Teatro e innovazione nelle iconografie vascolari. Qualche riflessione sul Pittore di Konnakis
Ludovico Rebaudo
English Abstract
1. Di un libro recente
All’inizio del suo saggio sull’immagine dell’attore nella Grecia antica Eric Csapo prende chiaramente posizione sul problema dell’esistenza di un’iconografia teatrale in Attica nel V secolo:
In 2003, for example, Jocelyn Penny Small published a book called The Parallel Worlds of Classical Art and Text where, in constructing a vision of two solitudes that live side by side but never mix, she states categorically: “that contemporary Attic vase painters did not base their representations on ... plays”. Yet she omits mention of nearly all the material I consider important to this discussion. The book offers a kind of blunderbuss deconstruction of every possible link between the plastic [in realtà piuttosto figurative: si tratta anche e soprattutto di pittura vascolare] art and other forms of cultural expression. Its premise that art is a fully self-contained and autonomous activity has a certain appeal for classical archaeologists who teach in departments of Archaeology or Fine Arts and do not want to oblige their students to learn Greek or read ancient literature. But this is only the hard end of a vision I wish to render more supple (Csapo 2010a, 1; il passo citato è Small 2003, 52; v. anche Small 2005).
Il tono è, come si vede, piuttosto polemico. Il tentativo della Small di «demolire a colpi di archibugio» qualsiasi legame fra testo e immagine null’altro sarebbe secondo Csapo che un espediente per liberare gli studenti di archeologia dalla fatica di studiare il greco. Una spiegazione ingenerosa che assomiglia abbastanza a un pregiudizio ma che non si fatica a comprendere. Actors and Icons esprime infatti ciò che posssiamo chiamare un punto di vista logocentrico radicale (radicale al punto da attribuire a Oliver Taplin «not the least sympathy with this kind of intellectual isolationism»: per una dettagliata storia degli studi e dello sviluppo delle tendenze logocentriche e ionocentriche fra la fine del diciannovesimo secolo e il decennio scorso: Rebaudo 2012a). Csapo è assolutamente certo che le produzioni ceramiche attica e magnogreca abbiano tramandato immagini realistiche di performances sceniche e sostiene che tali immagini, almeno in parte derivate dai monumenti votivi coregici, forniscano un contributo fondamentale alla storia del teatro (su questo punto in particolare: Csapo 2010b). L’approccio dello studioso emerge con chiarezza dal commento al noto cratere attico di Berlino dell’inizio del IV secolo che rappresenta Telefo con il piccolo Oreste in ostaggio (Antikensammlung 3974: figg. 1-2), non censito da Beazley ma recentemente avvicinato da Angelika Schöne Denkinger al Pittore di Louvre F 64 (Schöne Denkinger 2009, 39-40; sul pittore: Kathariou 2002, 261-265). Telefo vi appare rifugiato su un altare, dietro il quale spunta un arbusto di alloro con due pinakes appesi ai rami: la pianta e, soprattutto, il dio seduto che osserva la scena dall’alto qualificano il luogo come un santuario di Apollo all’aperto. Agamennone con il capo cinto dalla tenia regale si precipita contro l’intruso brandendo una lancia o forse lo scettro (il coronamento è nascosto dal pinax), mentra due giovani donne con stephàne e armille, forse Clitemestra e Ifigenia, forse più semplicemente due ancelle, fuggono spaventate verso le estremità della scena (figg. 1-2).
Csapo commenta:
Euripide’s tragedy not only invented the hostage scene and turned it into the climactic moment in the story of Telephus, but it also created the visual archetype that would emblematize the play for all later antiquity. There can be no doubt that the climax of Euripide’s Telephus was staged in precisely this way [...]. The precise configuration that we find at the center of this scene – a man kneeling on an altar and threateninga baby with a sword – reappers on no less tham fifteen fourth-century West Greek pots [...] precisely because of the impact of the Euripide’s tragedy.
Si potrebbe osservare che la minaccia di Telefo è rivolta ad Agamennone più che a Oreste, che ne è semmai lo strumento, come ci mostrano altri vasi sia precedenti che posteriori, ad esempio il cratere lucano dipinto nell’officina del Pittore di Policoro oggi a Cleveland (Museum of Art 1999.1), ma la questione è un’altra. La scena che dovrebbe riprodurre fedelmente l’allestimento drammatico di Euripide è costruita interamente con tipi standard e di lungo periodo:
a) Telefo è rappresentato secondo lo schema del supplice col ginocchio puntato sull’altare, una delle Pathosformel più diffuse e polisemiche dell’arte antica, usato nella pittura vascolare attica e magnogreca anche per Oreste, Neottolemo (figg. 2-3), Priamo e Cassandra (Moret 1975, 201-205);
b) il fanciullo a braccia protese si trova pressoché identico in scene di tutt’altro soggetto come la nascita di Erittonio (lekythos Cleveland, Museum of Art 1982.142: fig. 6) o l’uccisione di Astianatte (Cratere a volute Ferrara, Museo Archeologio Nazionale 5081: fig. 4) ed è qui adattato frettolosamente alla posa di Telefo (fig. 5), che non si capisce come possa reggerlo dato che il pittore ha lasciato la mano sinistra avvolta nell’himation, un particolare tipico delle figure che si difendono in una situazione critica;
c) le due figure femminili (figg. 1-2) costituiscono una delle numerosissime varianti del il tipo della fanciulla terrorizzata, utilizzato fra l’altro per la ‘sacerdotessa in fuga’ (Moret 1975, 134-148; v. figg. 18, 20);
d) l’Apollo del registro superiore (figg. 1-2) è anch’esso l’adattamento di un tipo standard ed estremamente diffuso che tiene il ramo di alloro nella mano sinistra (l’indice è ancora alzato), mentre la destra regge la lira o la cetra.
In un contesto così tradizionale la possibilità di una correlazione immediata con la scena teatrale è remota. Se anche la versione della storia risale ad Euripide, cosa senz’altro possibile, la sua traduzione grafica è un fatto interno al repertorio della ceramografia attica, e più nel dettaglio alle abitudini di un gruppo di pittori attivi fra la fine del V e l’inizio del IV secolo, i più recenti dei quali, sicuramente già oltre la soglia del 400 a.C., Beazley ha definito Plainer Group, includendovi anche l’autore del nostro cratere (da ultimo: Mannack 2012). Per essere ancora più chiaro: credo largamente verosimile che il dramma euripideo con la sua duratura popolarità abbia influenzato l’immaginario mitico degli ateniesi e di conseguenza la tradizione figurativa, ma altra cosa è ammettere un’influenza sulla tradizione, altra affermare che la scena teatrale fosse allestita esattamente nel modo in cui la vediamo nel cratere. Una simile conclusione è possibile solo sottovalutando il forte livello di standardizzazione della pittura vascolare e l’incidenza del repertorio e della prassi tecnica nella formazione delle immagini. D’altra parte la lettura di Csapo ha come unico supporto bibliografico il commento al Telefo di Claudia Preiser (Preiser 2000, 190-195) e un breve saggio dello stesso Csapo sul Telefo eschileo (Csapo 1990), circostanza di per sé eloquente (per la recensione dell’abbondante bibliografia sul cratere: LIMC VII, 1994, 866, nr. nr. 55 s.v. Telephos [M. Strauss]; Schöne Denkinger 2009, 39; Von Göttern und Menschen 2010, nr. 24, 52-53 e 125)
2. Teatro e innovazione iconografica
Se pur difficilmente accettabile da un punto di vista archeologico, il libro di Csapo ha il merito di richiamare l’attenzione sul fatto che le scene comiche costituiscono un punto di partenza naturale per la riflessione sul ruolo che il teatro ha giocato nel processo di cambiamento delle iconografie vascolari anche in quei casi – e sono i più numerosi – in cui l’ambientazione ‘realistica’ è assente. I vasi comici testimoniano infatti al di là di ogni dubbio che durante la seconda metà del V e per tutto il IV secolo a.C. il teatro è stato vettore di innovazione nelle produzioni di diversi centri della Magna Grecia e della Sicilia. Sia pure in forme mediate esso forniva ai pittori occasione e materia per proporre agli acquirenti (o, se pensiamo che i vasi fossero prodotti su ordinazione, ai committenti) immagini con contenuti talora non interamente riconducibili alla tradizione precedente, talora addirittura del tutto nuovi. Tali immagini non sempre presentano ambientazioni sceniche esplicite – notoriamente nei soggetti ‘tragici’ le ambientazioni non ci sono – ma pongono all’interprete gli stessi problemi: individuare la fonte degli spunti innovativi; capire attraverso quali canali essi giungessero agli artigiani; definire l’interazione fra il ‘nuovo’ racconto e le pratiche della bottega, per natura seriali e conservative. Cosa che in fondo equivale, su un piano più generale, a capire i meccanismi dell’innovazione iconografica all’interno di una produzione artigianale complessa.
L’approccio logocentrico tende a semplificare questo problema, immaginando una genesi diretta e sostanzialmente priva di mediazioni: qualcosa di simile all’idea che l’artigiano va a teatro e dipinge ciò che ricorda della rappresentazione, magari con una certa libertà di azione ma pur sempre con una fonte precisa in mente. Ciò vale in modo particolare per le scene comiche con rappresentazioni ‘realistiche’ (figg. 7-11), per le quali la tentazione di una lettura in chiave di ‘illustrazione’ è comprensibile. Eppure proprio le scene comiche ci mostrano che, soggetto a parte, di soluzioni che appartengono non al teatro ma al repertorio di bottega dell’artigiano che le ha dipinte. Due crateri di Asteas della metà del IV secolo, uno con la parodia del mito di Zeus e Alcmena (da Paestum, Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco 17106: fig. 7), l’altro con una scena più generica, un vecchio abbarbicato a un cassone che viene strattonato da due giovinastri (Berlino, Antikensammlung 3044: fig. 8), presentano costumi assolutamente identici. La situazione non cambia nella scena della contesa fra i citaredi Phrynis e Pyronides sul cratere da Pontecagnano (Salerno, Museo Provinciale Pc 1812), secondo taluni derivato dai Demoi di Eupoli (Taplin 1993, 42; Revermann 2006, 318-319; contra: Piqueux 2006b; Green 2008, 213; prudente Kovacs 2013, 489). Qui il giovane Phrynis, a parte la lira e la corona, ha lo stesso costume del ladruncolo di destra del cratere berlinese, mentre la maschera dell’anziano Pyronides è la stessa del vecchio sul cassone. È lecito domandarsi quanto di questi costumi appartenesse agli usi scenici, quanto invece alle convenzioni e al processo di tipizzazione della pittura vascolare. La risposta non è ovvia, ma eludere il problema, come accade a Csapo e ad altri, è improprio e in un certo senso pericoloso (un approccio ragionevole ai condizionamenti ‘archeologici’ nell’iconografia dell’attore: Piquex 2006a; Macinstosh 2013).
Considerazioni analoghe si possono fare anche per le rappresentazioni dei palchi, che appaiono sui vasi come pedane lignee poggianti su pali o su colonnette ioniche, talora accessibili da una scala e ornate da un parapetasma (figg. 9-10). Si tratta di immagini che alludono a strutture temporanee, e in questo possono essere considerate una testimonianza, ma disegnate in un modo talmente convenzionale da non poter essere considerate riproduzioni realistiche della skené. In taluni casi non potrebbe neppure stare in piedi (fig. 11; utili riflessioni su questo punto: Piqueux 2005).
Nel caso delle iconografie ‘tragiche’, poi, la presenza degli elementi formulari è ancora più evidente. Mancando le allusioni dirette al teatro, i pittori costruiscono l’immagine ricorrendo in via quasi esclusiva a tipi e schemi tradizionali: le iconografie di Niobe (Rebaudo 2012, con bibliografia precedente, spec. Sisto 2009, Fracchia 2012) e Medea (v. il saggio di Silvia Galasso in questo stesso numero di Engramma) lo dimostrano largamente. Anche quando il contenuto suggerisce una fonte specifica le scene non possono comunque essere lette come ‘opere uniche’ al di fuori della tradizione e quindi come ‘illustrazioni’ della tragedia. Considerarle documenti diretti delle performances e ancora una volta un azzardo che porta a ricostruire il ‘teatro dei ceramografi’ invece di quello reale.
E tuttavia, tenuti presenti questi condizionamenti, dobbiamo prendere atto che nelle scene comiche i pittori si sforzano di rappresentare degli attori in azione e mostrano allo spettatore il teatro in quanto tale. In altre parole attingono dal teatro la materia per le loro scene e fanno in modo che lo spettatore riconosca l’ambientazione. La banale osservazione che ne scaturisce è che se il teatro fornisce la materia ai pittori quando il soggetto è comico, non vi è ragione per pensare che non la fornisca quando il soggetto è tragico. Negare ogni tipo di influenza, escludere a priori ogni provenienza extra-figurativa per le innovazioni pittoriche, come talora fanno i sostenitori più accesi dell’approccio iconocentrico, sarebbe un errore simmetrico a quello di chi vede il teatro riflettersi nei vasi come in uno specchio. Sarebbe una forma di semplificazione arbitraria del processo, la cui complessità deve essere stata maggiore a quanto i due principali schemi critici, con la loro rigidità ideologica, ci portano a ritenere.
2. L’officina del Pittore di Konnakis e il teatro
A questo proposito vale senz’altro la pena di attrarre l’attenzione sul caso del Pittore di Konnakis, un artigiano tarantino individuato da Heinrich Bulle nel 1930 (Bulle 1930, 7-37) e battezzato alcuni anni più tardi da Andreas Rumpf (Rumpf 1947, 14) sulla base di un frammento di cratere a campana del Museo Archeologico Nazionale di Taranto (inv. 4638), nel quale una donna dal nome non greco, Konnakis, i seni cascanti e il ventre molle, danza nuda davanti a una porta aperta con in mano una torcia accesa (un’approfondita discussione, con interpretazione come scena di mimo: Hughes 1997). Il Pittore di Konnakis è uno dei pionieri della tecnica detta ‘di Gnathia’, caratterizzata da una decorazione sovraddipinta in bianco, giallo e rosso sul fondo di vernice nera lucente e da un’incisione delicata eseguita prima della cottura oppure, più raramente, dal graffito (fra le numerosi pubblicazioni dell’ultimo decennio: Buora, Rubinich 2003; Lanza 2005; Calandra, Benedetti, De Francesco a Al. 2006; Ananich 2008; Redavid 2010; utili discussioni di sintesi: Green 2001; Puritani 2002; Calandra 2008; Denoyelle, Iozzo 2009, 206-212; Lanza Catti 2011). La sua personalità stilistica non è ancora definita in modo esaustivo: il repertorio delle opere è troppo ampio, conseguenza di attribuzioni prive di fondamento susseguitesi nei decenni (ad es. Stenico 1975; Lagazio 1998; v. in proposito Green 2001, 58; D’Amicis 2005, 171) e la cronologia resta fluida, anche se prevale ormai la tendenza a collocarlo intorno alla metà del secolo (Green 2001, 58; Denoyelle, Iozzo 2009, 208-212) piuttosto che verso il 375 come si è creduto a lungo sulla base dei dati delle necropoli di Taranto e, in misura minore, di Metaponto, Oppido Lucano e Paestum (Fozzer 1994; Lippolis 1994; per la cronologia v. in generale Hempel 1997; Hempel 2000; Puritani 2002, 396-399; da ultimo Calandra 2008, 11-12). Prudentemente taluni specialisti rinunciano a distinguere il pittore dall’officina a lui collegata e riunificano la produzione sotto l’etichetta generica di Gruppo di Konnakis (ad es. Todisco 1992, 28-29; Alexandropoulou 2002, 11, nota 50).
Tuttavia, se si considerano le opere meglio caratterizzate non è impossibile individuare un nucleo potenzialmente autografo, costituito per lo più di vasi di grandi dimensioni decorati con scene di due o tre figure sulla faccia anteriore e con una figura singola poggiante su una fila di punti e circondata da cornici vegetali su quella posteriore in cui lo stile è sufficientemente coerente. I tratti tipici sono l’articolata policromia in cui, oltre al bianco, abbondano le tonalità del giallo del rosso, dal crema al porpora; l’uso del contorno con incisioni delicate e limitati rialzi in bianco e giallo nelle figure secondarie; i visi squadrati con tratti marcati che ricordano quelli del Pittore di Licurgo (Denoyelle, Iozzo 2009, 209). È però evidente che un riesame sistematico del materiale sarebbe necessario, dato che le differenze all’interno del gruppo sono talora talmente grandi da suscitare più di un dubbio (fig. 12). Per questo mi limito qui ad alcune considerazioni di massima, assumendo che sia comunque ragionevole assegnare i vasi del Gruppo di Konnakis a un ambiente culturalmente omogeneo, se non proprio a un’unica officina.
L’interesse che la produzione riveste per noi è legata alla massiccia presenza del teatro nel suo repertorio. I soggetti più frequentemente rappresentati sono le maschere e gli attori in costume, ai quali peraltro si affiancano occasionalmente temi di altra natura. Maschere e attori sono pressoché esclusivamente comici e le maschere in particolare (figg. 13-15) sono state da tempo raccolte e classificate da Thomas B.L. Webster (Webster 1951; Webster 1960; Webster 1968), nonostante la lista debba essere aggiornata per la comparsa di nuovo materiale (ad es. Kirigin 1981) e spostamenti nelle attribuzioni (ad es. dal Gruppo di Konnakis al Pittore di Compiègne: figg. 14, 15). Per gli attori manca invece un catalogo che tenga conto dei progressi recentemente compiuti nella classificazione. Una nuova analisi finalizzata non tanto a distinguere la pertinenza delle figure all’Archaia o alla Nea quanto a identificare i caratteri grafici delle singole botteghe sarebbe certamente utile e consentirebbe di sapere un po’ meglio chi ha dipinto che cosa, condizione base per qualsiasi discorso archeologicamente fondato, dato che, anche limitandosi ai vasi più noti, è evidente che gli artigiani coinvolti sono ben più d’uno. Ma il punto importante è che nel repertorio ‘teatrale’ della bottega si trovano occasionalmente immagini che spostano il fuoco dell’interesse verso i soggetti tragici e presentano elementi di originalità, se non proprio di unicità, molto evidenti. Si tratta di tre vasi, o meglio di due frammenti e un vaso ben noti.
1) Due frammenti di cratere a calice con scena ‘tragica’ non identificabile (Würzburg, M. von Wagner-Museum H 4696, 4701: fig. 16). Due personaggi, un giovane con pileo e bastone da viaggio e una donna con phialè in mano, sono all’interno di un loggiato di ordine misto, con colonne ioniche, fregio dorico e soffitto a cassettoni. Nella parte sinistra si apre un portone a due battenti, da cui si affaccia una seconda figura femminile. L’edificio, atipico rispetto alle convenzioni della ceramica apula, è interpretato come skené teatrale, anche se i personaggi all’interno non sono attori (Ceramica figurata 2003, 433, cat. Ap 94 con bibliografia; Walton 2010, 37);
2) frammento di cratere a campana con ritratto quasi individualizzato di un attore (Würzburg, M. von Wagner-Museum H 4600: fig. 17). L’attore, parzialmente canuto, indossa chitoniskos e coturni, ha una spada nella sinistra e osserva intensamente la maschera tragica di un vecchio dalla lunga chioma ricciuta che tiene nella destra (Ceramica figurata 2003, 433-434, cat. Ap 95 con bibliografia; Walton 2010, 33);
3) cratere a calice con Oreste nel tempio di Apollo a Delfi fra le Erinni addormentate (Sankt Petersburg, Hermitage B 1743 (349), fig. 18). Oreste è all’interno di un naiskos ionico, nel quale è appeso uno scudo. Siede abbracciato all’omphalòs e davanti a lui giacciono addormentate cinque erinni vestite di corti chitoni succinti e caratterizzate da un inusuale incarnato nero. A destra la Pizia fugge spaventata (Ceramica figurata 2003, 432-433, cat. Ap 93 con bibliografia; Taplin 2007, 64-65, nr. 9; Ananich 2008).
Queste scene non sono riconducibili alla tradizione e al repertorio consueto. Il frammento di Würzburg con la skenè (1, fig. 16), quale che sia il mito rappresentato, rivela la volontà del pittore di richiamare uno spazio di rappresentazione piuttosto che uno spazio reale, come normalmente accade nelle scene ‘tragiche’. Per questo ha rinunciato alla convenzione del naiskos come sostituto simbolico del palazzo eroico e disegnato una struttura ben più complessa e con dettagli allusivi: la porta semiaperta è infatti tipica delle ambientazioni comiche con palcoscenico (sul problema della skenographia nella pittura vascolare da ultimo: Small 2013). Il cratere di Oreste di San Pietroburgo (3, fig. 18) è in un certo senso ancora più significativo, poiché cade all’interno di una tradizione, quella di Oreste a Delfi, che nella ceramografia italiota ha trovato solo relativamente tardi un certo livello di standardizzazione.
Il pittore ha rappresentato il mito secondo uno schema largamente diffuso nella tradizione attica – Oreste perseguitato dalle Erinni e difeso da Apollo (Imagierie de l’Orestie 1993, 79-82, nrr. 61-65; LIMC VII.1 (1994), s.v. Orestes, 71-72, nrr. 7-11; fig. 19) – ma la scena coniene un numero sorprendente di dettagli che non appartengono al repertorio attico e si incontrano invece nel prologo delle Eumenidi eschilee (Trendall, Webster 1971, cat. III.1.9, con bibliografia; Taplin 2007, 60). Il confronto con il discorso che la Pizia pronuncia per descrivere agli spettatori ciò che accade all’interno del tempio è impressionante (vv. 39-56, traduzione e corsivi sono miei):
Penetro nel recesso del tempio dalle molte corone,
presso l’Omphalòs vedo un uomo inviso agli dei
che siede nell’atteggiamento del supplice, ha le mani
che stillano sangue, impugna la spada appena estratta
[dal corpo del nemico], ha in mano un ramo tagliato dalla cima dell’olivo
avvolto com’è d’uso in un drappo di candida lana. E sappi
che davanti a quest’uomo dorme una schiera
prodigiosa di donne appoggiate ai sedili del tempio.
Queste donne... ma dovrei dire Gorgoni...
no, non posso paragonarle neppure alle Gorgoni...
somigliano semmai alle immagini dipinte di quelle
che un tempo rubavano il cibo a Fineo...
Queste donne sono nere, senz’ali, orripilanti alla vista;
russano e il loro fiato non è certo gradevole,
dagli occhi cola un liquido ripugnante,
e l’abito che portano non sarebbe certo appropriato davanti alle statue
degli dei e neppure sotto il tetto degli uomini.
Abbiamo qui una scena nella quale lo schema tradizionale è stato modificato con elementi non canonici dal punto di vista figurativo. Non siamo più all’aperto, in un luogo indefinito, ma all’interno del tempio di Delfi; Oreste siede accanto all’Omphalòs invece di avere la posa a ginocchio puntato tipica; è presente la sacerdotessa di Apollo che fugge spaventata; le Erinni dormono e loro carnagione è nera. Tutti questi elementi si trovano nel testo eschileo, ma non tutti sono ugualmente significativi. Nel momento in cui il cratere è stato dipinto alcuni di essi erano già entrati nella tradizione.
Osserviamo un’altra scena molto nota: il cratere apulo da Ruvo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 82270: Ceramica figurata 2003, 411-412, cat. Ap 23; Taplin 2007, 61-62, nr. 7; fig. 20). L’attribuzione al Pittore della Furia Nera implica una datazione anteriore di almeno due decenni. Anche qui ci troviamo all’interno del tempio; anche qui è presente la Pizia, anche qui l’Erinni ha la pelle nera e accanto a Oreste troviamo persino il ramo di olivo. Ma assieme ai tratti ‘eschilei’ ce ne sono altri derivati dalla tradizione del V secolo: Apollo che domina il centro della scena, l’Erinni che è ben sveglia e agita minacciosa i serpenti, Oreste che conserva la posa a ginocchio puntato introdotta dai Manieristi attici. In questa scena insomma l’innovazione ‘drammatica’ convive con gli elementi della tradizione e l’iconografia mostra una continuità riconoscibile con la produzione più antica. Ben diverso il caso del cratere di San Pietroburgo: senza Apollo, con Oreste seduto e le Erinni addormentate il quadro narrativo è mutato completamente. Il caso delle Erinni è più di tutti eclatante: queste donne che dormono sui gradini del tempio e che sono contemporaneamente «nere e senza ali» («ἄπτεροί γε μὴν ἰδεῖν αὗται, μέλαιναι δe», come le descrive la Pizia) non solo cambiano la storia ma diventano irriconoscibili senza il testo di Eschilo (per l’iconografia: LIMC III.1 (1986), s.v. Erinys, 825-643 [H. Sarian, Delev]; per le Erinni dormienti: Giuliani 2001).
Ciò non significa peraltro che il cratere di San Pietroburgo possa essere considerato una rappresentazione delle Eumenidi: a parte il fatto che vi sono numerosi dettagli mancanti o divergenti, il modello dell’illustrazione, lo abbiamo visto in altri casi, non funziona. Esso è, più modestamente ma forse più significativamente, la dimostrazione che una relazione di qualche tipo fra il teatro e l’innovazione iconografica nella pittura vascolare esiste. Se consideriamo che il cratere, oltre a contenere gli elementi ‘eschilei’, è stato dipinto in un’officina che:
a) ricorre regolarmente all’imagerie teatrale (maschere e attori comici in costume) per la decorazione dei vasi di grandi dimensioni;
b) in almeno un caso ha prodotto un’immagine non standard e non tradizionale di un attore tragico caratterizzato come tale;
c) in almeno un caso ha rappresentato una scena mitica, sostituendo il tipo convenzionale del naiskos con un’ambientazione ‘prospettica’ che ai avvale di espedienti usati per le ambientazioni del teatro comico (la porta semiaperta sullo sfondo);
È inevitabile concludere che anche nel caso di Oreste il pittore abbia tratto spunto dal teatro per quegli elementi che innovavano rispetto all’iconografia tradizionale. L’officina del Pittore di Konnakis è un luogo fisico, localizzabile (a Taranto) e databile (intorno alla metà del IV secolo), in cui i “mondi paralleli” di Jocelyn Small si sono per un una volta incontrati. Provo a formulare l’argomentazione in altro modo: in linea di principio, se in una scena vascolare incontro degli elementi che mi sembrano derivare da una tragedia posso considerarli potenzialmente significativi solo dopo aver verificato che divergono dalla tradizione. In questo caso essi non solo sono innovativi (perché altrove le Erinni non sono mai contemporaneamente nere, prive di ali e addormentate), non solo introducono un mutamento sostanziale nel racconto (perché le Erinni non perseguitano Oreste e Apollo è scomparso) ma si trovano in un vaso realizzato da una bottega in cui i temi teatrali sono repertorio corrente (attori e maschere ) e che ha prodotto anche in altri casi immagini ‘tragiche fuori dagli standard. In un caso siffatto l’eventualità di un’origine non drammatica dell’innovazione è poco probabile o addirittura inverosimile. L’officina del Pittore di Konnakis è un argomento tanto pesante quanto trascurato per contestare “l’isolazionismo intellettuale” del metodo iconocentrico puro.
E tuttavia deve essere chiaro che ciò non significa adottare il punto di vista logocentrico, con il suo schema dell’illustrazione. Il contrario, anzi: una scena come quella del cratere di San Pietroburgo invita con forza a cercare una spiegazione che permetta di leggere il fenomeno delle iconografie tragiche come documento della cultura magnogreca nel suo complesso, a comprendere i meccanismi dell’interazione fra fenomeni spirituali e produzione artigianale. Meccanismi che l’approccio logocentrico sostanzialmente banalizza, sottovalutando il fatto che le scene, per quanto ‘nuove’, sono costruite con temi e schemi tradizionali, e ancor più che esse tendono rapidamente a standardizzarsi, uniformandosi alla tradizione precedente da una parte, trasformandosi in modello e generando nuova tradizione, dall’altra.
English Abstract
The Konnakis Painter, identified by Heinrich Bulle in 1930 and subsequently made indistinct by a large number of questionable attributions, is of the greatest interest for the study of the relationships between theater and vase-painting in South Italy. Among the most common themes on his vases are masks and comic actors, who are occasionally flanked by unuasual and intriguing images like the well-known tragic actor of a crater's fragment in Würzburg (Martin von-Wagner-Museum 4600). The attention to the theatrical world in his repertoire makes extremely significant that in a crater of St. Petersburg (Hermitage B 1743) he painted a version of the myth of Orestes at Delphi that, significantly departing from previous Attic and South Italian traditions, introduces a few elements that do not seem explainable without a (at least indirect) lure to the Eumenides of Aeschylus.
keywords | theatre; vase-painting; Konnakis Painter; masks; actors
Riferimenti bibliografici
Abbreviazioni
CVA
Corpus Vasorum Antiquorum, Union Académique Internationale, Athens et al., 1930
LIMC
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Per citare questo articolo: Teatro e innovazione nelle iconografie vascolari. Qualche riflessione sul Pittore di Konnakis, a cura di L. Rebaudo, “La Rivista di Engramma” n. 107, giugno 2013, pp. 27-46 | PDF dell’articolo