Montagne in città
La migrazione dei 'massi sacri' nei centri italiani
Alberto Ferlenga
English abstract
"E l'han portata giù squarciata e infranta…". La bronzea madonnina del Monte Grappa ferita dai proiettili, ma ancora riconoscibile, scende a valle per il restauro per poi riconquistare la vetta, rara presenza femminile sulla sommità di vette equiparate d'ufficio al Golgota e dedicate, per decreto episcopale di fine '800, a Cristo Redentore. I cannoni, trainati a mano nella neve in interminabili cordate, salgono le pendici dell'Adamello o della Marmolada per non ridiscenderle mai più. Neanche le rocce rimangono al loro posto attorno agli anni della Grande Guerra. Fatte esplodere dai bombardamenti, causano con le loro schegge o sotto forma di valanghe più vittime di quelle provocate direttamente dai proiettili. Ridotte in ghiaia e frammiste a ferro e ossa, in quella che, riferendosi all'Ortigara, Luigi Meneghello chiama ne I piccoli maestri la "frana generalizzata del monte", colmano il fondo degli avvallamenti e dei sentieri percorsi allora dai soldati e oggi dai turisti e dai cacciatori. L'esplodere delle mine e delle contro-mine fatte brillare, in quella guerra di talpe, sotto i rifugi degli avversari, proietta lontano massi e pietrisco, dal Castelletto allo Zebio, dal Col di Lana al Pasubio. Sugli Altipiani di Asiago e del Montello, le ferite inferte alla roccia dai tiri delle artiglierie si confondono con quelle millenarie prodotte dalla lenta erosione carsica e dolomitica, finendo con il far apparire naturali geografie che di naturale non hanno più nulla.
A guerra terminata, un'estrema migrazione porta le rocce ancora più lontano. Estratte dal corpo delle 'montagne della patria' con gli stessi procedimenti della 'guerra di mina', trasportate a valle dagli stessi mezzi che avevano portato le truppe in prima linea, vengono insediate in città da associazioni di reduci e corpi militari. Qui diventano parte di monumenti e, in seguito, monumenti esse stesse, contribuendo a diffondere l'immagine e il mito delle montagne rese sacre dalla guerra (vedi in questo stesso numero di "Engramma" il saggio di Daniele Pisani).
Ciò che dà luogo a questa sorta di geografia traslata che celebra la prima guerra mondiale e si esprime per lo più nelle forme del gesto retorico è l'esaltazione della vittoria che ha nel fascismo nascente il suo primo fautore. Se i monti verranno progressivamente ripuliti dagli sconvolgimenti lasciati dagli scontri e dai bombardamenti e diventeranno meta di un nuovo tipo di turismo orientato dalle guide ai campi di battaglia edite dal Touring Club Italiano (1927), se verranno costituite le zone sacre (San Michele, Sabotino, ecc.) e i grandi ossari marmorei di Asiago, Trento, Redipuglia e Monte Grappa, l''allestimento' scenografico, in situ, del teatro di guerra non sembrerà sufficiente.
Una circolare ministeriale del 1922 richiede espressamente ai comuni italiani di dare corso a una toponomastica della vittoria che diffonda in tutto il territorio nazionale nomi altrimenti ignorati. Chi, infatti, avrebbe ricordato luoghi come Vittorio Veneto, fiumi come il Piave, montagne come il Coni Zugna, il Monte Nero o il Rombon, se ogni città d'Italia non ne avesse moltiplicato la conoscenza nei nomi delle sue vie, dei suoi viali o delle sue piazze? In questo modo una guerra, che aveva avuto come scenario una parte in fondo molto limitata del territorio italiano, diffonde non solo il racconto ma anche la geografia delle sue gesta nelle vie e nelle piazze di un'Italia che nel suo complesso aveva avuto più il ruolo di grande serbatoio di vite umane che quello di teatro di guerra.
I monumenti sono il fuoco di questo sistema di memorie applicato alle città e spesso sono completati da parchi o viali delle rimembranze. La loro tipologia riprende inizialmente la tradizione formale di quelli eretti a ricordo delle guerre di indipendenza, già ampiamente presenti nei comuni italiani, rafforzandone il ruolo urbanistico e la centralità. C'è però una notevole differenza: i protagonisti principali di dediche, monumenti e raffigurazioni non sono più tanto i re o gli eroi, quanto la massa anonima, il numero dei caduti e lo scenario delle battaglie. Liste interminabili di nomi riempiono lapidi e basamenti di sculture che immortalano fanti, alpini o bersaglieri sconosciuti, bloccati in gesti eroici che sembrano direttamente mutuati dalle copertine della "Domenica del Corriere" di Achille Beltrame o dagli articoli di Luigi Barzini, che avevano contribuito quasi 'in diretta' a glorificare le battaglie e nasconderne la tragedia. D'altra parte, lo svolgimento prevalentemente montano che il conflitto aveva avuto porta ad attribuire un particolare valore simbolico alla roccia, che assume un ruolo importante nelle composizioni celebrative. L'anonimato e la geologia avranno nella tomba romana del milite ignoto (1921), racchiusa nella 'montagna' in pietra di Botticino del Vittoriano, la loro apoteosi. Qui approderà il soldato senza nome, scelto tra 'candidati' provenienti dai principali campi da battaglia, dopo aver attraversato tra ali di folla metà del paese, per riposare circondato dalle pietre delle montagne (Grappa, Carso, ecc.) che videro gli scontri più cruenti.
Le rocce, da generico e 'romantico' completamento scenografico dei monumenti precedenti, si trasformano sempre più in tramite evocativo destinato a richiamare la ben precisa connotazione geografica che il conflitto aveva avuto. Le piramidi, gli obelischi, le urne che avevano caratterizzato la monumentalità indipendentista o, ancor prima, quella napoleonica incominciano a convivere con ammassi lapidei, aumentando, con ciò, la loro forza evocatrice. Sopra di essi si inerpicano ancora i soldati fissati nel bronzo oppure si appostano le aquile, ai loro piedi sono ancora collocati cannoni, grossi proiettili, mitragliatrici ma sono le rocce ad assumere sempre più il ruolo di reliquie dentro a quel processo di sacralizzazione degli spazi urbani che segue alla Grande Guerra e che ha nell'immagine evocativa del picco montano una sua componente non secondaria.
Dal Grappa all'Adamello, dal Podgora alla Marmolada, i massi trasferiti in pianura riprendono nel loro profilo spesso aguzzo e tagliente quello generico di una vetta alpina. Portano in città non solo il ricordo dei monti che avevano fatto da sfondo alla guerra ma anche l'allusione a uno sconvolgimento che, per la prima volta nella storia, aveva indelebilmente segnato, a forza di mine e colpi di obice, l'aspetto fisico delle regioni in cui gli eserciti si erano a lungo fronteggiati. La loro consistenza è quella compatta dei porfidi e dei graniti o quella cariata delle pietre carsiche, il colore varia dal rosso cupo al grigio o al bianco terroso, la loro posizione non è più così centrale, ma, privati delle immagini di figure umane o di oggetti, aumentano il loro effetto di straniamento. Se non ci fossimo assuefatti alla loro presenza, ci stupirebbero quei monti in miniatura collocati ai bordi di una piazza, dentro a un parco, a fianco di un edificio storico, che con il tempo perdono il loro effetto drammatico e finiscono con il ridursi a rocaille da giardino romantico.
Uno dei precedenti più noti e probabilmente più influenti nell'uso evocativo dei 'massi sacri' si deve a Gabriele D'Annunzio. Nel maggio del 1924, nel giardino privato del Vittoriale, di fronte alla Prioria, vengono portate alcune rocce provenienti dai monti in cui si erano svolte le principali battaglia: Adamello, Sabotino, Pasubio, San Michele, Grappa… subito chiamate i '6 Massi Sacri'. La loro collocazione, come quella della nave Puglia incastrata nel pendio e proiettata verso il lago, non è soggetta a ulteriori sottolineature esplicative. Il Vate raccomanda solo che le pietre vengano disposte secondo un certo ritmo e, per il resto, si affida all'effetto di spiazzamento determinato da quelle montagne in miniatura collocate in un ambiente di tutt'altro genere.
Forse è anche grazie a quell'esempio che a partire dagli anni trenta la 'deportazione' dei 'massi sacri', che aveva avuto inizio all'indomani della guerra, si intensifica. Venuto meno l'aspetto figurativo, qualche volta è l'architettura a fornire la cornice più adatta in cui ospitarli, come a Brescia dove, nel 1932, i mutilati della città collocano il masso portato dall'Adamello, "baluardo e altare della patria", nelle arcate destinate a mercato dei fiori dal progetto per Piazza Vittoria di Marcello Piacentini, a ridosso della Chiesa di Sant'Agata. Ma altri massi, dal Piemonte alla Sardegna, dal Veneto alla Lombardia, rappresentano l'ultima generazione del ricordo, un ricordo che non può più avvalersi delle testimonianze dirette, che non ha più motivazioni consolatorie nei confronti di chi aveva perso i propri famigliari, né i secondi fini di chi pensa già a un'altra guerra. La semplice pietra è meno impegnativa delle rappresentazioni figurative, sia dal punto di vista dell'arte che da quello della retorica; e la geografia è meno ingombrante della storia, così con il tempo le rocce perdono forse sacralità, ma non il loro effetto di elemento spiazzante. Come una geografia traslata di cui ci si è dimenticati l'origine, o come la scheggia silenziosa di un giardino zen nel cuore delle città.
English abstract
Bombs have broken with their explosions, the Italian mountains during the First World War and the Alpine geography has been changed by the guns. But the war has also created a new geography made of names and monuments that did not concern only the war zones but the whole of Italy. Fragments of the mountain, brought from the battlefields, have become monuments, and assumed the role of simbolizing, in the piazzas of italian cities, far and real theaters of war. The text relates to this new geography created by the routes of the stones belonging to the italian 'montagne della Patria'.
keywords | Architecture; War; Memory; Urban planning; Shrine.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Alberto Ferlenga, Montagne in città. La migrazione dei 'massi sacri' nei centri italiani, in “La Rivista di Engramma” n. 113, gennaio/febbraio 2014, pp. 55.58 | PDF