"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

115 | aprile 2014

9788898260607

Diciamolo con i fiori (e con altri doni)

Dal Dialogo dei colori di Lodovico Dolce

a cura di Lisa Gasparotto

English abstract


 
Nota al testo

Il Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori di M. Lodovico Dolce, edito a Venezia nel 1565, si presenta come una trattazione letteraria su un argomento tecnico e concettuale di un autore “il cui studio è di lettere e non di pittura”. Poligrafo e traduttore, letterato e accademico, il Dolce si era tuttavia occupato di pittura nel Dialogo della pittura intitolato l'Aretino (Venezia, 1557). E d'altro canto quello dei colori è argomento ampiamente frequentato nella trattatistica cinquecentesca: tra gli altri si ricordano almeno il De coloribus libellus di Antonio Telesio (Venezia, 1528), e il Del significato de' colori di Fulvio Pellegrino Morato (Venezia, 1535), a cui il Dolce, come sostiene Paola Barocchi, ha senz'altro attinto per il suo Dialogo che è “quasi una selva di varie lezioni”, in cui due personaggi, Mario e Cornelio, dialogano della “bassa e vil materia […] col testimonio de' scrittori antichi”. Ma Platone e Aristotele introducono soltanto a questioni cromatiche, a sottolineare la nota classificazione tra i due colori estremi e i tre mediani, mentre assai più diffusi risultano i riferimenti al significato dei colori che si trovano nei trattati di Telesio e del Morato menzionati, così come numerose sono le citazioni sulla terminologia cromatica attinte da Petrarca, Bembo, Ariosto, Omero, Virgilio, Cicerone, Terenzio, Ovidio e da un “terzetto fatto al costume bernesco” dello stesso Dolce. Dei suoi recenti predecessori, Leonardo, Vasari, Raffaello e Tiziano, si scorge invece solo una timida traccia. Il dialogo ha senz'altro il pregio di mettere in rilevo la bellezza e l'essenzialità del tema dei colori che si intreccia con l'argomento botanico, tanto che, al suo interno, è di fatto incorporato “un altro trattatello intorno alla proprietà delle Gemme”, un compendio, scrive l'autore nell'introduzione dedicata Ai lettori, in cui si trovano “cose di diporto e profitto grandissimo”.

Riproduciamo qui l'introduzione (Ai lettori) e un segmento del testo (per la precisione le pp. 4-6; 38-85) della princeps del Dialogo nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà dei colori di M. Lodovico Dolce, in Venetia appresso Gio. Battista, Marchio Sessa et fratelli, 1565. L'intervento sul testo è stato assai discreto: ci si è preoccupati di rispettare le peculiarità linguistiche che potessero tradire il sostrato linguistico veneziano (ad esempio qualche scempia al posto di qualche doppia e qualche sonora al posto della sorda), anche se, va detto, il Dolce, grammatico e correttore tipografico, osserva in linea di massima la norma bembesca e adotta un'ortografia assai regolare. In sostanza, i criteri con cui sono stati risolti i più importanti problemi testuali ed editoriali sono i seguenti:
– è stata rinnovata l'interpunzione secondo l'uso moderno;
– con opportuni “a capo” si è pausata l'eccessiva continuità in modo tale che la cesura grafica corrispondesse a una articolazione del contenuto;
– della grafia antica si è rispettato tutto ciò che, pur contrastando con l'uso moderno, riflettesse una realtà fonetica o avesse un movente culturale. In alcuni casi si è evitata la normalizzazione della grafia, specie nei casi in cui certi lessemi rivestono valore di documento anche linguistico. Per queste ragioni si è inoltre rispettata la divisione antica delle parole, quando non induceva all'equivoco nella lettura, come può accadere per certe congiunzioni subordinanti; a questo proposito e per evitare confusione al lettore, si è distinto costantemente il perché causale dal per che dichiarativo e il senza che congiunzionale dall'avverbiale senzaché (con il significato di 'inoltre', 'per giunta'), il ne pronominale o con funzione copulativa dal congiunzionale. Quanto alle iniziali maiuscole, che popolano numerose le stampe cinquecentesche, sono mantenute laddove hanno lo scopo di porre in rilievo parole e concetti;
– al modo di accentare antico si è sostituito il moderno (perché, però, perciò, percioché, ecc...). Nei casi in cui figurava, è stato aggiunto l'apostrofo, con distacco degli elementi eventualmente agglutinati (articoli, nomi, ac sim). Sono state eliminate la grafia etimologizzante e non corrispondente all'effettiva pronuncia (come inpossibile). Il trigramma -ngn (come in bisongnio) è stato sostituito con la -n palatale (gn); la u e la v sono state sempre distinte; la & è stata sostituita con et; la t del nesso tj seguito da vocale è stato variato in z, in ossequio alla pronuncia;
– è stata mantenuta e rispettata l'oscillazione tra scempia e geminata, sia nel caso di allotropia (dubio/dubbio, imagine/immagine, ac sim), sia in presenza o meno di raddoppiamento sintattico (contrafare/contraffare);
– l'intervento invece sulla sostanza del testo si è limitato alla correzione di evidenti refusi tipografici;
– l'intertestualità è stata conservata immutata, come rispondente alla filologia del Cinquecento e ai testi allora vulgati presso il Dolce.

Infine, la Tavola de' colori, che il Dolce inserisce alla fine del suo Dialogo, è diventata qui un lemmario suddiviso in cinque sezioni concettuali: Fiori, frutti, piante, erbe aromatiche, essenze; Animali; Immagini di divinità, personaggi mitologici e storici, allegorie; Libri, autori, opereMiscellanea (oggetti, utensili, abiti, strumenti musicali, pietre preziose). Si è così voluta ricreare una sorta di moderna Tavola de' colori con collegamenti ipertestuali che rimandano ai luoghi del testo in cui compaiono i singoli lemmi; tra parentesi tonde e in corsivo si è trascritta la forma utilizzata dall'autore solo nei casi in cui si discosta da quella lemmatizzata che si legge nei dizionari. Questo Indice ha la funzione, ludica più che linguistico-filologica, di consentire al lettore di trovare, per ogni occasione, il dono che abbia il giusto significato simbolico.

Indice o Tavola de' colori, ovvero: cerca e trova il significato del tuo dono simbolico

Fiori, frutti, piante, erbe aromatiche, essenze

aceto | alloro (lauro) Ialloro (lauro) II | 
aneto | 
anice (anese) | arancio (arangio)
 | assenzio (ascentio) | avena | baccare | basilico (basilicò) | bosso | caltha | canna | campanella | cappero (capparo) Icappero (capparo) IIcappero (capparo) III | carota (carotta) | carruba (carobba) Icarubba (carroba) II | castagna | cavolo (cauli) | ciliegia (ciregia) | cipolla | cipresso | citronella (citronella, herba rosas) | cocomero (cocumeri) | cotogno (codogno) | coriandolo | ebano (ebeno) | edera (hellera) | fava | fico | finocchio | foglia secca | frassino | frumentospiga di frumento (spica di formento) | fungo | garofano (garofoli) | gelsomino (gesmini) | ghianda | giglio | ginepro (ginebro) | girasole (mira sole, gira sole, helitropio, clitia) | gramigna | indivia | insalata mista (insalata di herbe varie) | lattuga (lattuca) | lavanda | lentisco | lino | loglio | lupino (lupini, luvini in herba) | maggioranamela (pomo) | mela cotogna (pomo cotogno) | melo (pomaro) | melograno (pomo granato) | melone | menta | mirto (mirtella) | mora bianca | narciso (narcisso) | nespolo | noce (noce, nogara) | oliva | olmo | ortica | orzo | palma | platano | prezzemolo (petrosello) | rosa | rosmarino (rosmerino) | ruta | sempreviva (sempreviva, orecchiata) | savina | zucca | zucchero

Animali

agnello | anguilla | ape (pecchia), alveare di api | asino | aquila | baco da seta (vermicelli che fanno la seta) | biscia | bottargabue | camaleonte (cameleonte) | cammello (camelo) | cane (cane, cagnuolo) | cappa, ovvero ostricacanolicchio (cappa lunga) | capasanta (cappa santa) | cappone | carpione | cavalletta | cavallo | cicogna | colomba | coniglio | coccodrillo (crocodilo) | delfino | ermellino (armelino, armellino) | fagiano | falcone | falena (parpaglione, polletto) | farfalla | formica | gabbiano (cocale) | gallo | gambero (gambaro) | gatta | giraffa (girafa) | granchio | grillo | gru | ibis | lampreda (lamprede) | leone | lepre | lucciole (animaletti che volando di notte rilucono come fiamma) | lucherino (lugarino) | mosca | mulo | orsetto (orsacchino) | ostrica | passero (passere, augello) | pavone | pernice | piombino | puledro (poledro) | ragno | ramarro | rana (ranna) | remora | scimmia (scimia) | serpente | smergo | storione | talpa | tinca (tenca) | topo | usignolo (lusignuolo) | vipera (aspide)

Immagini di divinità, personaggi mitologici e storici, allegorie

Apollo | Apollo e Marsia | Atteone (Atheone) | CentauroCesare (testa di Cesare) | Fede | Fenice | Giasone | Gigante | Giove | Giunone | Gorgone di Medusa | Idra (Hidra) | Laocoonte (Laoconte) | Luna | Marte | Mercurio | Pallade | Perseo | Prometeo (Prometheo) | Satiro | Saturno | Segno dell’Ariete | Segno dell’Acquario | Sole Unicorno (liocorno) | Venere | Vulcano

Libri, autori, opere

Alighieri, Dante | Ariosto, Ludovico, Orlando Furioso | Bembo, Pietro, Asolani | Bibbia (Volume delle sacre lettere) | Calmeta, Vincenzo Colli detto il Calmeta, Opere | Catullo | Cicerone (immagine di Cicerone) | Giovenale (Giuvenale) | Livio (Tito Livio Padoano) | Lucano | Ovidio, Heroides (Epistole Heroide di Ovidio)Petrarca, Francesco | Plinio il Vecchio | Sannazaro, Jacopo, Arcadia | Serafino Aquilano, Ciminelli detto Serafino, Sonetti | Virgilio Egloghe

Miscellanea (oggetti, utensili, abiti, strumenti musicali, pietre preziose)

àncora | anello (annello) | arcolaio (arcolagio) | asciugamano (asciugatoio) | battello | bicchiere (vaso da bere) | botte da vino | bottiglia di moscatello (bottazzo di moscatello) | campanile | candela | cappello | carta bianca | cassetto (cassettino) | chiave | chiodo | coda di cavallo | colonna | coltello | compasso | confetti bianchi | corallo | corazza | corda d’arco | cucchiaio (cucchiara) | forbice | flauto | freccia (saetta) | fuso | gabbia | ghirlanda di fiori o d'erbegioia (gioiello) | gomitolo di lino (branca di lino) | gondola | libro | lingua di animale | lira | liuto | mappa da navigazione (carta da navigare) | morso | nave | occhiali | oggetti di colore gialloorologio (horiuolo) | palla da vento | penna | perla | pettine (ferro che adoprano le donne) | petto | porcellana | prigione | recipiente (bossolo) | scacchiera | scaldamani | sella | serratura | sonno | specchio I; specchio II | stivali (borsachini) | sveglia (svegliatoio) | tenaglia (tanaglie) | testa | toppa | uovo

Da: Dialogo di M. Lodovico Dolce nel quale si ragiona della qualità, diversità e proprietà dei colori, in Venezia appresso Gio.Battista, Marchio Sessa et fratelli, 1565

"Ai lettori" (pp. 4-6) 

Parrà forse ad alcuni, candidissimi Lettori, che sia bassa e vil materia trattar de’ Colori. Il che confesso essere in parte, ma havendosi affaticato il suo autore di ricercar la proprietà e il significato loro col testimonio de' Scrittori antichi, così Greci, come Latini, questa operetta s’allontana in tutto dal Volgo, trovandovisi per entro alcuni discorsi di cose non così note a ciascuno, e non inutili a chi legge. È ben vero che nella signification di diverse cose che si dipartono dal soggetto ordinario di essi Colori, per essere egli potendo grato a tutti, e disceso a certi particolari alcune volte bassissimi. Ma in ciò s’è accostato a Luciano et ad altri festevoli scrittori. Ma con tutto ciò vi frappone sempre alcuna moralità per
giovare non meno che dilettare. Ne ha serbato molto ordine, ma detto ciò secondo che ne’ veri ragionamenti alla memoria può sovenire. Non è rimato ancora, quando gli è venuta l’occasione, di addur qualche Sonetto d’huomini Illustri et appresso di dichiararlo. Laqualcosa penso che non devrà dispiacere. Ne solo ha adotti Sonetti, ma etiandio Epigrammi e versi Latini, per far questo Dialoghetto quasi una Selva di varie letioni. La onde è da credere che questa sua fatica debba esser da voi abbracciata et havuta cara. Il che se dimostrarete, tosto porrà in luce un'altro Trattatello intorno alla proprietà delle Gemme et un Sommario di tutta la Filosofia di Aristotele. È vero che si troveranno in questo alcune scorrettioni causate dalle Stampe, ma egli merita scusa, sì per non haver potuto attendere alla correttione con quella diligenza che bisognato sarebbe, come ancora per essere impossibile che nelle Stampe non avengano degli errori. Nelle opere che vi si promettono si troveranno cose di diporto e profitto grandissimo. Ne vi sia poco grato a veder le molte opere di Aristotele ridotte in un compendio brevissimo, in modo che, con picciola fatica, ciascuno potrà gustare un tanto Autore e servirsene alle sue voglie. Ne debbono alcuni troppo severi riprendere il trasportar nella nostra lingua così fatte opere, percioché non possono essi dire che non apportino frutto a belli spiriti che non sanno lettere Latine e meno Greche. E’l così riprendere è un dimostrare di portare invidia al beneficio di altrui. Già pochi giorni a dietro ogni sciocco pedante con intendere superficialmente i Poeti o gl’Historici Latini, si pavoneggiava fra volgari con l’addurne una sentenza hora di questo, hora di quello autore, le più volte alla rovescia e facendo qualche barbarismo. Hora perdono questi huomini di poco sapere in gran parte l’alterezza: perché spesso trovano chi, mercè di queste tradottioni, intende meglio che essi non fanno et abonda di maggior memoria et intelletto. E veggonsi alle volte molte Donnicciole ragionar più volte sicuramente con huomini dotti di cose gravi e contenute ne’ Libri di Filosofia. Non meritano adunque così fatti huomini, che s’affaticano per giovare, reprensione, ma lode. Ma per porre a ciò fine, aspettate in breve questi due Trattati. E state sani.

Diciamolo con i fiori, e con altri doni (pp. 38-85)

(dialogano Mario e Cornelio)

Mar. Tu dici il vero, che si dovrebbe vestire secondo il costume della città in cui si è nato e non prendere l'altrui fogge e’l variar de’ colori è cosa da leggero e portare una sola vesta di più colori è cosa da pazzo. Ma sarebbemi grato che appresso le altre cose, delle quali ragionato m’hai, m’insegnassi la via d’isprimere diversi concetti, secondo diversità di colori, quando voglia me ne venisse.
Cor. Farollo volentieri, secondo che a memoria mi verrà. Ma perché di diverse sorti d’herbe togliendo i significati, ciò si fa o dall’odore o dal colore o dalla natura e virtù loro naturale, o da qualche esteriore effetto, overo affetto o somiglianza di voci.
Mar. Né questo mi dispiace.
Cor. Chi volesse dimostrare alcun amore, non esser convenevole ad ambe le parti, potrebbe mandare uno arangio di sapore brusco, per havere egli una parte bella che è la scorza e’l sapore non dilettevole.
Mar. Il brusco specialmente suol piacere negli arangi.
Cor. Basta che insieme non convengono, come farebbono quando il sapor fosse dolce.
Mar. Chi mandasse in dono ad altrui anesi scoperti, cioè non confetti, per questo che cosa significarebbe egli?
Cor. A giudicio mio amor semplice e senza cattivo affetto.
Mar. E come il dolce non è buono et amico alla natura?
Cor. Così è. Ma si considera che la cosa è semplice e non alterata. Senza che il dolce in questo è cattivo, che accresce la colera, che è molto dannosa all’huomo. Et ecco che l’Aneto significa dolce amore, segreto, casto et a buon fine, non lascivo, né vergognoso. Parmi che ancora l’anime, cioè le medolle de’ frutti, significhino desiderio di mostrare il core e farsi conoscere dentro le viscere, e darsi vivo et anco (come si suol dire) morto a cui si manda.
Mar. Che dinota l’Ape?
Cor. L’Ape, altrimenti Pecchia, significa che l’huomo continuando otterrà il suo desiderio.
Mar. Et in che modo.
Cor. La voce Pecchia convertirassi nel verbo picchia: cioè sta fermo e saldo, che vincerai.
Mar. E che dinota annello?
Questo è chiaro, che siccome uno anello l’altro incatena: così significa di esser fedele a cui si manda.
Mar. Che significa l’Aquila?
Cor. Disiderio di signoria, perché l’Aquila è Reina degli altri augelli. Il medesimo può significare una penna.
Mar. Chi mandasse altrui ascentio?
Cor. Lo ascentio è amaro, ma porge rimedio alle infermità. Significherà adunque che, chi lo manda, circa rimedio e ristoro ai suoi affanni.
Mar. Quell’herba ch’è detta Baccare?
Cor. Voleva il Pastor Mantovano che a quell’altro fosse cinta la fronte di Baccare, accioché, dovendo egli divenir Poeta, non gli nuocessero le cattive lingue. Verrà adunque significare non temere ne invidia, né malivolenza de’ malevoli.
Mar. Il Basilicò?
Cor. Quello dinoterà sospetto e Gelosia. Così il Bosso, la savina, e la ruta significa scacciar da sé i tradimenti et esser rude, cioè rozo nelle cose di amore.
Mar. La canna?
Cor. Se vorremo haver risguardo alla favola del barbiere del Re Mida, dinoterà non potersi nascondere alcuna cosa che non si sappia.
Mar. Il fiore detto Campanella?
Cor. Per cagion della proprietà della cosa di cui egli porta il nome, significherà amore a tutti notissimo e senza infamia.
Mar. Mandare a donare un cane?
Cor. È farsi schiavo a cui esso si dona. Percioché il cane è come servo e fedel servo del padrone.
Mar. Capponi o Galli?
Cor. Vuol dire che l’huomo si guardi, che non canti, cioè non discopra alcuna importante cosa. Percioché essi cantar sogliono né dove è un gallo potrebbe stare celato alcun ladro o mal fattore. Suole etiandio il Gallo predire il giorno e cantando tra il giorno dimostra mutamento di tempo.
Mar. Chi mandasse dono di Cappari?
Cor. Sarebbe come una capara, cioè ara, che l’amor fosse vero.
Mar. Cappe, overo Ostriche?
Cor. Perché queste nascondono sotto la loro coperta quello che tengono significheranno amore coperto e segreto.
Mar. Carotte e Carobbe?
Cor. Che non sia da fidarsi di molto schiamazzo e braverie e promesse di alcuni. Così Cassia dimostra l’amor nuovo spegnere il vecchio.
Mar. La castagna o foglie, o frutto, o nel rizzo?
Cor. Amor casto, ma che punge, occultamente, di lui non se ne godendo. E chi mandasse una cavaletta, ragno, grillo, o ranna, dinoterebbe amore instabile e vago.
Mar. Chi mandasse cauli?
Cor. Quest’herba invero è vile e mal sana. Percioché significarebbe amore discortese e villano.
Mar. Una ciregia di ogni colore?
Cor. Secondo me gran disiderio della cosa amata.
Mar. La Caltha?
Cor. Questa per esser viola, che nasce nell’Autunno, significa Amor tardo, ma anco in tempo degno di honore, perché l’Autunno è abondante di ogni cosa e precede il verno.
Mar. Chi mandasse altrui a donar carta bianca?
Cor. Già di sopra di ciò t’ho fatto mentione. Questo potrebbe significare due cose: cioè che stesse in libertà di colui a cui è mandata, di scrivervi sopra o guerra o pace, o chi la manda rimettersi ad ogni sua voglia, cioè in servitù perpetua.
Mar. Mandare un Chiodo?
Cor. Significarebbe ancor fermo e saldo: poi che’l chiodo tien fermo quella materia, in cui è conficcato. Potrebbe anco dinotar nimicitie e travagli.
Mar. Chi mandasse una Cipolla?
Cor. Significarebbe, al parer mio, che si volesse dinotar nimicitia e guerra, perché le cipolle fanno piangere altrui.
Mar. La Citronella detta herba rosa?
Cor. Significa, che tosto ritornerà l’amore nella sua prima forza e conditione.
Mar. Il Codogno, o la sua foglia, o pure esso frutto, che significa?
Cor. Certa grosseria, che mostra non intendere.
Mar. Colomba o penne di essa colomba?
Cor. Tema di non essere scoperti.
Mar. Confetti bianchi?
Cor. Io direi dubbio d’inganni: perché sotto la scorza vi può essere alcuna cosa immonda.
Mar. Coralli?
Cor. Il Corallo generalmente è rosso. E perciò significarebbe guerra o vendetta. E dalle lettere si potrebbe esponere quasi accoratti.
Mar. Un Coriandolo non confetto?
Cor. Andar sempre con core aperto e non finto cioè esser sincero et candido.
Mar. Il Cipresso?
Cor. Questo arbore, quando è tagliato, mai non rimette. Onde può significar disperatione. Et anco Amor non puro, ma finto, e d’uno, qual si suol dire, che tiene i piedi in due scarpe.
Mar. L’ebeno?
Cor. Conforta l’huomo a quello, che non dee, esortandolo a starsi cheto, a dormire et a simulare; dimostrandogli che questo è bene. Onde s’ingiurierebbe colui a cui qualche dono di questo legno si mandasse.
Mar. Il Falcone?
Cor. Chi vuole interpretare il falcone dalla qualità, significa huomo rapace e chi dalle lettere, par che dica. Fallo, cioè fa la tal cosa, secondo che hai promesso, e non mancar di fede.
Mar. In tal guisa non si saprebbe intender l’animo di colui, che tal dono mandasse.
Cor. Gli si potrebbe dire che egli interpretasse l’uccello o dalla sua natura, o dalle lettere.
Mar. La farfalla?
Cor. Veggiamo correre questo animaluccio volontariamente alla morte. Però si potrebbe interpretare per uno inconsiderato, che seguitasse il suo danno ingannato dal senso: o più tosto puossi attribuire all’amante che spinto dal disiderio corre le più volte a quello ch’è manifesta sua morte. Onde disse il Sanazaro:
    E, qual farfalla al desiato foco
        Tirata dal disio si riconduce,
        Tanto, ch’al fin gli pare amaro il giuoco.
Ma più propriamente a quel ch’io dico, dice’l Petrarca:
    Et altri col desir folle, che spera
        Gioir forse nel foco, perché splende,
        Prova l’altra virtù, quella, ch’incende
        Lasso il mio Core è in questa ultima schiera.
Il Bembo:
    E’l divin vostro sguardo si mi piace,
        Ch’io ritorno a perir de la sua vista;
        Come farfalle al foco, che la sface.
Mar. Il Fagiano?
Cor. Ho letto che’l Fagiano, temendo di colui che procaccia di prenderlo, si nasconde col capo in qualche buco, non si avedendo che la coda riman di fuori. Si suole adunque dire è guasta la coda al Fagiano, cioè l’amor nostro è scoperto e fatto palese.
Mar. E la fava, che significa ella?
Cor. Diverse cose, ma basteraci che dinoti favola e ciance, dividendo la voce in due sillabe, cioè fa, va. Che è quanto a dire: fa pure i fatti tuoi, vanne pure, ch’io ti conosco.
Mar. Il fico?
Cor. Significherà amor carnale e non buono.
Mar. Finocchio?
Cor. I finocchi si pongono per l’inganno, onde si suol dire. Costui è stato infinocchiato, e tu non m’infinocchierai.
Mar. Il frumento?
Cor. Di questo il grano, o l’herba dinoterà buona speranza di ottenere il suo desiderio: come si vede, che si semina il grano cacciandosi sotto la terra con speranza, che in più doppi esso debba rendere il frutto.
Mar. Il frassino?
Cor. Volendolo interpretar dalle lettere, dinoterà fra sino: cioè in seno segreto, volendo inferire, che alcuno debba tenere alcuna cosa riposta nel core.
Mar. Chi mandasse a donare un fungo?
Cor. Verrebbe a dinotare, che l’huomo aspettasse affaticandosi, che a qualche tempo havrebbe la sperata mercede, con l’esempio del fungo, il quale nasce in una notte.
Mar. Mandare un fuso?
Cor. Dall’effetto del fuso, che si torce, e tira su e giù si potrebbe dinotar confusione: e così dal futuro. Ma dire, togliendo le lettere, fui, son, e sarò sempre fedele in amare.
Mar. Chi mandasse un Gambaro?
Cor. Si vede che i Gambari, come anco i Granchi, al contrario caminano. Onde si potrebbono per questi significare andamenti et effetti molto contrari all’aspettatione et alla speranza.
Mar. Garofoli?
Cor. Io direi che significassero amor nuovo: il quale caccia il primo.
Mar. E che significano i Gesmini?
Cor. Questi, il Rosmerino, e tutti i fiori senza mai far frutti, come rose, e Gigli, significano amore gettato via, dal quale mai non si possono aspettar frutti, ma vane dimostrationi.
Mar. E chi mandasse una ghirlanda?
Cor. Senza haver risguardo a quello di che fosse intessuta, significherà che volgendo bene, e raggirando alcuna cosa, buon fine non habbia a seguire.
Mar. Il giallo, similmente, che significa?
Cor. Chi guarda alla parola, ella a un certo modo dinota, già l’ho. Che verrebbe a dinotare speranza e certezza di conseguire alcuna cosa. Come in contrario si potrebbe anco pigliare per disperatione; perché tal colore suole essere nelle frondi, quando seccano. E per aventura per tal cagione è commesso qui in Vinegia a Giudei, che portino la beretta gialla.
Mar. Chi mandasse una ghianda?
Cor. Le Ghiande si danno ai porci. Perciò si potrebbe significare che quel tale a cui si mandassero, fosse huomo vile.
Mar. Chi mandasse un Ginebro?
Cor. Significherebbe amor nocivo, il qual costa caro, e con infamia.
Mar. Una gioia?
Cor. Una gioia potrebbe esser di tal valuta, che rallegrarebbe ogni mesto cuore. Significherà adunque allegrezza e festa e felicità in amore.
Mar. La Gramigna?
Cor. Si vede, che questa herba germoglia, e si conserva assai. Potrà adunque significar saldezza in amore, e rinovamento, mal grado d’ogni contrarietà.
Mar. L’hellera?
Cor. L’hellera si suol diffondere ne’ luoghi soletari: e considerandola dalle lettere, par che dica, era anco io già qualche cosa teco. Potrebbe così anco significare amor lasciato et abandonato et invecchiato. Ma perché ella si suol fermamente e strettamente tenere, ove si va abbarbicando, potrà parimenti significar fermo e saldo amore.
Mar. La Indivia?
Cor. Questa significherà segreta passione et amaritudine di amore.
Mar. La Lattuca?
Cor. La Lattuca è cosa che si pon nel principio del mangiare, et eccita l’appetito. Onde si può pigliare per buon principio. E perché gli antichi la ponevano nelle lor tavole per l’ultimo cibo: onde si legge, cosi buon fine. De nostri avi solea chiuder le mense mai sempre la lattuca.
Mar. La Lavanda?
Cor. Questa, interpretandola dal nome, direi che significasse rimetter le ingiurie: quasi lavandola, o levandola.
Mar. Il Lauro e la Mirtella?
Cor. Questi sono odoriferi. Significheranno adunque bella coppia d’amanti e bene unita; la quale porge di sé buono odore e sana. Potrassi anco interpretare Lauro quasi lavoro: come a dire che nelle trame amorose è uopo affaticarsi e fare giorno e notte ogni cosa per acquistar la cosa amata.
Mar. Il Lentisco?
Cor. Perché esso ha le foglie amare, si potrà interpretare, che significhi amaritudine, e, perché si ci fanno stecchi da nettare i denti, significherà ancora troppa delicatezza, e fastidiosa conservatione.
Mar. La Lepre?
Cor. Si sa che questo animale è timidissimo: e solamente il mover delle frondi gli reca paura. Onde di subito corre a nascondersi. Di qui potrà significare paura di non essere iscoperto.
Mar. Colomba?
Cor. La Colomba potrà significare amor candido, e puro. Significherà ancora fecondità di prole: percioché i Colombi ogni mese fruttano.
Mar. Chi donasse un libro?
Cor. Potrebbe ciò significare ricovramento di libertà o di persona libera.
Mar. Una branca di lino?
Cor. Significarebbe inganni, e fraudi: come si vede, che’l lino è la prima cagione onde si fanno le reti.
Mar. Lupini?
Cor. Lupini, altrimenti Lovini in herba, o in frutto, significa amaritudine di amore, o poco di bene per molto amare.
Mar. E che significarebbe la maggiorana?
Cor. Maggiore amore di giorno in giorno, dalla voce stessa. Onde si dice anco Maggioranza invece di Signoria.
Mar. Chi mandasse un Melone.
Cor. I meloni le Zucche e i Cocumeri non so per qual cagione si riferiscono agli sciocchi. Onde chi questo mandasse, potrebbe dinotar così fatte parole. Per tua sciocchezza e dapocaggine hai perduto quello che acquistato havresti, se non fosti stato Melone, o diciamo Zucca, o Cocumero.
Mar. Chi mandasse l’herba detta Menta?
Cor. Manderebbe a ramaricarsi di non esser contracambiato in amore, interpretando menta quasi si lamenta. So quanto in questa materia in una elegia Latina giuocosamente ne scrisse il Bembo, e come similmente col diminutivo ne scherzarono gli antichi. Ma qui si parla semplicemente dell’herba.
Mar. Chi mandasse un Mira Sole o Gira Sole?
Cor. Quest’herba ancora è detta Helitropio. Onde il Bembo:
    Ond’io mi giro
    Pur sempre a voi, come Helitropio al sole.
Et altrove:
    Nasce bella sovente in ciascun loco
    Una pianta gentile,
    Che per antico stile
    Sempre si volge in ver l'eterno foco.
È detta parimente Clitia. Onde il Sannazaro:
    Clitia fatto son’io: colui se’l vede.
E quell’altro,
    Si volge Clitia pallidetta al Sole.
Il significato adunque è manifesto.
Mar. La Mora bianca?
Cor. Che l’huom si morrà con pura e salda fede.
Mar. Chi mandasse a donare un Bottazzo di Moscatello?
Cor. A me pare che volesse significare amore donando esso liquor così buono. Ma potrebbe significar mischiato è ello, attribuendo ciò alla instabilità d’uno Amante che non ami puramente ma, che tenga, come s’è detto, i piedi in due scarpe.
Mar. Chi mandasse a donare Mosche e Topi?
Cor. Simili cose sono fastidiose e noiose da vedere. Però questi significherebbono amor travagliato e fastidioso.
Mar. Chi mandasse un Narcisso?
Cor. Significherebbe o vanità di cose mondane: o vendetta della superbia di colui, o di colei, a cui si mandasse.
Mar. Chi mandasse Nespoli?
Cor. Questi frutti tardo maturano. Però significherebbono amor tardo, e perduta speranza. E perché anco sogliono essere per lo più cibo da fanciulli, potrebbe anco significare amore sciocco e vile.
Mar. Chi mandasse una Noce?
Cor. Potrebbe significare incertitudine e inganno: perché molte volte la noce nella scorza par buona, e di dentro è guasta. Il simile puossi dire della castagna. Può anco significar dalle lettere cosa che nuoce.
Mar. E quando s’usasse la voce Nogara?
Cor. Dalle lettere similmente potrebbe significar non gara, né guerra ma pace.
Mar. Chi mandasse la Oliva?
Cor. La Oliva è cosa fruttuosa e significa pace e fin di travaglio. Di qui disse il Bembo:
    Homai l’Oliva
    Mi manda; e spendi le saette altrove.
Mar. Chi mandasse un ramo di Olmo?
Cor. In questo per interpretarlo mi valerei delle lettere e direi: io l’ho mo, cioè io ho la tal cosa di presente, che verrebbe a significare ho havuto tutto quello, ch’io desiderava.
Mar. Chi mandasse l’herba detta Sempre Viva?
Cor. Questa si chiama anco Orecchiata. E significa memoria di un ver amore.
Mar. Chi mandasse Ortica?
Cor. Puo anco l’Ortica, considerandola dalle Lettere, significar questo: hor ti castiga, e volgiti a più lodata vita.
Mar. Chi mandasse Orzo?
Cor. Interpretando dalle lettere, potrebbe intendere hor zo, hor giù: levati homai giuso da cotal pensiero, che tu non sai nulla.
Mar. Chi mandasse a donare un ovo mondo?
Cor. Potrebbe intendere che la sua Donna o egli fosse mondo e puro in amore. Overo siccome l’uovo sopra tutti gli altri cibi è vitale, così da lei, più che da altra cosa dipender la sua vita.
Mar. E l’ovo con la scorza?
Cor. Potrebbe dinotare, vo coperto et aspetto il frutto che ambi noi siamo uniti insieme, come è il vitello dell’ovo con quella parte che noi chiamiamo chiara di esso ovo.
Mar. Chi mandasse a donare un ramo di Palma?
Cor. Costui dinotarebbe vittoria: che così significa la Palma. Onde disse il Petrarca:
    Palma è vittoria: et io giovane ancora
    Vinsi il mondo e me stessa.
Mar. E il Lauro non dinota egli altro fuor che quello che tu hai detto?
Cor. Significa ancora trionfo, perché i Capitani antichi, quando trionfavano di una ghirlanda di Lauro, si adornavano la testa, perché questa pianta non è mai fulminata, e serba perpetuamente verdi le sue fronde. Onde il medesimo Petrarca:
    E come in Lauro foglia,
    Conserva verde il pregio d’honestate:
    Ove non spira folgore ne indegno
    Vento mai, che l’aggrave.
E del Trionfo:
    Il Lauro segna
    Trionfo, ond’io son degna
    Merce di quel Signore che mi diè forza.
Mar. Chi mandasse un Parpaglione, o Polletto?
Cor. Verrebbe a significare che colui s’ingannasse del suo pensiero o giudicio ch’egli havesse.
Mar. Chi donasse un Passere, cioè Augello?
Cor. Potrebbe significar lascivia, e sagacità: perché questo augello ha l’una e l’altra di così fatte conditioni. E potrebbe anco dalle lettere intendere: passerà questo malo o cattivo huomo.
Mar. Chi mandasse a donare un Pavone, overo una penna di questo augello?
Cor. Significherebbe vanità: perché questo augello è pomposo, come si vede nello spiegar della coda. Potrebbe anco significar bel fine, e miglior sorte della primiera e così felice riuscimento.
Mar. Chi mandasse a donare una perla?
Cor. Potrebbe significar contentezza e allegria perché nel vero una bella perla Orientale riempie gli occhi di chi la mira. Overo potrebbe intender parla per la cosa, e lasciati intender bene e va saldo e coperto.
Mar. Chi mandasse a donare una Pernice?
Cor. Significherebbe che colui a cui tale augello fosse mandato si affaticasse e stesse saldo e forte nelle buone e virtuose operationi. Il che mi fa sovenire di quel Sonetto del Petrarca che incomincia:
    A piè de’ colli, ove la bella vesta.
Nel qual Sonetto mi vien da ridire quando io penso alla spositione, che gli è data da un galant’huomo il quale dice che il Petrarca mandò a donare al suo gran Colonnese alcune Trotte, sciocchezza nel vero grande percioché il Sonetto è chiarissimo e si comprende che’l Petrarca mandassi augelli, e non pesci, i quali alcuni dissero, che fur Pernici, come dono convenevole a un gran personaggio, e per esortarlo a sofferenza delle percosse della Fortuna.
Il Sonetto adunque dice in questo modo:
    A piè de’ colli, ove la bella vesta
        Prese de le terrene membra pria
        La Donna, che colui, ch’a te ne’nvia,
        Spesso dal sonno lagrimando desta:
    Libere in pace passavam per questa
        Vita mortal, ch’ogni animal desia,
        Senza sospetto di trovar tra via
        Cosa, ch’al nostro andar fosse molesta.
    Ma del misero stato, in che noi semo
        Condotte da la vita altra serena,
        Un sol conforto, e de la morte havemo:
    Che vendetta è di lui, ch’a cio ne mena:
    Lo qual in forza altrui presso a l’estremo
    Riman legato con maggior catena.
Mar. Questo è invero bellissimo Sonetto e degno di così gentile Poeta. Ma chi mandasse del petrosello?
Cor. Dinoterebbe amore amaro e senza trastullo alcuno per essere il succo di tale herba amaro.
Mar. Chi mandasse l’augello detto Piombino?
Cor. Quest’augello è bellissimo, e molto dura senza ammarcire dopo morte. Onde potrebbe significare amore sempre più nuovo e durevole anco doppo morte.
Mar. Chi mandasse a donare un Platano, overo un ramoscello di questo albero?
Cor. Il Platano presso le acque cresce molto, et è morbido e bellissimo da vedere: ma di sé non rende alcun frutto. Significherebbe adunque questo dono assai più promesse che fatti.
Mar. Chi mandasse un pomaro?
Cor. Potrebbe significar fertilità et abondanza, perché tale arbore è fruttifero molto e rende i frutti in copia, e morbidissimi. E dalle lettere potrebbe inferire più amaro che dolce io ricevo dal tuo amore.
Mar. E il frutto che è il pomo?
Cor. Questo pon mo fine alle tue sciocchezze che io più non ti posso comportare.
Mar. Un pomo cotogno?
Cor. Questo frutto crudo è duro e di cattivo sapore e cotto è buonissimo e sanissimo. Si potrebbe adunque dinotare che l’huomo da sé, senza l’industria de’ buoni studi, è come animale selvaggio e senza alcun sapore di virtù ma, quando seguita le buone arti, che sono il condimento de i nostri sudori, riesce utile a sé stesso e al mondo. Onde solevano dire i Greci, che l’huomo senza lettere è come arboro senza frutto. E per essere anco questo frutto di così grosso sapore, dico essendo crudo, potrà dinotare grossolaneria e sciocchezza.
Mar. Il pomo granato?
Cor. Questo di fuori è di bel colore e di dentro serba i granuli vermigli che paiono rubini di gratissimo sapore. Si potrà adunque attribuire all’huomo dottato dalla natura di bellezza, e ripieno di virtù, l’una parte con l’altra accompagnando. Potrà anco significare uno che aspetti gran frutto di fedele amore.
Mar. Chi mandasse una porcellana?
Cor. Parrebbe che esortasse alcuno che si celasse, cioè andasse segreto che niuno se n’avedesse.
Mar. Chi mandasse a donare una foglia secca?
Cor. Significherebbe leggerezza e incostanza. Leggerezza per esser la foglia lieve e incostanza si per essa leggiera, che si muove ad ogni picciol fiato di vento, come anco per esser secca.
Mar. Chi mandasse a donare una Saetta?
Cor. Potrebbe significar più cose. La Saetta è velocissima e pungentissima e traffige et uccide. Cosi potrebbe significar colui a cui si mandasse esser di velocissimo ingegno, overo huomo crudelissimo e somiglianti cose.
Mar. E chi mandasse un paio di tanaglie?
Cor. Significherebbe huomo tenacissimo.
Mar. Chi mandasse un paio di forbici?
Cor. Significherebbe che l’huomo si donasse in potere di cui fosser mandate.
Mar. Chi mandasse un Horiuolo et un compasso?
Cor. L’horiuolo dinota le hore e per questo il fuggir del tempo e’l compasso dinota misura. Potrebbe adunque leggiadramente significare che colui a cui si mandasse havesse risguardo al trapassar dell’hore, e compartisse il tempo della vita, avertendo che ella (come dice il Petrarca):
    Fugge, e la morte n’è sovra le spalle.
Et poi segue:
    Voi sete hor qui: pensate a la partita;
    Che l’alma ignuda e sola
    Conven, ch’arrivi a quel dubbioso calle.
Mar. Benché questo è il fine della nostra vita, a cui tardi o per tempo si conviene arrivare: nondimeno non vorrei che’l nostro ragionamento finisse in morte. Onde dimmi ancora chi mandasse altrui a donare uno scacchiere?
Cor. Costui potrebbe con questo dono significar la vanità humana: percioché il tempo pretioso più, che tutti i thesori del mondo che doveressimo spendere in virtuose operationi, senza che se ne perdesse alcuna parte, noi poco aveduti della mortalità in vani giuochi consumiamo. Non voglio io già dire che l’huomo non debba haver qualche ricreatione e ristoro: percioché, come dice colui, se mai non cessi di tirare, diverrai debole e molle. Ma si debbono procacciare passa tempi pur fondati in virtù: che sarebbono ragionamenti dilettevoli et honesti, tralasciando tanta diversità di giuochi nel fine rincrescevoli e dannosi.
Mar. E chi mandasse a donare una penna temperata da scrivere?
Cor. Questo non sarebbe dono sconvenevole: la penna è cosa lieve et è portata dal vento agevolmente. Onde e’ significherebbe leggerezza.
Mar. Chi mandasse a donar un cagnuolo?
Cor. Due proprietà sono del cane, l’una all’altra contraria perché è fedele verso il suo padrone, in guisa, che si sono trovato de’ cani che hanno il loro signore combattendo contra a gli assalitori difesi da morte. Onde gli Egitij prima che le lettere fossero state trovate, usando essi per iscoprire i concetti loro varie figure di animali, posero il cane per la fedeltà. Il che diede cagione a Giulio Camillo di far quel bel sonetto che incomincia:
    Il verde Egitto per la negra arena,
        Ma più per quei, che l’adornar d’ingegno.
Di qui Virgilio discrivendo nell’ottavo come il figliuolo di Evandro levò la mattina di letto per tempo, dice che l’accompagnavano due cani a guisa di guardiani. I versi sono tali:
    Nec non et gemini custodes limine ab alto
    Procedunt, gressumque; canes comitantur herilem.
E l’Ariosto chiamò il can fido compagno. Sono adunque fedeli i cani ai signori loro, ma sono anche adulatori perché, se bene hanno delle percosse, non restano di accarezzargli e di far loro vezzi. Potrebbe adunque chi mandasse a donare un di questi animali significherebbe l’un effetto e l’altro.
Mar. Io non credo che l’adulatione si convenga al cane percioché egli accarezza il suo padrone per l’amor che esso gli porta, come conoscendo per istinto naturale che da lui riceve il suo vivere e soffre anco delle botte, perché ei fa l’obligo che gli tiene e che’l padrone non lo batte, perché gli voglia male, ma per castigarlo. Ma chi mandasse un Armelino?
Cor. È nel vero gran cosa che questo bianco e puro animale ama tanto la sua mondezza che, quando da cacciatori gli vien posto innanzi il fango, più tosto si lascia pigliare, che imbrattarsi in quello. Onde gli fu fatto questo motto. MALO MORI, QUAM FOEDARI. Di qui il Petrarca la insegna della castità volle che contenesse un Armellino. Disse adunque:
    Era la lor vitoriosa insegna
    In campo verde un candido Armellino,
    Ch’oro fino e Topati al collo tegna.
Et il Bembo nella sua ballata:
    Caro Armelin, ch’innocente si giace,
    Vedendo al cor mi riede
    Quella del suo pensier leggiadro e stano
    Bianchezza; in cui mirar mai non mi pento
Significherebbe adunque per questo Animale la Castità.
Mar. Chi mandasse un Liocorno?
Cor. Dinoterebbe la virginità. Percioché si legge che così fatto Animale è tanto amico di questa nobilissima parte che quando vede una giovane subito corre a lei e le pon la testa nel grembo. E quel corno ch’esso ha nella fronte è di tanta virtù che si prezza un thesoro.
Mar. Chi mandasse a donare a un signore un Cavallo?
Cor. Il Cavallo è animal feroce e generoso. Dinoterebbe adunque che tale fosse quel signore. Ma perché etiandio è domabile, significherebbe parimente che a quel signore si potesse porre il freno. Ma mandisi pure che ciò non si suol sospettare.
Mar. Chi mandasse un bue?
Cor. Significherebbe la fatica, la sofferenza, e la miseria: percioché non è alcuno animale che più di questo venga affaticato nei lavori della terra e delle cui carni più si serve il comune uso nel vivere. Onde non senza cagione Ovidio nell’ultimo delle sue Trasformationi fa sopra a questo quel bello et ingenioso lamento. Onde mal tratterebbe col significato il donatore colui a cui l’havesse donato: senza che anco le Corna significherebbono alcuna cosa?
Mar. Chi mandasse uno Agnello?
Cor. Questo animaletto è tanto innocente e semplice che è quasi peccato a ucciderlo. E vidi io con gli occhi propri in questa città, al tempo che v’erano quei due Leoni che portato per pasto ad uno di essi uno agnello, quel semplice belando corse incontro alla bocca del Leone, il quale o per generosità, o, come io più tosto credo, mosso a pietà di quello innocente bestiolo, se lo pose a leccare senza fargli alcun dispiacere. Onde l’animaletto fu salvo. Significherebbe adunque questo innocenza e purità.
Mar. Chi mandasse un Mulo?
Cor. Il Mulo è creato d’uno asino e d’una cavalla o d’un cavallo e d’un’asina e da sé non frutta. E perché in cotal modo è imbastardato, si potrebbe significare che colui a cui fosse donato o egli ancor bastardo fosse o tralignasse da’ suoi maggiori. E mi Maraviglio che questo animale sia così adoperato da gran prelati, essendo sconciamente brutto e dispiacevole da vedere, siccome quello che non ha né proportione né disegno.
Mar. Io nel vero non posso far,ch’io non rida quando io veggo alcuna di siffatte bestie. Ma coloro che se ne servono, dicono di trovare grande agio nel cavalcare. Ma chi mandasse uno Asino?
Cor. L’Asino è nel vero humilissimo animale, ma serve molto a’ bisogni della vita. E vedesi che un poveraccio con uno asinetto viverà assai acconciamente. Con questo adunque si potrebbe dinotar l’utilità, l’humiltà, e la patienza, perché il misero soffre di grandissime battiture.
Mar. Chi mandasse un Leone?
Cor. Il Leone è animal superbissimo e per la superbia è anco posto da Dante, ove dice:
    Ma non si, che paura non mi desse
    La vista, che mi apparve d’un Leone.
    Questo parea, che contra me movesse
    Con la testa alta, e con rabbiosa fame
    Tal, che parea, che l’aere ne temesse.
Dinoterebbe adunque la Superbia. E perché è generoso in guisa che mai non fugge da quei che lo seguono, ma con grandissima generosità si ritira, potrebbe significare anco questo. E, perché sovrasta gli altri animali, significarebbe anco grandezza di Signoria. Veggiamo anco che i tre degli Evangelisti furono da Esaia significati per tre animali, che sono il Leone, il Bue, e l’Aquila: il Leone appropriando a S. Marco, che scrive la grandezza del Signore, il Bue a S. Luca, che discrive la humanità, e l’Aquila a S. Giovanni, che tratta della divinità.
Mar. Chi mandasse a donare un Coniglio?
Cor. Questi animaletti sono semplicissimi, timidi, e molto domestici, e nel vero piacevoli da vedere. Direi adunque che costui volesse significar bontà schietta e vera purità di animo.
Mar. E chi mandasse una Talpe?
Cor. La Talpe habita sotto la terra e va sempre cavando;et è senza occhi. Significherebbe adunque, che colui a cui si mandasse fosse ignorante e privo di ogni lume dell’intelletto. Onde l’Ariosto:
        E, come Talpe,
    Lo riportarono i suoi di qua da l’alpe.
Mar. Chi mandasse a donare un’Aspide?
Cor. Si dice, che l’Aspide è velenosissimo e chiude l’orecchie in guisa che non sente l’incanto di cui il perseguita. Questo adunque significherà crudeltà, et accortezza.
Mar. Chi mandasse una Biscia?
Cor. Significherebbe malignità, alludendo a quel proverbio che non si dee nudrire il Serpe, né la Biscia in seno. Onde l’Ariosto essendo nella prima editione del suo Furioso stato morso dalla invidia de’ detrattori, e dipoi col tempo havendo le verità, come tagliata la lingua a que’ maligni, conoscendosi il suo Poema raro et eccellente, nella seconda editione levò questa impresa che fece stampare nella fine del libro due biscie, all’una delle quali era stata tagliata la lingua, et all’altra, che gonfiata di veleno la vibrava, si mostrava di sopra una mano con una forbice in atto di tagliarla anco a lei, con un motto, che diceva. DILEXISTI MALITIAM SUPER BENIGNITATEM. Che fu non meno bella impresa di quell’altra, che pose nella prima sua editione subito nella prima carta che fu un’alveo d’Api, le quali dall’ingrato villano erano fatte fuggire col fuoco, quelle procacciando d’uccidere, quantunque ella havessero prodotto il mele, ponendovi il motto: PRO BONO MALUM.
Mar. Chi mandasse un Serpente?
Cor. Questo nelle sacre lettere è affigurato per la prudenza. Onde dinoterebbe che colui a cui egli lo mandasse fosse prudente.
Mar. E per qual cagione?
Cor. Credo io per questa che tutto il tempo del verno ei sta celato, e si rinnova gettando via le vecchie spoglie, alludendo quasi alla immortalità dell’anima. Di che Virgilio fece mentione nella sua Eneida, valendosene in una comparatione. La quale fu poi felicemente imitata dall’Ariosto. Solevano anco gli Egitij dinotar l’anno per un Serpe, che volgendosi in giro, con la bocca prendeva la coda, il che dimostra la proprietà dell’anno, che girando ritorna, e così per sempre. Onde disse il Sannazaro:
    E’l Sol fuggendo ancor da mane a sera
        Ne mena i giorni, e’l viver nostro inseme,
        Et ei ritorna pur, come prim’era.
Imitando quei versi di Catullo:
    Soles fugere et redire possunt:
    Nobis cum semel occidit brevis lux,
    Nox est perpetua una dormienda.
Mar. Chi mandasse un Centauro?
Cor. Fingesi che Isione s’innamorò di Giunone e credendosi esser con lei, abbracciò una nuba, e del suo seme ne nacquero i Centauri. Questi adunque sono posti per il vitio, havendo effigie humana, e nel resto essendo animali brutti.
Mar. Chi mandasse un Satiro?
Cor. Significherebbe il medesimo e spetialmente la lascivia. Onde pongono i Poeti, che le Ninfe, si come quelle, che havevano la lor castità dedicata a Diana, per lo più li fuggivano. Il che diede occasione al Bembo di fare un bellissimo Epigramma. Il quale ti dirò volgarmente nella guisa che egli lo havesse tessuto in prosa. Pone adunque che un Satiro parli, e così dica. Dite Ninfe perché fuggite da noi, mostrando di non haver grato che vi amiamo. Che parte ha il Satiro che voi lo dobbiate così disprezzare? Se io ho le Corna, anco Febo ha le sue Corna e con tutto ciò la fanciulla Cretese lo chiama nel suo grembo. Mi biasimate, che io habbia i piedi caprigni, qual cosa è più brutta d’un zoppo? Ho il petto folto di non mai tagliati peli. Per questa cagione Ilia non si rammaricò giamai a Marte. Ho la fronte rubiconda, non è la fronte di Febo di fuoco? Finalmente se alcuna parte è in me, che bella non sia: questa ha esempio, che voi potete prendere dal cielo. Ma voi tuttavia seguitando i fatti de’ mortali, cercate di haver gran doni etiandio da i gran Dij. Questo è il senso dello Epigramma, se non che nel recitarlo per difetto di memoria ho mutato l’ordine.
Mar. Il Satiro adunque dinoterà lascivia?
Cor. Così è. La qual cosa ha espresso mirabilmente Titiano in un suo paese: nel quale v’è una Ninfa che si siede, insidiata da due Satiri, né in quel paese vi si vede altro che  Satiri mostrando di haverlo fatto per il paese della Lascivia, e forse imitando a un cotal modo o più tosto alludendo alla Pittura, che discrive il Sannazaro nella sua Arcadia. Ne sono molti anni che fu trovato cavando nelle vigne di Roma un Satiro con un fanciullo di bronzo antichissimo e fatto con tanto artificio e perfettione, che molti Poeti l’honorarono con i versi loro.
Mar. E chi mandasse uno Apollo che scorticasse Marsia?
Cor. Per Marsia si dinota la temerità. Percioché fu temerario colui a provocar un Dio a cantare, o à sonar seco e meritò che gli avenisse quel fine che gli avenne che fu l’esser iscorticato: come questi giorni adietro vedemmo questa favola espressa notabilmente in una pittura di Antonio da Correggio.
Mar. Chi mandasse a donare un Saturno?
Cor. Dicono i Poeti che Saturno divorò tutti i suoi figliuoli, eccetto Giove che gli fu rubato. Il qual Saturno è posto per il tempo che tutte le nascenti cose consuma e non solamente le cose, ma la Gloria e la Fama de’ mortali. Onde disse il Petrarca:
        E vidi il tempo rimenar tal prede
        De’ vostri nomi, ch’io gli hebbi per nulla:
        Benche la gente ciò non fa, ne crede,
    Cieca che sol di vento si trastulla,
        E pur di false opinion si pasce,
        Lodando più’l morir vecchio, che in culla.
Et in fine:
    Così ’l tempo trionfa i nomi e ’l mondo.
Potrebbe adunque questo dono significar la crudeltà, in quanto al mangiare de’ figliuoli e in quanto al consumar delle create cose la fragilità e mortalità humana.
Mar. E chi mandasse a donar un Giove?
Cor. In quanto Giove fu serbato dalla voracità di Saturno, cioè del tempo, potrebbe significar l’anima che si rimane sempiterna et immortale. Et in quanto alla persona di Giove, dinoterebbe Signoria, et anco Liberalità e Magnificenza.
Mar. Chi mandasse a donare un Mercurio?
Cor. Mercurio è messaggio degl’Iddij, e sopra l’eloquenza, e sopra il guadagno. Onde si potrebbe significar che colui a cui si mandasse fosse eloquente, aventurato Mercatante e cose simili.
Mar. Non si potrebbe anco intendere, essendo Mercurio l’anima degli Alchimisti, che quel tale fosse falsario et ingannatore?
Cor. Potrebbe parimenti.
Mar. Chi mandasse un Apollo?
Cor. Dinoterebbe che colui a cui fosse mandato havesse buon luoco nella Poesia: et anco fosse indovino, et eccellente Medico, per esser concedute ad Apollo tutte queste conditioni.
Mar. Chi mandasse un Marte?
Cor. Senza dubbio costui dinoterebbe che quel tale a cui cotal dono si mandasse fosse o gran guerriero, essendo Marte da Poeti finto DIO delle battaglie, o crudele e feroce, e quasi senza ragione, che volesse ogni cosa per forza di arme.
Mar. Chi mandasse una Giunone?
Cor. perché Giunone è finta per l’aere, verrebbe a significar che quel tale a cui si mandasse fosse mutabile e incostante. Il qual dono converrebbe ragionevolmente a una Donna con l’autorità di Virgilio e del Petrarca che disse:
    Femina è cosa mobil per natura:
    Ond’io so ben, ch’un’amoroso stato
    In cor di donna picciol tempo dura.
Onde il Politiano così ancora egli ha lasciato scritto.
    Segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde,
    E vanne, e vien; come a la riva l’onde.
Tuttavia potrebbe anco notar Signoria, essendo Giunone moglie di Giove: et anco casto amore.
Mar. Chi mandasse una Venere?
Cor. Significherebbe casto amore, in quanto castamente si amano i Maritati, e ’l cui fine è del procreare per mantenere e conservar la spetie humana. Onde disse Virgilio natis Venus alma creandis. E, quando i congiungimenti ad altro fine si disiderano, significa lascivia. Venere anco dinota gratia, politezza e leggiadria.
Mar. Chi mandasse a donare una Pallade?
Cor. Senza dubbio verrebbe a significar la sapienza: perché si finge che questa Dea nascesse del capo di Giove: e il sapere è riposto nell’intelletto. E perché ella ancora da Poeti è finta haver parte nella guerra, potrebbe significar che a un valente Capitano e soldato conviene anco l’ingegno accompagnato con la fortezza, il quale si affina per le lettere. E certo che trovandosi le lettere accompagnate con le arme, ne nasce alhora quella perfettione che poi viene ammirata dal mondo. Onde i Romani, che per la grande eccellenza, che essi havevano nell’arme, furono chiamati popol di Marte, abbracciarono ad ogni tempo lo studio delle lettere. Come habbiamo lo esempio di Scipione, di Pompeo, di Cesare, di Augusto, e di tutti coloro che tanto nella militia famosi divennero, e che tante grandi facende fecero, et acquistarono al Romano Imperio poco meno che tutto il mondo. Onde Pallade significherà l’una e l’altra di queste conditioni.
Mar. Ora, chi mandasse a donare un Vulcano?
Cor. Vulcano da Latini sovente si prende per il fuoco, la cui proprietà è di consumare. Onde si verrebbe a significar che quel tale a cui si mandasse fosse malvagio. D’altra parte, perché il fuoco conserva la vita degli huomini, potrebbe anco dinotare che costui fosse di utile al mondo.
Mar. Chi mandasse a donare la immagine di Giasone?
Cor. Giasone fu mandato all’acquisto del vello d’oro, impresa quasi impossibile alla forze humane: non dimeno egli vi fu vincitore e rapportò l’aurata pelle del Montone. Onde ciò significherebbe che non senza gran fatiche e sudori l’huomo viene all’acquisto della virtù e dell’honore. Onde il Bembo:
     E se ben ti rimembra
        D’Hercole e di Giason, questa è la via.
        Di gir al ciel ne le terrene membra.
Benché anco il medesimo vello si potrebbe intendere per la pompa et alterezza. Come pare che l’intendesse il Petrarca in questi versi:
    Simil non credo che Giason portasse
    Al velo; ond’hoggi ogni huom vestir si vuole.
Mar. Chi mandasse un Camelo?
Cor. Certo questo animale è molto brutto e contrafatto, havendo alto il collo, la testa picciola et una gobba mostruosa sopra le spalle. Non di meno ha questa bella proprietà in lui che dovendosi caricare s’inginocchia a terra, e come sente il peso convenevole alle sue forze, si leva in piedi. Potrebbe adunque significar la sobrietà o temperatezza. E perché anco è puzzolente, potrebbe altresì dinotare, che colui, a cui si mandasse, fosse macchiato da qualche vitio.
Mar. Chi mandasse un Delfino?
Cor. Il Delfino è pesce velocissimo. Onde dinoterebbe la prestezza.
Mar. Chi mandasse un’Ancora?
Cor. La fermezza. Onde levò Tiberio quella bella impresa dell’Ancora col delfino avoltovi a torno, con un motto, FESTINA, LENTE. La quale impresa diede il Bembo, che solo una medaglia di lei n’haveva, a M. Aldo Romano, il quale la levò per insegna, e la usò poi sempre nei suoi libri.
Mar. Chi mandasse il pesce chiamato Remora?
Cor. Scrivesi che questo pesce, ch’è picciolissimo, attaccandosi sotto il fondo d’una nave, è di tanta forza che la fa fermare nel maggiore impeto del suo Corpo. Onde si potrebbe dinotare che molte volte un picciolo accidente tarda una gran vittoria, e spesse l’impedisce in guisa, che non si può ottenere.
Mar. Chi mandasse la forma d’un Crocodilo?
Cor. Significherebbe l’astutia e la falsità. Percioché si scrive che’l Crocodilo vago dell’humana carne, discende in terra, e veggendo alcun viandante, essendo dalla natura ammaestrato, ch’esso habbia di lui spavento, si mette a piangere, e sperge si large lagrime e con atto così miserabile che colui per pietà a lui si avicina. E in tal guisa il Crocodilo gli si aventa adosso e lo mangia. Onde nacque il proverbio che dice le lagrime di Crocodilo.
Mar. Chi mandasse un Ramarro?
Cor. Il Ramarro è amico dell’huomo. Onde, quando egli vede, che qualche biscia voglia offendere alcun’huomo, che trova addormentato, esso si pone a combatter con la biscia e lo difende. Significherebbe adunque amicitia et amorevolezza.
Cor. Dinoterebbe immonditia sì di animo come di corpo: percioché la Cicogna col becco si purga il proprio ventre, da che i medici tolsero l’esempio del christero. Evvi un altro uccello simile a questo, il quale è detto Ibis, che ha il medesimo costume, del quale nome chiamò Ovidio un suo nimico, di cui non voleva scoprire il nome, accioché per beneficio del suo inchiostro esso non fosse famoso et eterno. Questa adunque significherà quanto io ti ho detto.
Mar. E chi mandasse una Gru?
Cor. Dimostrerebbe la vigilanza: percioché dicesi, che, quando essa dorme, tiene nel piede un picciol sasso; accioché quello cadendo la svegli dal sonno e faccia la scorta alle compagne. Et etiandio, quando elle volano, hanno una che va loro innanzi come per guida.
Mar. La Formica?
Cor. Significherebbe la providenza: percioché questi animaletti la state proveggono per il verno, portando il grano alle loro case, significherebbe anco la fatica, alludendo a quei versi:
    Exemplum nobis præbet Formica laboris,
    Quando suo solitum portat in ore cibum.
Che volgarmente dicono in questa guisa:
    Porge a noi esempio di fatica, quando Porta il suo cibo in bocca la Formica.
Mar. Chi mandasse un Ragno?
Cor. Questo animale è molto industrioso, tessendo la tela, onde forma la sua casa, nella quale se ne sta, insidiando alle mosche, delle quali esso fa preda e si pasce. Verrebbe adunque a significar l’industria e, perché la sua tela è opra fragile, dimostrerebbe ancora la fragilità humana. Onde il Petrarca:
    Quanto al mondo si tesse, opra di Aragna.
Mar. E chi mandasse a donare uno di quei vermicelli che fanno la seta?
Cor. Non so se me n’hai dimandato avanti. Questo vermicello ha molte belle proprietà che fa con l’humore, che gli esce dalla bocca, la seta, e facendola viene a formare certa casa nella quale dentro si rinchiude, di poi vi fa una apertura et escene fuori alato e fa le sue ove e poi se ne muore. Questo adunque significherà l’industria, in quanto fa quel meraviglioso lavoro e quel divenire quasi un altro con le ali, può significare la immortale anima, che col mezo delle belle e buone opre uscendo fuori della prigione, che sono le membra del corpo, se ne vola al cielo.
Mar. Significherebbe adunque che colui a cui si mandasse fosse huomo non pure industrioso ma virtuoso e santo?
Cor. Così a punto.
Mar. E chi mandasse, come fece colui, la lingua d’un animale?
Cor. La lingua dell’animale è la miglior cosa che si gusti. Potrebbe adunque significare che colui a cui si mandasse fosse huomo da bene e non punto maledico, percioché dalla lingua si formano le parole, le quali esser possono e utili e dannose, sì ad altri, come anco all’istesso. Onde si dice in proverbio: che la lingua non ha osso e fa spezzare il dosso. Per questa cagione Francesco Re di Francia mandò in dono all’Aretino una catena d’oro di seicento scudi, la quale era fatta a lingue, che si guardasse dalla maledicenza,che per aventura ne potrebbe esser gastigato.
Mar. Essendo adunque a quel Filosofo richiesto ch’egli mandasse la migliore e la peggior parte de gli animali, esso mandò ragionevolmente una lingua.
Cor. Così è.
Mar. Per qual cagione gli Ateniesi ponevano nel luogo ove facevano ragione e consultavano delle cose publiche, un volto che si teneva la mano in bocca?
Cor. Per dimostrar che si dovessero tenere le deliberationi segrete e che si dovesse molto ben discorrere prima che in qual si voglia occasione si parlasse, perché, come disse il buon Poeta, la parola mandata fuori di bocca non sa ritornare e quell’altro vola la parola senza mai potersi ritornare a dietro. Onde volendo un buon Filosofo comperare un servo, essendogli esso piaciuto di persona, e di aspetto, disse nel fine, parla, accioché io ti possa conoscere. E nel vero tutti paiono savi, mentre essi tacciono: ma tosto che l’huomo favella si conosce il prudente dallo sciocco. Altri dicono che ne’ luoghi ove si santificava a Serapis et a Iside v’era una statua, che col dito si toccava la bocca, volendo inferire che si dovesse tacere. E questa statua era detta Harpocrate. Fu anco un Filosofo così chiamato che nei suoi precetti poneva per la miglior cosa il tacere. Et era proverbio appresso Greci quando volevano dinotare che alcuno si tacesse. Fa che tu divenga Harpocrate. E solemo noi dire cosa non ditta non fu mai scritta, volendo dimostrare,che sia di molto utile il tacere. Il che fa sovvenire d’un bello Epigramma fatto sopra una Ninfa di Marmo, che pare che si dorma presso un fonte:
    Huius Nympha loci, sacri custodia fontis,
    Dormio, dum blandæ sentio murmur aque.
    Parce meum, quisquis tangis cava Marmora, somni
    Rumpere; sine bibas, sine lavare, tace.
Il che gia esposi in questa guisa:
    Io vaga Ninfa di si bel paese,
    E custode del sacro e puro fonte
    Dormo, mentre ch’io sento il mormorio
    De la piacevol acqua; Tu, che passi,
    Non turbar il mio dolce e grato sonno,
    O che tu beva, o che tu lavi, taci.
Mar. Chi mandasse a donare una Gatta?
Cor. La Gatta mangia i Topi, i quali sono di gran danno a una casa; percioché rodono cose di valore come ornamenti di casa, libri, e cose simili. E per questo si tengono nelle case, perché altrimenti apportano danno, rubando la carne, i pesci, e rompendo sovente le massericie, oltre che hanno brutta effigie e sono ferocissime a guisa di Leoni, dei quali hanno certo sembiante. Onde potrebbe colui significare utile e parimente danno. E, perché in qualunque casa honorata e civile insieme con le gatte si tengono anco de i cani, tra i quali animali v’è battaglia sempre ordinaria, potrebbe anco significare che non vi può essere amicitia e concordia che duri se non tra pari. Onde l’honorato M. Marchiò Sessa nella sua insegna, che è la gatta, la quale tiene un Topo in bocca, v’ha posto questo motto, DISSIMILIUM INFIDA SOCIETAS.
Mar. Chi mandasse una Fenice?
Cor. Dicesi che la Fenice nasce in Arabia e sentendosi aggravata dalla vecchiezza fa un nido sopra un’arbore, ove vi pose cose odorifere e guardando verso il Sole, tanto batte le ale che vi accende il fuoco, nel quale abbruciandosi rinasce. Onde ella stessa si rinova et è sempre una sola. Onde il Petrarca, volendo lodare pienamente la sua Laura, disse:
    Questa Fenice de l’aurata piùma
    Al suo bel collo candido e gentile
    Forma senz’arte un si caro monile,
    Ch’ogni core addolcisce, e’l mio consuma.
E così il Bembo:
    Donna, che fosti Oriental Fenice
    De l’altre Donne, mentre il mondo t’hebbe:
    Hor poi, che d’habitar fra noi t’increbbe,
    Angel salisti al ciel novo e felice.
Il medesimo Petrarca nella Canzone
    Qual più diversa e nova
dice:
    Cosi sol si ritrova
    Lo mio voler; e cosi in su la cima
    De’ suoi alti pensieri al Sol si volve:
    E cosi si risolve,
    E cosi torna al suo stato di prima:
    Arde, e more, e riprende i nervi suoi,
    E vive poi con la fenice a prova.
E perché la Fenice, nel modo che s’è detto, si rinova, et è sempre una sola, et eterna, pare che ragionevolmente si possa attribuire alla immortalità. Onde bella e convenevole insegna alla facultà delle lettere fu quella che levò il gentilissimo et honoratiss. Sig. Gabriello Giolito, essendo ella una fenice che arde nelle fiamme, risguardando incontra il Sole, con questo motto: SEMPER EADEM. E volgarmente della mia morte eterna vita i vivo, sicché riferisce a quello: vivo morte refecta mea, cioè vivo rinata della morte mia. Onde non si poteva trovar più bella insegna, né più propria alle cose delle lettere, perché gl’impressori con l’imprimer de’ libri tengono vivi i nomi de gli Scrittori, e gli rendono immortali.
Mar. Così è, ma chi mandasse a donare un Cameleonte?
Cor. Dimostrarebbe l’adulatione, percioché il Cameleonte piglia quel colore a cui si accosta, ne è morbo maggiore di quello, ch’è l’adulatore. E questi così fatti huomini non si dimostrano se non nelle prosperità, percioché, quando il lieto stato si cangia in tristo, come dice l’Ariosto:
    Volge la turba adulatrice il piede:
    E quel, che di cuor ama, riman forte, Amando il suo Signor dopo la morte.
Mar. Chi mandasse il Gorgone di Medusa?
Cor. Dinoterebbe che colui a cui si mandasse dovesse stare armato contra le lascivie del mondo, che fanno gli huomini divenir sassi, cioè gli priva dei sensi humani, e gl’indurisce alle operationi virtuose in guisa che niuna ne possono fare. Onde Dante:
    Che, se’l Gorgon si scopre, e tu’l vedessi,
    Mestier non fora di tornar più suso.
E il Petrarca:
    Se ciò non fosse; andrei non altramente
        A veder lei, che’l capo di Medusa;
        Che facea marmo diventar la gente.
Onde dicono i Poeti che Perseo andò ad assalirla con lo scudo cristallino havuto da Minerva, il quale scudo si può interpretar la prudenza, che si acquista con mezo del sapere.
Mar. Chi mandasse la effigie d’un Gigante?
Cor. Fingono i Poeti che i Giganti, ponendo monti sopra monti, volsero torre a Giove il Cielo. E nelle sacre lettere leggesi che Nembrote volse far fabricare una Torre cosi alta che arrivasse al cielo. Questo adunque significherebbe l’alterezza e la superbia.
Mar. Chi mandasse la effigie di Atheone?
Cor. Atheone per veder Diana divenne Cervo e fu preda de’ propri Cani. Onde Ovidio:
    Vide Atheon inavedutamente
    La Vergine Diana: e nondimeno
    rimase preda de’ suoi propri cani
Per Atheone si può ammonir l’huomo, che si guardi di non voler vedere più di quello che si conviene; percioché questa curiosità molte volte Iddio disdegna e lo dà poi in preda de’ suoi pensieri, cioè egli senza mai poter sapere quello che esso ricerca, riman confuso e disperato.
Mar. Chi mandasse altresì a donare la effigie di Prometheo?
Cor. Significherebbe il medesimo: percioché si finge che Prometheo, essendo salito in Cielo con l’aita di Pallade, furò a raggi del Sole in una bacchetta, ch’esso haveva in mano il fuoco; e primo lo portò in terra con quello dando lo spirito all’huomo da lui di terra formato. Onde Giove lo legò su la cima del monte Caucaso e pose sopra lui un’Aquila, che di continuo gli rode il cuore, volendo dinotare, che tale effetto produce la temerità e’l disiderio di passare con la cognitione più avanti di quello che conviene.
Mar. Chi mandasse un’Hidra?
Cor. Potrebbe significare i vitij, percioché finsero i Poeti, che l’hidra havesse sette teste delle quali, chi una ne tagliava altretante ne nascevano. Al fine Hercole la estinse col fuoco, avvedendosi, che’l suo stesso sangue era quello, che la nutriva. Il che significa che l’un vitio accresce l’altro; e volendogli del tutto via levare bisogna col fuoco, cioè col fervore dell’intelletto ucciderli et ammazzarli.
Mar. Chi mandasse la forma d’una botte, ove si ripone il vino?
Cor. Significherebbe che ricevendo la botte il buono e’l cattivo liquore di quella cosa che gli è posta dentro prima lo mantiene di poi lungo tempo. Così importa assai la prima educatione dell’huomo,e’l buono e cattivo uso.
Mar. Chi mandasse un Poledro?
Cor. Un Poledro benché sia ferocetto si doma però leggermente. Costui adunque verrebbe a significare che in quel tale a cui il dono si mandasse si potesse fare agevolmente un cotale effetto.
Mar. E chi mandasse un Orsacchino?
Cor. Dinoterebbe che colui a cui lo mandasse, se giovanetto fosse, devesse divenir fiero a guisa di Orso. Di cui dice il Petrarca:
    L’Orsa rabbiosa con gli Orsacchiotti suoi,
    Che trovaran di Maggio aspra pastura;
    Rode sedentro, e i denti e l’unghie indura
    Per vendicar suoi danni sopra noi.
Mar. Chi mandasse a donare una gabbia?
Cor. Dinoterebbe che quel tale a cui si mandasse dovesse esser posto in prigione: perchioché la gabbia altro non è che prigione all’uccello, ma perché non gli mancano le cose necessarie, puossi dire anco buona prigione, dalla quale gliè ne uscisse utile e bene. Onde disse colui: eravamo ruinati, se non ruinavamo, et eravamo perduti, se non perdevamo. Se per aventura non volesse dinotar questo: che’l mondo non è altro che una gabbia di pazzi.
Mar. Chi mandasse una Sella?
Cor. Su la Sella cavalcando si siede. Verrebbe adunque a un certo modo a significare che colui sarebbe cavalcato, cioè soggiogato, e fatto come servo.
Mar. Chi mandasse un morso?
Cor. Il morso è quello che frena i cavalli. Però significherebbe che colui dovesse o frenar la lingua, essendo mordace, o i vitij, se di alcuni ne abondasse, overo, che gli sarebbe posto il morso, cioè sarebbe frenato.
Mar. perché si dipinge la fede in bianca veste?
Cor. perché la fede dee esser candida e sincera, che, come dice l’Ariosto:
    Ch’un sol punto, un sol neo la puo far brutta.
Mar. perché volendo Rafaello d’Urbino rappresentarla dipinse una bellissima giovane, che con le mani si apriva il petto, dimostrando di dentro il cuore?
Cor. perché è malagevole cosa a giudicar che alcun sia fedele, se non si vede il cuore, cioè, se gli atti esteriori non sono dimostrati dal cuore.
Mar. Adunque, che mandasse una Pittura tale, significherebbe la fede?
Cor. Sì, pienamente.
Mar. Io farò le mie domande confuse. Chi mandasse a donare una chiave?
Cor. Dinoterebbe che colui havesse piena Signoria di sé stesso.
Mar. Chi mandasse a donare un Lusignuolo?
Cor. Il Lusignuolo è augello di gratissima harmonia e molto celebrato dai nostri Poeti. Onde il Petrarca:
    Quel Rossignuol, che si soave piagne
        Forse suoi figli, o sua cara consorte,
        Di dolcezza empie il cielo e le campagne
        Con tante note si soavi e scorte.
E parimenti il Bembo:
    O Rossignol, ch’in queste verdi fronde
        Sovra il fugace rio fermar ti suoli;
        E forse a qualche noia hora t’involi.
        Dolce cantando al suon de le roche onde.
Ma con tutto ciò non è bello augello et è sdegnosissimo, in guisa che spesso per questo sdegno si muore. Onde si potrebbe significar che quel tale fosse virtuoso, ma sdegnoso. Onde dovesse frenar l’ira, la quale, come disse il Petrarca:
    È breve furore: e chi no’l frena,
    È furor lungo; che’l suo possessore
    Spesso a vergogna, e tal hora mena a morte.
Mar. Chi mandasse a donare uno Smergo?
Cor. Lo Smergo è augello Marino, sta sempre nelle acque e vi si sommerge, onde da questo è detto Smaergo. Dinoterebbesi adunque persona rubalda che si sommerge ne’ vitij.
Mar. Chi mandasse un Lugarino?
Cor. Questo augello è di colore verde, e molto grato a la vista. Dinoterebbe adunque speranza.
Mar. Chi mandasse un Cocale?
Cor. Il Cocale è un uccello altresì Marino, e di niun valore. Onde volendo dinotare uno sciocco, gli si pon questo nome. Con tutto ciò suol predire il cattivo tempo, percioché egli va volando al basso de l’acqua, e grida, quasi avisando gli huomini di futura tempesta, come molti se ne veggono a cotali tempi venir volando a questi nostri canali. Significherebbesi adunque sciocchezza accompagnata in parte con qualche virtù.
Mar. Chi mandasse a donare una Cappa lunga?
Cor. Queste cotali Cappe da Latini sono chiamate digiti, perché sono apunto a guisa di diti.
Mar. Che dinoterebbe egli adunque?
Cor. Queste Cappe sopra a lidi si trovano fitte nella sabbia. Onde si dinoterebbe viltà o di nascimento o di costumi.
Mar. Chi mandasse una di quelle che noi chiamiamo Cappe sante?
Cor. A queste dicono i Latini Pectines, e paiono apunto di quei pettini con cui si pettinano i capegli, o la barba. Onde io direi, che queste significassero bisogno di pettinarsi, cioè di adornar l’animo di virtù e la vita di buoni et honesti costumi.
Mar. perché si addimandano sante?
Cor. Mi credo io per questo che i peregrini, che vanno a San Giacomo, le portano attaccate al cappello et anco dinanzi il mantello sopra il petto.
Mar. Chi mandasse a donare uno Storione?
Cor. Ancora non si sa come si chiamasse questo pesce dagli antichi, percioché il Giovio et altri sudarono assai, né perciò alla cognitione ne arrivarono. Ora questo fra pesci è come il vitello fra gli animali terrestri, perché è di ottimo sapore e nudrisce. Direi adunque che significasse alcuno che fosse utile e grato al mondo.
Mar. Chi mandasse una Tenca?
Cor. Quasi la maggior parte de’ pesci che nascono ne le acque dolci sono poco grati al gusto e mal sani e tanto più quei, che nascono ne’ pantani. Di questa sorte è la Tenca. Onde significherenne huomo villano e inutile e di dispiacere a gli altri huomini.
Mar. Come non sono buone le Lamprede e i Carponi?
Cor. Quele nascono in correnti fiumi, e sono così dette dal leccar delle pietre, percioché elle vanno d’intorno di quelle sempre scorrendo. Onde dinoterebbe parimente un huomo, che si stesse d’intorno a opere basse, mecaniche e di poco momento. Poi i Carpioni nascono nel Lago di Garda, che si può dire per la sua lunghezza e larghezza un Mare, e fa alle volte maggior fortuna che non fa esso Mare. E questo pesce si dice nudrirsi di oro, oltre che è raro, e di sapore perfettissimo, e di tanta stima che fu celebrato dal Fracastoro. E’l Pierio ne’ suoi versi latini finse questa favola: la quale è che Catullo partendosi da Sermione, e navigando per il Lago, hebbe un fortunale. per il quale affondandosi la sua barchetta, salvandosi egli per esser vicino al lito, fece perdita di alcuni suoi libri, i quali erano scritti in carta pergamina, e questi libri si trasformarono in Carpioni.
Mar. Non so se la favola stia propriamente a questo modo, ma so bene che egli fa questa trasformatione, la quale è ridicola, percioché al tempo di Catullo gli Dei non facevano più queste mutationi. E lasciando il motteggiare, danna molto il Bembo l’audacia di alcuni moderni, che si hanno presa autorità di far trasformationi, parlando puntalmente del Pontano, che molte ne fa nella sua Urania, e tassando ancora copertamente il Sannazaro, che fa la trasformatione delle Ninfe in salice. Ma che dinoterebbe il Carpione?
Cor. Che colui a cui si mandasse fosse di bello e grande animo, per rispetto dell’oro, di cui dicono questo pesce nudrirsi, e raro e segnalato in virtù per esser il medesimo pesce di così grato cibo e sapore.
Mar. Chi mandasse una Anguilla?
Cor. L’Anguilla è, come la biscia, lubrica e veloce, nè il suo cibo è sano, ma tuttavia gratissimo, come la carne del Porco. Direi adunque che significasse volubilità, cattivo animo et huomo adulatore, che si sa far grato con le parole, ma dannoso et ingannevole.
Mar. Tornando alle herbe, chi mandasse a donare cappari?
Cor. I Cappari si mangiano in salata e sono grati al gusto e giovevoli. Ma prima bisogna purgarli in molte acque e porvi dentro buona quantità di mele e d’uva passa. Verrebbe adunque a significare, che l’huomo da se fosse vile, et inutile, ma havendo poi seco il condimento delle virtù, divenisse buono et utile al mondo.
Mar. Chi mandasse a donare, se ciò far si potesse, uno di quegli animaletti che volando di notte rilucono come fiamma?
Cor. Verrebbe a significare uno che fosse ignorante, che presso a suoi simili di leggiero può parere dotto, ma, dove sono huomini intendenti, non può nasconder la sua ignoranza.
Mar. Chi mandasse uno arcolagio?
Cor. Tu vai cercando le bizzarrie. Tuttavia io te ne compiacerò. Significherebbe questo dono, che si come l’arcolagio aggira, tirandovisi in ordine filo, o seta, così il cervello di colui a cui fosse donato aggirasse per bizzaria, nè mai si stesse quieto.
Mar. Ho dimandato hoggimai tante cose, che poche hormai mi rimangon da dimandare. Pure ne seguirò ancora alquante. Chi mandasse a donar un Cappello?
Cor. Il Cappello è fatto per difender la testa dalla pioggia. Verrebbe adunque a significare che colui a cui fosse mandato si dovesse coprire per difendersi da qualche sovrastante pericolo. Questo anco (se io non m’inganno) si donava a servi, quando si manomettevano, in segno della libertà. Significherebbe per questo parimente avenimento di buona fortuna.
Mar. Chi mandasse un paio di stivali o di borsachini?
Cor. Con questi si difendono le gambe e i piedi dal fango o dalla polvere. Onde si verrebbe a significare ammonition di guardarsi dalle lordezze dell’animo, overo del corpo.
Mar. E chi mandasse una coda di cavallo?
Cor. Significherebbe che quello a cui si donasse, essendo Capitano, o Signore, facesse in vincere i suoi nimici, lo effetto, che fece colui in cavar pelo per pelo la coda del cavallo, che volendola cavar tutta insieme, l’huomo si affatica in darno, come anco volendo spezzar un fascio di legna, ciò si può fare, rompendola ad una ad una, che tutte insieme non si può.
Mar. Chi mandasse a donare indifferentemente una testa?
Cor. Significherebbe che colui a cui si mandasse non havesse intelletto, ponendo affiguratamente la cosa che contiene per quella ch’è contenuta. Onde si legge presso a Esopo che un Lupo, o Cane, trovando una testa d’huomo, disse o capo senza mente.
Mar. E chi mandasse un petto?
Cor. Ammonirebbe che colui dovesse stare ardito a sostenere qualunque cosa, percioché quelli che arditi e forti sono, non volgono mai la schena a nimici, o a gli assalti della Fortuna, ma tengono sempre saldo il petto.
Mar. Piacemi. Ma chi mandasse una Corazza?
Cor. Potrebbe dinotare che colui fosse debole o che havesse bisogno di armatura, o pure che fosse guerriero, a cui le battaglie convenissero, e non istarsi nell’ocio disarmato e immarcirvi.
Mar. Chi mandasse uno strumento musicale: come sarebbe un Liuto?
Cor. Tu havrai da sapere che’l Liuto è istrumento moderno, in quanto non si sa, percioché non se ne fa mentione, che fosse presso gli antichi. Et è istrumento perfetto e di tanta difficultà, che, come che è barbieri et ogni hominicciuolo vi soni, pochi son quelli, che vi riescano compiùtamente. Vi fu già eccellentissimo Francesco cognominato dal Liuto, Maestro Marco dall’Aquila, et hoggi dì il Tromoncino. Ma che cosa è in fine la Musica altro che vanità.
Mar. Come è vanità? Non si adopera nelle cose sante? Non fu David citaredo? Non si legge ne i salmi. Che si lodi il Signore sonando così fatti istrumenti, cioè da Corda, con gli organi, e con simili?
Cor. Egli è vero. Ma altra cosa è quando si adopera la Musica nelle lodi del Signore, altra quando nelle delitie e vanità del mondo, che, si come quella innalza le menti, e gl’intelletti a DIO, così quest’altra gli tien depressi e fitti in questi fanghi terreni. Percioché la Musica in sé è cosa buona; e’l continovo movimento de’ cieli altro non è che Musica et harmonia, ma la maggior parte di coloro che l’adoperano per dilettare, sono (come dice Aristotele) huomini vani, né possono essere altrimenti, praticando solamente, come essi fanno, tra danze e conviti, e con huomini che solamente attendono a così fatti vani e a biasimevoli diletti. Direi adunque che cotale instrumento dinotasse vanità.
Mar. Chi mandasse a donare una Lira?
Cor. La Lira fu instrumento d’Orfeo, col suon della quale, dicono i Poeti, che esso tirava le fiere, gli arbori, e i sassi vaghissimi di ascoltarlo. Il che altro non dinota se non che i Poeti, o gli huomini saggi con i loro buoni e dilettevoli ammaestramenti, trassero a poco a poco quegli huomini, che per le selve e per li boschi rozzamente vivevano, alla civile et accostumata vita. Questa adunque significherebbe che colui a cui fosse mandata fosse huomo giovevole al mondo e di bello et alto intelletto.
Mar. Poiché siamo a caso entrati a favellar di Musica, vorrei che mi dicesti se questa era in grado di perfettione al tempo che i Romani signoreggiavano al mondo.
Cor. Era sì, come erano anco le altre arti. Et ecco che Boetio Severino ne compose un libro. Ella adunque era in tanta perfettione che gl’Imperadori stessi non si sdegnavano d’appararla. E, quando si recitavano le Comedie, elle tutte si cantavano, e’l canto era tale che per certe trombe, che a i Theatri servivano, tutto il popolo che a esso Theatro era raunato, intendeva benissimo le parole.
Mar. Quali nationi furono eccellenti nella Musica?
Cor. Furono, e sono tuttavia, prima la Francese, che è mirabile in così fatta facultà, onde nacque il proverbio, i Galli cantano. Dipoi la Fiandra, che pare, che quasi tutti i Fiandresi siano mirabilissimi, come habbiamo havuto un fresco esempio in M. Adriano, Maestro di Cappella di San Marco.
Mar. E nella Italia?
Cor. Pochi, o niuno. Basta che gl’Italiani siano stati e siano tuttavia eccellenti nelle armi, nelle lettere, nella Pittura, e nella Scoltura.
Mar. Quai sono quegli che nelle lettere sono stati o sono a dì nostri eccellenti e di gran grido?
Cor. Molti. Il Bembo, il Sannazaro, l’Ariosto, il Pontano, il Fracastoro, il Vida. Lo Sperone, il Tasso, il Veniero, il Molino, il Gradinico, il Giustiniano, il Danese, il Verdezzotto e molti altri.
Mar. Nelle armi?
Cor. Di questo rimetto il ragionare ad altri. Ma ne sceglierò solo tre eccellentissimi personaggi a dì nostri. Carlo Quinto, Francesco Re di Francia, e’l figliuolo Henrico.
Mar. O quanto mi duole dei disturbi e danni che dopo la compassionevole morte di questo Re ha patito quel regno, e quanto mi rallegro della vittoria che hanno poco fa havuto i Catholici degli Heretici Ugonotti.
Cor. Sappi Mario mio, che IDDIO è per il suo popolo.
Mar. De Pittori?
Cor. Ti potrei dir di molti, ma ti dirò de i più eccellenti. Questi sono Michel’Agnolo, Rafaello d’Urbino, Titiano, Giorgio da Castelfranco, Antonio da Correggio, il Parmegianino, il Pordonone, e simili. Tornando alla Musica, ella è tale.
Mar. Chi mandasse a donare un Flauto?
Cor. Sarebbe la medesima cosa, e’l Flauto è nel vero instrumento di dolce harmonia, ma ha mistiero di esser accompagnato con altri. Onde parrebbe esser che colui a cui si mandasse fosse bene galant’huomo ma avesse bisogno dell’altrui aiuto.
Mar. Chi mandasse alcuno de’ segni celesti, come segni pure del cielo, come uno Ariete?
Cor. Verrebbe a significare che colui a cui lo mandasse fosse tale quale è la influenza di quel segno, in guisa tale che s’esso gli mandasse lo Scorpione, significherebbe ch’ei fosse cattivo huomo. Discrisse bene e gentilmente le buone qualità delle costellazioni e de gli aspetti del cielo il Petrarca in questi versi:
    Il dì, che costei nacque, eran le stelle,
    Che producon fra noi felici effetti,
    In luoghi alti et eletti,
    L’una ver l’altra con Amor converse.
    Venere e’l padre con benigni aspetti
    Tenean le parti signorili e belle,
    E le luci empie e felle
    Quasi tutte del cielo eran disperse.
    Il Sol mai più bel giorno non aperse:
    L’aere e la terra s’allegrava, e l’acque
    Per lo mar havean pace, e per li fiumi,
    Fra tanti amici lumi
    Una nube lontana mi dispiacque;
    la qual temo: che in pianto si risolve,
    Se pietate altramente il ciel volve.
E parimente Dante:
    Volgesi il cielo, e intorno a noi si gira
    Scoprendovi le sue bellezze eterne,
    E l’occhio nostro pur a terra mira:
    Onde vi batte chi tutto discerne.
Chi mandasse adunque uno di questi segni dinoterebbe quanto ho detto.
Mar. Chi mandasse una Candela?
Cor. Non è dubbio che la Candela non sia utile la notte, perché ella discaccia le tenebre e ci fa vedere, ma ci sono altre cose che ci porgono maggior lume, come i Torchi, la Lucerna e simili. Dinoterebbe adunque, che colui a chi si mandasse fosse huomo letterato, ma di poche lettere. Mandò il Bembo a donare molte belle Candele di bianca cera a un Monaco con un distico, che diceva che ne’ suoi studi e cose tali adoperasse la lucerna con l’olio, ma quelle adoperasse nelle sacre cerimonie che si fanno in Chiesa e innanzi a gli Altari.
Mar. Chi mandasse uno svegliatoio?
Cor. Significherebbe che colui a cui si mandasse dovesse esser vigilante. Che nel vero, quanto più tempo si dà al sonno, tanto si toglie alla vita. Onde bene disse colui:
    Stulte, quid est somnus gelidæ nisi mortis imago?
    Pazzo, che cosa è il sonno altro che imago
    de la gelata morte?
Mar. Il Sonno è necessario per ristorare i membri, i quali molto si ricreano delle fatiche dormendo, e senza non si potrebbe vivere. Onde è molto lodato da Greci e Latini Poeti. E il Sannazaro così lo chiamò:
    O sonno, o requie, e tregua de gli affanni,
    Ch’acqueti e plachi i miseri mortali,
    Da qual parte del ciel movendo l’ali
    Venisti a consolar i nostri danni?
Et è invero gran cosa, come questo le più volte non altrimenti che se’l corpo fosse desto, ci  rappresenta diverse cose.
Cor. Il sonno è utile e necessario, quando si prende per servire alla natura e non per diletto, come molti sanno, che oltre che tutte le notti dormono dall’un capo a l’altro, dormono la state quasi la maggior parte del giorno. Ma lasciamo il sonno ai sonnacchiosi e dormiglioni e torniamo a i nostri ragionamenti.
Mar. Chi mandasse a donare la forma d’un campanile?
Cor. I campanili ornano le città, come orna la piazza quello così alto di San Marco, e servono a bisogni delle campane. Ma significherebbe a un certo modo vanità per rispetto del proverbio, che dice far campanili in aria volendo inferire alcuno che pensi di far cosa vana o che impossibile sia.
Mar. Non dice solo il proverbio far campanili, ma vi aggiunge nell’aria, come si dice anco il tale fa castelli, o va chimereggiando. Ma chi mandasse una Corda di arco?
Cor. Significherebbe che colui a cui la mandasse fosse huomo da far gran cose, ma che solo gli mancasse il commodo e la occasione, come chi havesse l’arco solo non farebbe cosa veruna, ma aggiuntovi la Corda, può allhora fare ogni buono effetto.
Mar. Chi mandasse una Scimia?
Cor. La Scimia ha non so che d’imagine humana, come si vede nelle mani, ne’ piedi e nella faccia, et imita tutto quello che vede fare all’huomo. Onde si dice che i cacciatori volendo pigliarle, empiono certi bolzacchini di tenacissimo vischio, e poi se ne calzano un paio, essendo dalle Scimie veduti, le quali si riparano su gli alberi. Poscia discostandosi alquanto le Scimie saltando giù da gli alberi, corrono ai bolzachini, e volendo calzargli, rimangono attaccate nel vischio. E così si prendono. Potrebbe adunque significare che colui, a cui una di queste bestie si mandasse havesse somiglianza di huomo, ma non fosse huomo.
Mar. Chi mandasse a donare una Girafa?
Cor. Dimostrerebbe che l’huomo a cui la donasse fosse così contrafatto di cervello come quella bestia è di membri.
Mar. Chi mandasse a donare una insalata di varie herbe?
Cor. Piacemi che, senza scelta alcuna, tu mi dimandi quello che in mente ti viene. Significherebbe che colui fosse così d’intelletto vario, come fossero varie quell’herbe. Ma questa tua salata mi fa venire in memoria una piacevole risposta che fece il Filosofo Marcadeli ad alcuni che gli dimandavano per ischerzo come la insalata fosse chiamata dai Latini. Rispose egli: i Latini non usavano altra insalata che di Lattuca, né vi so io dire come essi la condivano. Ma ben vi dico ch’ella latinamente si può dire sal herba acetolium. E tra le stanza Perugine ho io già udito cantare a Giuliano di Marc’Antonio d’Urbino questa molto ingeniosa e piacevole:
    Udito ho dir, che gran virtù si trova
    Ne le parole, ne l’herbe, e ne’ sassi.
    Provate ho le parole, e non mi giova,
    Perduto ho le parole, il tempo e i passi.
    Deliberato io son di far la prova
    D’una insalata, quando tu ci passi?
    Se non mi gioverà questa insalata;
    Io giuro a Dio di darti una sassata.
Mar. Ho udito dire che questo fu componimento del Navagero, il quale, come se fosse tutto intento ai versi Latini, nei quali (come ne fanno fede quei pochi epigrammi, elegie, et egloghe che sono in istampa) riuscì mirabilissimo, fece alle volte qualche verso volgare trovando inventioni stupendissime. Ma chi mandasse a donare il segno chiamato Aquario?
Cor. Questo segno è piovoso et apportatore delle tempeste. Significherebbe adunque che colui a cui si mandasse fosse malvagio huomo, scandaloso, e ripieno di sceleratezza.
Mar. Chi mandasse a donare una delle nostre barchette?
Cor. Queste nostre barchette che noi chiamiamo Gondole sono (come dice il Boccaccio) bergole: cioè mobili et ad ogni picciola fortuna si rovesciano. Onde potrebbe ciò dinotare instabilità di huomo, e uno il quale di leggeri havesse a pervenire a tristo fine.
Mar. Chi mandasse a donare un battello?
Cor. Questi si fanno per diversi bisogni delle navi e spetialmente quando accade mandare a terra a levar cose necessarie alla quale terra non si possa il legno accostare. Significherebbe adunque che colui a cui si mandasse fosse huomo di qualche virtù, ma che dipendesse da altri, né si potesse da sé stesso mantenere.
Mar. Chi mandasse la forma d’una colonna?
Cor. La Colonna è posta per sostegno e dinota la fortezza. Onde ben disse il Bembo:
    Alta colonna, e ben ferma a le tempeste
    Del ciel turbato.
    Gloriosa colonna, in cui s’appoggia
    Nostra speranza, e’l gran nome Latino;
Et altrove:
    Dinanzi una colonna
    Cristallina
E nella canzone:
    Quell’antico mio dolce empio Signore,
    Fatto citar dinanzi a la Reina,
dice:
    E m’ha posto in oblio con quella Donna,
    Ch’io li diei per colonna
    De la sua frale vita.
Adunque così fatta colonna significherebbe che colui a cui si mandasse fosse forte e sostegno di molti.
Mar. Chi mandasse un vaso da bere?
Cor. Potrebbe significare ubriacaggine et anco temperatezza. Onde dicono i Commentatori che’l Petrarca mandò al S. Stefano Colonnese che era molto vecchio e con tutto ciò molto dato alle cose di Amore, un guancialetto, un libro di sacra scrittura e un vaso pur da bere con questo sonetto:
    La guancia, che fu gia piangendo stanca,
        Riposate su l’un, Signor mio caro;
        E siate noi di voi stesso più avaro
        A quel crudel, che i suoi seguaci imbianca.
    Con l’altro rinchiudete da man manca
        La strada a i messi suoi, ch’indi passaro,
        Mostrandovi un d’Agosto, un di Gennaro,
        perché a la lunga via tempo ne manca.
    E col terzo gustate un succo d’herba,
        Che purghi ogni pensier, che’l Cor afflige,
        Dolce nel fine, e nel principio acerba.
    Me riponete, ove’l piacer si serba,
        Tal, ch’io non tema del nocchier di Stige,
        se la preghiera mia non è superba.
Mar. A questo è molto conforme quello che mandò il Bembo (per quello che io ne stimi) alla S. Lisabetta Gonzaga Duchessa d’Urbino, dopo la morte del Duca Guid’Ubaldo suo consorte, con alcuni doni, fra i quali v’era un bossolo da ripor cose medicinali, l’altro un cassettino, ove le donne sogliono serbar i lisci, e’l terzo uno specchio di Cristallo. Il Sonetto è tale:
    Del cibo, onde Lucretia, e l’altre han vita;
        In cui vera honestà mai non morio,
        L’un pasca il digiun nostro lungo e rio
        Donna più che mortal saggia e gradita.
    L’altro la guancia bianca e scolorita
        Dal tuon, che quì si grave si sentio,
        Depinga col liquor d’un’alto oblio;
        E vi ritorni vaga e colorita.
    E’l terzo vi stia innanzi a tutte l’hore;
        poi, s’avien, che Medusa a voi si mostri,
        Schermo vi sia, che non s’impetri il core.
    Per me tanto si desti il mio Signore,
        Ch’io trovi loco in mezo a i pensier vostri,
        Tal, che morte non basti a trarmen fore.
Benché altri vogliono, che’l medesimo ciò mandasse alla S. Lucretia Borgia, Duchessa di Ferrara. Ma chi mandasse uno scalda mani?
Cor. Potrebbe inferir che colui, o colei, a cui fosse mandato fosse freddo, o fredda, in beneficare o in amare altrui. E in questo proposito si legge un Sonetto dello stesso Bembo, che è tale:
    Io ardo dissi, e la risposta in vano,
        Come’l giuoco chiedea, lasso cercai:
        Onde tutto quel giorno, e l’altro andai,
        Com’huom, ch’è fatto per gran doglia insano.
    Poi, che s’avide, ch’io potea lontano
        Esser da quel pensier, più pia, che mai,
        In me volgendo de’ begli occhi i rai,
        Mi porse ignuda la sua bella mano.
    Fredd’era più, che neve: ne in tal punto
        Scorsi il mio mal; tal di dolcezza velo
        M’havea dinanzi avolto il mio desire.
    Hor ben mi trovo a duro passo giunto:
        Che s’io non erro, in quella guisa dire
        Volle Madonna a me, com’era un gelo.
Mar. Io non intendo questo concetto.
Cor. Tu dovrai sapere che si suol fare un certo giuoco nel quale essendo molti huomini e Donne insieme l’un dopo l’altro a guisa di Corona, l’uno dice nell’orecchio all’altro ciò che gli piace e colui similmente dice all’altro alcune parole che sono alle prime corrispondenti, e cosi l’uno a l’altro di mano in mano, insino che non resta poi alcuno. Di poi il primo recita le sue parole e così fa il secondo il terzo, e gli altri in guisa che se ne forma un ragionamento continuato ch’è bellissimo ad udire. A questo giuoco trovandosi il Bembo, et essendo per aventura presso alla sua Donna, disse, io ardo, et ella senz’altra risposta gli porse la mano, la quale era freddissima, con questo così fatto atto volendo dimostrare ch’ella lui non amava ma era fredda e di ghiaccio. Il che basta haver saputo.
Mar. Poi che m’hai dichiarato questo Sonetto, se bene al nostro ragionamento non richiede, mi farai cosa grata a dichiararmi questo altro:
    Poscia, che’l mio destin mi toglie e vieta
        Scorger Madonna, e tiemmi in altra parte,
        La bella imagin sua veduta in parte
        Scema il digiuno, e la mia doglia acqueta.
    Però, s’a l’apparir del bel pianeta,
        Che tal non torna mai, qual si diparte,
        Presi conforto dentro a l’alma, e parte
        Ristetti in vista disiosa e lieta;
    Fu, perché’l miro in vece et in sembiante
        De la mia Donna; che men fredda e ria,
        E fugace di lui non mi si mostra.
    E più n’havrò se piacer vostro sia,
        Che’l sonno de la vita, che gli avanza,
        Si tenga Endimion la Luna vostra.
Cor. V’era un Cardinale, o Ridolfo, o Bibbiena, che tra molte anticaglie haveva una Luna antichissima di bronzo e bella tanto, che’l Bembo, a cui tali cose molto piacevano, se ne innamorò. E disideroso di haverla mandò questo Sonetto al cardinale. E l’hebbe. Il rimanente è facile.
Mar. Chi mandasse a donare uno paio di Sproni?
Cor. Significherebbe che colui a cui si mandati venissero fosse lento nelle buone opere, e che havesse bisogno di sollecitudine e di prestezza. E così nel vero è che alcuni sono tanto veloci e precipitosi nelle attioni loro che è troppo, et altri così pegri che rade volte fanno cosa che riesca bene. Bisognerebbe adunque che havessero in memoria il motto di Tiberio, con la Impresa del delfino, e dell’ancora, e che lo ponessero in opra.
Mar. Chi mandasse una Palla da vento?
Cor. Noi veggiamo la Palla esser qua e la gettata secondo che ben torna a chi giuoca. Onde potrebbe significare che colui a cui si mandasse dipendesse dallo arbitrio di altrui, né facesse mai cosa a util suo.
Mar. Chi mandasse una Nave con le vele gonfie?
Cor. Esorterebbe a far qualche impresa et a seguitare il corso che li fosse posto innanzi dalla occasione e dalla fortuna. E in quanto non si può dal vento comprendere a pieno il buon viaggio di alcun legno, perché il vento in un tratto si può cangiare, e molte volte aviene che le navi insino nel porto affondano, dinoterebbe ancora che colui dovesse esser molto bene accorto nel negociare, accioché gli havesse a seguire buono e lieto fine. Onde il Bembo tolse volentieri la metafora della Nave in questo Sonetto:
    Se tutti i miei primi anni a parte, a parte
        Ti diedi Amor; ne mai fuor del tuo Regno
        Posi orma, o vissi un giorno, era ben degno,
        Ch’io dovessi attempato omai lasciarte:
    E da tuoi scogli a più secura parte
        Drizzar la vela del mio stanco legno;
        E volger questi studi e questo ingegno
        Ad honorata impresa, e miglior arte.
E’l Petrarca.
        Del mio cor Donna l’una e l’altra chiave
        Havete in mano; e di cio son contento,
        Presto di navigar a ciascun vento;
        Ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore.
Mar. Chi mandasse a donare una Toppa, o diciamo una Serratura?
Cor. Dinoterebbe che colui a cui si mandasse fosse huomo trattabile e da volger in qualunque modo. Potrebbe anco significare che chi la mandasse fosse alle voglie di colui a cui fosse mandata.
Mar. Chi mandasse una Cucchiara?
Cor. La Cucchiara serve a mangiar le minestre et a cose simili. Onde noterebbe un huom divoratore, che sorbisse il brodo e non havesse del polito, né del gentile, come molti ne sono, che avegna che grandi huomini siano, mangiano discostumatissimamente, intingendo le mani ne catini, e beendo senza bicchiere, e, che è peggio, ho veduto io alcuni, che nettano le immonditie del naso con le tovaglie, che hanno innanzi, e si fregano etiandio con quelle le gingive. Questo costume se ha del civile, lascio a te il dichiararlo.
Mar. Chi mandasse un di que ferri che adoprano le donne a partire per dritta riga dalla cima del capo i capegli?
Cor. Tu pur ti vai imaginando le strane cose. Mostrerebbe al mio parere che colui a cui si mandasse fosse disordinatissimo, e che li facesse bisogno di ordinare e di rassettare le cose sue. Ne sarebbe cattiva ammonitione, che non si può far cosa veruna, che buona sia, se non si procede per via di ordine. Ne solamente nelle cose della pace, come in governar le città e le case, ma anco in quelle della guerra, nella quale l’ordine sopra tutte le altre cose suole esser cagione delle vittorie. Onde ben dicono i Poeti, che nella confusione degli elementi, che essi chiamarono Chaos, niuna cosa poteva operare, ma dall’ordine poi procedettero tutte le cose. Ne alcuno studente potrà far profitto ne suoi studi, se quegli non sono ordinati e regolari.
Mar. Non posso rimanere, quando a mente mi viene, di recare in proposito qualche verso del Bembo, come hora:
    L’alta cagion, che da principio diede
    A le cose create ordine, e stato.
E senza discorrimento di altri esempi, non veggiamo noi, con quanto bello ordine questa mirabile machina del mondo è fatta e con quanto i cieli si movono? Ma chi mandasse la imagine del Sole?
Cor. Il Sole ha tre proprietà: la luce, il moto, e’l calore. Potrebbe adunque significare, che, quanto alla luce, colui a cui mandasse fosse huomo di chiaro e raro intelletto. Quanto al moto, che fosse pronto e presto a qualunque cosa. E, quanto al calore, che similmente fosse caldo e fervente nelle sue attioni. Et appresso, perché il Sole è velocissimo, onde ben disse il Petrarca:
    A pena spunta in Oriente un raggio
    Di Sol, ch’a l’altro monte
    De l’averso Orizonte
    Giunto il vedrai per vie lunghe e distorte:
Significherebbe che egli considerasse la brevità del tempo et il fuggir dell’hore, e togliesse per lui quella esortatione di questo Poeta:
    Signor mirate, come’l tempo vola,
    E, si come la vita
    Fugge: e la morte n’è sovra le spalle.
    Voi sette hor qui: pensate a la partita;
    Che l’alma ignuda e sola
    Conven, ch’arrivi a quel dubbioso calle.
Mar. E chi mandasse la imagine della Luna?
Cor. Verrebbe a significar che colui a cui si mandasse fosse volubile, overo mutabile, come la Luna. Oltre a ciò, per che la Luna è il secondo occhio del cielo, si potrebbe anco intender che quel tale fosse huomo raro e di molta stima.
Mar. Chi mandasse donare un Petrarca?
Cor. Dinoterebbe che’l suo amico, o amica, a cui lo si mandasse, dovesse accendersi di casto et honesto amore, come fece questo Poeta, il quale non loda altro in tutti i suoi versi, che la bellezza e l’honestà di Madonna Laura. Il Bembo ne mandò uno alla sua donna con un Madrigale, che è questo:
    Quanto alma è più gentile,
    Donna d’Amor e mia, tanto raccoglie
    più lietamente honesto servo humile.
    perché, se’l Thosco, che di Laura scrisse,
    Vien riverente a far con voi soggiorno,
    Dolce vi provi più, che non prov’io.
    Forse leggendo, come e’ sempre visse
    più fermo in amar lei di giorno in giorno;
    Direte ben è tale il fedel mio.
    Basso pensero, o vile
    Non scorgerete in lui; ma sante voglie
    Sparse in leggiadro et honorato stile.
E, se bene il Petrarca disse:
        Con lei foss’io, da che si parte il Sole,
    E non ci vedesse altri, che le stelle
        Sola una notte; e mai non fosse l’alba:
        E non si trasformasse in verde selva
        Per uscirmi di braccia, come’l giorno,
        Ch’Apollo la seguia quà giù per terra.
Ciò scrisse per dimostrare la forza del desio sensuale, il quale non era che con la ragione non combattesse spesso, come esso dimostra in questi altri versi:
        La voglia e la ragion combattut’hanno
        più d’una volta, e vincerà il migliore.
E quantunque dica il Bembo nelle sue stanze favellando di Laura:
        La qual hor cinta di silentio eterno
        Si staria, come pianta secca in herba;
        S’a lui, ch’arse per lei la state e’l verno,
        Come fu dolce, fosse stata acerba:
egli adduce così fatto esempio per servirsene al suo proposito, e non perché egli pensasse che colei macchiasse col Petrarca la sua honestà. Come anco disse il medesimo Petrarca che Cesare sentì una grandissima allegrezza, essendogli appresentata la testa di Pompeo e pianse fintamente per occultarla:
    Cesare poi, che’l traditor di Egitto
        Gli fece il don de l’honorata testa,
        Celando l’allegrezza manifesta,
        Pianse per gli occhi fuor, si come è scritto.
Percioché così i Poeti, come gli Oratori, si servono molte volte di argomenti probabili, quando non possono usar de’ veri. Come era assai probabile che Cesare dovesse rallegrarsi veggendo la testa del suo nimico, ma in fatti egli se ne dolse, come quello che pietosissimo era, e disiderava non la morte di Pompeo ma la vittoria. Et ecco che in altro luogo egli scrisse il vero:
    Quel, ch’in Thessaglia hebbe le man si pronte
        A farla del civil sangue vermiglia,
        Pianse, morto il Marito di sua figlia
        Raffigurato a le fattezze conte.
Segue ancora:
        E’l pastor, ch’a Golia ruppe la fronte,
        Pianse la ribellante sua famiglia,
        E sopra al buon Saúl cangiò le ciglia,
        Di che ancor puo lagnarsi il fiero monte:
    Ma voi, che mai pietà non discolora.
Con quel, che segue. Si che mandandosi a donare un cosi fatto Poeta, significherebbe quello c’ho detto.
Mar. E chi mandasse un Dante?
Cor. Dante Poeticamente discrive le pene de’ cattivi e’l premio de’ buoni, cioè de’ beati, ponendo l’Inferno, il Purgatorio, e’l Paradiso. Onde egli stesso cosi propone:
    Ond’io per lo tuo me’ penso, e discerno,
        Che tu mi segua; et io sarò tua guida.
        E trarrotti di quì per luogo eterno:
    Ov’udrai le disperate grida,
        Vedrai gli afflitti spiriti dolenti,
        Ch’a la seconda morte ciascun grida.
    E vederai color, che son contenti
        Nel foco; perché speran di venire,
        Quando cio sia, a le beate genti.
    A le qua’ poi, se tu vorrai salire,
        Anima fia a ciò di me più degna:
        Con lei ti lascierò nel mio partire.
    Che quell’Imperador, che la sù regna,
        Perch’i fui ribellante a la sua legge,
        Non vuol, ch’in sua città per me si vegna.
Verrebbe adunque a dinotare che colui leggendo Dante potrebbe ottimamente apparare quello che sia da fuggire, e quello che da seguitare. Verrebbe anco a inferire che colui a cui mandasse il dono fosse huomo di bello intelletto e dotto, poiché lo esortava a darsi alla lettura di Dante, il quale nel Purgatorio, se io ben mi ricordo dà combiato a gl’intelletti mediocri, e di poche lettere, così dicendo:
    O voi, che sete in piccioletta barca,
        Desiderosi d’ascoltar seguiti
        Dietro il mio legno, che cantando varca
    Tornate a riveder i vostri liti,
        Non vi mettete in pelago, che forse
        Perdendo me, rimarreste smarriti.
    L’acqua, ch’io prendo, giamai non si corse.
        Minerva spira, e conducemi Apollo,
        Le none Muse mi dimostran l’orse.
    Voi altri pochi che drizzaste il collo
        Appresso il pan de gli Angeli, del quale
        Vivesi qui, ma non si vien satollo:
    Metter potet eben per l’ampio sale
        Vostro navigio, seguendo’l mio solco,
        Che lassa l’acqua, che ritorna eguale:
    Que’ gloriosi, che passaro a Colco,
        Non s’ammiraron, come voi farete,
        Quando Giason vider fatto bifolco.
Concludo adunque che tal libro tale effetto significherebbe.
Mar. Chi mandasse a donare un Virgilio?
Cor. Virgilio scrisse Egloghe di Agricoltura e di arme. Ciascuna delle quali opere è perfettissima. Dinoterebbe adunque che colui a cui tale opera mandasse fosse persona in tutti i bisogni della vita eccellentissimo.
Mar. E chi mandasse un Furioso?
Cor. Questo libro ancora che tratti de’ Romanzi è un poema che insegna pienamente la vita civile, né meno tratta le occorrenze delle arme che della pace. Dinoterebbe adunque perfettion di ogni attione della vita humana.
Mar. Potrebbe anco dinotar per la pazzia d’Orlando che l’huomo guardi, come  s’inamori, poiché l’amore è di qualità che spesso fa perder l’intelletto. E per aventura potrebbe anco dinotar che l’huomo a cui si mandasse fosse pazzo. Ma chi mandasse a donare un volume delle sacre lettere?
Cor. Il volume delle sacre lettere insegna i precetti della nostra legge e ci fa conoscere il vero IDDIO. Ci sono le profetie le quali annuntiano il vero Messia, ch’è il nostro Signor Giesu Christo e Iddio. Però ci è comandato che questo tal volume non si diparta mai dalla nostra bocca e dalla nostra lettione. Significherà adunque che questo dee essere il continovo cibo del nostro spirito. E nel vero, chi a cotale lettione si dà con ben composto animo, cioè non per vaghezza di contendere, o di parer dotto, trova tanta contentezza che non se ne può giamai render satio. E come che in questa età alcuni si siano affaticati di tradurlo dall’Hebreo e dal Greco, nondimeno questa fatica, siccome è stata di far nascere qualche dubbio, così è vana. E chi negherà che non basti la traduttione di San Gerolamo, la quale si vede essere approvata dalla Chiesa, massimamente vedendosi che alcuni moderni traduttori hanno in molte parti havuto più risguardo a certe vane proprietà di Grammatica, che al senso. Come fece Erasmo, il quale, per tacer le altre cose, havendo a tradurre dal Greco il Vangelo di San Giovanni, che comincia. In principio erat verbum, in vece di verbum tradusse sermo, quasi che nelle sacre lettere si habbia ad haver risguardo alla minutezza delle voci, e non a quello, che principalmente impetra, che è il peso delle sentenze, e quasi anco che San Girolamo non fosse stato più polito scrittore che non fu egli. Leggendosi adunque pienamente e sinceramente le sacre lettere, si viene a poco a poco a mortificar la carne et a vivificarsi lo spirito. Né si diviene vaghi di contendere come fa la più parte de gl’ignoranti. Onde è meglio che più tosto essi non leggano le cose del Signore, che intenderle e interpretarle, come essi fanno, sinistramente.
Mar. Chi mandasse a donare gli Asolani del Bembo?
Cor. Il Bembo ne gli Asolani per via di Dialogo dimostra che Amore può esser buono e cattivo, secondo il fine di colui che ama, e poi nel fine Platonicamente e Christianamente tratta del vero amore, che è il ragionevole e divino. Direi adunqu, che questo libro servisse a dinotare che l’huomo da queste cose terrene levasse l’animo a DIO, e lui solo amasse, essendo che tutti gli altri amori sono sozzi e vituperevoli. Onde egli ben discrisse la qualità d’Amore in questo Madrigale:
    Amor la tua virtute.
        Non è dal mondo, e da la gente intesa;
        Che da viltate offesa
        Segue suo danno, e fugge sua salute.
    Ma se fosser tra noi si conosciute
        L’opre tue, come là, dove risplende
        più del tuo raggio puro;
        Dritto calle e sicuro
        Prenderia nostra vita, che no’l prende;
        E tormerian con la prima beltade
        Gli anni de l’oro, e la felice etade.
Mar. Chi mandasse a donare un’Arcadia del Sannazaro?
Cor. Il Sannazaro dipinge così bene la semplicità della Rustica vita, che non credo che alcuno lo avanzasse giamai.
Mar. Per questo che vuoi inferire?
Cor. Dirollo tosto: e tra molte belle cose che esso introduce a dire a quei Pastori, questi versi bellissimi mi paiono:
    Talhor nel suo parlar soleva adducere
        I tempi antichi; quando i buoi parlavano,
        Che’l ciel più gratie alhor solea producere.
    Alhora i sommi Dij non si sdegnavano
        Menar le pecorelle in selva a pascere,
        Ma, come noi facemo, essi cantavano.
    Non si potea l’un’huom con l’altro irascere,
        I campi eran comuni e senza termini,
        E copia di frutti suoi sempre fea nascere.
    Non era ferro, il qual par c’hoggi termini
        L’humana vita; e non eran Zizanie,
        Onde aviè, ch’ogni guerra e mal si germini.
    Non si vedean queste rabbiose insanie,
        Le genti litigar non si sentivano,
        Onde convien, che’l mondo hor si dilanie.
E va dietro seguitando molte belle conditioni della primiera semplice vita, come anco Boetio Severino, chiamando la prima età felice, perché era contenta di quello che produceva fedelmente i campi in questi versi:
    Fœlix nimium prior ætas
    Content a fidelibus arvis.
Aggiunge etiandio il Sannazaro.
    Pensando a l’opre loro, non solo honorole
        Con le parole; ma con la memoria
        Chinato a terra, come sante, adorole.
    Ov’è’l valor, ov’è l’antica gloria?
        Vi son hor quelle genti? oime son ceneri,
        De le quai grida ogni famosa historia?
Direi adunque che egli dinotasse che colui a cui questo libro si mandasse fosse huom sincero e da bene, overo ch’egli significasse, o ammonisse, ch’ei ci dovesse essere.
Mar. Chi mandasse un Giuvenale?
Cor. Costui fu scrittore di Satire, e riprese i vitij, come favellando della Castità, disse:
    Credo pudicitiam Saturno Rege moratam
    In terris, visaque; diu, cum frigidas parvas
    Præberet spelunca domos, ignemque; latemque;
    Et pecus et dominos comuni clauderet umbra
    Credo la Castitade havesse albergo
        Nel mondo alhor, che vi reggea Saturno,
        E vi fu vista lungamente, quando
        Erane case le spelunche fredde;
        E con una stess’ombra vi chiudeano
        I fuochi, il gregge, et i padroni insieme.
L’Ariosto anco ai nostri tempi fu buonissimo scrittore di Satire, e morde molto bene ridendo i vitij, come dolendosi delle vane cerimonie de’ nostri tempi, introdottevi per la maggior parte da Spagnuoli, scrive:
    Signor dirò, non s’usa più fratello,
        Poi che la vile adulation Spagnuola
        Posto ha la Signoria fin in bordello.
Mandando adunque un siffatto libro si verrebbe a dimostrar colui haver di bisogno di correttione et essere huomo di cattiva vita.
Mar. Chi mandasse un Plinio?
Cor. Plinio scrive la historia naturale delle cose del mondo. Nella quale fu accuratissimo, ma non cosi nel morire. Onde disse il Petrarca:
    Quel Plinio Veronese suo vicino
    A scriver molto, a morir poco accorto.
Mar. Maravigliomi che’l Petrarca stimò Plinio Veronese, essendo egli stato Comasco.
Cor. Ciò non importa, né l’ho così per definita. Basta che Plinio fu un gran dotto e lesse tanti libri, ch’è uno stupore. Ora mandandosi il suo volume si potrebbe significare che colui a cui si mandasse non sapesse nulla e che havesse bisogno d’imparare ogni cosa. O in contrario, che’l suo ingegno fosse atto ad apprender tutte le buone discipline.
Mar. Lasciando i libri da parte, chi mandasse a donare un paio d’occhiali?
Cor. Gli Occhiali senza dubbio servono a coloro, che hanno poca vista. Ma pare, che hoggidì alcuni si tengano a riputatione di portargli in seno: e tratto tratto se gli cavano, e se gli attaccano a gli occhi per veder che che sia. Si potrebbe adunque significar che colui a cui si mandassero havesse corta vista, cioè poco sapesse, onde havesse bisogno di occhiali, cioè di lume d’intelletto.
Mar. Chi mandasse uno asciugatoio?
Cor. Verrebbe a significar che colui havesse immonde le mani, cioè fosse vitioso e lo ammonirebbe, che se le lavasse et asciugasse, cioè si correggesse de’ vitij.
Mar. Chi mandasse?
Cor. Perché ti fermi?
Mar. Certo io ho fatto tante dimande, che non me ne resta quasi più alcuna. Pur dirò anco questo. Chi mandasse a donare un coltello?
Cor. Il Coltello serve a commodi della vita et uccide anco gli huomini. Perciò dinoterebbe che colui a cui si mandasse fosse huomo da bene et anco malvagio. Potrebbe anco tacitamente esortarlo a qualche sua vendetta
Mar. Parmi di haverti ancora addimandato quello che dinoterebbe a mandare uno specchio. Hora vorrei che mi sponesti quel Sonetto del Petrarca, che incomincia,
    Dicemi spesso il mio fidato speglio.
Cor. E perché è egli tanto difficile? O ti pare che gli spositori non l’habbiano dichiarato bene?
Mar. Io non ho letto alcuno suo spositore e parmi assai difficile.
Cor. L’hai tu nella memoria?
Mar. Hollo.
Cor. Recitalo adunque, che io te ne dirò sopra così all’improviso che mi parrà.
Mar. Dirollo:
    Dicemi spesso il mio fidato speglio
        L’animo stanco, e la cangiata scorza;
        E la scemata mia destrezza e forza,
        Non ti nasconder più, tu se pur veglio.
    Obedir a natura in tutto è il meglio,
        Ch’a contender con lei il tempo ne sforza.
        Subito alhor, com’acqua il foco ammorza,
        D’un lungo e grave sonno mi risveglio.
    E veggio ben, che’l nostro viver vola,
        E ch'esser non si puo più d’una volta,
        E in mezo’l cor mi sona una parola
    Di lei, ch’è hor del suo bel nodo sciolta;
        E ne’ suoi giorni al mondo fu si sola,
        Ch’a tutte, s’io non erro, fama ha tolta.
Cor. Altro, se io non mi inganno, non vuol dinotare il Petrarca in questo Sonetto che la fugacità del tempo, volendo dinotare come egli era vecchio e che la nostra vita vola, e che non può esser l’huomo qui nel corpo terreno più che una sola volta, e però doveva prepararsi al suo fine, e tanto maggiormente che Madonna Laura lo haveva di ciò in sogno avertito, come si vede in questo verso:
    Non sperar di gioir in terra mai
E come dice egli altrove:
    Cerchiamo il ciel, se qui nulla ne piace:
    Che mal per noi quella beltà si vide,
    Se viva o morta ne devea tor pace.
Seguitando nel Sonetto che essa Madonna Laura era in perfettione tale che a tutte le altre Donne haveva oscurata la fama.
Mar. Piacemi questo poco in generale.
Cor. Dice adunque che lo specchio il quale gli era fedele cioè gli rappresentava la sua immagine fedelmente, insieme col suo animo che era hoggimai stanco e con la scorza cangiata, cioè il corpo, ch’è il vasello e la scorza di esso animo ch’era cangiato, cioè divenuto pallido e canuto e parimente la sua forza e destrezza che era in lui scemata, lo ammoniva che egli non si nascondesse più percioché era divenuto hoggimai vecchio nella guisa che dice in quel verso:
    Gia fu per l’Alpi neva d’ognintorno.
Rende dipoi la ragione, perché non si dovesse più nascondere, essendo divenuto vecchio, che era meglio a obedir alla natura, percioché volendo seco contendere il tempo dipoi sforza ad obedire. Il che dice in questi due versi:
    Obedir a natura in tutto è meglio,
    Ch’a contender con lei il tempo ne sforza.
I quali adduco perché alcuni lor danno questo senso è meglio obedire a la natura che contender seco in guisa, che fanno la particella che il quàm congiuntione latina ponendo il punto dopo il seco. E non si aveggono che intricano la purità del significato, dovendosi pigliar la che in vece di perché, et non fare alcun punto né partimento fra il verso.
Mar. Questo è verissimo.
Cor. Aggiunge poscia che egli a quel conforto si risveglia dal sonno con quella prestezza che l’acqua ammorza il fuoco. Et essendo in cotal modo risvegliato si avedeva che la nostra vita volava, e morto che è l’huomo non ritorna onde era convenevole che pensasse hoggimai e si accomodasse alla partita. Il resto è facile.
Mar. M’hai in questa spositione sodisfatto assai. Il Bembo nella canzone fatta nella morte al fratello discrive lo stato e la conditione del ben celeste gravemente e da Poeta e Filosofo Christiano, in questi versi:
    Ivi non Corre il dì verso la sera,
    Ne le notti sen van contra’l mattino:
    Ivi’l caso non puo molto ne poco:
    Di tema gelo mai, di desir foco
    Gli animi non raffredda e non riscalda,
    Ne tormenta dolor, ne versa inganno:
    Ciascuno in quello scanno
    Vive, e pasce di gioia pura e salda,
    Che preparato gli ha la sua virtute.
E va seguitando. Ma per tornare al nostro proposito, chi mandasse a donare un Tito Livio?
Cor. Tito Livio fu eccellentissimo historico e scrisse i fatti de’ Romani dal principio che fu Roma edificata, insino a suoi tempi che fu nella età di Augusto, tanto felicemente che tenne il principato di Maestà e di eloquenza fra gl’historici Latini, ancora che di eleganza e di leggiadrezza di stilo gli si anteponga Sallustio e Cesare di purità di lingua.
Mar. Certo oltre che egli discrive mirabilmente le cose nelle concioni è divino. Onde meritamente disse il Petrarca Il gran Tito Livio Padoano, mostrando però ch’egli portasse invidia a Sallustio.
Cor. Verrebbe adunque a significar che colui a cui si mandasse, se fosse la sua profission di arme, dovesse legger così fatta opera, ove le guerre che hebbero Romani con diversi popoli pienamente sono discritte. E volesse DIO che noi questo autore havessimo intero, come l’habbiamo imperfetto, e manchevole.
Mar. Soviemmi che Livio, fu grande imitatore di Polibio, benché procedesse per altra via. Ma chi mandasse a donare un Lucano?
Cor. Lucano scrisse Poeticamente le guerre Civili, cioè le Farsaliche, le quali furono tra Cesare e Pompeo e, come che scrivesse dottamente, fu più historico che Poeta. Senza che fu troppo nel suo Poema affaticato et tra lo stilo via più tosto gonfio che alto. E pare che tutti i Poeti Latini che furono dopo la età di Virgilio e di Augusto inciampasse in quel vitio della gonfiezza ch’è biasimato da Horatio, ove egli dice:
    Ne sic incipias, ut scriptor Ciclicus olim:
    Fortunam Priami cantabo, et nobile bellum.
    Quid dignum tanto feret hic promissor hiatu?
    Parurient montes, nascetur ridiculus mus.
Allo’ncontro veggiamo Virgilio alto quanto è il bisogno e in niuna parte gonfio, dicendo nel principio della sua Eneida:
    Arma, virumque; cano,
Con quel che segue, alzandosi ne’ seguenti versi, e in molti luoghi, come ricercava la materia; come
    Musas mihi causas memora,
E venendo alla narratione.
    Urbs antiqua fuit, Tyrij tenuere coloni
    Carthago.
Ma chi puo legger quel principio di Lucano?
    Bella per Emathios plusque civilia campos
    Iusque datum sceleri canimus populumque potentem
    In sua victrici conversum viscera dextra.
E peggiore etiandio è quello di Statio:
    Fraternas acies alternaque regna profanis
    Decertata odijs, sontesque evolvere Thebas.
E quello dell’Achilleida:
    Magnanimum Aeacidem, formidatamque
    Tonante Progeniem canimus.
Veggiamo ancora, come bene l’Ariosto imitando Virgilio senza passar al gonfio cosi disse:
    Le Donne, i Cavalier, l’arme, gli amori,
    Le cortesie e l’audaci imprese io canto.
Ma per tornare a proposito, mandando a donare un Lucano se colui fosse studioso di Poesia questo potrebbe essere avertimento, che simil Poeta egli dovesse fuggir d’imitare. E non senza cagione il Navagero havendo fatte alcune selve in versi latini a imitatione di Statio, dipoi avedendosi che quella via non era gentile, né bella, le abbruciò et abbruciò insieme quelle di Statio, facendo di ciò, un bellissimo Epigramma a Vulcano.
Mar. E chi mandasse a donare le Epistole Heroide di Ovidio?
Cor. Manderebbe una buonissima opera, purissima, latinissima, e piena di ogni amoroso affetto. E se colui a cui le mandasse fosse scrittore di cose amorose latine o volgari lo ammonirebbe che seguitasse quello esempio.
Mar. Chi mandasse un Catullo?
Cor. Catullo, Tibullo, e Propertio diversi sono di maniera, ma ciascuno nella sua perfettissimo, e’l simile si direbbe di Gallo, se alcun suo verso si trovasse.
Mar. Come non sono sue quelle poche elegie che a nostri giorni si sono trovate e stampate insieme con questi tre Poeti?
Cor. Alcuni dicono di no. Ma ciò non torna a proposito. Questi Poeti furono descritti molto gentilmente dal Bembo in questa Stanza:
    Questo fe dolce ragionar Catullo
    Di Lesbia, e di Corinna il Sulmonese,
    E dar a Cinthia fama, a noi trastullo
    Uno, a cui patria fu questo paese.
Mar. Chi fu costui?
Cor. Propertio che fu di Umbria, ove è Urbino, nel qual si trovava il Bembo, quando fece queste Stanze:
    E per Delia e per Nemse Tibullo
    Cantar, e Gallo, che se stesso offese,
    Alludendo a quello,
    Sanguinis, atq; anima prodige Gallae tuæ.
    Via con le penne de la fama impigre
    Portar licori dal Timavo a Tigre.
Mar. Ė bellissima anco la seguente Stanza, nella quale esso discrive i nostri Poeti.
    Questa fe Cino poi lodar selvaggia,
    D’altra lingua Maestro, e d’altri versi,
    E Dante, accioche Bice honor ne traggia,
    Stili trovar di maggior lume aspersi
    E, perché il mondo in riverentia l’haggia,
    Si come hebb’ei, di si nomi e diversi
    Concenti il maggior Thosco addolcir l’aura,
    Che sempre s’udrà risonar Laura.
Cor. Perché disse il Bembo Bice e non Beatrice?
Mar. Credo io, perché tale era il nome di colei. Ma chi mandasse a donare i Sonetti di Serafino?
Cor. Il Serafino e il Tebaldeo furono a uno stesso tempo. Il Serafino non hebbe lettere di sorte alcuna, ma scrisse come gli dettava la Natura. Il Tebaldeo fu huomo di buone lettere e fece di belli Epigrammi latini. Questi due, che nelle cose volgari havevano empita la Italia del nome loro, perdettero la riputazione alla venuta del Sannazaro e del Bembo, del qual Bembo fu amicissimo il Thebaldeo. Chi mandasse adunque i Sonetti del Serafino, potrebbe inferire, che colui attendendo alla Poesia fosse poeta da dozzina.
Mar. E chi mandasse le cose del Calmeta?
Cor. Fu il Calmeta con pace sua goffo e se bene s’interteniva nella Corte d’Urbino a tempi che vi fioriva il Bembo, il Castiglione, et altri simili huomini, non è che per tale egli non fosse havuto. Chi mandasse adunque a donare le cose sue, tratterebbe colui,a cui le mandasse senza fallo da goffo.
Mar. Fece pure egli quella frottola,che incomincia:
    Omnia vicit Amor; et nos cedamus amori.
    À Pastore Pastori
    In Buccolicis scriptum,
    Pulchrum Poetæ dictum Mantuani.
Cor. Non su questa frottola, ma predica. Ma non è maraviglia che egli la fece per giuoco. È da maravigliarsi del Petrarca, che havendo così purgate orecchie, scrivesse questi versi:
    Di rider non ho voglia,
    Per una grave doglia,
    Che m’è nata nel fianco
    Di sotto al lato manco.
Benché non tanto è da maravigliarsi che egli facesse questi bassi versi, quanto da stupire di quegli altri ne’ quali questa sua frottola mutò:
    Mai non vo più cantar, come io soleva,
    Ch’altri non m’intendeva, ond’hebbi scorno:
    E puossi in bel soggiorno esser molesto.
Mar. Tra i componimenti di questo Poeta, dico di quelli ch’egli per buon giudicio rifiutò, ve ne ho letti alcuni che non sono degni del suo nome. Come è quello, il cui fine dice:
    Però son’io cosi tutto pelato.
E quell’altro al Colonna:
    O decus magnum, ornamentum Romæ,
E molti altri così fatti, ma questo per certo non meritava già rimaner fuori dalla compagnia dell’altre sue rime:
    Quella, che’l giovenil mio cor avinse
        Nel primo tempo, ch’io conobbi Amore,
        Del suo albergo leggiadro uscendo fuore,
        Con gran mio duol d’un bel nodo mi cinse.
    Ne poi nova bellezza l’alma avinse,
        Ne luce circondò, che fesse ardore,
        Altro, che la memoria del valore,
        Che con salde durezze la sospinse.
    Ben volse quei, che con begliocchi aprilla,
        Con nove fraudi ritentar sue arti;
    Ma nova rete vecchio augel non prende.
    E pur fui in dubbio tra Cariddi, e Silla,
        E passai le Sirene in sordo legno,
    Com’huom, che par, ch’ascolti, e nulla intende.
Cor. Ė nel vero vaghissimo questo Sonetto, ma stimo che a lui paresse alquanto basso. Onde poi ne fece questo:
    L’ardente nodo, ov’io fui d’hora in hora
        Contando anni vent’uno interi, preso,
        Morte disciolse, ne giamai tal peso
        Provai; ne credo, c’huom per dolor mora.
    Non volendomi Amor perder ancora,
        Hebbe un altro lacciuol fra l’herba teso,
        E di nov’esca un altro fuoco acceso,
        Tal, ch’a gran pena indi scampato fora.
    E, se non fosse esperientia molta
        De’ primi affanni, io sarei preso et arso,
        Tanto più, quanto son men verde legno.
    Morte m’ha liberato un’altra volta,
        E’l laccio sciolto, e’l foco ha spento e sparso,
        Contra la qual non val forza, ne ingegno.
Io per me certo non ci saprei far distintione, se non che oltre che questo ha più gravità viene anco su alcuni particolari.
Mar. Chi mandasse una carta da navigare?
Cor. La carta da navigare, insieme col bossolo che con la virtù della calamita dimostra la Tramontana, fa al navigante apparir dipinto tutto il viaggio, ch’esso ha da fare, e gli fa vedere anco gli scogli, che ha da sfuggire. Onde direi che questa significasse che l’huomo dovesse molto ben considerar la via che egli ha da tenere nel camino di questa vita che hora è affigurata per un Mare, e’l nostro corpo per una nave. Onde disse’l Petrarca:
    Passa la nave mia carca d’oblio
    Per aspro mare a mezanotte il verno
    In fra Scilla e Cariddi, et al governo
    Siede il nocchiero, anzi’l nemico mio.
Et il Bembo:
    Tu prima ne mandasti
    In questo mar, e tu ne scorgi a porto.
Alcuni l’assimigliarono a una valle, Onde si legge in hac lachrimarum valle. Il che diede occasione a Dante di dire:
    Nel mezo del camin di nostra vita
    Mi ritrovai per una selva oscura;
    Che la diritta via era smarrita:
Et il Petrarca:
    D’un vento occidental dolce confuso
    Il qual di mezo a questa oscura valle,
    Ove piangiamo il nostro e l’altrui torto:
Et altrove:
    Al passar questa valle
    Piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno,
    Venti contrari a la vita serena.
Tale adunque significato; quale detto habbiamo, dinoterebbe.
Mar. Chi mandasse una prigione?
Cor. Dinoterebbe più cose, cioè che colui a cui mandasse fosse un tristo, e che meritasse simil cosa che egli fosse servo in questa prigione ch’è il corpo. Onde il Petrarca:
    Io dico, se la suso;
        Onde’l motor eterno de le stelle
        Degnò mostrar del suo lavor in terra;
        Son l’altre opre si belle:
        Aprasi la prigione, ond’io son chiuso;
        E che’l camino a tal vita mi serra.
Et altrove:
        Ne la bella prigione, ond’hora è sciolta,
        Poco era stato ancor l’alma gentile.
        Cosi anco chiamò il capo carcere.
        Io vo pensando, e nel pensier m’assale
        Una pietà si forte di me stesso,
        Che mi conduce spesso
        Ad altro lagrimar, ch’io non soleva:
        Che vedendo ogni giorno il fin più presso,
        Mille fiate ho chiesto a DIO quell’ale;
        Con lequai del mortale
        Carcer nostro intelletto al fin si leva.
Benché egli chiamasse ancora l’istesso corpo vesta delle terrene membra:
        A pie de’ colli, ove la bella vesta
        Prese de le terrene membra pria
        La Donna; che colui, che a te ne’nvia
        Spesso dal sonno lagrimando desta.
chiamollo anco velo.
        Quale a mirar il suo leggiadro velo
Et altrove:
        E quel leggiadro velo,
        Che per altro distin ti venne in forte.
E ne’ Trionfi:
    Che poi c’havrà ripreso il suo bel velo,
        Se fu beato a chi la vide in terra;
        Hor, che fia adunque a rivederla in cielo.
Il Bembo:
        O per me caro, dolce, e lieto solo
        Quel dì (ne puo tardar, s’ella n’ascolta)
        Ch’io squarcierò questa povera gonna.

Chiamollo similmente il Petrarca scorza:
        E quella dolce leggiadretta scorza,
        Che ricopria le pargolette membra:
Benché qui si può intender semplicemente per vesta, onde ben disse l’Ariosto ferrigna scorza. Ma per tornare alla prigione, ella potrebbe significar come dicemmo.
Mar. Soviemmi che Dante chiamò la pelle, che fascia le carni, vagina delle membra quand’egli disse:
        Entra nel petto mio, e spira tue,
        Si come, quando Marsia trahesti
        Da la vagina de le membra sue.
Cor. Questo Poeta è ripieno di molte belle figure e modi di dire, e assai Metaforico, come:
        Ma, se le tue parole esser den seme,
        Che frutti infamia al traditor, ch’io dico,
        Parlar e lagrimar m’udrai insieme.
È anco dolcissimo in alcuni luoghi: come
        Dopo la tratta d’un sospiro amaro
        A pena hebbi la voce, che rispose;
        E le labbra a fatica la formaro.
    Piangendo dissi, le presenti cose
        Col falso lor piacer volser miei passi
        Tosto, che’l vostro viso si nascose.
    Et ella, se tacessi, o se negassi
        Cio che confessi, non fora men nota
        La colpa tua, da tal giudice sassi.
    Ma, quando scoppia da la propria gota
        L’accusa del peccato in nostra corte,
        Rivolge a se contra il taglio la rota,
    Tuttavia, perché men vergogna porte
        Di quel, ch’io dico, e perché un’altra volta
        Udendo le Sirene, sij più forte.
con quel, che segue nei quai versi si vede tutto puro, tutto gentile.
Mar. Questi concetti non hanno molto del Poetico, come si vede che sono quelli del Petrarca. Ma tornando al mio intento, chi mandasse a donare una spica di formento?
Cor. Il formento è il sostegno del vivere et è gran cosa a vedere che nascoso nella terra e mortificatovi a un certo modo produca cento per uno. Onde potrebbe inferire che quel tale a cui tal cosa mandasse fosse utile e profittevole al mondo.
Mar. Chi mandasse Avena, Loglio e simili?
Cor. Che senza dubbio fosse malvagio huomo.
Mar. E chi mandasse una testa di Laoconte?
Cor. Tu non serbi ordine alcuno in queste tue domande. Che ha a far testa di Laoconte con frumento, né con avena o Loglio?
Mar. Ė ordine in ciò è a non serbare ordine.
Cor. Laoconte fu quel Sacerdote che diede della lancia nel fianco del cavallo di legno, nel quale erano nascosi i Greci che presero Troia. E perché egli ne fu punito, direi che significasse la temerità.
Mar. E in che havevano errato i figliuoli che furono ancora essi da i serpi morsi et uccisi?
Cor. Questa è fintione Poetica per recare maggiore pietà a chi regge. Senza che spesse volte la malvagità del padre è nocevole a’ figliuoli.
Mar. Chi mandasse una testa di Cesare?
Cor. Se colui a cui si mandasse fosse armigero significherebbe che lo ammonisse a imitare i fatti di Cesare.
Mar. E se fosse tiranno che si guardasse di non incorrer nel fine di Cesare.
Cor. Non fu Tiranno Cesare, perché non fece cosa alcuna fuori che in tener la Dittatura, la quale chi sa che ancora non havesse lasciata? Et è da creder nel vero che la natura non facesse mai huomo più compiùto, perché fu letteratissimo nelle cose della guerra, pratico e valoroso più che altro fosse giamai. Magnanimo, liberale e pietoso. Ma io scemo le sue lodi ragionando. Ecco che, come che il Petrarca fosse affettionatissimo a Scipione Africano, onde ne scrisse quel suo Poema latino che fu da lui intitolato l’Africa, non di meno pose Cesare nel capitol della fama, cosi dicendo:
    Da man destra, ove gli occhi a pena porsi,
        La bella Donna havea Cesare e Scipio:
        Ma qual più presso a gran pena m’accorsi.
E rende la cagione:
        L’un di virtute, e non d’amor Mancipio,
        L’altro d’entrambi:
E ne Trionfi:
        Quel, ch’in si signorile, e in si superba
        Vista vien prima; è Cesare, ch’in Egitto
        Cleopatra legò tra fiori e l’herba:
        Hor di lui si trionfa; et è ben dritto,
        Se vinse il mondo, et altri ha vinto lui,
        Che del suo vincitor si glori il vitto.
Mar. Chi mandasse la imagine di Cicerone?
Cor. Manderebbe d’uno horatore perfetto, che certo tale fu Cicerone et amatore ardentissimo della patria, ma fu ambitiosissimo e vano, come quello che ogni tratto fa mentione del suo Consolato. Oltre a ciò fu pusillanimo, come dimostrò in diverse cose. Ma fu si bel dicitore, che vinse tutti di purità di lingua e di eleganza, fuor che Cesare istesso, i cui Commentari sono da lui infinitamente lodati.
Mar. Chi mandasse a donar Carobbe?
Cor. Tu vuoi pur ch’i rida.
Mar. Io ne ho piacere.
Cor. La Carobba è frutto medicinale, ma non si mangia gran fatto altri che da fanciulli. Così si potrebbe significar che quel tale a cui si mandassero fosse qualche pedante Triviale.
Mar. Chi mandasse a donar bottarghe?
Cor. Le bottarghe sono fatte di Ove et è cibo perfettissimo e da Prencipe. Però direi che colui a cui si mandassero fosse huomo di conto e degno di gran presenti.
Mar. Chi mandasse Cappari?
Cor. Questi altresì sono delicati da mangiare in salata, sono sani, e stomacali. Però si potrebbe significare utilità.
Mar. Chi mandasse a donare Zucchero?
Cor. Significherebbe che quel tale fosse di dolce natura overo che dovesse essere l’ammonirebbe.
Mar. Chi mandasse aceto?
Cor. Questo liquore è agro. Onde potrebbe significar che colui a cui si mandasse fosse huomo ripieno di asprezza.

English abstract

Il "Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori" by M. Lodovico Dolce are discussed, published in Venice in 1565, is presented as a literary treatment on a technical and conceptual subject by an author "whose study is of letters and not of painting ". Here we reproduce the introduction (To readers) and a segment of the text (to be precise, pp. 4-6; 38-85).

 

keywords | Dialogo dei colori; Lodovico Dolce; Venice; 1565; Flowers; Diversity and properties of colours.

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Gasparotto, Diciamolo con i fiori (e con altri doni). Dal Dialogo dei colori di Lodovico Dolce, “La Rivista di Engramma” n. 115, aprile 2014, pp. 78-80 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.115.0008