Edipo, nero come la peste
Recensione di Edipo Re, regia di Daniele Salvo (XLIX Ciclo di Spettacoli classici, Fondazione Inda, Siracusa 2013)
Alessandra Pedersoli
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“La nostra città, come vedi, ondeggia e non riesce a sollevare più il capo dal profondo della tempesta di sangue. Perisce coi frutti della terra ancora immaturi, con la moria delle greggi, coi parti infecondi delle donne. È l’orribile peste, una divinità di fuoco, che colpisce Tebe.” Nel prologo dell’Edipo Re di Sofocle (qui nella traduzione di Guido Paduano) è con queste parole che un sacerdote descrive a Edipo la terribile condizione in cui versa la città di Tebe. In scena giacciono corpi di cadaveri acefali, alludendo all’aria impregnata dei miasmi dei corpi in decomposizione, che richiamano subito alla memoria la scena iniziale dell’allestimento di Edipo Re di Antonio Calenda del 2004 per il XL Ciclo di spettacoli classici, come anche la sigla che apre il film I Cannibali di Liliana Cavani, dove, in una Milano grigia e spoglia è vietato dare sepoltura ai ribelli, nella personale rivisitazione della regista di Antigone di Sofocle.
L’allestimento di Edipo Re, spettacolo che apre il XLIX Ciclo di Spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa (seguita da Antigone e da Le Donne al Parlamento di Aristofane) è affidata a Daniele Salvo, regista che ha già curato la messa in scena di altri due testi sofoclei per l’Inda: Aiace nel 2010 e Edipo a Colono nel 2009. Nelle note di regia Daniele Salvo descrive il suo Edipo costantemente perseguitato dallo spettro della Sfinge, che ne incarna il senso di colpa ma anche le Erinni della vendetta per il patricidio compiuto.
A Edipo è dedicato anche il Convegno internazionale sul dramma antico; Guido Paduano puntualizza nel suo intervento, come la Sfinge, ovvero il senso del mistero che incombe sull'uomo, non è mai stata sconfitta da Edipo: la peste è la Sfinge, che somatizza il senso di colpa e conclama l’ineluttabilità del Destino. È proprio dalle viscere della città che, attraverso una botola, come un bubbone che cresce, emerge la Sfinge/Peste a inizio del dramma. Lo Spettro della Sfinge, interpretato da Melania Giglio, ritorna più e più volte in scena annunciando con un grido terrigno e profondo il costante protrarsi del male, che non cede alle preghiere, ai gemiti e ai profluvi di incenso che avvolgono a ondate la cavea.
Al Kunstmuseum di Basilea è conservata una delle opere più oscure e drammatiche di Arnold Böcklin: Die Pest (la peste), dipinta nel 1898; una donna armata di falce che lascia al suo passaggio una nuvola grigia di morte e abbandono. Le fattezze rimandano a quelle della Sfinge/Peste siracusana, vestita interamente di nero con lunghi capelli aggrovigliati e il volto dipinto con tratti scheletrici. Irrompendo in scena, preannuncia quella che sarà la cifra iconografica dello spettacolo: abiti scuri, imbrattati della polvere della ghiaia che ricopre l’orchestra, visi segnati e maschere grottesche, come quelle del Coro di vecchi tebani, che ricordano il volto del personaggio di Roark Junior, che con l’identità di Yellow Bastard, sevizia e tortura le sue giovani vittime nel film Sin City di Frank Miller, ispirato all’omonima serie a fumetti.
L’impianto scenico e i costumi sono affidati a Maurizio Balò, già presente in altri allestimenti siracusani; in accordo col regista ha proposto look total black, con l’intento di trasmettere alla luce del sole un senso onirico, irreale. La vittoria di Edipo sulla Sfinge è solo un’illusione, e la scenografia lo ricorda costantemente: il grande torrione che troneggia al centro della scena allude alla Sfinge dissotterrata, ma ha delle fattezze di teschio, divenendo un'incombente presenza mortifera, che ricorda molto il castello di Grayskull della serie animata di genere fantasy-eroico He-Man e i dominatori dell'universo. Il torrione è un praticabile (ve ne sono altri tre in scena: gradinate che non portano da nessuna parte, ma che ricordano l'incisione con le scale di Escher, Relatività del 1953) dal quale compare in più occasioni la Sfinge/Peste per scagliare i suoi strali con urli terrificanti. Dagli occhi e dalle narici zoomorfe scorreranno rigoli di sangue nella scena finale: con la punizione del responsabile della morte di Laio e quindi della peste mediante l'accecamento di Edipo, anche la Sfinge è definitivamente sconfitta, e idealmente imbrattata dello stesso sangue.
Anche le musiche di Marco Podda rimandano al nero: “il colore sonoro è il nero”, dichiara il compositore nelle note pubblicate nel Numero unico a cura dell’Inda, la sonorizzazione per Edipo Re è “musica del destino inconsapevole, il canto dell'inconscio, la querula nenia di una sfinge maligna”. La musica non è pervasiva, nemmeno nel canto del Coro, ma le note “appena nate suonano già morte, per lasciare il posto alla parola”.
Secondo le indicazioni del regista il Coro deve rappresentare una sorta di “io allargato”, dove il testo recitato prevale sul cantato, lo stato d’animo sul movimento. Gli attori sono pervasi da continui differenti stati d'animo: ebbrezza, disperazione, rabbia, impotenza, entusiasmo, si muovono in massa, coi volti anonimi e sfigurati dalla maschera grottesca. I movimenti, diretti da Antonio Bertusi sono sporchi come la peste che “avanza e contamina, sporca”: la prima sensazione fisica che deve toccare lo spettatore è di repulsione fisica ed emotiva.
Edipo è interpretato da Daniele Pecci, volto noto al pubblico televisivo, bello e prestante, volutamente giovane e nel pieno delle forze. Giocasta è interpretata da Laura Marinoni, Creonte da Maurizio Donadoni e Tiresia da Ugo Pagliai. Ma la vera protagonista dello spettacolo è la Peste, è lo stesso λοιμός scagliato nell'Iliade dalle frecce di Apollo contro la città di Troia, evocato anche nella parodo dell'Edipo Re: il Coro si rivolge a Zeus, Artemide e Apollo, colui che “manda le sue frecce da lontano”. I Vecchi tebani chiedono agli olimpi di manifestarsi: “apparite tra noi, tutti e tre, nostra difesa dalla morte. Come quando la Sfinge minacciava la città avete respinto la fiamma del male, così anche ora venite”. La Sfinge, come la Pizia sacerdotessa di Apollo, da corpo a parole ambigue, Apollo stesso è un dio ambiguo e dalle sue frecce si propaga il male, ma dagli stessi può venire anche la guarigione: “e tu Apollo, dalla tua corda d’oro partano frecce invincibili a nostra difesa come le fiaccole lucenti con cui Artemide percorre i monti.” È attraverso le parole di Creonte che il dio prescrive la sua terapia: “Dirò dunque quello che ho saputo da parte del dio. Apollo ci ordina apertamente di scacciare dalla città una contaminazione radicata in questa terra, di non ospitare tra noi un’impurità insanabile”. La pestilenza è la piaga della colpa che viene a galla, ma Edipo, inconsapevole della propria responsabilità si autocondanna: “Tutti dovranno scacciarlo dalla loro casa, colui che ci contamina”. Alla fine dell’inchiesta il colpevole è trovato, punito e cacciato perché, come riporta Creonte dall’oracolo di Delfi, “In questa terra, ha detto il dio: quello che si cerca si trova, ma quello che si trascura ci sfugge”.
In this article, Alessandra Pedersoli reviews Daniele Salvo's play of Oedipus Rex for the XLIX Cycle of Classical Performances of the Fondazione Inda in Syracuse 2013.
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Per citare questo articolo: Edipo, nero come la peste. Recensione di Edipo Re, regia di Daniele Salvo (XLIX Ciclo di Spettacoli classici, Fondazione Inda, Siracusa 2013), a cura di A. Pedersoli, “La Rivista di Engramma” n. 107, giugno 2013, pp. 128-131 | PDF