Sul tradurre il greco. Appunti per Medea di Euripide (Inda, Siracusa 2009)
Maria Grazia Ciani
English abstract
I doni dei Greci
“La nostra città è la scuola della Grecia”, afferma Pericle nell'epitafio tramandato da Tucidide. Per molti secoli la Grecia stessa è stata la scuola dell'Europa, quando l’Europa si identificava con il mondo più colto e progredito. Una scuola ma anche un mito, seducente, ambiguo e misterioso come tutti i miti. Un’eredità complessa, a tratti luminosa e trasparente, a tratti oscura e indecifrabile. Tuttavia, nel rapporto con questo mondo scomparso, con questa lingua morta, codificata nel lessico e nello stile, l’antico detto timeo Danaos et dona ferentes può essere anche inteso alla rovescia: poiché sono loro, gli antichi Greci, a dover temere noi, i barbari, e il nostro assedio fatto di esegesi, discussioni, congetture, riscrizioni, e infinite traduzioni, sempre rinnovate e modificate e sempre al limite, non tanto dell'errore materiale e superficiale, quanto del fraintendimento profondo.
“Leggiamo il greco com'era? … Non sbagliano a leggere? ... Non leggiamo nella poesia greca non ciò che c’è, ma ciò che ci manca?” – si chiedeva Virginia Woolf in Del non sapere il greco, che della lingua e della poetica greca aveva fatto il suo mito personale. E concludeva che è impossibile cogliere la lingua greca nel suo significato profondo, quindi inutile leggere il greco in traduzione. Eppure è proprio questa lingua uno dei doni maggiori. Questa lingua che non si può più modificare, flettere, alterare. Che non reagisce ma costringe alla reazione. Che impone il confronto ma al confronto si sottrae. Questa lingua “ci tiene schiavi, il desiderio di lei ci seduce e ci attira”. Le affermazioni della scrittrice inglese si possono sottoscrivere anche oggi.
La lingua, un dono assoluto. Il potere della lingua, il più pericoloso dei doni. Della parola i Greci hanno scandagliato tutti i risvolti possibili, le hanno tolto innocenza e verità. Hanno trasformato la spada scintillante in un velenoso serpente. Il logos megas dynastes ha inquinato per sempre ogni forma di comunicazione. Di questo ‘dono’ non potremo liberarci mai. È forse la loro vendetta, affidata all'arma apparentemente più innocua, gli epea pteroenta, le parole che volano e si disperdono nell'aria, ma, come le frecce, mirano sempre a un bersaglio.
Erano presuntuosi, arroganti, autoreferenziali, duplici. Ma ci hanno insegnato il culto della bellezza, la paura della vecchiaia, l’orrore per la morte. Ci hanno fatto capire il valore della profondità e il piacere della leggerezza; la dignità e il coraggio nel rapporto col divino; l’ambizione, la competitività, il gusto della gara e del gioco; lo slancio dell'eroismo e l’importanza dei gesti quotidiani. L’amore per la vita su questa terra e non oltre. Ci hanno insegnato a riconoscere il peso delle passioni, le conseguenze funeste della mancanza di controllo che è rinuncia alla coscienza di sé, perdita di identità e di ‘forma’. Ci hanno ammonito a mantenere la ‘misura’. E a dare, ognuno di noi, un senso alla propria vita: gnothi sauton. Era certamente un'utopia che non hanno mai raggiunto, ma in cui hanno creduto e che hanno cercato ostinatamente di conseguire.
Forse sono questi i doni migliori che hanno lasciato in eredità ai ‘barbari’. Ma in tanti secoli solo uno, credo, ha dato frutti fecondi: l'arma della parola, la parola come arma. Oggi, attuale più che mai.
Il rapporto con i miti
Le sirene sono ancora tra noi. Non su un’isola ignota, pronte ad attirare i naviganti in una trappola di seduzione mortale. Sono presenti nel cinema, nella letteratura, nella TV, sempre più banalizzate, spogliate di ogni fascino e mistero. Decadenza di un mito. Scrivono Maurizio Bettini e Luigi Spina in un bel saggio dedicato appunto a “Il mito delle Sirene”: “La loro seduzione è tutta nel canto, ma di quel canto non si è mai saputo il contenuto. Si tratta di una voce, un suono dove ognuno trova ciò che vuole per appagare il proprio narcisismo. Le sirene non comunicano niente, fanno semplicemente desiderare ciò che non si sapeva di desiderare. Esattamente come oggi fa la pubblicità, mentre Ulisse avanza nell’ipermercato con le mani legate al carrello”.
Non tutti i miti antichi subiscono la sorte delle Sirene, ma certo nella maggior parte dei casi, in modo più o meno consapevole, la dimensione mitica perde il suo significato più profondo per adattarsi alle esigenze della modernità e dei suoi mezzi di comunicazione. E questo avviene soprattutto quando si cerca di ricalcare alla lettera la tradizione antica, nell’illusione di poter restituire la dimensione del passato recuperandone semplicemente il nome: dai numerosi Ercole dei film ‘peplum’ a Troy, Alexander, o al più recente 300. Preso così, frontalmente, il mito si ribella, sfugge, trasforma il suo messaggio in un effetto di assoluta inattualità.
Le vie attraverso le quali il mito si ripropone in tutta la sua complessità sono forse quelle trasversali, là dove “l'originale è assente” (come scrive Monica Centanni) e la letteratura, la poesia, l’iconografia, il cinema, la stessa TV, elaborano il modello antico senza saperlo. Non è facile recuperare l’allusione, emigrata in un contesto diverso, nascosta nelle pieghe di un linguaggio all’apparenza nuovo del tutto. Ma la forza della tradizione è lì in agguato, si nasconde nelle pieghe del discorso, nei risvolti delle immagini. Naturalmente anche in questi casi si verificano i tradimenti, le banalizzazioni, i recuperi ad uso pubblicitario o commerciale. Tuttavia non sempre la variazione equivale a un degrado: la modella Kate Moss fotografata nella posa dell’Ares Ludovisi è un esempio di allusione ambigua e sottile, che si presta a considerazioni estetiche e metafisiche. E molto spesso, tanto più sembra lontano il modello antico, tanto più vicino risulta lo spirito che trapela dalla sua reinvenzione.
Il mito può essere recuperato in tutta la sua complessità nella rappresentazione teatrale. Dove la lingua torna ad essere solo uno degli elementi portanti, e vengono restituiti – sia pure in via congetturale – il gesto, la musica, le pause, i silenzi, gli sguardi, le intonazioni, le posture, tutto insomma quello che costituiva l'azione drammatica nel suo farsi e nel rinnovare il mito attraverso la ritualità dell’evento.
Testo a fronte
Al teatro, oggi, è affidato il recupero del mito nella sua profondità, anche nella sua inattualità purché a questa inattualità si restituisca tutto il suo valore di testimonianza fondante e se ne recuperi la valenza sacrale. Partendo da questo punto di vista, anche la traduzione deve riuscire a superare i limiti determinati dallo scarto inevitabile tra la lingua di partenza e quella d’arrivo e imporsi come verbo rivelatore, veicolo del mistero. Deve prendere su di sé il peso della lingua morta e ad ogni parola, ad ogni frase restituire lo spessore, lo splendore dell'essenza.
Sulla scena questo è possibile. Sulla scena questo deve avvenire. “È abissale – scrive Edoardo Sanguineti – la differenza fra una traduzione destinata alla lettura, che può, se vuole, liricizzare il testo, e una traduzione destinata al teatro... A me è sempre interessata innanzitutto la ‘dicibilità’ del testo tradotto per il teatro: la parola drammaticamente forte”. Attraverso questa ‘parola drammaticamente forte’ si può percepire ancora la vitalità del mito.
In quell’Europa che è stata sede di culto per l'antichità classica – a cominciare dalla Germania e poi la Francia e l’Inghilterra – il testo a fronte è stato eliminato nelle traduzioni dal latino e dal greco, ad eccezioni delle edizioni scientifiche nelle quali al testo originale con apparato critico e commento specialistico viene oggi aggiunta la traduzione a fronte o alla fine del volume.
Nella produzione editoriale si possono distinguere, grosso modo, tre tappe:
– solo testo originale con apparato critico (le celebri teubneriane e oxoniensi);
– testo originale e traduzione a fronte, con o senza apparato critico (Belles Lettres in Francia, Loeb in Inghilterra, per citare le più note);
– testo e traduzione a fronte e poi solo traduzione in edizioni divulgative.
Il passaggio è legato alla graduale eliminazione del greco antico e in parte anche del latino dall’insegnamento scolastico secondario e alla sua drastica riduzione anche nell’insegnamento universitario. In Italia la rinuncia al testo originale a fronte è dura a morire. Ma la presenza di questo testo è sempre più ornamentale. E a volte può diventare un ostacolo alla libertà del traduttore, vuoi per antiche remore scolastiche, vuoi per timore di critiche e confronti tra colleghi di studio.
A me personalmente succede proprio questo. Il greco a fronte è un temibile guardiano. Mi sorveglia, mi chiama a rapporto, quasi mi costringe a rendergli conto di ogni parola, di ogni giro di frase. Mi trascina all’indietro, mi obbliga ad accordarmi alla sua tonalità invece di lavorare di contrappunto. La formazione accademica incide, è ovvio. L’eliminazione del testo a fronte mi libera, mi permette di salpare senza zavorra, di lavorare sul testo originale senza tradirlo ma anche senza tradirmi.
La via segnata – credo – sarà quella di fornire i capolavori del passato direttamente in traduzione per portare in salvo – nella grande tempesta della globalizzazione e della comunicazione multimediale – i contenuti della civiltà antica, far sopravvivere una tradizione ricca e fondante per la civiltà europea e recuperarne anche (cosa che gli occidentali hanno colpevolmente trascurato) i legami con l’oriente. La civiltà classica non è la culla della cultura europea, è un ponte di passaggio, aereo e trasparente ma infrangibile, che non possiamo ignorare.
Medea nel mito
Donna di incantesimi, esperta di filtri, manipolatrice di sostanze misteriose: una maga. Nipote del dio Sole, sacerdotessa o addirittura figlia di Ecate, la dea “nera” cui si attribuisce l'invenzione della stregoneria, nipote o forse sorella di Circe: una strega di stirpe divina, imparentata con personaggi divini. Figlia di Eeta, re della Colchide, la regione caucasica sulle rive del Mar Nero: principessa di terra lontana, per i Greci straniera e barbara. Così si connota Medea secondo il mito. Così il suo personaggio si inserisce nel mito degli Argonauti e si lega alla figura di Giasone, figlio di Esone ed erede del trono di Tessaglia.
La leggenda degli Argonauti è una delle più antiche e più famose dell’Ellade. Narra che Giasone, usurpato nei suoi diritti dinastici da Pelia, fratellastro di suo padre, quando giunge in età adulta, rivendica il trono che gli spetta. Pelia non rifiuta ma impone al giovane una prova iniziatica, nella speranza che non riesca a superarla e muoia. Lo invia nella Colchide per riportare in terra greca il Vello d’oro.
Anche la leggenda del Vello d'oro appartiene alla Grecia: quando Frisso ed Elle, figli del re di Tebe, furono condannati al sacrificio per istigazione della matrigna Ino, Zeus volle salvarli e inviò loro un ariete alato, il cui vello era tutto d'oro. Su questo essi fuggirono volando verso l’Oriente. Durante il volo Elle cadde in mare e annegò. Frisso invece giunse in Colchide dove il re Eeta lo accolse e gli diede in sposa la figlia Calciope. In cambio, Frisso sacrificò l'ariete a Zeus e fece dono del prezioso vello al re che Io consacrò ad Ares inchiodandolo a una quercia del bosco dedicato al dio e gli mise a guardia perpetua un drago insonne e invincibile. Si trattava dunque, per Giasone, di riportare alla Grecia ciò che dalla Grecia era partito e che, in un certo senso, le apparteneva. Una missione difficile e rischiosa, un lungo viaggio per mare, una terra sconosciuta, un popolo barbaro. Ma l'equipaggio che si imbarca sulla nave Argo è un’eletta schiera di personaggi famosi, di principi e figli di divinità: da Orfeo ad Anfiarao, Zete e Calais figli di Borea, Castore e Polluce figli di Zeus, Peleo e Telamone figli di Eaco, Meleagro, e, sia pure per un tempo limitato, Eracle.
Le fonti mitografiche non abbondano di notizie sull'impresa argonautica: o meglio, come tutte le fonti indirette, offrono particolari frammentari e spesso contraddittori. Paradossalmente la “fonte” più importante e un documento letterario e tardo, il poema di Apollonio Rodio Le Argonautiche, che si colloca a monte del dramma euripideo per la datazione (III secolo a.C.) e a valle per l'argomento trattato che abbraccia la prima fase della spedizione, cioè la partenza degli Argonauti dalla Tessaglia, il viaggio per mare, l'arrivo in Colchide e la riconquista del Vello, ma soprattutto dà ampio spazio all'incontro tra Giasone e Medea e approfondisce la storia dell'innamoramento della maga fanciulla per l'uomo venuto da lontano.
L'evolversi delle vicende è noto. Come già ha fatto Pelia, anche Eeta sottopone lo straniero a delle prove nella speranza di eliminarlo. Ma in queste prove – ardue fino all'impossibile – Giasone ha accanto Medea, la maga innamorata. La storia non è nuova: essa appartiene al ciclo delle leggende nelle quali l’eroe, per riuscire nell'impresa, viene affiancato da una fanciulla che gli presta il suo aiuto per amore. Esemplare in questo senso è la vicenda di Teseo e Arianna. Lo stesso Giasone, durante il viaggio verso la Colchide, ha incontrato la principessa Issipile che gli ha offerto aiuto e amore nell'isola di Lemno. È l'elemento erotico che si inserisce nelle imprese eroiche: ad esso si unisce anche il tema della donna tradita e abbandonata: Teseo abbandona Arianna, Giasone abbandona Issipile e lascerà poi anche Medea.
Aggiogare i tori selvaggi donati a Eeta da Efesto, seminare i denti del drago di Ares e sconfiggere i guerrieri che ne nasceranno, uccidere il serpente che sorveglia il Vello d’oro: tutto questo non sarebbe possibile senza i filtri magici e i “saggi consigli” di Medea. Che per amore si fa ‘straniera’ alla sua famiglia e alla sua patria, tradisce il padre, fa uccidere o uccide lei stessa il fratello Apsirto (le versioni sono contrastanti) per seguire Giasone nel viaggio di ritorno in Grecia. Ora le parti si sono invertite: a Giasone straniero in Colchide si sostituisce Medea straniera ai Greci. L’itinerario di Medea sulla terraferma si rivelerà più pericoloso e drammatico di tutta l'impresa argonautica.
Sulla fuga di Medea dalla Colchide, le versioni non sono concordi (fu pienamente consenziente? venne rapita da Giasone?), e anche la morte di Apsirto presenta delle varianti (fu ucciso da Giasone istigato da Medea? da Medea stessa?). In ogni caso, la storia d’amore nasce sotto il segno della violenza e violenza e morte segnano il cammino dell'esule Medea prima e dopo il crimine più spaventoso, l’uccisione dei suoi figli.
Colchide, Iolco di Tessaglia, Corinto, Atene, e poi ancora Colchide. E, ad ogni tappa, un cadavere o una trama di morte. Dopo Apsirto, il re Pelia; i figli di Giasone e i sovrani di Corinto; il tentativo di uccidere Teseo, figlio di Egeo re di Atene, avvelenandolo; I’eliminazione dello zio Perse, fratello di Eeta e usurpatore del suo trono. In nessun luogo della terra greca Medea trova pace, in ogni luogo cerca invano un'integrazione che non le riesce mai perché sempre si accompagna al tentativo di conquistare con la forza o con l’inganno un potere che non le appartiene. La sua vicenda si chiude a cerchio con il ritorno alla terra di origine e alla famiglia di appartenenza. Uccidendo lo zio Perse e restituendo il trono al padre, Medea riscatta il suo tradimento con la stessa violenza che ne aveva siglato l’inizio. Ristabilisce tuttavia l’antico ordine turbato dalla sua trasgressione: la terra tradita si rivela per lei la terra promessa, ed Eeta, e non Giasone, il principio e la fine del suo destino.
Tra la Grecia e la Colchide corrono legami di sangue. Il Caucaso sul Mar Nero: è terra lontana, è Oriente, mondo sconosciuto, popolo di barbari. Ma, a ben guardare, un rosso filo tenace lega i due paesi. Narrano le fonti che Corinto, un tempo, era stato il regno di Eeta prima che egli la lasciasse per stabilirsi nel Caucaso. E che i Corinzi stessi, rimasti senza sovrani dopo un certo numero di anni, avevano offerto a Medea di raccogliere l’antica eredità paterna. La storia di Frisso e della sua unione con Calciope rivela un legame di sangue che unisce la principessa barbara a un greco di Tebe. Il cognato di Medea ha origini greche, è un greco. Quanto a Medea, essa viene ripudiata da Giasone, ma torna in Colchide con un figlio ‘ateniese’, il figlio nato dalla sua unione con Egeo, il giovane Medo che erediterà il trono di Eeta. Su questo trono ‘barbaro’ salirà quindi un sangue misto che è fratellastro del mitico Teseo. Alla fine, la Grecia che Medea insegue e tenta di conquistare è dentro di lei e con lei ritorna in Colchide.
Una Medea per Euripide
La tragedia che Euripide presenta al pubblico di Atene nel 431 a.C. non è l'unica che porti in scena questo personaggio. Eschilo, e soprattutto Sofocle avevano prodotto molti drammi (ora perduti) sulla saga degli Argonauti, e senza dubbio in alcuni di questi Medea aveva la sua parte. Ma solo con Euripide l’attenzione si focalizza totalmente sulla donna di Giasone.
Già nel 455 Euripide fa rappresentare le Peliadi (la macabra messa in scena dell’uccisione di Pelia da parte delle figlie su istigazione di Medea), negli anni intorno al 440 è la volta dell’Egeo (Medea ad Atene, sposa di Egeo, e il suo tentativo di avvelenare Teseo). Entrambe le tragedie sono perdute, la trama è ricostruibile attraverso fonti e testimonianze indirette. Dunque, in successione: Peliadi, Egeo, Medea. È evidente che a Euripide interessa l’avventura di Medea in terra ellenica, e quindi la donna-sposa-madre, non la maga-fanciulla ritratta da Apollonio Rodio nel suo paese d’origine. Ma in questo itinerario teatrale egli non osserva la successione temporale dei fatti, per cui parte da Iolco di Tessaglia, approda ad Atene e poi torna indietro per affrontare la Medea di Corinto, il vero nodo di tutta la vicenda. I titoli stessi delle opere sono rivelatori, come se la vera Medea si potesse comprendere ed eventualmente giudicare solo dopo i fatti di Corinto.
L’uccisione di Pelia è un crimine cruento, in cui la violenza sembra escludere ogni riferimento alla sacralità, anzi, poiché la cerimonia è basata sull’inganno, si configura come la parodia del rito, e la violenza è l'unica chiave di lettura. Un parricidio guidato che si pone in linea con il fratricidio di Apsirto: anche se in entrambi i casi le modalità (fare a pezzi, bollire) richiamano di fatto antiche forme sacrificali, ogni tipo di ‘aura’ è assente da questi nudi fatti. Nella tragedia successiva, Egeo, Medea è la perfida matrigna che trama contro il figliastro Teseo e tenta – senza riuscirci – di eliminarlo con il veleno facendo ricorso a quei pharmaka di cui è signora e sovrana. È un motivo tipico del folklore, sono cambiati i mezzi ma non l’animo e gli istinti omicidi della protagonista. Da perfida matrigna a madre snaturata. Alla fine Euripide affronta il segmento della saga che, secondo la testimonianza di Aristofane di Bisanzio) non era mai stato trattato prima, cioè ‘i fatti di Corinto’, dove Medea usa i pharmaka e la spada per compiere una vera e propria strage, che non segna la fine del suo itinerario greco, ma conclude in modo definitivo e nella maniera più cruenta la sua storia con Giasone.
Una donna che semina violenza e morte. Una donna diversa, straniera, barbara. Così sembra configurarsi la Medea di Euripide già nelle tragedie precedenti. Così almeno possiamo immaginarla. Qual è la Medea che si presenta a noi e parla e agisce nel dramma del 431? La protagonista compare in scena solo al verso 214, dopo che la Nutrice, il Pedagogo e il coro delle donne di Corinto, in una specie di ampio prologo, hanno convogliato tutti gli antefatti verso l’inizio dell’azione. E quindi, con un rapidissimo sguardo all’indietro, la traversata della nave Argo, la fuga di Medea con Giasone, la morte di Pelia, l’insediamento e l'integrazione della coppia con i figli a Corinto. Tutto in una decina di versi. Poi, i fatti del presente: il tradimento di Giasone, la reazione di Medea. Medea soprattutto, ridiventata improvvisamente straniera e sconosciuta, è posta al centro del dramma. Ma il suo ritratto viene dato prima di tutto in absentia, attraverso le voci e i commenti dei personaggi presenti in scena. Un ritratto preciso ma discontinuo che ci restituisce l’immagine di una donna infelice (parola chiave: dystenos), umiliata, affranta, ma non distrutta, non arresa alla sorte. All’abbattimento provocato dal dolore si alternano scatti d’ira, lampi di trattenuta violenza.
Deinos è l’epiteto ambiguo e inquietante che raggiunge lo spettatore come una freccia avvelenata e già lo mette in guardia. L’infelice è tuttavia ancora una donna temibile, anzi terribile, deiné appunto, termine pressoché intraducibile che esprime una potenza misteriosa. Fin dall’inizio Medea appare duplice. Fin dall’inizio la Nutrice sottolinea l’ambivalenza, il pianto e gli sguardi torvi, i lamenti e il silenzio minaccioso, qualcosa di tremendo che sta per accadere, e i figli, tenete lontano da lei i figli...
Medea entra in scena con la voce (al v. 96). Nelle sue parole, gridate dall'interno della casa, trova espressione il dolore e lo smarrimento di una donna che ha reciso i legami con il passato – il padre, la patria –, e ora vede svanire il suo sogno di appartenenza – a un marito, a una nuova terra –. Doppiamente esule, sola, più che mai straniera, assediata da “nemici”, essa esprime più volte il desiderio di morire. Ma questo desiderio è un’ombra che subito si allarga a coprire, oltre alla sua persona, i figli, Giasone, la nuova sposa di Giasone, tutta la casa reale di Corinto. Dystenos e deine.
Dopo circa duecento versi – nei quali tutto o quasi tutto è annunciato – Medea appare di persona. Come sarà vestita? Possiamo immaginarla ‘greca’, simile alle donne del coro, ancora partecipe di quell’integrazione tanto bramata e faticosamente raggiunta. Un semplice costume che conserverà fino alla metamorfosi finale, con qualche impercettibile mutamento legato all'’evolversi delle sue trame, qualche debole segnale, un cenno di trasandatezza, una lenta decomposizione del decoro civile, l'apparizione di un ornamento ‘barbaro’ – un pettine, un nastro, un bracciale che tradisce il mutamento e che trasforma la veste in travestimento, l’abito in maschera. Particolari che possono essere affidati solo alla fantasia o agli effetti speciali dello schermo, forse impossibili sulla scena.
In ogni caso, qualunque sia il costume, la donna che entra in scena non è quella annunciata e non corrisponde alla voce che abbiamo udito. È una donna affatto dystenos e non ancora deine, che manifesta un perfetto autocontrollo ed è in grado di teorizzare sulla sua ‘disgrazia’ inserendola nel quadro più ampio della condizione femminile. Un discorso, il suo, che trova le donne corinzie pienamente consenzienti e pronte ad approvare la mossa successiva che Medea rivela (e che probabilmente fa parte di un piano preciso, già maturato in lei): vendicarsi di Giasone, ‘fargliela pagare’, insomma. E il coro sentenzia: è cosa giusta.
L’integrazione, sia pure apparente e temporanea, di Medea con le donne del coro, vacilla nel confronto della donna con Creonte, il re di Corinto e padre della giovane sposa di Giasone. Ora vediamo Medea da una prospettiva diversa, quella dell'uomo e soprattutto del padre e del re: non più “una di noi”, ma decisamente l’ ‘altra’, colei che possiede arti segrete e poteri malefici e improvvisamente torna ad essere più che mai straniera e potenzialmente deine. Paradossalmente è proprio la paura di Creonte, confessata apertamente (dedoika, v. 282), e la ripetuta allusione alle conoscenze misteriose della donna, a innestare il processo che riconduce Medea verso le sue origini e la rafforza nei suoi propositi e nelle sue decisioni. Concedendole la proroga richiesta – rimanere a Corinto per un giorno, un solo giorno – Creonte apre quello spiraglio che spianerà la strada a Medea e sarà invece fatale alla sua famiglia e al suo regno.
Alla partenza di Creonte, Medea è già al di là di tutta la vicenda, deve solo condurre l’azione, che a mano si rivela sempre più ampia: uccidere Creonte, sua figlia e Giasone. Questi sono i “nemici” che l'hanno umiliata, coloro che non devono “ridere di lei”. In questo atteggiamento, in queste parole si riflette un tratto profondamente greco, legato all’ideologia eroica (alla figura dell’Aiace sofocleo, come modello esemplare); si è parlato perciò di una Medea ‘guerriera’ che si batte per il suo onore. E questo è vero in parte se ci si riferisce all’orgoglio e anche all’audacia, a patto però di non dimenticare il lato odisseico, l’uso della menzogna e dell'inganno, l’accurata preparazione della strage. Alla fine entrambi, Medea come Odisseo, hanno radici “altrove”.
Posta di fronte a Giasone (vv. 446-ss.), Medea sorprende ancora. Moglie non più moglie, greca che ridiventa barbara, ma soprattutto e per la prima volta inerme di fronte all'uomo amato, travolta da un sentimento complesso, morboso, incontrollabile: la gelosia sensuale, l’eros legato al letto (lechos è parola tematica nella seconda parte del dramma), il tormento del corpo. Nessun ricordo del primo incontro, del primo incanto, l’ansia inebriante e dolorosa dell’innamoramento, l’angoscia e il trionfo della passione nella lontana Colchide. Soltanto morte, tradimenti, uccisioni affrontate per un uomo. E in cambio il “nuovo letto”, la “voglia di una nuova sposa”.
Nella “gara di parole” (amilla logon) tra Medea e Giasone, i due parlano lingue opposte, e di fatto Medea non ascolta, non è in grado di capire. Per bocca di Giasone parla la Grecia delle convenienze sociali, dell’orgoglio civile, della priorità maschile. Medea, che ha rinnegato la patria per amore, non può, tradita nell’amore, accettare le regole imposte dalla nuova patria: non in questo campo. La donna che conosce la sapienza e intimorisce il re Creonte, di fronte a Giasone potrebbe togliersi il travestimento greco come già si privò del suo costume esotico, e recitare nuda poiché davvero ora non ha più identità alcuna se non quella dell'eterno femminino ferito nel suo corpo d’amore.
Sorvoliamo sull’episodio di Egeo, già criticato da Aristotele, che però ha una sua precisa funzione drammaturgia, quella di consolidare la posizione di Medea nell’attuazione della sua trama di morte. Ora, dopo lo scontro con Giasone, dopo averlo rivisto e aver rinfocolato passione rancore e gelosia, solo ora Medea completa la rivelazione dei suoi piani: di tutti (panta) i suoi piani. Questi piani convergono tutti su Giasone, perché vendicarsi di Giasone, punire Giasone, significa non ucciderlo materialmente bensì farlo soffrire togliendogli ogni ragione di vita. Estirpando il suo seme, la speranza del futuro, uccidendo i figli già nati (che, secondo la concezione antica, sono innanzitutto figli del padre prima che della madre, e al padre appartengono per diritto di sangue) e i figli sognati, quelli che avrebbe avuto dalla nuova sposa (eliminando, quindi, la sposa). Uccidere Giasone nei figli è l’unica vera punizione che Medea può infliggere a Giasone (la morte di Creonte e di sua figlia ne è il logico corollario). Ma è un atto che le donne di Corinto non possono condividere.
Ha inizio così lo stacco tra Medea e le corinzie, tra Medea e il pubblico di Atene e, forse, tra Medea e lo stesso Euripide (vuoi per convinzione, vuoi per convenienza). Lei percorrerà la via segnata senza deflettere, ormai definitivamente “altra” anche se il costume è sempre lo stesso. Con questo costume, nel secondo incontro con Giasone, essa porta avanti il suo piano, prepara la trappola mortale e solo il pubblico sa che ormai Medea porta una maschera e sotto la maschera è tornata ad essere la maga, la strega, l’assassina, la straniera, la barbara. Ma anche la discendente del Sole, la donna di stirpe divina che pone le distanze fra sé e gli ‘altri’ e isola in un cerchio magico e sacrale, se stessa e i figli. Ma già lei non è più madre e loro sono più figli. Nell’ambiguo discorso in cui coinvolge i ragazzi – tra patetiche manifestazioni di affetto e lugubri previsioni di morte – spicca una frase, che potrebbe concludere significativamente il suo monologo: è là dove, accingendosi a compiere l’ “empio gesto”, usa la parola thyma, il termine specifico del “sacrificio” di cui lei si fa sacerdotessa e aggiunge anche la formula appropriata e tipica in casi del genere, la frase che allontana dal rito sacro chiunque non sia degno di assistervi (vv. 1053-1055). Se davvero il resto del suo discorso, dopo il verso 1055, può essere considerato un'aggiunta posteriore, una concessione alla retorica, allora è proprio questo il punto in cui Medea entra in una sfera intangibile e agisce in quanto strumento del divino, essa stessa recuperata alla divinità, alla dimensione sacrale della sua terra di origine. L’azione – che tecnicamente è un assassinio – è anche un riappropriarsi, da parte di Medea, dei figli come eredi di una stirpe che è la sua stirpe, ed elevarli ad un’altezza che li riunisce per sempre – lei insieme a loro: figli di Medea e non più figli di Giasone.
Immaginiamo Medea che rientra con i figli nella casa di Corinto, affermando che la sua mano “non tremerà”, la immaginiamo ieratica, trasfigurata, illuminata. Da quella casa Medea non uscirà. Apparirà, visione soprannaturale, deus ex machina, in alto, sul carro del Sole, con accanto i figli morti, destinati da lei stessa a diventare oggetto di culto in Grecia, a ricordo di un’azione ‘empia’ ma ‘necessaria’.
Apparirà con abiti diversi, dea, sacerdotessa, restituita alla sua identità originaria, alle radici di un mondo dove la violenza si unisce al sacro nella celebrazione del sacrificio umano, simbolo di quella barbarie da cui Euripide è sempre attirato e affascinato (vedi le Baccanti), ma dalla quale, sulla scena pubblica, deve proteggere il pubblico ateniese per rassicurarlo. Dopo il 431 le pitture vascolari prediligono una Medea in costume orientale, quasi a sottolineare, attraverso l’elemento esotico, la diversità, appunto la barbarie (sul punto si veda, in Engramma, la galleria delle immagini di Medea a cura di Silvia Galasso).
Lo spirito della Grecia civile si esprime attraverso il biasimo delle donne corinzie e le parole di Giasone: “nessuna donna greca avrebbe mai osato tanto” (vv. 1339-40). Nessuna donna greca. Ma quella a cui Giasone, nella sua disperazione, si rivolge, non è più greca e non è più una donna. La scena è scissa e non vi è soluzione, né viene cercata o proposta. Euripide si esime da ogni giudizio etico e offre la visione di due mondi inconciliabili: quello in cui uccidere i figli è un gesto che rientra nella dimensione del sacro, e quello in cui esso si riduce a un atto infame che ha un nome definito e si iscrive fra i delitti perseguiti dalle leggi civili, l’infanticidio.
Medea, mater terribilis, mater infinita
Il mito greco conosce altri casi di madri assassine dei propri figli. Il coro ricorda la leggenda di Ino che gettò il figlio Melicerte in un paiolo d’acqua bollente e poi si uccise gettandosi in mare col suo cadavere. Ma Ino agì come Agave con Penteo: entrambe travolte dalla follia indotta dagli dei (Era per Ino, Dioniso per Agave). Più simile al caso di Medea è quello di Procne, figlia di Pandione re di Atene, che per punire il marito Tereo, reo di averla tradita con la propria sorella Filamela, uccise il figlio avuto da lui, Iti, lo fece bollire e lo diede in pasto a Tereo. L’analogia con Medea appare chiara soprattutto nel movente – la gelosia – che spinge Procne a compiere, in piena lucidità come Medea, l’uccisione di Iti. Si può osservare che le modalità delle uccisioni (fare a pezzi, bollire ecc.) rievocano riti di immortalità (quelli stessi conosciuti e applicati anche da Medea) e che molti di questi personaggi, vittime e carnefici, subiscono poi una trasformazione che spesso li inserisce nel mondo divino.
Anche Euripide si adegua e forse si ispira a queste vicende del patrimonio mitico nell’ideare quella sorta di apoteosi finale che proietta Medea insieme ai suoi figli nell’universo irraggiungibile degli esseri superiori. Ma la visione è duplice. E se Medea può involarsi nei cieli con il suo carico di martiri eletti, ciò che rimane sulla terra – la civile laica terra greca – è l’azione compiuta e irrimediabile, la più grave la più empia delle azioni, l’infanticidio. Tutto il dramma euripideo è costruito, fin dall’inizio, in vista di questo epilogo, ed è la prima volta che nel teatro attico l'uccisione dei figli di Giasone viene portata in scena e attribuita esplicitamente a Medea.
Il tragediografo aveva a disposizione altre versioni relative alla morte dei figli di Medea, versioni sostenute da nomi autorevoli (Eumelo, Carcino, Pausania soprattutto). E tra queste poteva scegliere:
a) i ragazzi furono lapidati dai Corinzi per vendicare la morte dei sovrani;
b) rimasero vittime di un rito di immortalità messo in pratica dalla madre e non riuscito;
c) furono nascosti dalla madre per sottrarli all’ira dei Corinzi e da questa loro ‘scomparsa’ nacque la leggenda della morte.
Nessuna fonte allude in modo esplicito a un’azione intenzionale e violenta da parte della madre, né la morte dei ragazzi viene messa in relazione con il rapporto di Medea con Giasone. Se non vogliamo credere alla notizia riportate da Eliano e Parmenisco, secondo i quali Euripide compose la tragedia su richiesta e dietro compenso da parte dei Corinzi per riversare su Medea la colpa del crimine e liberare se stessi dall’infamante accusa (notizia peraltro scarsamente attendibile per molte ragioni) – allora possiamo anche pensare che fu proprio Euripide a introdurre questa variante, formidabile e altamente provocatoria, manipolando con grande abilità i materiali tràditi soprattutto nel porre a confronto civiltà e barbarie, nell’affrontare i temi dell ‘altro’, dell’esule, dell’escluso dalla società, e soprattutto nel rendere visivamente percepibile l’opposizione tra l’umano e il divino, apparentemente irriducibile.
Il finale della Medea resta sfuggente e indecifrabile. Ma, qualunque sia il significato che Euripide abbia voluto attribuire alla ‘deificazione’ di Medea, rimane il fatto che l'infanticidio sia stato recepito nei secoli come il tema portante dell’azione, il fulcro di un dramma che vede Giasone e le donne di Corinto, i Corinzi stessi e gli spettatori ateniesi schierati contro la paidophonos, l’assassina dei figli. La poesia tragica crea un mito nuovo, destinato ad attraversare i secoli, il mito della mater terribilis che nel tempo e nelle opere letterarie, da Seneca a Corneille, da Grillparzer ad Anouilh, da Corrado Alvaro a Christa Wolf e ad altri autori moderni, si carica di valenze unicamente e assolutamente umane, fino a diventare un nodo inestricabile di pulsioni innominabili e di psicosi irrisolte.
Soltanto Pier Paolo Pasolini nel suo film Medea interpretato da Maria Callas ricrea intorno alla principessa della Colchide quell’aura di sacralità legata a un mondo in cui la ‘civiltà’ non ha svalorizzato le superstizioni antiche e il sacrificio umano è ancora un gesto incolpevole poiché, nota Massimo Fusillo, “un mondo dominato dal sacro racchiude in sé anche la violenza”. Quest’aura accompagna la Medea di Pasolini in tutto l’arco delle vicende che la conducono dalla Colchide a Corinto. Immersa in quest’aura essa può levare la spada sui figli trasformando l’infanticidio in un rito di immortalità. Medea è dunque la mater terribilis e nello stesso tempo è la mater infinita per la vasta ricaduta che il suo personaggio ha avuto nei secoli da Euripide a Pasolini, passando per moltissimi rifacimenti illustri. Euripide è il creatore del mito letterario che si è imposto su tutte le varianti per la scelta audacissima e, per i suoi tempi, assolutamente inattuale di portare sulla scena una matricida. Le varie fonti mitologiche avevano cercato di mitigare l’atto, senza peraltro poterlo negare, proponendo varie giustificazioni (ha tentato di rendere i figli immortali, ma il rito è fallito e loro sono morti; oppure: li ha ‘nascosti’ per sottrarli alla vendetta dei Corinzi e di lì è nata la voce della loro uccisione; oppure: proprio per sottrarli alla violenza dei Corinzi, ha preferito dar loro la morte di sua mano ecc.).
Euripide descrive un progetto e la sua attuazione sulla base di un disegno preciso che non ha attenuanti. È pur vero che Medea è sola in terra straniera, emarginata, scacciata; è vero che minacciano di toglierle i figli; è vero che amore e gelosia le corrodono l’animo e la mente, e che esita a lungo prima di alzare il pugnale sui figli. Ma alla fine lo compie, il gesto inaudito, esecrato dall’intera Grecia ‘civile’ che subito prende le distanze da questa donna: la barbara figlia della Colchide, la straniera che viene da lontano.
Una madre uccide i suoi figli. Tutto ciò che Euripide costruisce intorno a questo evento è un corollario insignificante. Rimane il fatto, rimane il gesto con cui ogni epoca, ogni autore dovrà confrontarsi. Edipo uccide il padre, sposa la madre. Non lo sapeva, non importa. Ha ucciso suo padre, sposato sua madre. I fatti sono questi.
Nell’immaginario occidentale, Medea è colei che uccide i figli. Si è tentato di alleggerire la sua responsabilità raccogliendo e modificando le voci più antiche: ha ucciso, sì, ma per evitare che i Corinzi vendicassero su di loro l’assassinio della famiglia reale, o meglio ancora, per sottrarli a un‘esistenza infelice, raminga come la sua, li ha uccisi, insomma, per proteggerli, li ha uccisi per amore. Nella più moderna delle rivisitazioni, Christa Wolf le toglie addirittura il coltello di mano attribuendo l’infanticidio direttamente ai Corinzi, restituendo a Medea femminilità e innocenza e rovesciando la colpa sull’ordine sociale in cui prevale le ferocia della cultura patriarcale. Nemmeno lei si accorge che Euripide ha sfiorato i segreti più oscuri e profondi del cuore femminile, che Euripide ha intuito una verità a lungo rimossa e oggi riconsiderata con orrore e spavento. Ogni donna è una straniera che viene da lontano. Ogni madre può essere Medea.
Tradurre Euripide
Di seconda mano è il titolo di un libro, tra racconto autobiografico e saggio, della germanista Laura Bocci, sul tema del tradurre letteratura. Un tema che ha prodotto una bibliografia vasta, importante, di carattere soprattutto teorico. Ma ha raccolto anche le confessioni dei traduttori, occasionali o di professione, le difficoltà le incertezze i dubbi di un lavoro di alto artigianato dove i rischi del passaggio da una lingua all’altra costituiscono la palestra quotidiana, e la responsabilità del compromesso rischia di minare profondamente il senso di appartenenza all'una o all’altra lingua.
Tradurre da una lingua viva è sempre e comunque un'impresa, ma è uno scontro ad armi pari che può risolversi in una metamorfosi felice e feconda. Tradurre da una lingua morta è uno scontro impari con un avversario apparentemente impotente: materia inerte che però, appena toccata, “danza e salta, vivissima” (Woolf, 1998), coglie di sorpresa e spesso disarma. Lingua morta o piuttosto in letargo, che attende di risvegliarsi al tocco magico di un principe/poeta, il poeta dei traduttori, come nella favola della bella addormentata. Ne nasce un rapporto che è sempre in bilico tra verità e verisimiglianza, mistificazione e sublimazione. Nulla è mai come dovrebbe essere, questa è la sensazione predominante, e ogni autore impone leggi proprie. Ogni testo è un'isola. Dire, come fa Edoardo Sanguineti, “che io traduca Sofocle, o un contemporaneo qualsiasi, sono io che traduco: e sono io che sto parlando”, è un’affermazione che consola, ma non aiuta.
Euripide è un inquieto che passa da un registro all'altro. Illude spesso con approcci ‘facili’, usando un linguaggio piano, dall’apparenza semplice. Anche se i dialoghi esibiscono spesso una reticenza jamesiana e i cori si lanciano in evoluzioni inafferrabili nel loro intimo significato. Difficile accordare lo strumento per riprodurre il tono euripideo. Difficile passare dal lirico al didattico, dal petulante al poetico, dal patetico al banale.
L’incipit di Medea – il discorso della Nutrice – non espone misteriosi segreti attraverso trappole linguistiche, ma è esso stesso una trappola nella letteralità del suo enunciato. Quell’iterato desiderio di cancellare il passato andando a ritroso, come in un feed-back cinematografico, è difficile da rendere, così, a scena fredda.
Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς μὴ διαπτάσθαι σκάφος
Κόλχων ἐς αἶαν κυανέας Συμπληγάδας
“Vorrei che la nave Argo non avesse mai oltrepassato le Rocce azzurre volando verso la terra dei Colchi”: prosastico. “Oh se Argo non avesse mai oltrepassato…”: vecchio stile. Una soluzione semplice e moderna è quella offerta da Jonathan Safran Foer nel suo romanzo Molto forte, incredibilmente vicino, dove un ragazzo, che ha perduto il padre nel crollo delle Torri gemelle, rovescia la sequenza degli eventi, persino delle parole pronunciate, per scongiurare ciò che è già irrimediabilmente avvenuto: “... avrebbe camminato all'indietro fino al metro... sarebbe tornato a casa camminando all'indietro… sarebbe tornato a letto, la sveglia avrebbe suonato all'indietro... saremmo stati salvi”.
“Se la nave Argo non avesse volato oltre le Rocce azzurre fino alla terra dei Colchi, se l'albero di pino non fosse stato reciso nelle valli del Pelio per fabbricare i remi, se il re Pelia non avesse mandato quei principi alla ricerca del Vello d'Oro...”. Ecco, così forse: la traduzione non è impacciata e il testo, tutto sommato, è rispettato. Certo, si può fare di meglio, è questa la sensazione che accompagna il traduttore nella sua solitudine, nella sua, inevitabile, ‘malinconia’.
Nota sulle immagini
Le immagini che accompagnano questo testo provengono in gran parte dall’Archivio della Fondazione Inda (AFI). Le Vesti di Medea è il titolo di una mostra, e poi di un libro edito nel 2005 da Lombardi editori, per la cura di Monica Centanni, in cui vengono presentati e analizzati i materiali d'archivio relativi ai costumi di scena di Medea nelle rappresentazioni del Teatro greco di Siracusa (anni 1927, 1958, 1972, 1996, 2004). Nel saggio iniziale – Il velo della ninfa, il costume della barbara, la veste della maga – Monica Centanni rileva come Euripide non accenni mai all'aspetto esteriore del suo personaggio; diversamente da Apollonio Rodio che caratterizza la sua Medea (ma diverso è il genere letterario) con suggestivi anche se brevi accenni improntati a una leggerezza e a una diafana luminosità che si addicono alla ‘ninfa’ da lui cantata': pepli luminosi, veli d'argento, riflessi lunari.
Per ogni messa in scena della Medea di Euripide al Teatro di Siracusa, si è dovuto ricorrere all'immaginazione e all'invenzione, e ogni volta registi, scenografi e costumisti hanno così trasmesso direttamente, attraverso quello che è "il primo, il più evidente elemento di comunicazione tra la scena e la realtà", anche la loro personale interpretazione del personaggio Medea. Ecco quindi in successione la donna d'Oriente, potente e misteriosa seduttrice (Cambellotti 1927), la signora dei filtri, la strega (Frigerio 1958), la maga-bambina pronta alla trasgressione (Luzzati 1972), la 'barbara', simbolo di una civiltà 'altra' (Job 1996), la sposa tradita e vendicatrice (Bickel 2004). I volti di Medea si riflettono nei costumi scenici che traducono visivamente la caratterizzazione anche psicologica della sua persona. È un vantaggio, ma anche una semplificazione del problema. In mancanza di indicazioni, di segni che rinviino all'aspetto esterno, i lettori di Euripide devono affidarsi alla lettera del testo per 'vestire' Medea: operazione che offre la possibilità di esercitare liberamente un gioco virtuale di variazioni scenografiche.
English abstract
This essay contains somes notes and considerations about the myth, the translation and the mise en scène of the tragedy Medea that I have edited in 2009 for the classics performances at Siracusa.
keywords | Medea; Translation; Syracuse; Tragedy.
Riferimenti bibliografici
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Per citare questo articolo: Sul tradurre il greco. Appunti per Medea di Euripide (Inda, Siracusa 2009), a cura di M.G. Ciani, “La Rivista di Engramma” n. 109, settembre 2013, pp. 68-79 | PDF dell’articolo