora alla scelta del completamento pittorico, che nasconde l'impressione grezza, occulta le giunzioni tra le varie parti, e al contempo avvicina ancor più l'immagine completa alla realtà naturale, spesso con veri e propri virtuosismi cromatici, solo lontanamente oggi, in genere, echeggiati o da qualche residuo di pigmento fortuitamente salvatosi o dalle ridipinture coprenti e spesso molto pesanti che i compianti, come tutte le opere d'arte ad alto tasso di devozione, hanno nel tempo subito; già nell'antichità, peraltro, le analogie tra i materiali della scultura plastica e la pittura sono presenti, e Plinio ricorda come i plasticatori dipingano (e i pittori creano statue in terra, da Zeusi a Pasia).

È bene chiarire, nel caso sinora non lo si sia fatto qui a sufficienza, che i rapporti con la ceroplastica, o l'intrinseca qualità materiale della terracotta dipinta, non determinano certo una situazione in cui, si potrebbe dire con McLuhan, il mezzo è obbligatoriamente il messaggio: lo stile di Niccolò, di Mazzoni, e di tanti altri non è (già l'ho detto) una conseguenza ovvia e naturale di un medium tecnico, che certo incentiva, suggerisce, si presta, ma non tout court determina. Ce lo ricorda il trattamento che riservano a situazioni in parte analoghe – terracotte ma invetriate – Luca della Robbia o i suoi eredi. E in ogni caso l'autore del gruppo della Vita si eleva a un livello talmente alto di consapevolezza stilistica da inserirsi ai gradi più alti della storia dell'arte di tutti i tempi, anche quando lavora il marmo nell'Arca, o nello stupefacente San Giovanni Battista dell'Escorial.

Le scene dei gruppi dei compianti, nella loro immediatezza anche cromatica, davano al riguardante quasi l’impressione di trovarsi davanti a una scena di vita vissuta, supportata magari dalla divulgazione di tratti somatici di personaggi noti, e quindi incentivavano forme di compartecipazione sofferte e non astrattamente contemplative, in cui il fedele interagiva in modo diretto: non ammirazione, ma simpatia, insomma, nel senso etimologico di soffrire insieme, anche in relazione alle pratiche devote delle realtà associative per cui sovente venivano eseguiti.

Sul problema (tecnico ed estetico) della policromia non ha senso qui dare esempi o tanto meno bibliografie; cfr. piuttosto Lugli 1990, 18-20, dove appunto si ricordano i casi citati da Plinio dell’attività come plasticatore di Zeusi e Pasia, in un rapporto tra creta e pittura "secondo una tradizione molto radicata nella città nel periodo ellenistico, di relazioni tra la pittura e la coroplastica". In questo parallelo, da leggersi a livello di vera produzione di oggetti artistici finiti, si inserisce un fatto parallelo, il confezionamento da parte dei pittori di veri e propri modelli di terra, come fantocci o manichini, che, rivestiti o meno di panni, servivano agli artisti per la resa nei loro disegni (poi nei dipinti) di pieghe e panneggi, o di posture; d’altra parte già Alberti nel Della pittura esorta il pittore a usare sculture come modello: non tanto per questioni astratte di primazia tra le pratiche, quanto perché più utili, in quanto tridimensionali (anche se questo Alberti non lo esplicita), a replicare la realtà; cfr. ibid., 19 e nota 36.

Una sorta, insomma, di teatralizzazione dell’avvenimento sacro su modi effettistici, come in quei tempi (e in certe aree geografiche fino ai giorni nostri) era comune osservare nei funerali o in situazioni altrettanto emotivamente forti. Il côté performativo, il mettere insomma in scena un ‘dramma vero’, il già accennato legame col teatro, con ogni probabilità, motiva non poche soluzioni formali dei gruppi dei compianti. Pare cioè di non scorgere in alcuni loro elementi derivazioni da altre opere scultoree di differenti tipologie, e ancora meno dalla pittura (opportunamente Ferretti: "Non serve andare in cerca di confronti figurativi pur che siano: disegni, dipinti, rilievi. Che proprio perché organizzati secondo una spazialità, un metro, un legame con lo spettatore di diversa natura, possono eventualmente servire da testimonianze lontane e indirette"); piuttosto, vi si nota una suggestione legata più agli usi dinamici del corpo recitante. Certe posture esageratamente sforzate, nei loro avvitamenti (il San Giovanni del compianto di Niccolò), evocano l’evidenziazione della figura chiave che richiama l’attenzione del riguardante in un tableau vivant, più che nelle tavole dipinte, anche se come noto le strategie di appeal sono molto simili. Queste forme non di rado, al variare delle sensibilità e delle posizioni teologiche ufficiali, saranno biasimate delle gerarchie ecclesiastiche: non sarà corretto e apprezzabile esagerare nei moti dell’animo; l’eclissi della fortuna di questa tipologia di manufatto a partire dalla fine del Quattrocento coincide con l’affermazione del purismo materico e della classicità di forme dell’high Renaissance e del primo XVI secolo, quando in alcuni esempi si nota come un congelamento dell’espressività rispetto ai decenni precedenti. E spesso il compimento pittorico si concreta in una finitura in bianco neutro che, anziché incentivare come prima il rapporto con la realtà, identifica un ideale classicamente astratto: le figure non sembrano vive, ma sembrano sculture (in marmo, anche se non lo sono).

Le opere di Antonio Begarelli offrono di questa volontà di ‘ritorno all’ordine’ cromatico un esempio cruciale – il compianto di Sant’Agostino a Modena (1524-26) prevedeva che i consueti otto personaggi, qui sovrastati da due angeli in volo, fossero “lasciati dall’istesso Maestro con biacca in maniera bianchi che figuravano candidissimo marmo, come tutte l’altre sue opere”, che proprio per questo dato ottengono l’alto apprezzamento di Vasari (cfr. almeno Ferretti 1992; e Bonsanti 1992). Nel medesimo torno di anni, l’angelo di terracotta dipinto di bianco del gruppo dell’oratorio superiore della Vita – su cui cfr. più avanti – è un altro spunto a questo proposito.

(fig. 19) Still da Biancaneve e i sette nani, di D. Hand, prodotto da W. Disney, 1937.

Otto persone (quasi sempre), di cui una morta; le altre la piangono. È forse stupido, magari coincidentale, ma è il primo dato in comune tra la gran parte dei compianti quattrocenteschi e quello di PetriPaselli. Aggiungiamoci la richiesta di porgere allo spettatore delle forme evocative di compartecipazione (quale bimbo non piange assieme ai nani, quando Biancaneve è morta?). E, dopo Disney, la volontà di descrivere attitudini e fisionomie differenti, che caratterizzino il singolo pleurant. In questo senso, emerge forte dall’una e dall’altra parte l’importanza decisiva del grouping, della disposizione delle figure [fig. 19]. Quella di Cristo e della bella principessa è obbligata: immobile, sdraiata, posta sempre su un supporto che la isola e la evidenzia; una sorta di cataletto, di giaciglio funebre – un ‘sepolcro’, appunto – per il primo, per la seconda un contenitore più complesso, che spesso si concreta, in una derivazione corretta dal testo originante, quello dei fratelli Grimm (o meglio delle sue due differenti versioni: quella del 1812 e quella del 1819), in una bara di cristallo.

"Biancaneve", Schneewittchen, è la fiaba numero 53 della raccolta Kinder und Hausmärchen dei fratelli Grimm, licenziata in prima edizione nel 1812, poi rivista negli anni successivi, poi dal 1819 entrata in forma definitiva nelle differenti e numerosissime edizioni della raccolta; di versioni a stampa (a sé stante o meno), traduzioni, edizioni annotate, commenti ve ne sono davvero innumerevoli, come può dare conto la consultazione di qualsiasi catalogo librario on-line; la voce di Wikipedia, tutto sommato, è molto ben organizzata, e in questa sede può dare un quadro sufficientemente preciso della situazione dei testi dei Grimm e della loro fortuna (cfr. allora http://de.wikipedia.org/wiki/Schneewittchen – con bibliografia). 

(figg. 20-21) Alfonso Lombardi, Funerali della Vergine, gruppo di statue in terracotta. Bologna, Santa Maria della Vita, oratorio superiore, 1522.

Si può decidere di disporre le sette figure stanti di fronte, di profilo, scostate in modo sgranato dal centro fisico e visivo del racconto, o invece ammassate in poco spazio; magari, giocare sul ‘dentro’ e sul ‘fuori’, come abbiamo detto per la Maddalena, creando movimenti serrati o più fluidi. Si può fare tutto con tante entità singole, tante figurine da movimentare. Le varianti sono molte: le differenti ricostruzioni di Niccolò, ma anche di tutti o quasi gli altri compianti quattrocenteschi (visto che per la stragrande maggioranza di essi non ci si può giovare né di una continuità di conservazione né di documenti da questo punto di vista cogenti), rendono palese come l’enfasi su un tratto piuttosto che un altro, in un complesso per definizione tridimensionale, e che può essere colto da differenti punti di vista, cambi profondamente, come detto sopra, il discorso. Lo dimostra un caso come quello della Morte della Vergine di Alfonso Lombardi [figg. 20-21], sempre alla Vita (ma nell’oratorio superiore sopra la chiesa), in cui le figure – qui in numero diverso, ovviamente – oggi accatastate, e compresse, non vivono ciascuna di una loro autonomia, ma respirano insieme come gruppo, costrette da una ridefinizione ben successiva alla realizzazione dell’opera a contrarre gli spazi tra l’una e l’altra. Qui ormai invece i personaggi erano statue nel senso albertiano, con un loro habitat vitale; nel gruppo della Vita, come è stato notato, i personaggi sono ancora imagines, comprese dunque in “uno spazio gestuale, simbolico, emotivamente fuso con quello dell’osservatore” dove la scelta di un diradamento “sembra vanificarne la coesione iconografica, l’interazione drammatica” (Ferretti, su una ricostruzione del gruppo poi rivista). Non solo: la percezione attuale può essere filtrata, come nell’opera di Lombardi appena citata, anche da una volontà di bidimensionalizzazione, che fa diventare il gruppo scultoreo quasi un quadro, con l’inserimento dell’insieme in una nicchia quadrangolare dominata da una quadratura di finta architettura prospettica, e quindi con l’eliminazione di quel dato eccentrico, in tutti i sensi, dell’angelo appeso che a suo tempo pubblicai dopo un lungo oblio, macchina teatrale abbandonata nel momento in cui si passa progressivamente a un’idea di normalizzazione degli ‘effetti speciali’.

(fig. 22) Da Petripaselli, Il Compianto di Biancaneve, libro d’artista, 2013, tav. 2.

Una scelta invita magari a entrare nel gruppo, a mischiarsi tra i dolenti, è insomma ‘aperta’, e proietta a una percezione coinvolgente; un’altra, invece, punta più a un exemplum da adorare, è chiusa, deve essere colta dall’esterno. Anche nei casi raccolti da PetriPaselli [fig. 22] le scelte sono tante, e differenti: nani frontali, nani di spalle, nani di profilo, nani in pericoloso bilico di equilibrio e nani stabilmente posti su un’unica fila; nani che quasi si chiudono a proteggere il loro tesoro, e nani che, insieme agli animali del bosco che accorrono in massa a vedere la bella morta, lasciano penetrare il nostro sguardo verso il fulcro dell’azione. Le strategie degli illustratori dei libri per bambini del XX secolo certo non sono le stesse (né tecnicamente né culturalmente) di quelle degli scultori di sei secoli prima, ma devono cercare di esprimere le stesse necessità e gli stessi bisogni, e non è per nulla detto, data la fortuna visiva e devozionale dei gruppi dei compianti – non solo di quelli padani, ovviamente, e non solo di quelli in terracotta (e anche delle analoghe iconografie pittoriche) – che non ci sia stato un travaso di suggestioni: una sorta di interpretatio christiana del tema profano della bella principessa deposta nella bara trasparente, riletto sulla base di una forte e persistente tradizione religiosa; ma è da ricordare che a sua volta, peraltro, l’iconografia della lamentazione su Cristo morto parte come noto da suggestioni classiche, dunque ‘pagane’, quale la lamentazione sul corpo morto di Meleagro ed altri illustri exempla pagani. Non è un caso, credo, che, al posto del "lungo tempo" passato da Biancaneve nella sua teca secondo i Grimm, in altre versioni la morte sospesa e compianta duri tre giorni e tre notti; il numero fatidico e simbolico si ritrova comunque anche nel testo dei due fratelli tedeschi, pur se riferito non già all’intervallo tra la ‘morte’ e la ‘resurrezione’, bensì a quello tra la ‘morte’ e la collocazione nella teca da parte dei nani.

È ben noto che la più grande invenzione di Disney e del suo staff, per il film uscito nel 1937, ma concepito concretamente dal 1934, e ‘cristallizzato nella mente’ del cineasta già l’anno precedente, fu la voluta, insistita e accurata scelta di differenziazione dei nani rispetto alle due versioni dei Grimm e alle riprese, scritte e non solo, che erano state nel frattempo realizzate. Al ‘primo nano’, al ‘secondo nano’, e a tutti gli altri in numero indefinito o variabile, si sostituiscono Pisolo (Sleepy), Eolo (Sneezy), Dotto (Doc), Cucciolo (Dopey), Mammolo (Bashful), Gongolo (Happy) e Brontolo (Grumpy: indico qui sia le versioni originali, sia le italiane, ormai storicizzate, dei singoli nomi) [fig. 23]; non è chi non veda che questa fu una scelta sostanzialmente di marketing commerciale (i nani differenziati si memorizzano, ci si affeziona a uno piuttosto che a un altro, vivono quasi di vita propria: tanto che alcuni hanno anche brevi spin off autonomi), e tutte le storie dell’elaborazione e della produzione del film mettono questo in chiara evidenza.

(fig. 23) Dai disegni dell’archivio Disney (versione aggiornata): Dotto, Eolo, Brontolo.

Disney stesso, poi, fa un riferimento a un altro dato di qualche rilevanza nella tradizione storico artistica: ancora per andare incontro a un target, evidentemente, sensibile a questi temi decide – ed è una scelta consapevole e forte – che la foresta sarebbe stata una decisa e naturale opportunità di mostrare grande varietà di attraenti "little animals and birds", come quelli che erano già stati esibiti nei cortometraggi disneyani precedenti [figg. 24-25]. Non può non venire alla memoria il gusto tardogotico per l’aneddoto animalistico, l’inserimento nei dipinti e nelle altre opere di Giovannino de’ Grassi, Michelino, Pisanello o Stefano da Verona [figg. 26-27]; "Cosa potrò dire degli uccelli vivi, o dei fiumi che scorrono […]. La rana vivace gracida presso il rivo fangoso. Raffiguri i cinghiali che vagano nelle valli, e sui monti gli orsi. Circondi le chiare sorgenti di sponde delicate, e l’erba verdeggia assieme ai fiori odorosi": l’ekphrasis di Tito Vespasiano Strozzi su Pisanello potrebbe adattarsi perfettamente alla scelta di ambientazione disneyana, e corrisponde a un gusto aneddotico e naturalistico – per cui gli occhi dello spettatore si dilettano delle varie raffigurazioni della Natura, in tutti i tempi – né differente nei modi né, credo, negli scopi del film del 1937.

(figg. 24-25) Stills da Biancaneve e i sette nani, di D. Hand, prodotto da W. Disney, 1937.

(da sin. a des.: fig. 26) Pisanello, Tre uccelli, disegno a inchiostro acquerellato e con rialzi di biacca, Parigi, Louvre, Département des arts graphiques, n. 2476, 1435-45; (fig. 27) Pisanello, Visione di Sant’Eustachio, tempera su tavola (particolare), Londra, National Gallery, 1440 ca.

Ben noto è l’elogio entusiasta, quanto retorico, della terracotta da parte di Guarino in una delle sue epistole: "Subine satiari delectatione non possum com imagunculas inspecto et vivas in argilla facies: quid in eis pro parentis naturae imitatione non expressum est? ungues, digiti, molles e terra capilli visentem fallunt. Cum oris hiatum inspicio, emanaturam vocem stultus expecto; pendentes puellos dum cerno, terreos esse immemor, ne proni cadant et corpuscula casus laedat reformido" (Baxandall 1994, 202-203).

Nella celebre lettera di Giangaleazzo Visconti a Ludovico Gonzaga del settembre 1380 si richiedono artisti “qui sciant bene facere figuras et animalia”, e ancora nella descrizione del Breventano del castello di Pavia, importante per cercare di ricostruire gli affreschi perduti, troviamo un’elencazione di specie che non sfigurerebbe nello storyboard della versione disneyana di Biancaneve (certo, i cinghiali o le tigri, i levrieri e i leoni danno spazio a coniglietti, cerbiatti e uccellini: ma questo è un altro discorso).

Non credo sia così assurdo ricordare che dietro la volontà di dare un’individualità al singolo nano, di calarlo in una veste identificabile e prototipica si cela pure la volontà di costituire un’umanità ideale, fatta di tipi, nel senso di prototipi, di incarnazioni di vizi, stati d’animo e virtù: l’ira, la giovialità, l’ingenuità fanciullesca, il sonno. In questo senso i nani si apparentano, e certo non lo scopro qui io, alle grandi figure della commedia antica, o, anche su base numerica, alle allegorie tardoantiche e poi medievali: sette sono i Vizi e le Virtù del testo fondante in questo senso, la Psycomachia di Prudenzio, una delle basi teoriche che più influenzano le rappresentazioni, quelle letterarie successive e quelle artistiche, della lotta tra i vizi e le virtù, e una delle prime sistematizzazioni numeriche e tipologiche di entrambi i gruppi (non la cita, ma rimanda comunque "ai concetti morali del Medioevo europeo e ai sette peccati capitali": Allan 2006, p. 142); e accorpano talvolta più caratteristiche – Brontolo, per dire, incarna in questo senso l’Ira, ma assume in sé pure alcuni tratti dell’Avarizia. Allo stesso tempo, dunque, questa 'tipizzazione' tende ad assumere i tratti di adesione a un parametro iconografico, fatto di specificità somatiche, di posture, di attitudini (l’indurimento nervoso dei tratti di Brontolo, la grassezza e gli occhiali di Dotto, l’ermafroditismo adolescenziale di Cucciolo); e corrisponde a semplici, ancestrali Pathosformeln, immagini appunto archetipiche che si sedimentano nelle abitudini visive, e, come teorizzò Aby Warburg, si sovrappongono, scompaiono e riemergono – un fiume carsico – nelle diverse fasi della storia culturale umana; canalizzano un dato espressivo originario e forte in una formulazione iterata e dunque repertoriale. Non è quindi un caso che nel 1939, in un’Italia ormai fascista, Francesco Pedrocchi (assieme a Nino Pagot) danno vita a una pubblicazione che oppone i sette nani cattivi – che addirittura rapiscono il povero Cucciolo – a quelli buoni: Furbicchio (furbo ma cattivo), Sibilo e Mastino (che rimandano al serpente, animale totemico della malvagità, e al cane ‘cattivo’), Maligno, Ricino e Spinaccio (con allusione a due alimenti odiati dai bambini) e Cipiglio danno vita a un contest prototipico, davvero da psycomachia, ripreso poi varie volte [fig. 28].

(fig. 28) Carlos Edgard Herrero, I sette nani cattivi, 1976.

Nato a Buenos Aires nel 1907, Pedrocchi si trasferisce poi in Italia e inizia una carriera che lo porta nel 1935 a sceneggiare la sua prima storia; due anni dopo ottiene l’autorizzazione a scrivere e a disegnare storie con personaggi disneyani, creando il giornale Paperino e altre avventure, edito da Mondadori; ma è assai improbabile che i nani malvagi fossero accettati, se noti in dettaglio, dalla casa americana, non corrispondendo in nulla alla sua policy del tempo. Pedrocchi morirà tragicamente durante il secondo conflitto mondiale, e si caratterizza per un approccio quasi fantascientifico, o comunque fantasy, e per la definizione di personaggi inusuali, caratterizzati in senso magico, misterioso, o dark, comunque inquietanti e appunto spesso malvagi.

Le Pathosformeln dello studioso amburghese sono i mezzi con cui le differenti epoche (e pure i diversi ‘stili’) tramandano realtà primordiali; la facies che esprime una condizione originaria si sedimenta nei tempi e riappare appunto al riemergere di un bisogno di espressione in cui l’aspetto esterno e il significato non possono non coincidere, anche per tramando non consapevole, se non sono invece imposte, quasi, da una risorgenza voluta – un Nachleben – quale (per molti temi come quello basilare della ninfa ingrediente, di cui la nostra Maddalena dei compianti è gemella) quella rinascimentale. Che Disney conoscesse direttamente le teorie di Warburg è ovviamente assai improbabile, che alcuni dei tanti suoi collaboratori per Biancaneve (e non solo, ovviamente), di origine europea, avesse sentore delle istanze culturali che, da Freud in poi, dall’inizio del Novecento, avevano permeato la cultura del Vecchio Continente, data la loro preparazione, la loro educazione e il loro status, non è poi così assurdo; in forme più consapevoli o come appartenenti a un dato milieu culturale, non è dato sapere. Certo è che una sorta di prova generale del film, per la tipologia della figura della fanciulla – un’eroina attraente e femminile, e non troppo distaccata – oltre che per la location naturalistica, era stato il cartoon della serie Silly Symphony del 1934 intitolato The Goddess of Spring, in cui il tema guida era il mito della primavera incarnato da Persefone.

(fig. 29) PetriPaselli, Schema per il Compianto di Biancaneve, 2012.

Di certo, nelle riprese successive di Biancaneve, fino alle versioni quasi trash di certi fumettistici libri per bambini, si assiste a una dicotomia assai forte, che in pochi casi conosciamo nella storia della tradizione iconografica: i nani o sono pressoché uguali tra loro, scelta anonimizzante che deriva, confusa o cosciente, da una lettura filologica delle fonti; o, se differenziati, seguono da vicino (o clonano) i tratti di quelli disneyani. Ciò vale tutto sommato fino a tempi recentissimi, in cui per esempio nelle riprese filmiche del tema si assiste invece a scelte del tutto – e volutamente – differenti, se non antitetiche. La tradizione visiva procede allora in alcuni casi per accettazione di standard, e di conseguenza per eliminazione di variabili, appunto facendo ricorso a topografie cronologicamente trasversali: la forza primordiale di un’evocazione viene attivata da confronti, ricorsi e accostamenti. Se "toute forme precise est un assassinat des autres versions", come dice Georges Bataille, vi è un "processo di generazione delle forme, in ragione del quale tutta una miriade di altre possibilità vengono eliminate, scartate come rifiuti inessenziali perché si possa giungere alla compiutezza finale. Le altre forme […] sopravvivono tuttavia alla loro stessa morte come […] fantasmi della bella forma, ne costituiscono in un certo modo il residuo immaginario o perturbante" (Violi 2004). Perturbante, appunto il freudiano Unheimlich – di cui ripercorre qui la storia Elena Pirazzoli – del progetto per il quale PetriPaselli hanno riproposto il loro Compianto, in cui la tradizione viene scissa, con la resecazione di un frammento dal suo contesto di appartenenza. Il pattern viene scompaginato – appunto – non reinventando e trasformando [fig. 29], ma alterando il rapporto insieme/frammento, e accumulando in una nuova pagina dell’Atlante della memoria di Mnemosyne tutte le versioni diverse del compianto dei nani, tutte le possibili varianti, quelle vincenti e quelle minoritarie; e anche, in potenza, quelle mai esistite, e quelle che verranno, a costituire con l’accostamento delle forme una vera tavola warburghiana della lamentazione (come nei loro archivi i due artisti hanno effettivamente realizzato). Ma perturbante è termine chiamato in causa da Didi-Huberman, tramite Sartre (Didi-Huberman 2011, 9-10, 14-16, 25-30 soprattutto), a proposito della ceroplastica, che produce non tanto una semplice copia della persona, quanto un suo doppio, inquietante e talvolta sinistro (quella appunto che associamo a situazioni da madame Tussaud). Siamo, in questo intreccio – forse troppo personale e confuso – tra Warburg, Freud e von Schlosser, nei primi decenni del XX secolo: lontani dalle abitudini visive dei giorni nostri. Oggi, una semplice ricerca di immagini su Google, o su qualsiasi motore di ricerca, prevede un doppio binario [fig. 30]. Uno letterale, dove è l’accostamento tra elemento visivo e parola/e (dunque, almeno in teoria, significato, o comunque con nesso logico e di tipo contenutistico) a determinare l’elencazione degli esempi; l’altro, che prevede il caricamento di un’altra immagine di confronto, il cui risultato invece si basa su accostamenti di forme, di posture, di parallelismi di linee, privi di un nesso logico che non sia basato sulla pura visività, cosa che talvolta fa arrabbiare l’utente ma spesso apre mente e anima a raffronti sorprendenti.

(fig. 30) Pagina dei risultati della ricerca google su ‘Compianto’.

Senza arrampicarsi sugli specchi, che gli artisti delle Disney fossero ben consapevoli di una serie di riferimenti alti è ben noto da testimonianze sicure, ed emergerebbe comunque da confronti formali. Il problema più forte per Biancaneve era la discrasia tra le formule caricaturali mainstream dei cartoni animati in quel periodo – somatiche, ma anche di postura e di attitudine psicologica – e la volontà di rappresentare una bella e giovane donna; quello che andava benissimo per i nani non poteva andare bene per la principessa: ancora una volta, come è norma nel Medioevo, i tratti grotteschi, esagerati o deformati sono propri delle figure plebee, o comunque – non in senso letterale – ‘basse’. L’animatore di quasi tutte le scene in cui compare Biancaneve (esiste infatti una suddivisione complessa, un intreccio di mani, nell’impresa globale) si chiama – mai così nomen omen – Grim Natwick; egli afferma "ho dovuto ricorrere a tutta la mia formazione artistica per Biancaneve […], esigeva uno stile del disegno quasi accademico, cosa che creava dei problemi. Il pubblico abituato ai topolini e ai gatti, ai coniglietti e ai polli, si ritrovava davanti a un personaggio molto realistico – in effetti era più un personaggio da libro di racconti che non un personaggio animato" (Solomon 2006, 92). Una delle critiche che emersero all’uscita del film fu quella che, nel rendere così realistici Biancaneve e il principe, gli artisti Disney avevano girato le spalle all’idea stessa dell’animazione per cercare di produrre una pallida copia della realtà. Emergono anche qui, insomma, i temi discussi sopra: l’alterità tra ‘arte’ e ‘natura’, il grado di assimilazione a un’idea mimetica della raffigurazione, e non solo. Non senza sorpresa, rispetto a quanto detto sui calchi e i mezzi di riproduzione meccanica, si può leggere la testimonianza del celeberrimo Don Graham, disegnatore, docente di disegno, e formatore di molti degli artisti al lavoro per Disney presso la Chuinard Art School. Il rotoscopio era un apparecchio grazie al quale delle riprese filmate dal vivo, con attori, venivano rese visibili immagine per immagine su un tavolo luminoso, e potevano quindi costituire un exemplum da ricalcare (o adattare), soprattutto ai fini dell’ottenimento di un realismo nel movimento; alcune scene del film, pur con l’opposizione di Natwick, furono realizzate grazie a questo sussidio. Graham affermò nel luglio 1937, subito dopo l’uscita sugli schermi, che la vera ‘caricatura’, quella caratterizzata dei disegni animati, veniva di fatto impedita dal rotoscopio.

L’animazione è basata sulla caricatura perché è basata su un buon disegno, e un buon disegno è basato sulla caricatura. Da cui questa situazione anomala: da una parte c’è l’animazione, che è una caricatura animata, dall’altra il rotoscopio, che rispetto alla caricatura è solo una menzogna […] il rotoscopio è un ausilio, una sorta di stampella e […] la sua ragione d’essere è che i disegnatori degli studios sono mediocri. Nel momento in cui un sussidio qualsiasi viene introdotto nella creazione, a partire da quando un artista pensa che esista un mezzo meccanico cui delegare il proprio lavoro, la creazione si degrada, o meglio è l’artista che si degrada, perché non esiste alcun mezzo possibile che possa imitare la caricatura. La caricatura deve essere l’espressione di un artista. Non può essere realizzata meccanicamente (Solomon 2006, 96).

Anche qui, dunque, l’elogio della mano. Poi è ovvio che il realismo meccanicistico viene evitato, ma tra i due personaggi ‘alti’ (e la Regina malvagia) e i nani corre un abisso stilistico.

Mi pare molto interessante, per lo storico dell’arte, il fatto che esista una suddivisione incrociata per personaggi del disegno animato; non solo quindi le differenti professionalità (sceneggiatori, disegnatori, e altro) si intersecano, ma c’è una tendenza a occuparsi di un tema in senso trasversale rispetto a quello che è lo svolgimento sequenziale dell’opera. C’è qualche analogia col riscontro di una plurivocità esecutiva nella pittura e nella miniatura, in cui, specie nel Medioevo, esiste come noto sia una compartecipazione per livello di responsabilità (l’artista che cura la inventio non è necessariamente – anzi, quasi mai – autore di tutto il manufatto, grazie agli aiuti e collaboratori che intervengono nella stesura, sia una divisione per aree (i riquadri di un ciclo, ma anche le ambientazioni architettoniche o i paesaggi, distinti dalla figure), in un reticolo molto complesso. Allo stesso modo, il riconoscimento che esista uno specificità iconografica che porta a un determinato trattamento stilistico – i nani non sono Biancaneve – può essere traslato in senso temporale alle convenzioni visive, per cui la Madonna, o il Cristo crocefisso, non è il donatore, o il personaggio plebeo.

(fig. 31) Still da Metropolis, di F. Lang, 1927.

I riferimenti colti recuperati per i disegnatori Disney abbondano: da Beatrix Potter ai maggiori Preraffaelliti, ai grandi artisti grafici del XIX e primissimo XX secolo (Tenniel piuttosto che Rackham); ma i motivi effettistici dark – come per esempio l’ingrandimento esorbitante dell’ombra portata – vengono per esempio dal mondo di quel cinema espressionista tedesco (milieu in cui agiscono i grandi personaggi della storia culturale di primo Novecento prima citati, e presso cui si forma per esempio, nel suo primo soggiorno berlinese, lo stesso Francis Bacon) che offre anche iconografie esemplari: proprio la teca di cristallo di Biancaneve è stata giustamente rapportata alla scena in cui Maria è sdraiata sul tavolo del dottor Rotwang in Metropolis, quasi immediato precedente del disegno animato disneyano, del 1927 [fig. 31].

Non si va quindi molto indietro nel tempo, né si chiama in causa la scultura; tranne un’eccezione. È stato infatti accertato che dietro la figura della perfida Regina vi è uno dei capolavori della scultura medievale: la statua colonna che raffigura Uta, moglie del conte Ekkehard margravio di Meissen, nel coro della cattedrale di Naumburg [figg. 32-33]; questa e altre immagini dello stesso Duomo tedesco, e alcuni esempi francesi del medesimo periodo tra 1220 e 1260, con analoga tipizzazione spinta, avevano goduto nel periodo tra fine XIX e inizio XX secolo, grazie soprattutto alla nascita e alla progressiva affermazione della riproduzione fotografica, di straordinaria notorietà proprio per la (relativamente) forte, e comunque inedita, caratterizzazione: l’impassibile imperturbabilità della statuaria precedente, inespressiva nel portale dei Re di Chartres, si apre a nuovi confini, come nel caso celeberrimo dell’Ange au sourire [fig. 34]; non è un caso che queste sculture siano anche i protagonisti di altre divulgazioni ‘basse’ come cartoline o francobolli.

(da sin. a des.: fig. 32) Scultore gotico tedesco, Uta von Naumburg, statua in pietra, Naumburg, Duomo, 1250-60; (fig. 33) Dai disegni dell’archivio Disney (versione aggiornata): la Regina Malvagia.

(fig. 34) Scultore gotico francese, Angelo ("Ange au sourire"), Reims, Cattedrale, 1236-45.

Volendo – e dovendo – tirare le somme del percorso che qui si è proposto, il dato che emerge è a mio parere duplice. Da una parte, la manifestazione, sia personale che collettiva, del dolore, di fronte alla fruizione visiva di ciò che la provoca, segue modelli compositivi e posturali che, al di là dei tempi e dei livelli formali, sfruttano modelli comuni, agganciati evidentemente a un tramando psicologico sovratemporale; d’altra parte, la funzione di questi oggetti artistici è simile, tesa alla compartecipazione dell’osservatore che si mischia ai protagonisti dell’opera che vede (e nello specifico questo vale nell’immedesimazione che pervade gli spettatori del film di Disney come i pellegrini che potevano davvero entrare dentro il gruppo delle figure di terracotta). Dall’altra, la policy culturalmente consapevole e avveduta della factory disneyana può come detto lasciare il dubbio che ci sia un recupero voluto di determinate, e così lontane, opere d’arte, senza che questo, ovviamente, possa essere al momento dimostrato.

III

(fig. 35) Ercole de Roberti, Maddalena (frammento della Cappella Garganelli), Bologna, Pinacoteca Nazionale, 1480 ca.

Ninfa ingrediente terribile, la Maddalena: con le vesti scomposte, la bocca aperta in un urlo muto e lacerante denuncia la tragedia avvenuta, e di cui è testimone [fig. 35]; composti (ma in alcune versioni anche loro organizzati a suggerire un moto cinetico), i nani invece si chiudono spesso come detto a protezione del loro tesoro, dell’unica teca della loro piccola Wünderkammer – se si può così definire – open air, in cui l’unico oggetto prezioso è lei. La proteggono, la contemplano, la offrono all'ammirazione; aspettano che avvenga qualcosa. Un principe la vedrà, se ne innamorerà, la vorrà trasportare nel suo castello dentro la teca, ma un servo sbadato che sorregge la bara inciamperà, e la mela avvelenata uscirà dal corpo di Biancaneve, che ne sarà miracolosamente risanata: secondo i Grimm (e altre versioni). Un principe già conosciuto prima la cercherà, la troverà, chiederà ai nani il permesso di baciarla, e con questo bacio la riporterà in vita: secondo Disney (e altre versioni). Ancora un caso di tradizione vincente e di assassinii di versioni perdenti, che interessa peraltro altre fasi della favola, come ben sanno gli studiosi di questa tradizione (ma considerazioni ben più pertinenti sul testo, o meglio sui testi, dei due fratelli avanza in questo stesso numero di Engramma Elena Pirazzoli).

(sin., fig. 36) Still da Biancaneve e i sette nani, di D. Hand, prodotto da W. Disney, 1937; (des., fig. 37) Guido Mazzoni, Maria Salomè, dal Compianto di Busseto, statua in terracotta, Busseto, Santa Maria degli Angeli, 1476-77.

(sin., fig. 38) Still da Biancaneve e i sette nani, di D. Hand, prodotto da W. Disney, 1937; (des., fig. 39) Scultore khmer, Apsara, Angkor, Angkor Wat, 1140-50.

(figg. 40-41) Claus Sluter, Angeli, dal Puits de Moïse, statue in pietra, Digione, ex Certosa di Champmol, 1396-1406 (arricchimento cromatico di Jean Malwel)

I nani possono terminare la loro veglia funebre, lei è risorta, e si asciugano le loro lacrime, quelle che diventano perle perfette, gocce di vetro sulle guance della Maddalena di Ercole degli affreschi Garganelli sopra citati, misura perfetta dei valori della pittura del Rinascimento – luce, geometria, mimesi – in un tragico fermo immagine che, come tutti sanno, finisce [figg. 36-37]. Deve finire. La storia interrotta da PetriPaselli fa sì invece che il principe diventerà un uomo maturo, poi anziano, poi vecchio, fonderà stati, conquisterà regni, attraverserà continenti, visiterà come Alessandro terre lontane e sconosciute – temi per livres de merveille – ma non inizierà una dinastia, non avrà una stirpe. Rimarrà fedele all’immagine della sua amata che non ha potuto risvegliare, Apsara in technicolor che pareva danzare (uno degli animatori disneyani, Ham Luske, aveva peraltro filmato numerose sequenze con la ballerina Marge Belcher, da cui tentare di ricalcare le movenze della principessa, nonostante le differenze di proporzione: cfr. Solomon 2006, 92); danzava sempre, anche quando camminava nei boschi, o preparava le cena ai suoi piccoli amici [figg. 38-39]. I nani rimarranno bloccati nel loro dolore, eternamente fermi come statue, come gli angeli con la mano appoggiata alle guance in segno di dolore del Puits de Moïse [figg. 40-41], chiusi nei loro mantelli come i dolenti in fila nella tomba di Filippo l’Ardito [figg. 42-43]. Biancaneve aspetterà qualcuno che non arriverà più.

Il bimbo che non piange davanti al compianto su Biancaneve morta è quello che conosce come va a finire la storia.

(sin., fig. 42) Claus de Werve su modello di Sluter, Pleurant, dalla Tomba di Filippo l’Ardito, statua in marmo, Digione, Musée des Beaux-Arts, 1404-10; (des., fig. 43) Brontolo, giocattolo di plastica.

* Ho già pubblicato in forma parziale questo studio in Lollini 2007 e in Lollini 2013. Rispetto a queste versioni precedenti, tengo a correggere o a integrare alcuni punti, che preciso subito qui in nota. Avevo esposto in maniera poco chiara la questione dei fatidici ‘tre giorni e tre notti’ dopo la morte di Biancaneve (che qui riprendo, spero, più chiaramente: cfr. più avanti). Avevo dato una collocazione scorretta dei calchi in cemento realizzati da PetriPaselli nel 2013. L’uso della cera, o del gesso, per replicare meccanicamente il volto dei morti non è in senso stretto alla base dei referti sulla inventio mitica della scultura, come avevo detto lasciandomi portare dalla suggestione, anche se molti dei passaggi fondamentali delle sue vicende sono legate strettamente a questa tecnica, alcuni autori antichi ne parlano in modo davvero leggendario, e anche i dati archeologici ne lasciano intravvedere un uso precocissimo e molto autorevole. Non è questa ovviamente la sede per riportare, o riassumere, la bibliografia sulle innumerevoli letture di Biancaneve e in generale sui valori e le valenze della fiaba, dai classici del metodo strutturalista a Propp, da Aarne e Thompson alla corrente inglese e americana folklorico-popolare, da Eliade a Bettelheim, fino a Calabrese 1997 (mi piace ricordare comunque Girardot 1977). Soprattutto non ne ho la competenza: come dico in apertura, parto peraltro da una suggestione personale e non da una seria storia critica; questo è pure il motivo per cui, a parte le indicazioni specificamente storico-artistiche, che vorrebbero essere complete, negli altri ambiti (filosofico, letterario, storico, filmico) i testi citati sono solo quelli che mi sono direttamente serviti nell’elaborazione di questo pezzo, e non detengono la minima pretesa di esaustività – ciascuno, anzi, troverà probabilmente agganci con le proprie sfere di interesse, o almeno questo è ciò che auspico. Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato nella stesura di questo intervento, in varie forme: in primis, è ovvio, Luciano Paselli e Matteo Petri; poi, con indicazioni e suggerimenti, Mario Armellini, Andrea Bacchi, Marco Beghelli, Lorenzo Bianconi, Monica Centanni, Paolo Cova, Michele Danieli, Simonetta Nicolini, Elena Pirazzoli, Andrea Plazzi, Francesca Tancini, e Chiara Tartarini.

English abstract

The work starts from a suggestion: the several correspondences one can notice between some examples of terracotta north-Italian 15th-century Compianti and the mourning on Snow White, in Walt Disney’s movie version. This initial idea is made more objective by reconstructing the visual sources behind the production of the film, on one side, and pointing out the motivations this two situations have in common as for viewer involvement, and expression of grief. In part I, I introduce some recent works of a couple of young contemporary artists, PetriPaselli, who worked exactly on this topic – relationships between Lamentations and Snow White and the seven dwarfs – in an installation and in an artist’s book; from their activity many of my thoughts have derived. In part II I examine some of the specific features of Niccolò dell’Arca’s Compianto su Cristo morto, and of some other sculptures of the same milieu: that is, in detail, their material and its stylistic value, the topoi of classical tradition they share, the choices in postures and in the global composition in relation to the expression of pain; some of these elements, in fact, can be seen in the different versions of the lamentation of the dwarfs on the beautiful ‘dead’ princess, most of all in Disney’s one, whose conscious derivations from ‘high tradition’ of artistic history have already been noticed. The end, part III, is only a theatrical way to restate these correspondences and parallels.

 

keywords | Seven Dwarfs; Disney; Compianti; Snow White; Niccolò dell’Arca; 15th-century; Pop culture.

Nota bibliografica

Per una rassegna completa dei lavori di PetriPaselli, e per una biografia, entrambe in costante aggiornamento, oltre che sui progetti, le mostre e i testi critici relativi alla coppia, cfr. il loro sito www.PetriPaselli.com, dove si trovano anche (nella sezione Testi critici) gli studi che sono stati loro dedicati, inclusi quelli usciti a stampa.

Sulle ricollocazioni del gruppo, rimane decisivo Fanti 1989, 59-68. Sulle disposizioni delle figure Fanti 1989, 69-72; e soprattutto lo splendido Ferretti 1989, 86-94.

Sulla terracotta e le sue caratteristiche mi riferisco ovviamente al fondante Lugli 1990.

Per la scultura in cera, rimangono sempre attuali le pagine di von Schlosser 2011, 73-100, richiamate da Lugli 1990, 42-43, con esempi italiani rinascimentali. Che siano chiamati in causa artisti come Niccolò Baroncelli, Jean Fouquet o François Clouet dimostra come queste pratiche non venivano però considerate meri tecnicismi senza qualità formale (si veda più avanti per la ‘mano dell’artista’).

Il ritratto funebre di Rossini, nella copia di Bologna, reca la dedica "A Monsieur Liverani | Hommage affectueux | Nov. 68. G. Doré"; assieme ad oggetti appartenuti al compositore (ricevuti anche quando Rossini era ancora in vita), e ad alcune lettere, fu donato alla Biblioteca del Liceo Musicale dallo strumentista. Sul ritratto funebre di Rossini, cfr. Bruscaglia 1989; Cagli 1992, 321; Rossini 1792-1992 1992, nn. 97-100, 396; Rossini à Paris 1992, 172, schede nn. 278-279; Viaggio a Rossini 1992, 14, n. 1.8, 21; Degli Esposti 2002; Museo internazionale 2004, 151.

Sul rapporto tra Niccolò e Sluter, cfr. Gnudi 1942, 13-17. La conoscenza dell’arte della Borgogna, qualunque siano le ipotesi sulla formazione e la prima carriera dell’artista, sul catalogo di Niccolò in generale mi pare del tutto imprescindibile, anche se lo studioso partiva dal preconcetto di un percorso cronologico opposto a quello oggi accettato (dall’Arca al Compianto e non dal Compianto all’Arca).

Per la tappa ferrarese di Niccolò, cfr. Ferretti 1991, 375 (cfr. però il più recente Ferretti 2007a, 138); per l’ipotesi abruzzese, Ambrogi 2007, con citazioni di G. Gentilini, 29 e tavv. 48-53. Su Niccolò, nella sterminata bibliografia, si può qui partire in ordine cronologico – dopo gli eruditi locali bolognesi di fine Ottocento e inizio Novecento, Bode, von Fabriczy, e soprattutto Supino – da Gnudi 1942, con tutta la bibliografia precedente; poi, Beck 1965; Gnudi 1973; Weil-Garris 1982; Gramaccini 1983; Niccolò dell’Arca 1985, 225-362; Bacchi 1986; Grandi 1989; Fanti 1989; Ferretti 1989; Ciammitti 1989; Verdon 1989; Gentile 1989; Matteucci 1995; Il Compianto 1996; Klebanoff 1999; Sicari 2000; Cieri Via 2003; Belli d'Elia 2004; Beck 2004; Reale 2008; Geddes 2008; Corrain 2008; Sgarbi 2009; e Il Compianto 2012. Testi differenti, più filologici, iconografici, o di storia e definizione delle strategie percettive. Alla stessa bibliografia rimando per la Madonna di piazza, l’intervento nell’arca, e i busti di San Domenico. Uno dei capolavori assoluti della scultura rinascimentale a Bologna, la lastra tombale di Domenico Garganelli già nella cappella citata qui nel testo e ora al Museo Medievale della città, viene solitamente riferita a Francesco del Cossa, che iniziò a dipingere il sacello, poi terminato come detto da Ercole de Roberti; ma è ora dubitativamente spostata a Niccolò da Bacchi 2012. 

Sulla ottava figura, le posizioni critiche e le deduzioni iconografiche da cui non si può prescindere si trovano in Fanti 1989, 72-75; e in Ferretti 1989, 88-90.

Per l’affascinante questione degli strumenti visivi per l’assistenza dei condannati a morte, in relazione all’attività di confraternite che si dedicavano a questa attività, cfr. Ferretti 2007b (è da notare, nonostante le totali alterità iconografiche con la produzione mortuaria, che anche questa produzione pittorica veniva spesso considerata dalla critica di tipo ‘basso’, comunque non valorizzatrice della qualità artistica); ne esiste un’edizione in inglese: Ferretti 2008.

Sulla questione della mano dell’artista in rapporto al mezzo tecnico dell’argilla modellata e cotta, cfr. Lugli 1990, 18-19, 25-27 e 31-50 soprattutto, in cui la dualità arte vs natura è esaminata nel migliore dei modi possibili, citando fra gli altri Ernst Kriss e la distinzione tra ‘opera dell’arte’ e ‘parto della natura’. Per il cosiddetto eccesso di somiglianza, Janson 1982, di cui Didi-Huberman 2011, 12. La bassa considerazione dell'arte ‘realistica’ è affrontata nel campo analogo della cera da von Schlosser 2011, 160-190, dove troviamo appunto il paragone con un altro medium di cui si è negata l’artisticità sulla base della sua ‘oggettività’ e della sua ‘meccanicità’: la fotografia.

Per il nesso tra Niccolò e sacre rappresentazioni cfr. Ferretti 1989, 88, Verdon 1989 e Gentile 1989; Baxandall 1978, 73-81 è in genere il testo di riferimento generale per i rapporti tra arti visive e teatro. 

Pubblicai l’angelo rimosso dal gruppo di Lombardi, quando ancora stava in uno sgabuzzino, in Lollini 1993. Nell’attuale assenza di una monografia successiva a quella ormai superata di Gramaccini 1980, sulle opere bolognesi dello scultore si veda Zanotti 1995; Sinigalliesi 1995; L’Ercole 1998; Faranda 1999; Giannotti 1993/2000; Caprara 2002; Giordano 2003; Alfonso Lombardi 2007. Piacerebbe, soprattutto, fosse più noto e accessibile lo strepitoso San Bartolomeo, enorme terracotta appunto velata di bianco, dell’oratorio superiore di San Bartolomeo di Reno, quella chiesa che i bolognesi chiamano Madonna della Pioggia.

Per l’interpretatio christiana, Gramaccini 1996; Inglebert 2001; Seznec 2008; e soprattutto Panofksy 2009.

Sui nani Disney, tutte le informazioni nel sito ufficiale disney.wikia.com. Per i credits completi del film, e le testimonianze dell’epoca, inclusi i pensieri di Disney, rimando solo alla scheda dettagliatissima dell’AFI - Catalog of feature films; cfr. Allan 1999, 37.

Sul gusto ecfrastico, e le descrizioni di Pisanello (inclusa quella di Strozzi), si cfr. le classiche pagine di Baxandall 1994, 127-139, 200-202, 205-206; la lettera del Visconti fu pubblicata la prima volta in Maiocchi 1905, 5, n. 14, poi spesso ripresa.

Per i nomi e le ricorrenze dei nani cattivi, e per qualche loro immagine, si veda sulla risorsa on-line di riferimento per questi temi, Inducks, alla pagina I Sette Nani cattivi contro i Sette Nani buoni (con molti link); altre notizie si trovano alla voce Federico Pedrocchi sul motore di ricerca degli autori italiani di comics www.papersera.net (S. Zaccaro e P. Castagno). 

Per un inquadramento biografico di alcuni artisti Disney, cfr. Lambert 2006, e Girveau 2006a, 38 (dove ricorda gli emigranti europei della casa – Hurter svizzero, Tenggren svedese, Nielsen danese, Horvath ungherese, e altri) e 22 (per una serie di riferimenti stilistici – Rackham, Doré, Daumier, Rabier, Richter, Mussino); le fonti visive ‘alte’ sono esaminate in Allan 2006, 136-146. Sul riciclaggio del mito di Persefone, cfr. Solomon 2006, 91-92.

Per il confronto tra Metropolis e la Biancaneve disneyana, cfr. ora Girveau 2006b, 192-193.

Sulla statua di Uta, le altre immagini del coro del Duomo di Naumburg, e l’ambiente (fisico e culturale) per il quale vennero realizzate, conviene rimandare all’amplissima bibliografia riportata ad vocem "Naumburger Dom" nell’opac del Kunsthistorisches Institut di Firenze: mi piace comunque citare qui Ullrich 1998. Per il nesso con la regina crudele, cfr. Girveau 2006b, 200-203, con riferimento ad Allan 1999, 55. In questo studio fondamentale si ritrovano molti spunti qui già citati nel testo e nelle note ripresi dagli studi successivi, e altri ancora, in relazione allo sviluppo delle idee sul lungometraggio animato (come noto, il primo di Disney): i rapporti con l’illustrazione inglese e tedesca del periodo tra metà XIX secolo e primi decenni del XX, e col gusto revivalistico neomedievale dai Preraffaelliti ai Nazareni, al gusto troubadour; le tangenze col cinema di Murnau e Lang (ma anche della Riefenstahl); le analogie, e le dirette derivazioni, dalle illustrazioni dantesche di Doré; la conoscenza di Giovanni Battista Piranesi; la statua colonna di Naumburg, peraltro, viene inserita solo molto tangenzialmente, come suggestione (pp. 35-65) – ma la storia del passaggio dalla Turingia a Hollywood è ripercorsa in dettaglio da Poggi 2007. Sull’angelo di Reims e sul suo mito vedi ora Harlaut 2008.

Per Sluter, e nello specifico sulle opere di Champmol, tra l’amplissima bibliografia cfr. negli ultimi tempi (con storia critica pregressa) Claus Sluter 1990; Morand 1991; Actes des Journées 1992; Prochno 2002; Piccinini 2004; Nash 2005, 2006, 2008; Grandmontagne 2005; Moffitt 2005; Baron 2009; Jugie 2010; e il più compilativo ma recentissimo Claus Sluter 2013.

Riferimenti bibliografici
  • Actes des Journées 1992
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Per citare questo articolo / To cite this article: F. Lollini, I nani così sterminatamente piangenti. Biancaneve, Disney, i compianti padani del Quattrocento, “La Rivista di Engramma” n. 108, luglio/agosto 2013, pp. 10-53 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2013.108.0001