Mi è stato chiesto di parlare del ‘monumento’ e del ‘monumentale’ in architettura. Per me non è solo una questione legata alla memoria, all’atto di ‘memorizzare’ alcuni avvenimenti, perché – essendo architetto – sono convinto che le pietre da sole non possano ‘parlare’. È quasi impossibile ricordare qualcosa attraverso una forma costruita, attraverso un artefatto chiamato ‘monumento’. Benché sia una contraddizione, ricominciamo però sempre a costruire monumenti: continuiamo a voler vincere il tempo, a voler rendere presente la memoria e allo stesso tempo a produrre punti di riferimento che ci aiutino a memorizzare avvenimenti, miti, storie. La lotta contro il tempo è un problema fondamentale dell’architettura, che mira a costruire qualcosa che duri più a lungo della vita di un singolo individuo e che possa restare come testimone, anche se in forma di frammento, di rovina. La pratica di costruire per preservare la memoria è sempre stata ricercata e messa in atto nei campi di battaglia in tutta Europa. L’Europa più di qualunque altro luogo è bagnata dal sangue di milioni di individui che hanno perso la vita in innumerevoli battaglie, soprattutto durante i due conflitti mondiali. Com’è possibile, allora, memorizzare e ‘conservare’ la storia? La storia è una cosa che svanisce, e che quindi dobbiamo ricostruire permanentemente. Da sempre gli architetti sono stati chiamati a costruire punti di riferimento, a edificare luoghi in cui si può ricordare. Dico "si può": non si tratta, infatti, di una relazione diretta, ma di una proiezione. Solo se conosciamo il significato di ciascuno di questi avvenimenti storici possiamo ricordare. Se non c’è uno storico che ci racconta la storia, non vediamo niente: sono solo pietre che non parlano.
Il processo di memorizzazione è spiegato molto bene nella teoria della retorica di Cicerone, che utilizza luoghi e oggetti specifici della sua casa per memorizzare i propri discorsi. Egli associa a un certo vaso o a un tavolo o all’atrio della domus un determinato concetto, ma lo cambia sempre: per un’altra arringa, per un’altra storia, Cicerone utilizza sempre gli stessi elementi. Un buon esempio per far capire il tema dell’ambivalenza del memoriale e per mostrare come progettiamo questi artefatti per memorizzare si trova a Thiepval, nel nord della Francia, sul luogo di una famosa battaglia della prima guerra mondiale. Il memoriale di Thiepval è una struttura molto impressionante, progettata da Sir Edwin Lutyens e costruita dopo la Grande Guerra su di una piccola collina, al centro di un vasto cimitero dove sono tumulati per la maggior parte soldati sconosciuti. Vi sono sepolti circa 160.000 caduti non identificati. È un memoriale dell’Alleanza Franco-Britannica, simboleggiata da due imponenti volumi che sono al tempo stesso le imposte dell’arco. L’arco, che funge da collegamento tra questi due volumi, simboleggia l’alleanza tra le due nazioni. Su di una parete all’interno del manufatto si trova un’iscrizione con la quale si spiega che non si tratta di un monumento che commemora una vittoria. La collina non fu mai conquistata dagli alleati, ma alla fine della battaglia della Somme i tedeschi abbandonarono questo luogo. L’area è uno dei luoghi in cui gli alleati persero il maggior numero di soldati nel corso di un’unica battaglia durante tutta la prima guerra mondiale, e questo fatto mi ha colpito profondamente. Il grande monumento è pensato come un memoriale ai caduti, e non, come avviene normalmente in un campo di battaglia, come un monumento celebrativo della vittoria fatto erigere dal vincitore.
Tra i lavori di Lutyens troviamo un altro notissimo monumento di guerra: il cenotafio di Londra. Si tratta di un monumento che non racconta niente, è solo un pezzo di pietra, una stele. Ci sono una piccola corona della vittoria e tre bandiere, ma la cosa più interessante è che questo cenotafio è riprodotto in tutto il Commonwealth: se ne trovano di identici in Canada, in Australia, in Sudafrica e in altri luoghi. Lutyens fu incaricato dallo stato quale architetto responsabile per la costruzione di tutti i monumenti commemorativi già durante la prima guerra mondiale. Poco dopo, però, Lutyens lasciò l’incarico a Reginald Blomfield, l’autore di tutti i piccoli cimiteri britannici che caratterizzano il paesaggio del nord della Francia. Ai tedeschi non fu invece permesso di lasciare cimiteri, neanche piccoli, in prossimità dei campi di battaglia, cosicché essi si concentrarono in tre luoghi principali, mentre i francesi riportarono i propri morti identificati nei loro paesi d’origine. Le questioni che gli si presentano alla fine della guerra sono due: come ricordare il soldato anonimo, caduto in battaglia, cui non è stato possibile restituire il nome, e dove collocare un suo monumento commemorativo. Al tema della collocazione non vi è una risposta univoca: a volte, come a Thiepval, il milite ignoto viene ricordato nel campo di battaglia, altre volte viene invece portato nella capitale dell’Impero britannico. Così come i luoghi, anche le forme di questi monumenti sono da un lato il prodotto dell’invenzione artistica di un singolo architetto, dall’altro vanno letti più che altro in relazione con la memoria collettiva della guerra. Questi due memoriali di Lutyens assomigliano ad altre opere da lui realizzate: ad esempio il cenotafio ricorda per alcuni aspetti stilistici le opere a New Dehli, in India, mentre Thiepval il progetto, mai realizzato, per la cattedrale di Liverpool.
Anche in Francia fu nominato un architetto famoso come responsabile dei memoriali: Tony Garnier. Garnier è noto per la cité industrielle e per i suoi lavori nella città di Lione, per il quartiere États-Unis o per la grande Halle realizzata sul modello della Salle des Machines dell’esposizione universale di Parigi del 1889. Egli progetta per Lione una serie di grandi memoriali della guerra, ma l’unico realizzato si trova nel Parc de la Tête d’Or, sulla cosiddetta Ile de Cygne. Questo progetto ha un riferimento molto romantico: prende spunto dall’isola dei morti di Arnold Böcklin. È evidente che per realizzare un monumento ai milioni di morti sconosciuti di questa guerra, gli architetti non hanno un concetto univoco, né mettono in campo idee ‘nazionali’, ricercano bensì le proprie soluzioni nel corpus della disciplina. Garnier, in questo caso specifico, si rifà alla tradizione dei pittori di lingua tedesca a Roma di cui Böcklin era uno dei maggiori rappresentanti e la utilizza per ricordare questo particolare momento storico.
Il terzo architetto è Wilhelm Kreis, che fu nominato dallo stato tedesco per lo stesso tipo di incarico. Kreis aveva già costruito una serie di piccoli cimiteri in Francia durante la guerra, che oggi non esistono più e dei quali non sono rimaste molte tracce. Sono invece più note le immagini dei monumenti da lui progettati durante la seconda guerra mondiale, quando fu nuovamente incaricato dalla Germania nazista di progettare dei memoriali di guerra. Negli anni Quaranta del Novecento Kreis è ormai già alla fine della sua carriera di architetto e propone delle grandi Totenburgen, dei “castelli dei morti”, dalla Russia fino al Nordafrica, in Cirenaica.
Durante i miei studi, l’immagine della Totenburg sul fiume Dnepr in Ucraina è sempre stata usata come simbolo del nazismo, e questa interpretazione emerge quando leggo il monumento non in base al suo contesto architettonico ma solo in relazione al contesto storico-politico. Mi rendo conto infatti che questa lettura è già la proiezione di un’interpretazione che non ha niente a che vedere con la forma. Lo stesso monumento, quasi uguale, l’hanno realizzato in seguito i sovietici vicino a Stalingrado, e certamente non è mai stato interpretato come un monumento nazista. Ciò che voglio porre in rilievo è che la memoria e l’interpretazione delle forme cambiano rapidamente. Attraverso questi esempi si cominciano a riconoscere metodi comuni per produrre monumenti, che sono codificati all’interno della disciplina dell’architettura. Abbiamo ad esempio una preferenza per alcune forme, che sono utilizzate quasi sempre quando siamo chiamati a costruire un monumento. Ho già detto che un monumento è un manufatto architettonico costruito per resistere il più a lungo possibile, e non è un caso che molte delle forme che utilizziamo ancora oggi per costruire monumenti si riferiscano al culto dei morti praticato fin dall’antico Egitto.
A Torino, al Museo Egizio, si trova il corredo funebre della tomba dell’architetto Ka. Di quest’architetto conosciamo il nome grazie alla stele che ricorda la sua vita e, dalla magnificenza della sua sepoltura, sappiamo che era un architetto illustre, anche se non sappiamo cos’abbia costruito. Certamente però in Egitto l’architettura era direttamente in relazione con il culto della vita eterna e a Torino ritroviamo molte delle forme legate a questa concezione. Lì, in un angolo del museo, si trova anche un modello, in una posizione marginale e privo di qualsiasi legenda: non so quindi di che tomba si tratti. Certamente non era la tomba di un personaggio importante, doveva trattarsi piuttosto della tomba di una famiglia. Essa era direttamente legata alla casa in cui visse la famiglia. La tomba è scavata sotto la casa e fuori furono realizzate due piramidi, per indicare che si trattava di una tomba. Forse non si trattava della casa vera e propria, ma di una tomba che ricordava solamente la forma della casa, come avviene più tardi presso gli etruschi.
Ciò che qui emerge in modo chiaro è la relazione tra la piramide, una forma astratta, e la morte. Nelle tombe egizie convivono sempre due elementi: l’interno della tomba, con tutti gli oggetti della vita quotidiana per il mondo ultraterreno, e l’esterno, un simbolo astratto dell’eternità che in questo caso è la piramide. La piramide è una forma ricorrente in tutta la storia dell’architettura occidentale. Basti pensare alla piramide di Caio Cestio a Roma, oppure alle piramidi di Piranesi o anche agli obelischi. In cima ed essi c’è sempre una piccola piramide, il Pyramidion, che per traslazione ha fatto anche di questi oggetti un simbolo d’eternità. I romani hanno cominciato per primi a trasportare e innalzare gli obelischi egiziani a Roma e in seguito, dopo la cristianizzazione, hanno posto una croce sopra di essi, così come hanno costruito le chiese al di sopra dei templi. Si tratta di un’appropriazione o incorporazione di questa tradizione da parte di un’altra cultura e per un altro culto. L’obelisco è utilizzato in seguito innumerevoli volte, anche nel caso del monumento a Washington. La piramide e l’obelisco sono diventati un simbolo usato in tutto il mondo.
Anche l’architetto berlinese Friedrich Gilly, nel monumento a Federico il Grande, propone due obelischi per un memoriale in forma di tempio, che progetta di far erigere sopra una cripta che avrebbe accolto la tomba del re. La combinazione di tre figure architettoniche con un riferimento alla tradizione antica fu concepita per creare un luogo di grande importanza all’interno della città; purtroppo il monumento non fu mai realizzato. Le tre figure sono una di origine egiziana – gli obelischi – una greca – il tempio – e la terza – il basamento – è un riferimento esplicito a Roma antica. Attraverso questi esempi, intendo sottolineare come l’architetto che vuole costruire un monumento utilizza elementi formali capaci di raccontare e di creare nella nostra mente associazioni e ricordi: sappiamo infatti che queste sono figure che hanno avuto fin dall’antichità un significato comprensibile a tutti. Non è necessario conoscere la religione egiziana nel suo complesso per comprendere che alcune forme ad essa legate hanno sempre simboleggiato l’eternità. Ritroviamo per esempio la piramide anche nell’opera di Friedrich Weinbrenner, che ne realizza una nella piazza centrale di Karlsruhe all’inizio dell’Ottocento. Il caso di Weinbrenner è esemplare per comprendere in che modo un architetto si avvicina al tema del monumento, che cosa fa per crearlo e quanto poco gli importa il significato politico, o il motivo che sta alla base della realizzazione. Per lui ciò che conta è l’incarico che si trova ad affrontare, un compito che è tra i più tradizionali per la professione dell’architetto.
Weinbrenner è un giovane architetto che lasciò la sua città natale, Karlsruhe, e andò a Strasburgo perché era entusiasta della rivoluzione francese e voleva partecipare alle attività dei Giacobini. Nel 1797 avanza una proposta progettuale in un concorso nazionale francese per un monumento della neonata Repubblica, un monumento che, anche in questo caso, mette insieme diversi elementi. Questo progetto ricorda da vicino i lavori della École Royale di Parigi, influenzati dalle allora recentissime scoperte archeologiche e dalla conseguente ‘moda’ egizia. Pochi anni dopo propone, invece, un monumento a Napoleone, che è al tempo stesso una combinazione narrativa. Il progetto vede una commistione di elementi architettonici e scultorei, come ad esempio la quadriga della vittoria, che simboleggia i successi militari dell’Imperatore. Weinbrenner ha costruito anche altri monumenti per alcuni generali di Napoleone caduti in battaglia, ma sono molto più semplici delle prime proposte. Subito dopo la sconfitta di Napoleone, Weinbrenner continua a progettare grandi monumenti e fa una proposta per un monumento nazionale tedesco a Lipsia, dopo la famosa Battaglia dei popoli, che segna l’inizio della riorganizzazione dell’Europa. Per lui non è una contraddizione lavorare per la memoria delle vittorie di Napoleone e allo stesso tempo per memorizzare la sconfitta di questo personaggio. Questo atteggiamento è significativo per dimostrare la possibilità di trasmettere attraverso la stessa architettura delle idee opposte. La relazione fra ideologia e storia, da un lato, e gli elementi fisici che costituiscono il monumento, le sue ‘pietre’, dall’altro, può cambiare, non è fissa, ma è una questione solo relativa al tempo e anche all’oblio. La memoria è la lotta continua contro l’oblio, ma dimenticare è nella natura delle cose e la memoria è una resistenza alla natura, creata dall’intelletto.
Un altro esempio di questo processo è L’Arc de Triomphe di Parigi, dedicato nel 1810 a Napoleone e sua moglie Sofia. Nel 1840 l'arco sarà ad esempio teatro di una festa per la monarchia di luglio, il regno di Luigi Filippo, poco prima della rivoluzione del ‘48. Quindi Jakob Ignaz Hittorff, un architetto tedesco naturalizzato francese che sarà uno dei preferiti di Napoleone III, avanzerà una proposta per tutta l’area attorno all’Arc de Triomphe, l'Étoile. Il monumento cambia ogni volta il proprio messaggio, diventando un elemento nuovo nella percezione quotidiana della città. L’arco non è ancora diventato la tomba del milite ignoto, che oggi si trova lì, ma è già un monumento di memorie diverse che si proiettano su di esso, e ha già assunto un ruolo importante per il paesaggio urbano. È strutturato da questi punti di riferimento ma non è una vera memoria comune, bensì appare come la somma di memorie individuali che si concretizza in monumenti di questo genere.
Ritorniamo quindi, ancora una volta, alla questione del significato del memoriale, con l’esempio del Leone di Belfort dello scultore Auguste Bartholdy, famoso per la statua della libertà di New York che fu realizzata come regalo del popolo francese agli Stati Uniti. Dopo la sconfitta della Francia nella guerra franco-prussiana del 1871, Bartholdy, che non è un architetto ma uno scultore prolifico, riceve la commissione di creare un monumento. In questa occasione non era però possibile creare un monumento alla vittoria. Fu scelto quindi il Castello di Belfort, che aveva resistito e non era mai stato conquistato dai Tedeschi, diventando dopo la guerra un simbolo della resistenza francese. Bartholdy era alsaziano di Colmar e propose di rappresentare un leone fiero e minaccioso. In Germania il processo fu diverso. Non ci sono infatti grandi monumenti legati alle vittorie, ma ci sono tantissimi monumenti che celebrano il nuovo imperatore, Guglielmo I. Come esito di questa guerra e della sconfitta della Francia, la Germania dà vita al Deutsches Reich, un nuovo stato nazionale che solo nominalmente si rifà alla tradizione medievale, ma in realtà non era mai esistito in precedenza su questo territorio. Questo nuovo stato non sancisce la rinascita del Sacro Romano Impero, ma uno stato nazionale dominato dalla Prussia.
I monumenti non sono necessari per ricordare un personaggio che è ancora vivo o appena morto, ma hanno la funzione di tenere viva e veicolare la memoria della vittoria sulla Francia. Essi non celebrano la vittoria in quanto tale ma la creazione del nuovo Reich a Versailles alla fine di questa guerra e creano l'idea della relazione di questo nuovo stato con il suo territorio attraverso l’erezione di una serie di monumenti in punti strategici del paesaggio. Si tratta di una ‘territorializzazione’, un'appropriazione del territorio attraverso i monumenti. In Germania questi monumenti sono sempre stati stigmatizzati come espressione dello stile dell’epoca. Essi raccontano, in modo quasi ‘logorroico’, una serie di miti e storie, come ad esempio il monumento sul Kyffhäuser, una montagna nel centro della Germania non lontano da Weimar, dove essi hanno costruito un monumento che mette in connessione il nuovo imperatore Guglielmo con Federico Barbarossa. Su di esso è rappresentato il Barbarossa che dorme appoggiato su di un tavolo. Si tratta di un monumento di spiccata teatralità, molto wagneriano: per me è sempre stato un simbolo del cattivo gusto in architettura. Però si pone in diretta relazione con la tradizione dei monumenti realizzati dopo la rivoluzione francese e con la pratica di veicolare non solamente avvenimenti storici concreti, ma anche ideologie. Dopo la rivoluzione era stata propagandata l’idea della libertà e della fratellanza. Questi due concetti sono stati ricordati nelle colline e negli alberi della libertà. Ora, allo stesso modo, è propagandata l’idea del nuovo impero tedesco, reso concreto e visibile con questo tipo monumenti.
L’architetto del monumento del Kyffhäuser è Bruno Schmitz, uno dei più famosi costruttori di monumenti in assoluto, che già durante la sua vita ebbe grande successo internazionale e vinse anche uno dei premi per il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma. Nel 1901, per esempio, egli realizza a Indianapolis, negli Stati Uniti, un monumento per la vittoria degli americani sugli inglesi. La stessa architettura, che si esprime in questi monumenti in Germania, entra anche nella discussione sulla costruzione degli edifici, dei palazzi che rappresentano questo nuovo stato. Uno di questi è il Reichstag di Berlino di Paul Wallot, che diventa una ‘scuola’ per un’intera generazione di architetti che prenderanno poi le distanze da uno storicismo ‘corretto’ che vuole produrre architetture in uno stile preciso – vero gotico, vero barocco o vero rinascimentale – per cominciare a utilizzare più liberamente, secondo la teoria di Gottfried Semper, gli elementi stilistici per creare un’architettura monumentale. A mio parere questo è il momento decisivo, in cui si crea una relazione diretta tra la costruzione di monumenti memoriali, in senso stretto, e di monumenti che fanno riferimento più in generale al concetto della permanenza rappresentata dall’architettura: un’architettura monumentalizzata. Questo tema diventa una ‘scuola’ del modernismo, che comincia a formarsi in questo momento. Un collaboratore di Wallot, Otto Rieth, pubblica tra il 1891 e 1901 quattro volumi di fantasie di architettura che intitola Skizzen. Le sue fantasie architettoniche, che all’inizio sono neobarocche, diventano via via sempre più astratte, sempre più ridotte alla pura forma. Questa evoluzione rispecchia il processo che vive l’architettura tedesca dell’ultimo decennio dell’Ottocento. È un processo segnato dal distacco dallo storicismo e dalla nascita dell’idea dell’architettura come forma autonoma. L’architettura storicista ha sempre parlato attraverso frammenti, ora si fa strada l’idea di un’architettura che si esprima attraverso le proprie strutture tettoniche. È un processo che porta a pensare all’architettura come disciplina autonoma.
Un anno dopo la pubblicazione di Otto Rieth, un altro giovane architetto, Fritz Schumacher, produce sempre con lo stesso editore una serie di fantasie che non si chiamano più Skizzen, ma Studien, studi di architettura. La pubblicazione si apre con un monumento a Friedrich Nietzsche. Schumacher è il primo rappresentante di questa generazione che vuole creare un’architettura nuova, capace di esprimere il sentimento moderno, un sentimento legato all’idea di una società industrializzata e alla Metropoli. Dodici anni dopo anche Heny Van de Velde progetta un monumento a Nietzsche e certamente l’idea di un tale monumento è ispirata dalla precedente proposta di Schumacher. Questa generazione di nietzschiani, in tutta l’architettura tedesca, è molto presente e decisiva, e si colloca all’inizio del modernismo. Schumacher, poco dopo, quando comincia a costruire, si occupa di un monumento di nuovo tipo; non crea più monumenti nel senso tradizionale, una statua o il busto di un personaggio, ma vuole piuttosto creare monumenti che siano integrati nella vita pubblica della città. Per esempio, il monumento a Ludwig Franzius, un ingegnere che ha canalizzato il fiume Weser a Brema e ha creato il nuovo porto, un’opera necessaria a garantire la sopravvivenza delle attività commerciali di questa città. Un altro monumento di questo tipo si trova ad Amburgo ed è dedicato a Johann Georg Mönckeberg, il sindaco di Amburgo responsabile del rinnovamento del centro e della costruzione della prima metropolitana. Schumacher non propone solamente un monumento con un’iscrizione commemorativa, ma lo associa con una biblioteca pubblica in una strada totalmente commerciale. Entrambi questi monumenti non guardano alla tradizione ottocentesca, ma si proiettano nel futuro.
Pierre Patte alla fine del Settecento propone un piano generale di Parigi, in cui propone dei punti nel centro della città in cui si possano erigere monumenti al re di Francia. Anche in questo caso abbiamo una ‘territorializzazione’ della città, paragonabile a quanto avverrà più tardi su tutto il territorio tedesco. Essa diventa una parte del corpo del re attraverso l’installazione di monumenti nel labirinto medievale della città. Questo piano è stato interpretato come l’inizio del rinnovamento urbano, della modernizzazione, ma è allo stesso tempo l’inizio della pratica di utilizzare lo spazio urbano come luogo di memoria. L’intera città diventa un grande monumento che racconta la storia nazionale in tutti i suoi grandi avvenimenti. Parigi per me è l’esempio principe. Una volta, ho fatto un calcolo dei caduti di tutte le battaglie commemorate nei nomi delle strade di Parigi, dei ponti eccetera ed è emerso che sono milioni. Visto in questo senso abbiamo una visione macabra del corpo della città, che diventa un enorme cenotafio.
Si comincia quindi a utilizzare il monumento anche per la creazione di uno spazio urbano. Justus Brinckmann, allievo di Heinrich Wölfflin, scrivendo Platz und Monument vuole creare o crea realmente una teoria della relazione tra città e monumenti. Non importa più cosa essi raccontano, a che cosa si riferiscono, ma che diventino elementi dello spazio, dell’identificazione generale con lo spazio della città; e questo è un concetto moderno del ruolo del luogo e di come creare accenti all'interno dello spazio urbano. È molto differente dall’idea di integrare il terreno di una città nel corpo di un re, comune sotto il potere monarchico. Questi elementi, anche quando hanno perso il significato che è loro attribuito inizialmente, diventano fondamentali per la creazione dello spazio; sono comparabili ai paesaggi urbani di un Giorgio De Chirico o un Mario Sironi, e questa interpretazione è valida anche per gli edifici.
Il modernismo comincia a introdurre nuove tipologie come il grande magazzino o la fabbrica, si pensi ai grandi magazzini Wertheim di Alfred Messel o alla fabbrica di turbine AEG di Peter Behrens a Berlino. Questi due esempi sono citati nel libro di Karl Scheffler sull’architettura della grande città, che sono uno dei risultati della discussione nietzschiana in Germania. L’accettazione dell’industrializzazione, così come l’elevazione a fatto culturale dell’industria nella città moderna, entra in questa discussione: anche l’industria diventa monumento nella città moderna. Parallelamente gli stessi architetti continuano a costruire monumenti convenzionali. Non si tratta più di monumenti wagneriani simili a quelli di Bruno Schmitz, dedicati alll’imperatore Guglielmo I, bensì di monumenti che commemorano Bismarck, a quell’epoca ancora vivo, che diventa per una parte della borghesia moderna della Germania un simbolo dell’opposizione all’imperatore Guglielmo II.
Wilhelm Kreis, che come abbiamo visto realizzerà in seguito il progetto sul Dnepr, vince un concorso per le cosiddette Bismarcktürme ("torri di Bismarck"), la cui costruzione viene poi finanziata da associazioni di privati cittadini e amministrazioni comunali. Alla fine, secondo il progetto di Kreis saranno costruite almeno cento Bismarcktürme, distribuite in modo uniforme sul territorio del Reich e nelle colonie, così come era avvenuto con i monumenti dell’imperatore. Le Bismarcktürme sono molte di più e molto meglio integrate alla vita sociale del Paese. L’ultimo concorso per questi monumenti è quello per il monumento a Bingerbrück del 1910, che dopo una lunga discussione vincerà lo stesso Kreis. La questione attorno alla quale ruota il dibattito è se sia necessario presentare Bismarck come persona, con un busto o una statua, o sia invece sufficiente realizzare un edificio. Le Bismarcktürme realizzate negli anni precedenti sono semplici cippi che hanno in cima una piattaforma per un fuoco, mentre il monumento di Bingerbrück vive già autonomamente grazie alla posizione privilegiata sopra il Reno. Anche qui è presente l’idea della demarcazione del territorio e l’accento è posto inoltre sulla monumentalizzazione della natura e del paesaggio tedesco attraverso l’intervento architettonico. Più di una generazione di architetti partecipano a questo concorso, alcuni famosi, per esempio Mies van der Rohe o Hans Poelzig. Tutti avanzano le proprie proposte e nei progetti presentati al concorso si può riconoscere la tendenza a una astrazione sempre più radicale. Il metodo della creazione di qualcosa di monumentale, che ‘memorizza’ un avvenimento specifico o un’ideologia più generale, non può più basarsi su una rappresentazione narrativa.
Nel 1913, a Lipsia, si tiene la prima Internationale Bau-Ausstellung, esattamente cent’anni dopo la sconfitta di Napoleone. Questa esposizione tiene insieme tre elementi: una vera e propria esposizione come quelle universali (differenti paesi e differenti architetti), un grande monumento per commemorare la battaglia di Lipsia e una città-giardino che rappresenta la nuova idea dell’edilizia popolare. È molto importante sottolineare come il Völkerschlachtdenkmal eretto da Bruno Schmitz si confronta direttamente, in questa occasione, con un monumento al ferro di Bruno Taut. Grazie a tale confronto è evidente che l’idea del monumento per i modernisti non è poi così lontana da quella tradizionale.
Non molto più tardi anche i funzionalisti, che avevano sostenuto di non avere più bisogno del monumentale, cercano di creare una forma monumentale utilizzando un linguaggio modernista. Il primo, Il Völkerschlachtdenkmal, è costruito nella forma tradizionale dei monumenti al Kaiser, mentre il monumento al ferro sfrutta le possibilità offerte da questo materiale e utilizza anche altri simboli e soluzioni come il vetro o il globo. Ci sono pochi monumenti in senso tradizionale eretti dagli architetti modernisti nel primo dopoguerra. La grande maggioranza di essi è opera di architetti tradizionalisiti. Molti ci appaiono oggi tremendamente kitsch, soprattutto quando vogliono rappresentare il dolore o una situazione eroica. Vorrei ricordare solo due esempi: Il primo è il monumento alle vittime di uno sciopero a Weimar di Walter Gropius e l’altro, più famoso, è il monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di Mies van der Rohe a Berlino. Entrambi furono distrutti dai Nazisti.
Per terminare questa traiettoria attraverso la storia, vorrei fare solo un accenno ai monumenti eretti dalla Kriegsgräberfürsorge, un’organizzazione per la realizzazione e il mantenimento di cimiteri militari tedeschi in tutto il mondo nata dopo la Prima Guerra Mondiale, perché in Francia e in Begio non era possibile che lo stato tedesco erigesse cimiteri commemorativi. Fu così fondata un’organizzazione privata e i cimiteri da essa realizzata appartengono tutt’oggi all’organizzazione. Ufficialmente non si tratta di installazioni statali, benché dal secondo dopoguerra essa sia finanziata soprattutto dallo stato. Il memoriale dell’architetto Paul Schmitthenner a Bourdon in Francia è un esempio di ciò che fu realizzato nel secondo dopoguerra. In genere gli architetti di questi memoriali non sono mai nominati, è difficile trovare i loro nomi, perché dopo la guerra, dal punto di vista politico, non era vista di buon occhio la costruzione di un cimitero militare tedesco: anche l’opinione pubblica era sfavorevole. In generale questi cimiteri sono piuttosto luoghi di lutto e si differenziano molto dai cimiteri costruiti nella prima metà del Novecento. Un altro, ultimo esempio di monumento memoriale è quello del campi di concentramento di Buchenwald, realizzato da un gruppo di architetti della DDR che lo costruirono durante gli anni Cinquanta. Anche qui torna la vecchia idea dell’inserimento del monumento nel paesaggio, non vi è la monumentalizzazione dei resti del Lager, come ad Auschwitz o Dachau, ma gli architetti hanno creato un paesaggio della memoria capace di ‘raccontare’.
Per terminare vorrei ricordare rapidamente il fondamento teorico che sta alla base di tutto questo ragionamento. Per me non è stato facile capire che questa produzione di monumenti ha giocato un ruolo fondamentale per la creazione dell’architettura moderna. Ho recuperato alcune direttrici teoriche molto importanti. Una di queste è quella elaborata da Friedrich Ostendorf, professore a Karlsruhe, che ha creato una teoria della composizione architettonica, cominciando con edifici semplici, costituiti da un unico spazio interno. Ostendorf vuole creare una teoria della spazialità e della volumetria dell’architettura, basata sull’addizione e ramificazione di elementi sempre più complicati. A pubblicare questa teoria alla fine degli anni Venti, è stato però il suo allievo Georg Steinmetz. Ostendorf infatti era partito volontario, all’età di quarant'anni, per la prima guerra mondiale e morì quasi subito nelle trincee. Steinmetz aveva condotto, già durante la guerra, un’approfondita ricerca sui progetti di ricostruzione delle città e villaggi della Prussia orientale, devastati dall’invasione russa nel 1914. Il primo dei tre volumi pubblicati dell'opera Grundlagen für das Bauen in Stadt und Land: mit besonderer Rücksicht auf den Wiederaufbau in Ostpreußen si incentra sui fondamenti per la costruzione delle città. L’ultimo volume pubblicato, che è in realtà il primo della serie, è molto interessante e parla della forma degli elementi dell’architettura. Steinmetz non vuole solo proporre un’architettura tradizionalista o modernista, ma cerca di mescolare le due correnti. Appare evidente che, anche per lui, l’elemento astratto, il corpo più semplice, diventa la base, come per Ostendorf, per tutte le forme dell’architettura. Proprio queste forme geometriche semplici, che sono le forme dei monumenti egizi, sono le stesse figure che vediamo ricorrere durante tutta la storia dell’architettura.
L’altro esempio è di nuovo Fritz Schumacher, che riprende da Hermann Sörgel la propria idea sulla percezione dell’architettura. Schumacher parla del modo differente con cui si percepisce una pittura rispetto a una scultura, per la cui comprensione è necessario un movimento. La scultura presuppone infatti la combinazione di varie immagini nella mente, che vengono poi sintetizzate e apprese come una totalità. Un edificio con uno spazio semplice è in realtà ancora più complicato perché presuppone una percezione interna ed esterna. Così un edificio più complesso, che si configura come agglomerato di vari elementi, rende necessaria tutta una serie di percezioni, e neanche l’edificio principale si può percepire in una volta sola. Per noi, quest’idea non è particolarmente sorprendente, perché oggi sappiamo che si possono realizzare delle fotografie e con il computer è possibile unirle rapidamente. Ma all’inizio del Novecento si tratta di una novità assoluta, in cui la teoria della percezione si mescola con la ricerca sulle forme dell’architettura.
Questa nuova teoria della percezione viene applicata per la prima volta proprio sulla Bismarckturm di Theodor Fischer, costruita nel 1901 vicino a Monaco, applicando contestualmente le teorie di Adolph Hildebrandt sul problema della forma. Hildebrand è uno scultore che ha vissuto a Firenze e studiato Michelangelo e che in seguito, dopo aver studiato i rilievi egiziani, propone una teoria del rilievo che si applica alla scultura, alla scenografia e all’architettura. Facciamo quindi un salto a una teoria molto posteriore, degli anni Quaranta, di Steen Eiler Rasmussen, architetto danese che parla, nel suo libro sul modernismo nordico Nordische Baukunst: Beispiele und Gedanken zur Baukunst unserer Zeit in Dänemark und Schweden, della forma compatta come base per la buona architettura e porta come esempio un’opera dell’architetto danese P.V. Jensen-Klint per un memoriale dedicato al filosofo N.F.S. Grundtvig. Rasmussen sostiene che questo piccolo edificio dalla grande aura monumentale, che lui chiama "Klump", è esemplare per ogni forma chiusa e compatta.
Per concludere va citato Nine Points of Monumentality di Luis Sert, Fernand Legér e Sigfried Giedion, scritto nel 1943 a New York, che si basa sull’idea che funzionalismo e costruttivismo si siano allontanti troppo dall’idea della monumentalità. Gli autori auspicano la ricerca di una nuova monumentalità all’interno del modernismo e iniziano una discussione internazionale che durerà più di un decennio, nei CIAM e sulla rivista "Architectural Review". La ricerca della monumentalità è forse la base dell’architettura. Quest'ultima non può esistere senza la capacità di creare memoria o lasciare la libertà a chi la osserva di fare le sue associazioni personali. Le pietre che creano la forma dell’architettura sono aperte a sempre nuove interpretazioni.
* Il presente saggio è una trascrizione della lezione tenuta da Hartmut Frank nel seminario "Architettura guerra e ricordo" tenutosi all'Università Iuav di Venezia il 26 settembre 2012.
Bibliografia
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A. Valdenaire, Friedrich Weinbrenner, Karlsruhe 1919.
English abstract
It's almost impossible to remember something through a built form, nevertheless man has always been fighting against time and, through architecture, aims to build something that can last for posterity and can help memorize events, myths and stories. To understand how man build memorials, we can have a look to monuments celebrating the fallen, which use very different languages: these monuments are on the one hand the product of a single architect’s artistic invention, on the other hand should be read more than anything else in connection with the collective memory of the war.
Many of the forms that we still use today to build monuments have been existing since ancient Egypt. Just think of the shape of the pyramid or obelisk. The monument is not tied to a particular political significance: it is possible to pass opposing ideas through the same architecture, and architectural history is littered with examples.
Monuments are also capable to transmit ideologies and create identity. In Germany after 1870 were built hundreds of monuments celebrating the emperor. They mark the dominant points of the territory. The concept of creating a national identity can also be applied to monuments, made inside cities. Even the name of places can in this sense have a memorial function.
The search for monumentality is perhaps the basis of the architecture. The latter can not exist without the ability to create memory or the freedom to leave the observer to make his personal associations. The stones that create the form of architecture are always open to new interpretations.
keywords | Architecture; War; Memory; Monument; History.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Hartmut Frank, Architettura, guerra e ricordo, in “La Rivista di Engramma” n.113, gennaio/febbraio 2014, pp. 7-23 | PDF