Dai siti archeologici al paesaggio attraverso l'architettura*
Roberta Bartolone
English abstract
Considerazioni generali sul tema
Lo studio del rapporto tra ricerca archeologica, progetto architettonico e disegno del paesaggio si è sviluppato negli ultimi anni attraverso un intenso e proficuo dibattito scientifico interdisciplinare. In passato il sovrascrivere le tracce della storia con edifici di nuova costruzione era pratica comune, anzi la rinfunzionalizzazione di alcune fabbriche ne ha permesso la sopravvivenza attraverso i secoli, generando un processo di sedimentazione della storia ancora leggibile come testimonianza della continuità nell’uso dei territori attraverso il tempo.
Oggi la riflessione sul 'riciclo dell’esistente' definisce un ampio campo di ricerca, teso a precisare come attraverso il riciclo si possano condizionare, o meglio indirizzare, quelle che sono le trasformazioni della città e del paesaggio contemporanei, incluso il patrimonio storico che di esso è parte essenziale. Un resto archeologico, in quanto emergenza, condiziona la morfologia urbana della città contemporanea, e quindi instaura, per contrasto, una frattura, che solo nel quadro di un programma cognitivo che investe professionalità diverse può ricomporsi e tradursi in progetto. Tale progetto deve essere funzionale alla restituzione di leggibilità e comprensione e al reinserimento delle tracce della storia nell’ambito della città o del paesaggio del presente.
Il fatto che la storia e la sedimentazione delle sue tracce diventino materia del progetto di architettura della città è fra i principi teorici di uno dei maggiori protagonisti del panorama italiano del XX secolo, Aldo Rossi, per il quale le tracce fisiche del passato, impresse nelle forme dell’urbano, intervengono nel processo compositivo, motivando quelle che sono le ragioni stesse dell’agire progettuale. Il dialogo fra architettura e archeologia può aiutare delineando azioni che, sia pure con soluzioni e materiali nuovi, traccino una linea di continuità con la storia dell’edificio e del sito e contribuiscano a riallacciare nel modo migliore il 'monumento' al suo contesto (Le Goff 1978, 38-43). Il rapporto sinergico fra differenti approcci disciplinari è in questo senso essenziale per la comprensione e traduzione di quelli che sono gli elementi emersi da un’azione di conoscenza.
Al contrario, la settorializzazione delle competenze scientifiche ha portato ad interventi puntuali non coordinati i cui esiti non sono stati in grado di rispondere alla molteplicità di aspetti richiamati nelle linee guida del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), relativi al pensiero e alle attività da svilupparsi sul patrimonio culturale italiano. Il Codice chiarisce che gli interventi su beni culturali e paesaggistici sono riconducibili alle azioni di tutela, conservazione, restauro e valorizzazione.
Se i termini di tutela e conservazione sottendono all’esercizio di tutte quelle attività mirate al riconoscimento e alla conoscenza del bene culturale, alla sua protezione, manutenzione e restauro, il concetto di valorizzazione riguarda tutte quelle azioni dirette a promuovere la fruizione pubblica del bene, così da trasmettere i valori antichi e nuovi di cui tale patrimonio è portatore. Tuttavia, da una ricognizione dello stato in cui versa oggi una parte significativa del patrimonio storico del nostro Paese, si nota che gli interventi contemporanei, nella maggior parte dei casi, svolgono solo un ruolo di supporto tecnologico connesso alla necessità di conservazione fisica dei reperti archeologici. Si tratta molto spesso di azioni che hanno come fine la messa in sicurezza o la manutenzione straordinaria dei beni, attuate in condizioni d’urgenza e con l’unico scopo della conservazione fisica del patrimonio storico-archeologico. Il progetto di tutela si traduce quindi semplicemente nell’azione conservativa posta in essere nel momento del ritrovamento che, a breve distanza di tempo, assume i caratteri dell’abbandono, rendendo sporadica e difficile la frequentazione e trasformando la 'rovina' in 'maceria' [1].
In tali casi, l’elemento di maggiore evidenza è che il carattere di temporaneità delle strutture di presidio a protezione del bene troppo spesso confligge con quelli che sono invece i tempi reali del suo reale permanere in opera. Questo spiega perché talvolta, nella letteratura specialistica del progetto urbano, termini come 'resti' e 'rovine', intesi come frammenti del patrimonio storico archeologico, possano essere inclusi insieme a 'scarti' e 'detriti' all’interno di una definizione più generale di 'paesaggi dell’abbandono', che nasce da una difficoltà nella capacità di attribuzione e percezione di valore di luoghi che dovrebbero essere assunti, al contrario, a simbolo della memoria collettiva della comunità.
La 'segregazione' fisica e l’interruzione nel comune fruire del bene archeologico si traducono in disaffezione e perdita di senso condiviso rispetto a quei segni che dovrebbero invece rappresentare la memoria fondativa di ogni civiltà insediata in un particolare luogo. Come notato da Andreina Ricci (Ricci 2006), "se nell’epoca fascista l’isolare i monumenti e le rovine rientrava in un’ottica di manipolazione pedagogica della storia, in cui l’antico era assunto a simbolo di potere politico e doveva essere percepibile da quanti più cittadini possibile, oggi purtroppo siamo di fronte ad un atteggiamento diverso, che vede l’isolamento come anonimato". Ecco perché, ad uno sguardo disattento, molti siti archeologici recintati o coperti da opere prive di disegno sono assimilati ad una qualsiasi area di cantiere o spazio residuale. La separazione fra tracce antiche e tessuti contemporanei, caratterizzata da una contingenza fisica, ma allo stesso tempo dalla discontinuità nell’uso del medesimo contesto, genera una conflittualità che ancora oggi trova difficilmente risoluzione nella pratica progettuale e negli indirizzi di pianificazione territoriale.
Rispetto a tale tematica, un interessante studio condotto dal ceSTer-Università di Roma Tor Vergata pone l’attenzione su un caso emblematico, ovvero quello del comune di Roma. La ricerca, strumentale alla stesura della 'carta per la qualità urbana' del Piano Regolatore è stata incentrata sull’analisi di quella parte del territorio comunale esclusa dall’area monumentale romana (rappresentante per estensione una superficie pari al solo 1%-2% della città), ma ugualmente costellata di frammenti, reperti e rovine, localizzati negli spazi interstiziali del tessuto urbano, cresciuto in prevalenza fra gli anni Cinquanta e Settanta [2].
Di recente, nel 2012, con la pubblicazione dell’Atlante di Roma antica, curato da Andrea Carandini, una équipe di specialisti fornisce, dopo un lavoro ventennale, uno strumento di conoscenza del territorio della Capitale utile anche a quanti dovranno effettuare interventi di carattere architettonico in un ambito urbano segnato in modo cospicuo da tracce di storia. La necessità di definizione di strumenti operativi atti alla ricomposizione fra parti della città, da recepirsi all’interno delle linee guida di pianificazione del territorio, appare una priorità che non interessa solo il caso romano, ma va estesa a tutto il territorio nazionale, in considerazione dell’altissima concentrazione di reperti archeologici e storici disseminati nelle aree urbane ed extra-urbane del territorio italiano.
Il recente D.M. del 18 aprile 2013 [3], nella stesura di linee guida per la costituzione e valorizzazione dei parchi archeologici, riconosce che dall’applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione (Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3) e del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio "scaturiscono talvolta conflitti di competenza, riconducibili alla condivisione fra più soggetti pubblici delle responsabilità di tutela e di pianificazione paesistica, ambientale, urbanistica dei territori". Dopo l’esame delle caratteristiche oggettive dei parchi il Decreto suggerisce forme progettuali che, partendo dal progetto scientifico, elaborino specifici progetti relativi alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione. Viene evidenziata la necessità di contestualizzazione storica dei resti, e l’obbligatorietà che nello studio del paesaggio confluisca anche l'analisi architettonico-urbanistica, con un’attenzione particolare ai servizi e alle 'aree di bordo', che definiscono i rapporti con il contesto esterno (vie di accesso, trasporti, parcheggi, aree di sosta, recinzioni, ecc.).
Per quanto esposto e meglio articolato negli esempi a seguire, il progetto di studio di un sito archeologico dovrebbe instaurare con il progetto architettonico e urbanistico un interscambio di conoscenze che contribuisca a restituire al territorio la migliore risposta in termini di valorizzazione, poiché strutturata a partire da quelli che sono i differenti caratteri di ciascun luogo. Il rapporto tra città e preesistenze varia, infatti, sia a seconda della natura del reperto (scala, estensione, tipologia, caratteristiche funzionali, capacità simbolica), sia delle sue condizioni rispetto al contesto, città o paesaggio aperto contemporanei, in cui il bene è situato.
Anche la dimensione antropologica dei luoghi dell'archeologia incide infatti in maniera determinante sul rapporto tra architettura e archeologia. Come già detto, le tracce della storia, estrapolate dai contesti e private della loro dimensione antropologica, sono paragonabili a "non luoghi" (Augé 2009). A fianco di quei siti per i quali la condizione di isolamento risulta essere totalizzante sia dal punto di vista fisico-spaziale che temporale, ve ne sono altri per i quali l'isolamento è piuttosto determinato dalle modalità con cui essi vengono 'abitati'. Come constatato da G. Longobardi (Longobardi, Carlini 2002), non sempre o almeno non per tutti i siti archeologici l'essere privati della dimensione "di vissuto quotidiano" coincide con una scarsa fruizione. Basti pensare al circuito Colosseo-Palatino-Foro Romano (dati dell'ufficio statistica del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, rilevazione 2008) che continua ad essere 'abitato' da 4.777.989 visitatori annui. Quello che risulta essere mutato è quindi il tipo di fruizione del patrimonio archeologico, che ha più a che fare con le logiche di sviluppo economico legate al turismo che al repertorio dei modi d'uso della quotidianità.
Rispetto a tale tema si è espressa Françoise Choay, che nel saggio L’allegoria del patrimonio riflette sui danni prodotti sul patrimonio storico dall’industria culturale (Choay 1995). Se da un lato va riconosciuto il peso e il valore che possiedono i beni culturali per lo sviluppo diffuso dei sistemi locali in relazione all'economia della cultura, va anche ribadito e sottolineato il ruolo fondamentale delle aree archeologiche in quanto patrimonio comune di testimonianze storiche (identità e memoria) di un dato territorio, da salvaguardare in un processo combinato di tutela, gestione e fruizione.
Come notato da Gianfranco Spagnesi Cimbolli (Torsello 2005), la salvaguardia della storicità dell’esistente non deve negare la continuità del processo di trasformazione, per cui intervenire sull’antico comporta azioni contemporanee mirate, in ragione della trasmissione dei valori veicolati dalle tracce della storia. L’idea che ne consegue è quella della necessità di produrre una nuova immagine contemporanea della città e del territorio, in ragione della trasmissione nel futuro del senso e del valore dello spazio fisico esistente, quale può determinarsi esclusivamente attraverso un dibattito scientifico interdisciplinare che sviluppi il rapporto tra pratica architettonica, ricerca archeologica e disegno del paesaggio, affrontate pensando ad una progettazione urbana che debba necessariamente operare a più livelli e per più tipologie di fruitori, evitando quello che è un uso monotematico delle aree ad esclusivo vantaggio di una fruizione turistica non particolarmente o non sempre consapevole del contesto storico/geografico/antropologico nel quale si colloca il bene.
Da queste premesse generali si è sviluppato il presente lavoro di ricerca, che, senza l’ambizione di essere esaustivo, si è proposto di predisporre uno strumento operativo implementabile e trasversalmente destinato ai diversi soggetti interessati alla valorizzazione dei beni storico-archeologici presenti sul territorio nazionale, utile ad una riflessione sulle possibili modalità di risoluzione di una conoscenza che riesca a coniugare la tutela con la fruizione contemporanea. I casi studio selezionati sono stati volutamente circoscritti ad un arco temporale limitato all’ultimo trentennio, con l’intenzione di dare un’istantanea sullo stato dell’arte della pratica odierna nel campo della valorizzazione, e declinare interventi diversi relativamente a caratteristiche morfologiche, tipologiche e geografiche dei siti.
L’atlante di soluzioni progettuali realizzate, che naturalmente non possono che essere esemplificative esclusivamente di alcune strategie per la definizione di modelli territoriali virtuosi, può fornire un primo indirizzo per la progettazione sviluppata in funzione della valorizzazione del patrimonio culturale, in grado di puntare sulla capacità della città e del paesaggio di rigenerarsi, a partire dalla propria abilità di riciclarsi e reinterpretare l’esistente, accompagnando alla fase cognitiva e di studio del bene dal punto di vista storico la costruzione dell’immagine contemporanea del sito archeologico, propria del progetto architettonico.
Criticità e valorizzazione
Nel recepire quelli che sono i principi espressi nell’art. 6 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [4], la ricerca dal titolo Dai siti archeologici al paesaggio, attraverso l’architettura, svolta in collaborazione alle attività dell’Unità di Ricerca Iuav Architettura ed archeologia dei paesaggi (referente Aldo Aymonino), è stata orientata verso lo studio di soluzioni progettuali già realizzate, atte a perseguire l’obiettivo della valorizzazione del patrimonio storico, inteso come attività diretta a mantenere l’integrità, l’identità e l’efficienza funzionale di un bene culturale, migliorandone le condizioni di conoscenza e di conservazione, e incrementandone la fruizione pubblica, così da trasmettere i valori di cui tale patrimonio è portatore.
Il punto di partenza è stato quello di evidenziare, rispetto al panorama di interventi realizzati sul territorio nazionale, gli elementi che è possibile riconoscere come criticità rispetto a quelli che dovrebbero invece essere gli esiti attesi da tutte le azioni che rientrano sotto la pratica della valorizzazione. Fissando i termini del problema rispetto alle premesse teoriche sintetizzate nel precedente paragrafo, è possibile notare come vi siano delle tematiche ancora non del tutto risolte nelle modalità esecutive funzionali alla tutela e che riguardano principalmente due ordini di aspetti. Il primo è quello dell’integrazione fisica fra le strutture 'in aggiunta' e il sito archeologico: l’intervenire nel campo della conservazione dei beni culturali non può non essere pensato come fare contemporaneo, che necessariamente deve confrontarsi con le discipline della progettazione architettonica ed urbanistica. Il secondo tema riguarda la capacità del progetto di architettura di fungere da strumento interpretativo, fondamentale alla restituzione di senso e quindi alla trasmissione del valore delle tracce della storia.
Secondo quanto raccomandato dall’ICOMOS "All visible interpretive infrastructures (such as kiosks, walking paths, and information panels) must be sensitive to the character, setting and the cultural and natural significance of the site, while remaining easily identifiable" (The ICOMOS Charter for the Interpretation and Presentation of Cultural Heritage Sites, Quebec 2008, 4.3). Nella maggior parte dei casi si constata invece che gli interventi architettonici che spesso osserviamo si compongono di elementi che potremmo definire 'da catalogo', assimilabili per materiali e forme, anche se applicati a siti di diversa connotazione. Si nota inoltre la scarsa caratterizzazione delle strutture rispetto non soltanto alle emergenze archeologiche, ma anche alla diversità dei contesti d’intervento.
Nel tempo attorno alle vestigia storiche il nascere di nuovi centri abitati, di addensamenti edilizi, di aree produttive appartenenti alla maglia del tessuto contemporaneo fanno sì che occorra elaborare un progetto architettonico che operi una ricomposizione fra sito e intorno, sottolineando assenze, mettendo in campo congiunzioni, interponendo separazioni e soprattutto reinterpretando ciò che della storia resta e si vuole debba affiorare nel presente. Molto spesso invece la reiterazione di tipologie simili per materiali e forma di recinzioni, coperture, passarelle, parapetti, box di servizio e biglietterie, indipendentemente dalla tipologia del sito e dalla sua collocazione, non aiuta in questa missione di ricomposizione a cui il progetto dovrebbe tendere. Tali dispositivi, infatti, non sono studiati e messi in opera per intessere relazioni con i contesti locali, siano essi urbani o extra-urbani, né tantomeno per fornire strumenti in grado di suggerire al visitatore l’esistenza di un racconto, che connota e colloca le tracce della storia rispetto ad una delle fasi di vita di un determinato luogo.
Molti degli interventi operati nel campo della progettazione architettonica a servizio dell’archeologia producono un’interruzione in quel processo metabolico di rinnovamento della città e del paesaggio, che ha visto il rigenerarsi di essi stessi a partire dalle proprie tracce e dal permanere di alcune delle forme nel tempo. A titolo esemplificativo si può ricordare ancora che la recinzione quale strumento di perimetrazione dell’area archeologica troppo spesso rappresenta la sola traduzione in termini fisici dei vincoli imposti dalla disciplina urbanistica.
La parola recinto – forma sostantivale dal participio passato del verbo recingere – richiama una delle azioni più antiche compiute dall’umanità. Ponendo limiti e definendo tracciati, l’uomo esercita un atto di fondazione, che implica il fatto di scegliere e quindi riconoscere, come proprio, un luogo specifico fra la pluralità di luoghi esistenti. Ogni gesto di fondazione rimanda ai concetti di misura ed orientamento, che sono due categorie spaziali che immediatamente, secondo gli schemi cognitivi e le mappe mentali comuni, collegano al termine recinto. La parola rimanda ancora al termine greco Temenos (τέμενος), il cui significato indicava il cambio di proprietà, che avveniva nel momento in cui una porzione di suolo pubblico era assegnata come attestato di onorificenza a un proprietario privato. I caratteri connotanti del recinto sono molteplici e riguardano la morfologia e tipologia del sito e dell’elemento posto come dispositivo di delimitazione dello stesso. In primo luogo vanno tenute in conto la dimensione e l’ubicazione. Quest’ultima in quanto relazione, in termini di distanza, tra l’unità spaziale conclusa e l’area circostante, urbana o extraurbana. Altro elemento distintivo è la natura dello spazio incluso all’interno del recinto, che può variare da aree vuote a aree occupate da strutture edificate. La tipologia e connotazione di tale dispositivo riguarda inoltre la destinazione d’uso, infatti si riconoscono nella storia recinti civili ed altri a carattere religioso (da cui il latino templum).
In ultimo è da tenere presente come il tipo di delimitazione possa essere diversificata mostrandosi alle volte reale, sia essa continua o frammentata, o fittizia. Quello del recinto è un archetipo, in quanto forma primitiva e persistente anche nel paesaggio contemporaneo. Nel comune immaginario cognitivo è frequente associare ancora oggi al recinto un limite, un cambio di destinazione d’uso o di proprietà, che differenzia la sfera privata da quella pubblica e nel caso di recinti specializzati identifica immediatamente un luogo ad un particolare uso che viene svolto al suo interno. Il recinto continua ad essere elemento di misura in grado di renderne leggibili le gerarchie proprie della città e del territorio.
Da un’immagine satellitare, il paesaggio contemporaneo si svela come insieme di recinti, che variano per dimensione, localizzazione, densità, carattere e forma delle reti che li pongono in connessione gli uni con gli altri. Partendo dal presupposto che i recinti archeologici sono elemento qualificante del paesaggio, la domanda che fa da sfondo alla ricerca è quali sono le modalità per rendere evidente tale valore e che tipo di relazioni i 'recinti' sono in grado di intessere con la pluralità di altre figure che in modo diacronico coesistono sullo stesso territorio. Le risposte dovrebbero, a partire da quello che è il senso intimo del termine, sviluppare soluzioni in termini progettuali rispetto ai concetti di misura, orientamento, tipologia e natura del recinto inteso come spazio fisico contemporaneo.
Indirizzi progettuali
L’organizzazione dei casi studio in categorie ha condotto a evidenziare un elenco di strategie progettuali, di seguito elencate, esito dell’applicazione di modelli funzionali alla valorizzazione del patrimonio storico.
A. Sottolineare l’assenza
In assenza di tracce fisiche o nei casi in cui non sussistano le condizioni per riportare alla luce le strutture archeologiche, la comunicazione del patrimonio immateriale della storia può avere luogo mediante un processo cognitivo di rielaborazione degli stimoli (visivi, uditivi, olfattivi) indotti durante la visita. La strategia progettuale in questi casi può essere rappresentata dalla 'restituzione dell’assenza'. Alcuni dei casi studio analizzati mostrano come questo possa avere traduzione pratica nei seguenti aspetti progettuali:
- analisi dei rapporti spaziali e dei ritmi di pieni e vuoti all’interno del perimetro archeologico (Centro visitatori e di documentazione 'Topografia del terrore', Berlino);
- studio del diverso uso cromatico dei materiali (Centro visitatori e di documentazione 'Topografia del terrore', Berlino; Parco archeologico piano della Civita di Artena);
- architettura del verde (Parco archeologico Claterna; Parco della Battaglia di Varo).
B. Interpretare per restituire il senso dell’integrità figurativa del manufatto
In alcuni esempi il patrimonio storico affiora allo stato di rudere e necessita di dispositivi che consentano di comunicare l’integrità figurativa del complesso. In questi casi i dispositivi architettonici possono essere concepiti per assumere un carattere interpretativo necessario alla comprensione dei luoghi. Elementi del progetto quali recinzione e passerelle divengono elementi essenziali nell’assolvere a tale funzione.
In particolare rispetto a questo tema si segnalano i seguenti punti:
- traduzione contemporanea degli elementi di recinzione al fine di segnalare la matericità di strutture antiche ormai distrutte o l’entità del ritrovamento (Restauro e riuso del Castello di Segonzano; Intervento sulla Muralla Nazarì; Musealizzazione Domus dell’Ortaglia);
- differenziazione di passerelle e percorsi (materiali, appoggi, permeabilità alla visuale verso i resti, dilatazione o restrizione dell’ampiezza dei sistemi di distribuzione) in base al ruolo di segnalazione delle diverse entità compositive del complesso archeologico a cui vanno in aggiunta (Parco archeologico di Olmeda; Parco della Battaglia di Varo).
C. Operare la separazione o la congiunzione
I diaframmi posti a tutela e protezione dei resti archeologici rappresentano uno dei maggiori vincoli nella pratica della valorizzazione. La strategia progettuale in tali casi consiste nello studio dell’elemento di delimitazione del sito, sia esso un involucro edilizio o un elemento lineare di recinzione, come dispositivo in grado di suggerire o negare relazioni fra area archeologica e contesto.
In questo senso i punti di cui tener conto in fase di stesura del progetto sono:
- studio della permeabilità e del carattere dell’elemento di bordo (Parco archeologico Selinunte);
- studio delle visuali e definizione delle forometrie o varchi del recinto (Musealizzazione Domus dell’Ortaglia);
- potenzialità di sfruttare la sezione dell’elemento di bordo per la collocazione di volumi di servizio (Parco archeologico Selinunte; Restauro e Riuso del Castello di Castelo Novo; scheda Recupero Torre Massimiliana a San Erasmo,Venezia).
La costruzione di una tassonomia di progetti di architettura per l’archeologia
Nel tentativo di costruire una tassonomia di interventi architettonici funzionali all’archeologia, si è cercato di mettere a sistema i casi studio riconducendoli a tre categorie: grandi città archeologiche, recinti fortificati o sistemi infrastrutturali, strutture unitarie. A fronte della molteplicità delle vestigia, diverse per epoca e stato di consistenza, la riconduzione a tre uniche tipologie potrebbe risultare riduttiva ed estremamente semplificativa. Questo ha permesso tuttavia di spostare l’attenzione della ricerca da quello che è il tipo di emergenza archeologica e il periodo storico di appartenenza all’esito dell’interazione di dispositivi contemporanei e resti in progetti di musei, parchi urbani, parchi agricoli, e parchi archeologici in spazi extraurbani dalla forte valenza paesaggistica.
Seppur si riconosce di avere operato una 'forzatura' nell’includere all’interno di una stessa categoria manufatti eterogenei per epoca e destinazione d’uso (domus, castelli, manufatti militari, ecc.) si è scelto, nella costruzione della tassonomia elaborata all’interno del presente lavoro di ricerca, di concentrarsi più sugli esiti virtuosi dell’interazione tra l’emergenza archeologica e costruito contemporaneo che sui caratteri storici del singolo resto. Provare a spostare l’attenzione di ricerca dalla campionatura delle categorie di manufatti alla rifunzionalizzazione è stata utile alla comprensione di alcune strategie di intervento trasversali a più tipologie di emergenze archeologiche. In conclusione, i casi studio scelti sono stati individuati per la loro capacità di fornire risposte in termini progettuali a quelle che sono state evidenziate come criticità dell’agire contemporaneo in relazione alla valorizzazione dell’archeologia.
Metodologia di classificazione dei casi studio
La disamina degli esempi scelti è stata svolta attraverso la scomposizione e l’analisi delle singole componenti progettuali. Di ciascuno dei dispositivi architettonici realizzati in 'aggiunta' al sito archeologico, si sono evidenziati i caratteri necessari a qualificare l’intervento, sia in funzione della conservazione che della tutela attiva del bene. L’attività di classificazione degli esempi è presentata sotto forma di schede il cui corpo principale presenta la descrizione sintetica dell’intervento, di cui propone una lettura critica rispetto a quelle che sono le strategie messe in campo, attraverso le quali sia stato possibile operare la ricongiunzione fra area archeologica e contesto o che abbiano permesso di migliorare le modalità di fruizione del sito o di fornire una migliore comprensione delle tracce storiche. Il format elaborato ha caratteristiche comuni per le diverse tipologie di progetti: dalla musealizzazione alla re-introduzione di resti archeologici in spazi pubblici urbani o parchi extraurbani.
La scheda è divisa in due sezioni principali. Nella prima parte sono individuate la localizzazione geografica del sito archeologico, una breve introduzione storica, i crediti del progetto architettonico con le indicazioni di: progettista, cronologia dell’intervento, impresa esecutrice e, ove rinvenuti, i dati relativi all’importo delle opere appaltate. La seconda sezione della scheda è dedicata alla disamina critica delle componenti principali del progetto, di cui vengono evidenziati i dati tecnici dei materiali, la reversibilità, la capacità di interpretazione dell’emergenza archeologica e di attivazione di relazioni esterne all’area oggetto di valorizzazione. All’interno del format a corredo della parte descrittiva è stata elaborata una sezione grafica con immagini e disegni. Per permettere una lettura immediata dei progetti, si è deciso di ricorrere alla restituzione di ogni intervento mediante l’uso di cinque colori rappresentativi delle seguenti componenti: emergenza storico-archeologica, volumi di servizio, percorsi, elementi di recinzione, parcheggi.
Ogni scheda riporta nella prima sezione due gruppi di pittogrammi. Il primo comunica sinteticamente le informazioni relative a: tipologia di bene, stato di conservazione, fruizione e localizzazione rispetto al contesto contemporaneo. Il secondo riguarda i caratteri delle strutture architettoniche poste in opera dal progetto individuate in: volumi di servizio, percorsi, elementi di recinzione, parcheggi.
Interventi alla scala territoriale nei casi ritrovamenti di città archeologiche, recinti fortificati e sistemi infrastrutturali
Azioni di valorizzazione di emergenze quali recinti fortificati, conservati per tratti più o meno ampi, o grandi complessi archeologici, proprio per il fattore di scala, dovrebbero rappresentare l’occasione per intervenire sul disegno dello spazio pubblico della città o del paesaggio nel caso di contesti non urbanizzati. Gli strumenti del progetto in questo caso sono spesso le stesse componenti della maglia del tessuto contemporaneo, come la trama dei percorsi e il disegno del suolo, la cui caratterizzazione suggerisce la presenza di livelli antecedenti della storia del luogo.
Alcuni degli esempi analizzati hanno messo in evidenza come nel caso di aree archeologiche dalla grande estensione inserite in contesti dalla forte valenza paesaggistica una delle difficoltà che concorre alla comprensione del sito è la comunicazione dell’entità del patrimonio ritrovato, sia che esso sia riportato alla quota di campagna, sia che esso permanga allo stato ipogeo. In risposta a tale problema, l’introduzione di dispositivi architettonici quali terrapieni o belvedere, elevando il punto di vista dell’osservatore, possono, fornendo una veduta sintetica dell’area, concorrere da un lato alla comprensione complessiva dei resti e dall’altro alla lettura di quelle che sono le componenti peculiari e caratterizzanti del paesaggio stesso. Un’altra strategia messa in campo è quella della reiterazione di elementi quali piccoli padiglioni o landmark e della variazione nel tipo di pavimentazione o vegetazione impiegate, a segnalazione della presenza diffusa dei resti anche nei casi in cui non sia possibile portarne in luce la reale consistenza.
Altro tema riguarda l’introduzione di edifici di servizio a supporto dell’area archeologica indispensabili a permetterne la regolare fruizione e gestione. Nel caso delle biglietterie, tali strutture, in ragione della loro funzione, si trovano quasi sempre ai bordi del sedime archeologico e rappresentano un diaframma fra sito e contesto. La progettazione di tali volumi dovrebbe tenere presente quale tipo di relazioni formali queste strutture sono in grado di intessere con l’elemento di recinzione e come il loro orientamento e dimensione possano non essere conflittuali rispetto alle emergenze archeologiche e allo stesso tempo non alterare i caratteri formali del paesaggio esaltandone invece quelle che sono le sue peculiarità.
Come sottolineato in alcuni casi studio è necessario dare risposta è quello che riguarda l’opportunità o meno, in base alle condizioni all’intorno dell’area archeologica, di operare una congiunzione proiettando il sito alla scala territoriale o piuttosto sottolinearne la separazione rendendo impermeabili i bordi del recinto.
Come si può notare nei casi dei siti di città greche come Morgantina, Paestum e Selinunte, i caratteri geografici del recinto, quali giacitura, orientamento ed estensione, restituiscono all’utente ancora prima di intraprendere la visita l’idea della consistenza effettiva del giacimento archeologico. Il perimetro allora, in quanto dispositivo strumentale alla protezione, può concorrere direttamente al processo individuale di comprensione dello spazio, fornire una traduzione reale di quelle che sono le ricostruzioni scientifiche operate dagli archeologi, evidenziare gli elementi principali dello scavo e della storia del luogo anche in senso diacronico.
Intessere relazioni con l’intorno contemporaneo al bordo delle aree archeologiche comporta infatti che in taluni casi il progetto architettonico debba operare delle scelte, selezionando quali visuali sono più funzionali alla valorizzazione. In tal senso la scelta di come modulare l’elemento di perimetrazione appare fondamentale nella definizione di tale indirizzo progettuale. L’analisi della posizione e dimensione dei varchi di accesso e di eventuali forature, l’altezza, il grado di permeabilità, i materiali dell’elemento di bordo come anche lo studio della sua sezione e la relazione con i volumi di servizio possono essere risolte in modo coerente solo se sviluppate a partire dall’analisi integrata della tipologia e morfologia dell’area archeologica e delle condizioni al contorno.
I riferimenti ai progetti qui di seguito sintetizzati intendono essere esemplificativi rispetto a quanto sino a qui riportato.
L’esempio del parco archeologico di Selinunte mostra come l’elemento di recinzione possa assumere un valore aggiunto, che è quello di declinarsi a seconda delle differenti condizioni a contorno dell’area definite dal paesaggio contemporaneo. Dove i progettisti hanno ritenuto di dovere separare il sedime su cui sorgono i templi della città greca dal tessuto urbano privo di ordine realizzato negli anni Settanta, l’espediente progettuale è stato quello di predisporre, come elemento di delimitazione del parco, un dispositivo impermeabile alla vista, rappresentato da un rilevato in terra. Lungo i perimetri esterni verso i confini con l’arenile ed il Fiume Modione, invece il recinto diventa elemento di mimesi con la natura, permeabile alla vista verso l’esterno dell’area archeologica.
La duna si attesta vicino alla zona di accesso al sito. La sezione del rilevato in terra è stata pensata per ospitare il volume della biglietteria, che si apre con un grande facciata vetrata verso lo spazio del parcheggio. Nell’idea iniziale di progetto, l’ingresso all’area archeologica sarebbe dovuto avvenire da un sistema di percorsi a tridente, che intersecano ed interrompono la duna in tre punti posti su assi che si proiettano in un ideale fuoco segnalato dal disegno della pavimentazione dello spazio pubblico subito esterno al parco. Tali varchi sono assimilabili a cannocchiali e inquadrano tre punti nodali del sito archeologico. Oggi, purtroppo, il senso di questa traduzione in termini progettuali di restituzione sintetica del paesaggio non è percepibile, poiché il percorso viene intrapreso in uscita piuttosto che in entrata.
Il caso dei parchi archeologici di Piano della Civita ad Artena e quello del teatro di guerra della battaglia tra le legioni romane guidate da Publio Quintilio Varo e i Teutoni nel 9 secolo d.C., ad Osnabrüch, in Germania, rappresentano buoni esempi di come sia possibile attraverso l’architettura rendere evidente la presenza del livello archeologico anche in assenza di tracce materiali. In entrambi i casi, come a Selinunte, i giacimenti archeologici sono situati su un ampi territori dalla forte valenza paesaggistica e a vocazione rurale o agricola.
Nel caso di Artena l’area archeologica è priva di perimetrazione e si fonde senza soluzione di continuità al paesaggio. Il tema principale sviluppato dal progetto è stato quello di comunicare l’entità e l’importanza dei ritrovamenti della città romana costruita fra il V e IV secolo a.C., a fronte del fatto che la maggior parte dei reperti è mantenuta ad uno stato ipogeo ai fini di tutela. La segnalazione delle emergenze archeologiche, con soluzione progettuale ottimale, è affidata al disegno di aree leggermente ribassate e trattate con una pavimentazione in polvere di pietra di cava bianca perimetrata da un ciglio in pietra. Le dimensioni e la localizzazione di tali recinti coincidono esattamente con la posizione dei reperti romani. All’interno del perimetro pavimentato sono realizzati dei 'pozzi stratigrafici', ovvero vuoti attraverso i quali il visitatore traguarda il piano di campagna e osserva i ritrovamenti archeologici. L’iterazione dei 'recinti' nel paesaggio è strumento per il racconto di un livello precedente della storia del luogo, che non altera però in alcun modo quelli che sono i caratteri della sua attuale natura. La forma delle strutture di servizio rimanda alle dimensioni dei pozzi ipogei rinvenuti in situ e le geometrie semplici degli elementi contemporanei sono fortemente connotate alla natura dei resti. In particolar modo, i volumi dei servizi sono pensati di forma cilindrica e rivestiti in pietra, per alludere alle tante cisterne e pozzi presenti. La localizzazione del centro visitatori è studiata rispetto alle curve altimetriche ed al naturale declivio del terreno, in modo che la copertura possa essere percepita da un livello sopraelevato, ovvero quello della soprastante piazza del fontanile, come l‘ideale proseguimento del piano di campagna.
Nel caso del sito archeologico della battaglia di Varo la traduzione della storia viene attuata a partire dalla completa assenza di tracce materiali. Dell’accadimento storico infatti non sono stati rinvenuti se non piccoli frammenti o tracce di opere difensive, che da sole non sarebbero state in grado di comunicare la ricostruzione storica della battaglia . L’area si estende nello spazio di trenta chilometri quadrati nei quali l’unico ritrovamento è stato un terrapieno, che rappresenta il margine difensivo dietro il quale i Teutoni attesero il passaggio delle legioni romane. Quello che viene mostrato nel parco della battaglia di Varo non è che il paesaggio contemporaneo, le cui componenti tuttavia sono strutturate in modo tale da suggerire un livello temporale antecedente a quello dell’osservatore. La strategia del progetto è quella di fornire una traduzione del racconto archeologico a partire da suggestioni evocate dal ridisegno delle componenti del territorio contemporaneo. La prassi progettuale ha previsto l’inserimento di dispositivi minimi. Segni di pavimentazione posati direttamente sul terreno o piccoli padiglioni fungono da strumenti interpretativi. I materiali dei percorsi principali all’interno del parco sono pensati per segnalare la ricostruzione storica dei sentieri battuti dalle truppe romane e dai Teutoni nella foresta, coniugandola con la trama del paesaggio agricolo. Un’ulteriore possibilità di lettura del sito è fornita dalla vista zenitale che si gode dall’alto della torre del museo, un’unica costruzione di grande stanza, nella quale i reperti recuperati in loco ricostruiscono elementi della cultura romana e di quella teutone.
Il caso di Madinat Al-Azhra, in Spagna, può essere ritenuto un progetto attento nello studio di come localizzazione e caratteri delle nuove strutture architettoniche in aggiunta al sito archeologico possano non alterare ma piuttosto evidenziare il valore del paesaggio.
Il progetto nasce dalla necessità di costruzione di un edificio di servizio che assolva alle funzioni di centro informazioni ed antiquarium dei numerosi frammenti rinvenuti in situ in prossimità dell’insediamento della cittadella islamica. Il nuovo museo è posto ai margini del recinto, con lo scopo di non interferire con il futuro avanzamento delle fasi di scavo. Il contesto rurale su cui insiste il sedime archeologico è recepito nei caratteri formali del linguaggio architettonico del nuovo intervento. L’idea di non intervenire sul paesaggio, anzi di assumerlo a elemento del progetto architettonico, fa sì che gli spazi del museo siano costruiti di poco sollevati rispetto alla quota del piano di campagna, articolandosi secondo una successione di spazi ipogei interni ed esterni, che sono rilettura in chiave contemporanea dell’eredità architettonica islamica del giacimento.
Come evidenziato nella premessa introduttiva, in casi di contesti antichi di vasta scala, di ritrovamenti quali recinti fortificati e sistemi infrastrutturali in spazi altamente urbanizzati, si possono indirizzare le dinamiche di trasformazione della città intervenendo sul ridisegno di spazi pubblici e aree verdi urbane, ridefinendo quello che è il rapporto tra centro e periferia o mutando aree residuali in nuove centralità. Rispetto a tale tema risultano essere rappresentativi i casi del Cairo e di Cefalù.
Come mostra il progetto di riscoperta e riqualificazione delle mura della città Ayyubid del Cairo, il recupero dell’estensione del manufatto archeologico può portare all’attivazione di programmi complessi, i cui esiti possono incidere profondamente sui rapporti spaziali e sulle condizioni socio-economiche di interi quartieri della metropoli contemporanea, modificando le condizioni ambientali e la qualità di vita delle comunità locali, con un’offerta culturale e di servizi che riesca a valorizzare la valenza simbolica e storica dei luoghi, ma a sposare anche esigenze della città moderna. Il progetto nasce dall’idea iniziale dell’Aga Khan Trust for Culture, di donare alla metropoli del Cairo uno spazio verde all’interno delle città. Il sito scelto per la realizzazione del parco, corrispondente ad un’area di circa 33 ettari, presenta un’orografia artificiale dovuta all’uso a discarica dell’area, protrattosi per molti secoli. Durante la fase di movimentazione delle macerie fu riportata progressivamente alla luce una porzione di 1,3 Km di mura della città storica. Il progetto che inizialmente doveva essere limitato al sito di Darassa, si è rivelato motore per l’attivazione del programma di restauro di tutto il sistema di fortificazioni al limite dell’area verde, ed al recupero urbano del contiguo quartiere storico di Darb-al-Ahmar, sviluppatosi a ridosso dell’emergenza archeologica.
Il caso del restauro del recinto megalitico di Cefalù è esemplificativo di come il principio ordinatore per la realizzazione della continuità urbana fra gli spazi della città storica e la linea di costa sia posto nel recupero della preesistenza archeologica. L’operazione compiuta sul sedime dell’antico fronte offre l’occasione per ridisegnare il limite fra soglia naturale e costruito artificiale, riallaccia il perduto rapporto della città con il suo mare e con il paesaggio, valorizza le preesistenze (torri, bastioni, mura) con nuove strutture (panchine, scale, consolidamenti). Attraverso percorsi pedonali connessi agli accessi urbani di Porta Pescara, di Capo Granaio, del Bastione, della Postierla, di Porta Giudecca e di Capo S. Antonio, la scogliera si integra al tessuto urbano trasformandosi in 'parco degli scogli', interamente percorribile dalla marina a Presidiana. Gli interventi al Bastione, alla Postierla, a Porta Pescara, recuperano la possibilità di passaggio fra interno ed esterno del recinto megalitico, la quale era stata in più punti negata, articolandosi in piccoli belvedere-terrazze, scalinate, parapetti, panche, alberature. Ogni elemento è leggibile come componente del sistema 'parco' che trova declinazioni diverse nel suo rapportarsi alla presenza archeologica.
Anche a Siracusa, il recupero delle mura dionigiane è l’elemento cardine per la struttura del parco dell’Elipoli. Il progetto del verde, inserito nel PRG, ha come obiettivo la riqualificazione delle emergenze storiche della città greca all’interno del processo di rifunzionalizzazione dello spazio urbano in continuità fisica con le rovine. Il parco diviene dispositivo strutturante della città contemporanea, ma connotato dal valore aggiunto che risiede nella capacità di conciliare e rendere visibili livelli temporalmente diversi, appartenenti allo stesso palinsesto territoriale (Fazzio 2002).
Talvolta, il recupero di sistemi infrastrutturali della città storica necessita che il progetto sia strutturato come rete di connessione tra i singoli episodi. Questa è una condizione molto diffusa, per via del fatto che in molti centri italiani la città contemporanea sorge sui resti di insediamenti antichi, è frutto di stratificazioni molteplici, di continuo riuso sulle tracce della civilizzazione precedente. Anche il D.M. del 18 aprile 2012, nella stesura di linee guida per la costituzione e valorizzazione dei parchi archeologici, distingue in "parchi a perimetrazione unitaria" e "parchi a rete". Questa seconda tipologia è riferita proprio ai casi in cui attraverso un idoneo progetto culturale è possibile rendere coerenti e coese aree archeologiche non fisicamente contigue attraverso l’inserimento di ogni singola componente all’interno di un sistema unitario. Tale tipologia di intervento, proprio per la flessibilità insita nelle modalità attuative che lo contraddistingue, è ritenuto particolarmente indicato nelle periferie urbane o aree rurali degradate e da riqualificare. La rete dei percorsi può essere strutturata per collegare tra loro le emergenze archeologiche ma anche per mettere in relazione in modo diacronico i resti con le peculiarità e gli usi del territorio contemporanei.
Il caso di Concordia Sagittaria può essere esemplificativo di tale strategia d’intervento. Il progetto in questo caso mette in relazione il sistema dei percorsi ciclo-pedonali con quelli di accesso al centro storico, tangenti ai sedimi di scavo archeologico. Il ridisegno degli spazi della città contemporanea è pensato per restituire in 'trasparenza' la struttura ed i rapporti fra le parti dell’insediamento romano. Questo esempio può essere segnalato a scopo modellistico di come, in contesti urbani, la pratica della tutela dei resti, se pensata all’interno di un programma unitario di disegno della città, possa dar luogo alla traduzione di un racconto che proietta il 'luogo archeologico' nel vissuto contemporaneo. L’inserimento di tali percorsi urbani in un progetto complessivo a scala territoriale di valorizzazione del paesaggio storico e degli itinerari archeologici quale il 'Corridoio della memoria' recentemente elaborato dalla Regione Veneto in collaborazione con il Ministero dei Beni culturali riesce a coniugare tutela della memoria, fruizione contemporanea e offerta turistica e culturale.
Un altro possibile modello di messa in rete del patrimonio storico riguarda quello operato a Tarragona, in Spagna. In questo caso, la messa in rete non riguarda la città contemporanea e le emergenze archeologiche, quanto piuttosto differenti modalità di conoscenza dei sedimenti storici, che vedono da una parte i musei come centri di informazione primaria e dall’altra i frammenti recuperati e conservati nel contesto ambientale dello scavo. Museo e territorio, nell’esempio spagnolo, sono intimamente legati, in quanto la fruizione del patrimonio archeologico in situ è parte integrante del percorso di conoscenza che ha inizio nei centri di primo livello. Come notato da Lluis Cantallops, il concetto di ecomuseo o parco archeologico urbano, istituito nel 1985 con la redazione del Piano Speciale Urbanistico, intende consolidare e mantenere la permanenza degli oggetti nel loro contesto originario, implicando la rottura dei limiti fisici ed architettonici del museo in senso tradizionale. In generale la rete dei percorsi, in casi di emergenze diffuse in sovrapposizione a contesti urbanizzati, può connotarsi come elemento caratterizzante del progetto, in grado di sviluppare relazioni estrinseche alle aree archeologiche e che riguardano su più ampia scala la città nella sua totalità e complessità.
Il caso studio dell’intervento a Granada della Muralla Nazarì invita invece a riflettere su come l’occasione del progetto di uno spazio pubblico urbano contemporaneo a margine del sedime archeologico possa nascere dalla necessità di ricostruire l’integrità figurativa del manufatto storico. Il recupero della continuità visiva del tratto di Muralla Nazarì, situato presso la collina di San Miguel e visibile dall’altura dell’Alhambra e del Generalife, permettere inoltre di mutare il carattere di un’area urbana da marginale a nuova centralità. A seguito del sisma del 1885, la formazione di una breccia di circa 40 m nella muratura storica comprometteva la lettura dell’identità compositiva della stessa. L’abbandono del sito ha determinato che questo fosse usato per lungo tempo come discarica a cielo aperto. L’intervento di recupero opera sul monumento, ripristinandone geometria e volume in analogia all’esistente, ma propone allo stesso tempo una variazione alla sezione originaria. La massa del nuovo tratto di muratura viene scavata per ricavare al suo interno un percorso pedonale. Il progetto opera in modo virtuoso alla duplice scala del paesaggio e di dettaglio. La ricomposizione dell’integrità del recinto riporta il monumento, se osservato da lontano, ad uno stadio figurativo precedente al 1885, ma ad uno sguardo ravvicinato il nuovo si discosta fortemente dall’antico e assume un carattere di fruibilità per un tempo che è quello attuale.
Le categorie fino a qui esposte necessitano che il progetto si fondi sulla riconnessione alla grande scala fra componenti diverse del territorio, sia esso densamente urbanizzato che naturale. Come evidenziato dalla casistica, la presenza a vasta scala di tracce del passato, ove non possa essere mostrata, può essere suggerita nella maglia del paesaggio contemporaneo e resa evidente solo in alcune 'lacune', attraverso le quali il patrimonio della storia affiora in modi di volta in volta diversi. La restituzione del senso intimo dei luoghi è affidata, in questi casi, alla capacità di rendere evidenti relazioni fra le parti, suggerendo il senso di ciò che è assente. I dispositivi architettonici in aggiunta al sito archeologico non soltanto possono avere un ruolo interpretativo, restituendo o suggerendo l’integrità figurativa del manufatto storico, ma possono al contempo essere funzionali a consentire e favorire un uso contemporaneo del sito. L’occasione di ridisegno dello spazio pubblico della città contemporanea a margine dell’archeologia e la possibile messa in rete dell’intervento consentono di sviluppare strategie che concorrono a governare e indirizzare i processi di trasformazione dell’esistente.
Interventi alla scala territoriale o urbana nei casi di ritrovamenti di strutture unitarie
Se nel caso di grandi città archeologiche la componente progettuale principale, all’interno della strategia generale di valorizzazione del patrimonio archeologico, può essere quella di strutturare reti di percorsi di connessione ai singoli resti, nel caso di ritrovamenti di 'strutture singole', il ruolo 'interpretativo' dell’architettura, strumentale alla comprensione delle tracce della storia, è maggiormente affidato ad altre componenti del progetto, quali il carattere dell’involucro edilizio a protezione dei reperti, i sistemi di recinzione, passerelle e volumi di servizio. In alcuni casi studio di musealizzazione in situ è stato possibile rilevare come la declinazione dell’involucro edilizio a protezione dei resti, lo studio delle forometrie del prospetto e le modalità di accesso all’area archeologica, siano state in grado di rispondere con esiti virtuosi alla necessità di riconnessione tra patrimonio storico e contesto.
Nell’esempio del museo archeologico di Narona l’involucro esterno dell’edificio a protezione delle rovine del tempio di Augusto è strutturato per contenere la scalinata di raccordo tra due spazi pubblici della città posti a quote differenti. Il prospetto est del museo, attraversato da rampe e pianerottoli, consente di trasferire il ritrovamento archeologico da una dimensione esclusivamente museale ad esperienza di vissuto quotidiano, elemento di riappropriazione del passato per la comunità, capace di restituire la percezione simultanea del luogo nella sua realtà attuale e pregressa.
Il progetto di valorizzazione delle domus dell’Ortaglia (Museo di Santa Giulia e Domus dell’Ortaglia, Brescia, Italia. Progettisti: Giovanni Tortelli Roberto Frassoni architetti associati. Anno: 1998-2003), a Brescia, prevede che sull’estradosso della copertura a scala 1:1 sia riprodotta la pianta di una domus rinvenuta a ridosso del complesso di Santa Giulia. La comunicazione del 'contenuto' anche ad una vista aerea proietta efficacemente il museo dalla scala dell’edificio a quella della città, ricollegando le porzioni di tessuto residenziale alle altre emergenze archeologiche presenti nel centro storico, e suggerisce la presenza del quartiere romano residenziale. La prossimità con il Museo di Santa Giulia riconnette i reperti al contesto, mentre lo studio degli spazi esterni, con hortus e viridarium, consente una lettura più corretta del sito e di quella che doveva essere l’intera area in epoca romana.
L’intervento per il centro documentale e visitatori 'Topografia del terrore' a Berlino, costruito nell’area in cui sono visibili frammenti di resti della prigione della Gestapo, un bunker aereo, un magazzino per i rifornimenti e un lacerto di muro, lavora invece sull’esplicitazione del concetto di assenza. Ciò che viene percepito è in primo luogo il vuoto della distruzione post-bellica e la dimensione dell’isolato, memoria di quello che fu cuore fra il 1933 e 1945 del nucleo operativo e decisionale del regime nazionalsocialista. Il vuoto è conservato e sottolineato, l’architettura è in questo progetto 'silenziosa', ma non per questo meno eloquente, e non distoglie l’attenzione dal 'contenuto' al 'contenitore'. Anche gli spazi del Centro di documentazione interagiscono continuamente con l’esterno, e l’intervento riesce ad instaurare relazioni di tipo visivo fra l’allestimento interno all’edificio di servizio e i resti delle murature storiche, in uno scambio di prospettive che suggeriscono riflessione e meditazione indotte e stimolate dai frammenti conservati nell’area.
Nel caso di musealizzazione della villa romana di Olmeda, in assenza delle partizioni murarie interne alla domus, per suggerire quella che era la spazialità degli ambienti sono state realizzate pannellature in maglie metalliche translucide, che producono piani verticali alludenti alle murature storiche, ma che non negano una vista complessiva del sito archeologico. La distanza fra nuovo ed antico permette infatti al visitatore di percepire l’involucro (copertura, muri perimetrali) come sfondo, mentre i percorsi interni elevati di poco rispetto al sedime di scavo riportano l’attenzione sulla figura, ovvero sui resti.
Nel padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision a Siracusa, il carattere dell’involucro esterno dialoga con il fronte urbano in cui si innesta mentre l’interno è concepito come 'cella aperta', ad interpretazione della memoria del naòs del tempio ionico, che genera all'interno dell'edificio uno spazio ipetrale. Il collegamento verticale, interno al volume di servizio, raccorda la quota della città contemporanea con le sue fondazioni, a testimonianza della storia millenaria di Ortigia. Il progetto rivela un attento studio della linea di sezione che trova riscontro diretto nella natura costruttiva della città. Altro carattere di innovazione è riscontrabile nel fatto che la stesura del progetto architettonico è andata di pari passo con lo stato d’avanzamento della campagna di scavo archeologico, da cui sono dipese le scelte di allineamenti e la geometria dell’edificio. Il perimetro esterno infatti ricalca le dimensioni del tempio greco.
Nell’intervento di recupero del castello di Segonzano le componenti del progetto, a tratti diversi, sottintendono alle lacune lasciate dalle strutture antiche e rendono leggibile la spazialità degli ambienti distrutti attraverso un’azione virtuosa di progettazione sul patrimonio storico. Il complesso medioevale, ubicato su un rilevato roccioso che domina la Val di Cembra, si presenta oggi allo stato di rudere. Gli obiettivi perseguiti dal progetto sono stati il restauro conservativo delle murature storiche, la messa in sicurezza dei percorsi, l’allestimento del complesso al fine di permettere la fruizione di alcuni ambiti come spazi pubblici, vissuti durante i mesi estivi per manifestazioni all’aperto. Gli elementi di recinzione a protezione dell’area su cui sorge il castello ridisegnano, distanziandoli, i perimetri delle mura medievali. Il recinto è declinato in quattro differenti tipologie: profilati metallici, casseri riempiti in pietrame, casseri con essenze arbustive, sezione mista legno e acciaio. Di queste alcune (profilati metallici e casseri con essenze arbustive) mostrano un’attitudine alla mimesi, per far risaltare le visuali verso il paesaggio, mentre altre evocano la matericità delle murature storiche o lo spazialità degli ambiti principali del castello (casseri riempiti in pietrame). Nel caso della spianata della torre di vedetta l’elemento di recinzione viene realizzato come struttura dalla duplice funzione di panca-parapetto. Il recinto, così disegnato, interpreta il sito storico offrendone al contempo la possibilità di un uso contemporaneo.
Nell’esempio d’intervento sulla torre del Homenaje de Huéscar a Granada il ripristino della presunta altezza del manufatto, mediante due rampe di risalita ed una piattaforma belvedere, consente al monumento di riappropriarsi del ruolo di avamposto militare da cui avveniva il controllo delle visuali verso il territorio, recuperando il senso dell’originaria funzione difensiva, ma coniugando anche una funzione di lettura contemporanea della città e del paesaggio. Infine, dal terrazzo belvedere è possibile traguardare l’orizzonte e viceversa, da punti di vista distanti, la torre riacquista il carattere di riferimento alla scala territoriale, ponendosi come elemento identificativo dell’intera area.
Anche il progetto sul sito di Castelo Novo in Portogallo nasce dall’esigenza di musealizzazione dei resti della fortezza medioevale, con la conseguente scelta di delimitazione e chiusura dell’area e introduzione di un edificio di servizio. Il volume è strutturato come piega del recinto, come ispessimento della sezione di quest’ultimo. L’edificio muta le caratteristiche morfologiche del luogo, costituendosi come prospetto e bordo dell’area del castello, di cui anticipa e introduce la vista. Anteponendosi alla presenza della chiesa, elemento di chiusura rispetto al lato opposto della piazza, il dispositivo di recinzione e accesso definito dall’intervento contemporaneo è in grado di ridisegnare i confini del luogo in cui si pone.
Nel caso del progetto di recupero della Torre Massimiliana nell’isola di S. Erasmo a Venezia, la restituzione dell’unitarietà del terrapieno a protezione dello spazio, in cui si colloca il manufatto difensivo, è stato studiato dai progettisti come occasione per insediare alcuni locali di servizio e le centrali impiantistiche a servizio del centro culturale realizzato all’interno della torre stessa. Il ripristino della sezione dei terrapieni distrutti non recupera solo il senso storico del sito, ma si carica di significato anche rispetto ad un uso contemporaneo. Lo vista dall’alto del rilevato permette di spaziare sul paesaggio costiero lagunare, trasformando il manufatto difensivo in 'infrastruttura dello sguardo', e funge da cerniera rispetto all’intervento più generale che investe il margine sud-ovest dell’isola e che comprende la realizzazione di una darsena e di un camminamento sull’arenile.
Un tema trasversale a tutte le categorie sin qui evidenziate, città archeologiche, recinti fortificati, sistemi infrastrutturali, strutture unitarie riguarda la fase di cantierizzazione degli interventi contemporanei su emergenze storiche. Siano essi esito scoperta del bene o della pratica di conservazione o messa in sicurezza, si nota che vi è quasi sempre una discrasia fra il concetto di temporaneità e la permanenza in opera delle strutture provvisionali. Questo rappresenta una delle maggiori criticità più frequentemente riscontrata negli interventi di architettura a servizio dell’archeologia.
Le fasi manutentive o di messa in sicurezza dei siti, come anche lo stesso cantiere archeologico richiedono tempi molto lunghi anche perché, in presenza di limitate risorse, le pubbliche amministrazioni privilegiano lo stanziamento di fondi finalizzati ad interventi di restauro conservativo dei beni, tralasciando le attività di valorizzazione. Nel caso della fase di scavo e scoperta di emergenze, come notato da Tania Culotta “il cantiere archeologico produce due tipi di materiale: i reperti e le strutture architettoniche” (Culotta 2009). Ne consegue la necessità che la pratica progettuale su aree archeologiche non sia limitata alla sola fase finale dell’intervento di rifunzionalizzazione, ma occorre piuttosto che le strutture a presidio delle tracce della storia siano caratterizzate da un alto grado di flessibilità, in modo da adattarsi a tutto l’arco temporale in cui si svolgono le indagini conoscitive e le fasi di conservazione e tutela. Rispetto a tale strategia d’intervento, possono essere assunti come casi virtuosi i progetti del padiglione temporaneo nel chiostro dei Leoni all’Alhambra e della struttura per i lavori di restauro del Teatro Romano di Aosta. Entrambi gli interventi mostrano come anche la predisposizione di dispositivi provvisionali temporanei funzionali all’esecuzione delle necessarie operazioni di consolidamento dei manufatti storici possa rappresentare un’occasione di disegno di componenti architettoniche, dalla matrice contemporanea, in grado di non escludere, ma al contrario di rendere partecipe il visitatore delle procedure di restauro in corso, per una condivisione del progetto conoscitivo.
Appare prioritaria, oggi, una riflessione sulla progettazione dei dispositivi provvisionali in aggiunta a siti archeologici, perché siano realizzati, oltre che nel rispetto della normativa vigente e della sicurezza dei lavoratori, anche come figure architettoniche coerenti e il più possibile integrate al bene da manutenere. Il ponteggio per il teatro romano di Aosta, ad esempio, è realizzato con una struttura parzialmente modulare, in carpenteria di acciaio zincato, del tutto regolamentare, ma con l’accorgimento che le sezioni del ponteggio sono state adattate a soddisfare le esigenze di fruibilità a tre livelli dell’impalcato e di visibilità del bene dall’esterno dell’area archeologica. All’Alhambra il padiglione a protezione dei lavori di pulitura della fontana dei Leoni, all’interno del Palazzo Generalife, è stato costituito da un volume regolare con geometria e proporzioni pensate per non confliggere con gli elementi architettonici islamici presenti all’interno del chiostro monumentale.
Nel progetto della città romana di Claterna nel Comune di Ozzano dell’Emilia (Bologna) è interessante rilevare il programma di azioni e le modalità esecutive, che porteranno alla realizzazione di un parco periurbano, pensato come spazio di socialità e conoscenza per la comunità locale e al contempo come luogo di valorizzazione dei risultati delle campagne archeologiche. L’estensione del parco periurbano, istituito sull’area, non coincide con il perimetro dell’antica città romana, a tutt’oggi in fase di scavo. L’area residua, compresa tra la soglia del sedime archeologico e il limite dello spazio pubblico, è destinata ad accogliere attività ricreative ed eventi temporanei. Il trattamento superficiale di tale porzione, che funge da diaframma tra la campagna esterna al parco ed il limite presunto della città romana, è previsto a prato fiorito a bassa manutenzione, mentre l’interno dell’area archeologica presenta graminacee dall’apparato radicale superficiale. Il caso di Claterna offre una soluzione interessante nella differenziazione fra elementi fissi e variabili del progetto, entrambi scelti all’interno della gamma di colture ed essenze naturali presenti nel territorio circostante. Se le componenti permanenti ricalcano le tracce antiche della struttura agricola basata sulla centuriazione romana, i dispositivi variabili segnalano la diversa localizzazione e dimensione degli ambiti di scavo e la rete di percorsi di connessione fra questi.
In conclusione ogni progetto di valorizzazione del patrimonio archeologico dovrebbe tendere da un lato alla riconoscibilità del singolo elemento su cui si interviene, ma anche alla sua possibile riconduzione ad un disegno unitario che investe la città ed il paesaggio contemporanei nella sua interezza e complessità, perché come notato da Kevin Lynch "una scena vivida ed integrata, capace di produrre un’immagine distinta ha una strumentalità sociale. Essa offre la materia prima per i simboli e le memorie collettive della comunicazione di gruppo", poiché "l’immagine ambientale non è che il risultato di un processo reciproco tra l’osservatore ed il suo ambiente. L’ambiente suggerisce distinzioni e relazioni, l’osservatore con grande adattabilità e per specifici propositi seleziona, organizza, ed attribuisce significati a ciò che vede".
*Il presente lavoro costituisce la sintesi di una trattazione più completa dell’argomento oggetto della ricerca, in corso di pubblicazione presso la casa editrice Aracne.
English abstract
The work is a resume of a larger study titled Dai siti archeologici al paesaggio attraverso l'architettura (From the archaeological sites in the landscape through architecture). It is oriented, towards the study of design solutions already implemented, to achieve the goal of preserving the historical heritage, to improve the knowledge conditions and to increase their public use. In the research the attention has been focused to the architectural designs that were able to read and actualize the relationship between different types of archaeological finds, the contemporary city and the landscape. For this reason, they could lead to the formulation, in order to modeling of intervention strategies, and functional improving the historical heritage.
keywords | Archeology; Architecture; Landscape; Study cases; Models; Methodology; Operations on the territory.
Note
1. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, traduzione di A. Serafini, Torino 2004, p. 135: "Le rovine […] danno ancora segno di vita. Le macerie accumulate dalla storia recente e le rovine nate dal passato non si assomigliano. Vi è un grande scarto fra il tempo storico della distruzione, che rivela la follia della storia (le vie di Kabul o di Beirut), e il tempo puro, il "tempo in rovina", le rovine del tempo che ha perduto la storia o che la storia ha perduto".
2. Da ricordare, negli anni Cinquanta, la campagna di Antonio Cederna a difesa dell’Appia Antica, che stava per essere sommersa da migliaia di metri cubi di edilizia residenziale di lusso (I gangster dell’Appia, in Il Mondo 8 settembre 1953, ora in Storia moderna dell'Appia antica: 1950-1996: dai gangster dell'Appia al parco di carta, a cura di G. Cederna, Bologna 1997), e le campagne contro lo sventramento di vie e interi quartieri a Roma, Milano, Lucca, tra le quali quella contro lo sventramento di via Vittoria, nel centro di Roma, iniziata con l’articolo I vandali in casa (Il Mondo 17 novembre 1951, poi in I vandali in casa, Bari 1956).
3. Adozione delle linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici. Le linee guida sono state redatte da un gruppo di lavoro paritetico, costituito da dirigenti e funzionari dell’amministrazione statale e professori universitari, che nella stesura delle proposte chiarisce in premessa che "per la realizzazione di un Parco archeologico è indispensabile l'elaborazione di uno specifico progetto, che sia espressione e sintesi di aspetti settoriali diversi, tutti omogeneamente concorrenti alla piena valorizzazione del bene culturale".
4. Articolo 6, Valorizzazione del patrimonio culturale (Modificato dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 156, dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 157 e successivamente dal D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62 e dal D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 63):
1. La valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati.
2. La valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze.
3. La Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione dei soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale.
Crediti
Dettagli dei progetti sopra analizzati nell'ordine di lettura:
Parco archeologico di Selinunte, Italia. Progettisti: arch. Arena, arch. Minissi, arch. Porcinai. Anno 1981
Parco di Piano della Civita ad Artena, Italia. Progettisti: 2T_R architettura. Anno 2004
Parco della battaglia di Varo, Bramsce-KalKriese, Osnabrück, Germania. Progettisti: Annete Gigon/Mike Guyer architects. Anno: 1999
Edificio di servizio all’area archeologica di Madinat Al-Zahra, Spagna. Progettisti: Nieto Sobejano Arquitectos, S.L.P. Anno: 2001
Riscoperta e riqualificazione delle mura della città Ayyubid del Cairo, Egitto. Coordinamento del progetto AKTC – Aga Khan Trust for Culture, HCSP – Historic Cities Support Programme
Restauro delle mura megalitiche sul fronte nord tra Capo Marchiafava e Via Pierre e restauro di Porta Pescara, Cefalù, Italia. Progettisti: Culotta & Leone architetti associati.
Restauro delle mura megalitiche sul fronte nord tra il Molo e S.Antonio, Cefalù, Italia. Progettisti: Prof Arch P. Culotta, Arch T. Culotta, Arch S. Vignieri, Ing. G. Di Giorgio.
Completamento del restauro delle mura megalitiche sul fronte nord tra il Molo e S.Antonio, Cefalù, Italia. Progettisti: Culotta Architetti Associati. Anni: 1987-1989, 2001, 2004, 2007-2008
Intervento della Muralla Nazarì, Granada, Spagna. Progettisti: Antonio Jiménez Torrecillas. Anno: 2001
Museo archeologico Narona, Vid Metkovic, Croazia. Progettisti: Radionika Arhitekture /Goran Rako. Anno: 2001-2004
Centro visitatori e di documentazione “Topografia del Terrore”, Berlino, Germania. Progettisti: Heinle, Wischer und Partner, Freie Architekten e Prof. Heinz W. Hallmann. Anno: 2006
Museo area archeologica Olmeda, Spagna. Progettisti: Ángela García de Paredes, Ignacio Pedrosa. Anno: 2003
Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision, Siracusa, Italia. Progettisti: Vincenzo Latina. Anno: 2006
Restauro e riuso del castello di Segonzano, Trento, Italia. Progettisti: arch. Jacopo Tabarelli de Fatis, UNA2architetti associati. Anno: 2001-2005
Recupero Torre del Homenaje, Huéscar, Granada, Spagna. Progettisti: Antonio Jiménez Torrecillas. Anno: 2002
Restauro e riuso del castello di Castelo Novo, Portogallo. Progettisti: arch. Luis Miguel Correia, arch. Nelson Mota, arch. Vanda Maldonado, arch. Susana Constantino. Anno: 2002-2008
Progetto di recupero Torre Massimiliana a San Erasmo, Venezia, Italia. Progettisti: C+S Associati. Anno: 2004
Parco archeologico Claterna. Primo stralcio copertura scavi e sitemazioni esterne, Comune Ozzano dell’Emilia, Bologna, Italia. Progettisti: TASCA studio architetti associati (Federico Scagliarini+Cristina Tartari). Anno: 2009
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Per citare questo articolo: Dai siti archeologici al paesaggio attraverso l'architettura, a cura di R. Bartolone, “La Rivista di Engramma” n. 110, ottobre 2013, pp. 58-90 | PDF dell’articolo