"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

117 | giugno 2014

9788898260621

Le lumachelle veronesi: storia d’uso e diffusione dal XV al XX secolo, geologia, cave antiche e moderne

Lorenzo Lazzarini

English abstract
Introduzione

La provincia di Verona è senz’altro, e di gran lunga, la più ricca di pietre da costruzione e ornamentali tra quelle trivenete: le specie lapidee dei “marmi” veronesi sono state calcolate in oltre duecento (Scola Gagliardi 2008, 502-503). Basti ricordare le innumerevoli varietà lapidee appartenenti alla formazione calcarea del Giurese Medio-Superiore denominata “Rosso Ammonitico Veronese”[1], di rinomanza almeno nazionale, il nero di Roveré, i calcari teneri (“tufi”) eocenici di Avesa e Quinzano[2] o, tra le pietre eminentemente decorative, i vari tipi di lumachelle. Di queste ultime si tratta nel presente studio.

Le lumachelle sono così denominate in quanto rocce sedimentarie caratterizzate da una notevole abbondanza di gusci fossili di molluschi (“lumache”) e altri organismi prevalentemente marini (alghe, coralli, pesci, ecc.), cementati da calcite e/o dolomite, più raramente silice: costituendo una curiosità, anche per la loro rarità, le lumachelle hanno spesso attratto l’attenzione dell’uomo sin dall’antichità, che le considerava mirabilia e testimonianza della trasformazione del mare in terra e viceversa. Di esse hanno infatti disquisito varie fonti antiche, tra cui Senofane, Erodoto, Empedocle, Pausania e Strabone, avanzando le ipotesi più disparate sulla loro origine, ma comunque riconoscendone la loro natura di organismi vissuti in epoche antiche. I Romani, tra cui il patavino Tito Livio, ne ipotizzarono la vera origine organogena (Dal Piaz 1967). Svetonio ci ricorda che Augusto aveva nella sua dimora una raccolta di curiosità naturali, tra cui dei fossili (Svet., 2, 72; v. Gnoli 1988, 200). Sappiamo poi da numerose evidenze archeologiche che i romani furono molto attratti dalla bellezza e decoratività di alcune lumachelle microasiatiche (ad esempio del marmor triponticum o occhio di pavone: Lazzarini 2002), numidiche (lumachella orientale, astracane: Lazzarini, Mariottini 2012) e iberiche (broccatello di Spagna: Falcone, Lazzarini 1998), che si riscontrano usate in rare colonne e nella statuaria, più comunemente in trapezofori, e ancor di più in mattonelle di opera sectilia parietali e pavimentali. Alle lumachelle di provenienza provinciale talora attribuirono particolari significati legati al loro aspetto (l’occhio di pavone, ad esempio, ricordava nel suo disegno a grandi occhi – dato da sezioni trasversali di Rudiste – la coda dell’animale simbolo sin dall’antichità dell’immortalità dell’anima); la connotazione simbolica perdurò e anzi si rinvigorì in epoca paleocristiana e bizantina (per i cristiani il pavone divenne simbolo ancora più diretto della fede nell’aldilà), così come fantasiose credenze medievali erano collegate ad alcune altre lumachelle sopra ricordate (Lazzarini, Mariottini 2012, 445). Nel Medioevo le lumachelle e i fossili furono infatti spesso associati a superstizioni varie – tra cui anche all’arca di Noè arenatasi sulla cima del Monte Ararat, che spiegava la presenza dei fossili sulla cima delle montagne – mentre tornarono a essere nuovamente alla ribalta nel Cinquecento quando Leonardo da Vinci indagò con acume i processi di sedimentazione naturale e li riconobbe come sedimenti organogeni. Una giusta interpretazione della vera natura dei fossili si deve – e probabilmente non casualmente, vista la loro abbondanza nei vicini Monti Lessini – al veronese Girolamo Fracastoro, che ne trattò in un suo scritto del 1517. Giambattista Dal Piaz afferma che:

Al Fracastoro spetta il merito di aver dato per primo in via definitiva la giusta interpretazione sulla natura dei fossili nel 1517, precedendo così di ben 63 anni il vasaio parigino Bernardo Palissy, al quale viene ingiustamente attribuito da taluni autori stranieri la priorità dell’affermazione che tanta fondamentale importanza presenta per la Geologia e la Paleontologia (Dal Piaz 1967, 4).

Ma uno studio vero e proprio dei fossili inizia solo alla fine del XVIII secolo, quando nacquero e si svilupparono come vera e propria scienza naturalistica la geologia e la paleontologia: quelle che fino ad allora erano chiamate “pietre figurate” vengono finalmente definite “fossili”, e il geometra inglese William Smith (col veronese Arduino padri della geologia stratigrafica moderna) per primo riconobbe l’importanza dei fossili-guida (Winchester 2001). Parallelamente crebbe l’interesse archeologico e storico per i materiali lapidei usati nei monumenti antichi (Mariottini 2004), che già alla fine del Cinquecento erano stati oggetto di un interessante studio monografico da parte dell’abate Agostino del Riccio (Gnoli e Sironi 1996) e avevano attirato poi l’attenzione di numerosi eruditi romani nel Sei-Settecento (Cohen, Fidanza 2011). Tale attenzione si manifestò nei primi decenni dell’Ottocento, e soprattutto in pieno Positivismo, con la stampa di innumerevoli cataloghi di collezioni litologiche e di trattati monografici, tra cui spiccano, rispettivamente, quelli di Faustino Corsi del 1825 e del 1828, che ebbero grande fortuna (il trattato con ben due successive edizioni nel 1833 e 1845). Ma l’interesse per le lumachelle è meglio di tutto testimoniato dalla manifattura a partire già nel Settecento di litoteche di pietre decorative e non, sia sotto forma di lastrine lucidate di varie dimensioni, sia – specie a Firenze, Roma e Napoli – di tavolini sui cui piani erano connessi a scacchiera una gran varietà di litotipi colorati, spesso identificati con numeri e relativo catalogo cartaceo. Questi vennero prodotti su scala molto minore anche in altre città italiane e straniere, specie tedesche e boeme. Al proposito erano famosi a Verona due tavoli fatti fare dall’architetto illuminista Alessandro Pompei, già esposti a Palazzo Pompei alla Vittoria (ora Museo di Storia Naturale), purtroppo dispersi: i relativi piani contenevano proprio lastrine di sole lumachelle veronesi, con provenienza indicata nell’elenco redatto dal Pompei ancora conservato nell’Archivio di Stato di Verona e riportato dal Brugnoli (2002). È assai probabile che questi tavoli, per la loro bellezza e curiosità, non siano andati distrutti, ma che siano tuttora conservati, e ignoti, in qualche palazzo nobiliare italiano: essi sarebbero di straordinaria importanza per questo studio.

Ricerche pluridecennali eseguite da chi scrive sui monumenti romani di Verona e di altre città venete, nonché nei relativi depositi di scavo di musei e soprintendenze statali e comunali, consentono a tutt’oggi di escludere un uso di età pre-rinascimentale delle lumachelle veronesi, stranamente non scoperte dai quei grandi conoscitori del territorio che furono i Romani, e neanche ricercate nel Medioevo, quando si preferì riusare pietre e marmi antichi di importazione che uscivano dagli sterri cittadini (per uno studio sulle pietre locali e importate nelle città romane della parte meridionale della X Regio Augustea Venetia et Histria v. Lazzarini, Van Molle c.d.s.). La scoperta sui Monti Lessini delle lumachelle veronesi avvenne con ogni probabilità verso la metà del XV secolo: da documenti datati 1488 è infatti attestata la presenza di due lapicidi a Roverè Veronese, e un tale Donato di Omobono (forse maestro e padre dello scalpellino Domenico da Lugo, molto attivo a Verona a cavallo tra Quattro e Cinquecento) opera nella vicina chiesa di Velo (Zanini, Campara 1993); si tratta dei paesi attorno ai quali vennero aperte le cave principali, e poco tempo dopo queste pietre erano già presenti anche a Venezia. Esse vennero dapprima usate unicamente nei monumenti della città scaligera (Scola Gagliardi 2008), e solo agli inizi del Cinquecento esportate in altre città del Veneto, come a Vicenza e a Padova oltre che a Venezia. Ciò non avvenne casualmente, ma quando nella Serenissima cominciarono a esaurirsi le scorte di marmi antichi (spolia di città greco-romane) accumulate nei secoli precedenti, e quando nuovi approvvigionamenti nel Levante divennero molto più difficili per le conquiste da parte degli Ottomani dei territori d’Oriente battuti dai commercianti veneziani (Lazzarini 2010, 79). Venezia fu quindi costretta a rivolgersi alla terraferma da poco conquistata, e certamente trovò nei monti veronesi quelle risorse lapidee di cui continuava ad aver bisogno per le sue fabbriche. Fu allora che arrivarono in laguna il calcare grigio di Roveré, tanto apprezzato da architetti/scultori come Mauro Codussi e i Lombardo, e le nostre lumachelle; ed è da allora che Venezia cominciò anche a distribuirle nei “domini da terra e da mar”. Le troviamo infatti in molte città delle regioni nord e medio adriatiche (da Trento a Trieste, da Ravenna alla Puglia settentrionale) e della Dalmazia, isole comprese (ad esempio a Lesina).

Note geologiche sulle lumachelle veronesi

Le lumachelle sono in genere dei calcari, dolomie e arenarie fossilifere, talora vecchie di milioni di anni che, essendo compatte e lucidabili, oltre che di bell’aspetto (colorate, e con bei fossili), si prestano a essere lavorate e utilizzate come materiali ornamentali. Se poi si rinvengono in ammassi sufficientemente estesi e potenti (spessi), possono anche essere cavate in blocchi tali da poter essere impiegate per ottenerne elementi architettonici quali colonne, pilastri, grandi lastre, oltre che per altri manufatti quali acquasantiere, soglie, scalini, vasche, ecc.

Le lumachelle veronesi sono dei calcari fossiliferi geologicamente appartenenti agli strati del Lias medio affioranti in un’area geografica abbastanza vasta che dalla Lessinia Centrale (zona principale di estrazione storica) arriva a includere territori ora appartenenti alle province di Trento e Vicenza (Masetti et al. 1998). Si tratta di tre specie lapidee di notevole importanza storico-artistica – la lumachella di San Vitale, l’occhio di pernice, e l’astracane di Verona – accomunate da un inizio d’uso nel primo Rinascimento e da una fortuna massima raggiunta nel Cinque-Seicento testimoniata da una diffusione piuttosto notevole, almeno per la specie che verrà qui considerata per prima, che comprende oltre al Triveneto, la Lombardia e il Piemonte a ovest, l’Emilia e l’area costiera del medio-alto Adriatico a est.

Nonostante la loro considerevole importanza, queste lumachelle non sono mai state oggetto di un’adeguata indagine storico-artistica e scientifica di laboratorio che abbia approfonditamente preso in esame tutti i principali aspetti riguardanti il loro uso, diffusione geografica, origine (affioramenti e cave), natura minero-petrografica, composizione geochimica, proprietà fisico-meccaniche e tecniche. Questo studio ha come finalità di raggiungere proprio questo obiettivo, anche se la molteplicità dei temi e la complessità di alcuni di essi rendono nell’immediato tale obiettivo solo parzialmente raggiungibile, qui affrontato principalmente per alcuni aspetti storico-artistici e topografici relativamente alle località estrattive. Si rimanda a un prossimo contributo, già in avanzata fase di elaborazione, per una disamina degli aspetti più propriamente scientifico-tecnici riguardanti queste lumachelle.

La lumachella di San Vitale

È senza dubbio la più importante e diffusa di tutte e tre le lumachelle veronesi. Essa prende il nome dalla frazione/valle di San Vitale presso Roveré Veronese dalla quale si estrasse per la prima volta questa bella pietra, di cui esistono numerose varietà sia cromatiche sia tessiturali. Quello che possiamo chiamare l’olotipo (perché il più comune e abbondante) si presenta come un calcare con fondo da nero fino a grigio, il più comune (fig. 1), uniforme a grana finissima e compatto, su cui si stagliano abbondanti fossili bianchi di dimensioni da centimetriche a decimetriche simili a valve piatte di grandi ostriche marine denominate Lithiotis problematica dal Gūmbel (fig. 1) per la difficoltà di identificazione dei fossili come tali, e di un loro inquadramento tra i molluschi conchigliati. E' piuttosto rara una varietà a cemento giallo (fig. 2), e ancor meno frequente una a fondo rosso (fig. 3). Tutte e tre queste varietà sono note nelle zone estrattive veronesi col nome dialettale di “pesatele”, in quanto i cavatori pensavano che i fossili fossero dei pesciolini.

Fig.1 - L’olotipo grigio della lumachella di San Vitale (in alto) dalle cave antiche di Badia di Stallavena, e l'allotipo rosso da una lastra nei depositi della Basilica di San Marco.
Fig. 2 - La varietà a cemento giallo da una colonnina nei depositi della Basilica di San Marco.
Fig. 3 - L’allotipo giallo-rosso dalle cave di Monte Pastello (Verona).

In qualche varietà le valve si presentano più piccole (centrimetriche) e più o meno ricurve, o di colore grigio chiaro su un fondo (matrice) di colore da grigio-scurissimo a nero, a giallo, a rosso (fig. 3). Esistono anche allotipi dove i fossili del primo olotipo sono più o meno integri (possono infatti talora presentarsi fratturati) e immersi in un cemento di colore giallo o rosso, o misto giallo a fiammature rosse. Si conosce infine una varietà rara e molto pregiata denominata “grigio oniciato di San Vitale” che presenta un fondo grigio-roseo, talora violaceo o bruniccio, con abbondantissime valve fossili. La maggior parte dei fossili di queste lumachelle sono comunque sempre riconducibili alla specie Lithiotis problematica Gümbel, bivalve del Lias Inferiore-Medio (Carraro 1967) vissuto in ambienti marini lagunari o peritidali di acque basse e tranquille. Quando sono fratturati e su fondo grigio essi assomigliano molto a frammenti ossei, da cui il nome di “ossipetro” (ossa di San Pietro) col quale questa pietra – e altre lumachelle come “l’occhio di pavone” e la lumachella a Megalodon (v. Lazzarini 2012) – è chiamata a Venezia: questa denominazione è tuttora usata dagli scalpellini della Basilica di San Marco, veri eredi della tradizione marmoraria antica. Alla Lithiotis sono talora associate altre specie fossili, più difficilmente identificabili dai non specialisti (Berti Cavicchi et al. 1971; Benini et al. 1974).

La lumachella di San Vitale è stata ovviamente molto usata a Verona e nella sua provincia, dove compare esclusivamente in interni, specie di edifici ecclesiastici. Non risultano, se non rari, esempi di uso in esterni, in quanto si sarà constatato da subito non solo il cambiamento di colore che provoca l’acqua piovana su tutte le sue facies, ma anche il forte deterioramento fisico che col tempo ne consegue, legato agli effetti di dilatazione/contrazione reticolare dei minerali argillosi a reticolo espandibile in essa presenti (Lazzarini et al. c.d.s.). Quest’uso di molto prevalente per interni, è una costante in tutti i suoi impieghi. A Verona se ne possono vedere esempi nel Duomo, più precisamente nelle due cappelle del Santissimo e della Madonna del Popolo, nelle chiese di San Bernardino (altare di San Pietro), Sant’Anastasia, Santa Maria in Organo, Sant’Eufemia, San Zeno, dove l’altare barocco della Pietà (1621) era già in opera nella distrutta chiesa di San Procolo (Brugnoli 2002).

Fig. 4 - Le colonne, gli specchi e i gradini della varietà nera di lumachella di San Vitale nell'altare della Cappella del Rosario della Chiesa di Santa Corona a Vicenza.

Questa lumachella non è invece molto usata, come ci si sarebbe potuti aspettare, a San Vitale, il toponimo che le ha dato il nome, dove solo quattro piccole colonnine decorano due altari barocchi della locale chiesetta, e nessuna nelle vecchie case e tombe del cimitero; va peraltro notato che il mancato uso delle pietre di pregio nelle località poco importanti vicini alle cave è una costante sin dall’antichità, dove tali materiali solitamente costosi erano del tutto o quasi destinati all’esportazione. Decisamente più presente è invece nella monumentale parrocchiale di Roveré Veronese (il paese dei cavatori: Zanini, Campara 1987 e 1993) dove quasi tutti gli altari seicenteschi hanno colonnine e specchi decorativi di questa pietra.

La lumachella di S. Vitale inizia a essere esportata dai Lessini, probabilmente via fiume Adige, a partire dalla fine del Quattrocento e, a giudicare dagli esempi d’uso noti a chi scrive, raggiunge il maggior numero di località e l’apice di impiego nel Seicento. A Vicenza un suo spettacolare impiego si può vedere nella Cappella della Madonna del Rosario all’interno della Chiesa di S. Corona, dove le due grandi colonne  dell’altare (alte più di 4 m; fig. 4), oltre alle due più piccole retrostanti accoppiate ad altrettante paraste, gli specchi quadrati delle loro basi e di quelle delle statue laterali, nonché le lastre rettangolari in più ordini sulle pareti laterali della cappella, sono stati ricavati nella varietà nera di lumachella di S. Vitale con grandi fossili bianchi. Anche i quattro scalini dell’altare sono di questa stessa pietra, che nel complesso crea nella cappella un fastoso effetto decorativo.

Questa lumachella compare a Venezia, forse per la prima volta, nelle colonne della quadrifora di Palazzo Moro-Lin sulla parete che affaccia sul Rio di San Polo, che datano ai primissimi anni del XVI secolo (Lazzarini 2010, 79). Le colonne di questo palazzo sono molto imbiancate dall’esposizione e scolorate dall’acqua piovana, e testimoniano della scarsa resistenza agli agenti atmosferici della lumachella di San Vitale. Altri esempi di ancor più grave deterioramento si possono vedere nei balaustri originali rimessi in opera nella Loggetta del Campanile di San Marco dopo il crollo del 1902.

La lumachella di San Vitale diverrà successivamente molto abbondante in interni, prevalentemente sottoforma di colonne, e per lo più nell’olotipo grigio, nel pieno Cinquecento e Seicento: basti citare il caso della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo (Pavanello 2012) che ne ha in opera nella Cappella del Nome di Dio quattro di molto grandi (circa 5 m di altezza per 50 cm di diametro alla base), e altrettante di più piccole (di 3,50 m per 35 cm di diametro) di straordinaria bellezza (fig. 5). Nello stesso periodo la troviamo anche impiegata sotto forma di specchi di altari e in lastre di decorazione parietale: le più belle e abbondanti sono nell’Aula Magna dell’Ateneo Veneto, dove la varietà grigia dei fondi è alternata a parastine della varietà rosso-bruna (fig. 6), con basetta e capitellino in marmo di Carrara, e a specchi a rilievo di forma rettangolare della stessa lumachella rosso-bruna e di macchia vecchia veronese[3].

Fig. 5 - Due delle colonne piccole della cappella del Nome di Dio nella Basilica dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia.
Fig. 6 - Lastre di fondo della varietà grigia e bugnato della varietà rossa di lumachella di San Vitale in una parete dell'Ateneo Veneto a Venezia.
Fig. 7 - Fascia di lumachella di San Vitale minuta nel pavimento della navata centrale della Basilica di San Marco.

La nostra lumachella è stata frequentemente utilizzata anche in lastre tombali, ad esempio a San Francesco della Vigna, dove nel presbiterio è sepolto il doge Andrea Gritti, tra i più illustri che ebbe Venezia, e ai SS. Giovanni e Paolo (bella lastra della varietà rossa in terra, davanti alla tomba di Alvise Trevisan), e in tondi, basti citare quelli molto grandi e di bella qualità nel pavimento della Chiesa di San Salvador (Lazzarini 2010, 64, fig. 9). Mattonelle di varia forma e dimensione sono in pavimenti e pareti di molte chiese, ad esempio nelle pareti ai lati dell’ingresso principale interno e nel pavimento della navata centrale della Basilica di San Marco (fig. 7), dove l’abbondante uso della nostra pietra è forse da mettere in relazione ai consistenti restauri/rifacimenti di Jacopo Sansovino, nominato proto della basilica nel 1529 (Lazzarini 2012, 65). Il Sansovino dimostra di aver avuto un particolare apprezzamento per la lumachella di San Vitale se la scelse per i balaustri (come detto, ora deterioratissimi) della Loggetta del Campanile di San Marco, dove era alternata al broccato rosso di Verona: questo esempio d’uso è uno dei pochissimi in esterno della nostra pietra.

Gli esempi veneziani sono così numerosi da renderne lungo (e probabilmente noioso per il lettore) un elenco: tra i più notevoli basti ancora ricordarne le lastre a specchio nella Cappella di Palazzo Grimani a Santa Maria Formosa, e di rivestimento pavimentale del coro della Chiesa di San Giorgio Maggiore, e i balaustri della rampa superiore della Scala d’Oro di Palazzo Ducale, dove la nostra pietra è alternata, ancora una volta, alla macchia vecchia veronese, ed è presente negli specchi di altri pianerottoli delle scale (ad esempio in quelli del primo Seicento che portano alla Sala dello Scrutinio). Uno degli esempi più recenti di impiego a Venezia della lumachella di San Vitale è nel Palazzetto Stern, edificato in stile neoromanico sul Canal Grande nel 1910-1912, ampliato con l’aggiunta di un secondo piano attorno al 1930: è qui, sulle scale, che si può notare una colonnina della varietà gialla della nostra pietra.

Sono molti gli esempi d’uso di questa lumachella fuori regione: basti citare quelli nella chiesa di San Lorenzo a Torino; le due colonne e gli specchi giallo-rossi nel primo altare a destra del Duomo di Ravenna e l’acquasantiera della stessa varietà della Chiesa di San Giovanni Battista nella medesima città; gli specchi della chiesa di San Pietro della Valle a Fano (Antonelli et al. 2003).

Le cave antiche e moderne

La formazione a Lithiotis problematica Gümbel è piuttosto estesa geograficamente, suoi affioramenti interessando non solo le Prealpi delle province italiane di Verona, Vicenza e Trento, ma anche le Dinaridi settentrionali della Slovenia (Ramovš 1998; Buser, Debeljak 1996). Essa è senza dubbio la più abbondante delle tre litofacies qui considerate, e pur essendo in strati di potenza limitata (affiora in strati al massimo di circa due metri di spessore, talora in livelli multipli e paralleli tra loro: Masetti et al. 1998), raramente indisturbati tettonicamente per grandi estensioni orizzontali, ha comunque consentito l’estrazione al verso di colonne di dimensioni ragguardevoli (fino a sei metri di lunghezza), e di blocchi di spessore superiore al metro dalle bancate meglio conservate.

Le cave antiche, come è noto, sono databili solo se conservanti iscrizioni sui fronti estrattivi abbandonati, o sulle facce dei blocchi estratti, o se vi sono mantenute tracce di strumenti tipici (ad esempio picchi, asce, subbie, ecc.) impiegati per la coltivazione di cui sia nota l’età d’uso. Una ulteriore possibilità di datazione è legata all’esecuzione di scavi esplorativi in cava, o nei detriti/ravaneti connessi, che possono aver conservato frammenti di materiali, ceramici e non, in qualche modo databili e attestanti i periodi di sfruttamento della cava stessa. Nelle cave postmedievali e moderne le citate prime tracce di frequentazione umana sono generalmente assenti, e le seconde rarissimamente ricercate. A questa regola non sfuggono anche le cave delle pietre qui indagate. Per datarle ci si potrebbe solo basare su documenti di locali archivi, parrocchiali e non, o su testimonianze raccolte in situ da anziani cavatori. Ricerche di questo tipo, soprattutto le seconde, sono state in qualche caso svolte, fornendo però solo dati limitatissimi (Zanini, Campara 1993).

In generale, le cave veronesi delle tre lumachelle sinora ritrovate sono state impostate lungo i “vaj”, profonde vallecole incise da torrenti che ne hanno messo in luce gli strati, rendendo così più facilmente apprezzabile lo spessore degli strati stessi e la qualità della pietra. Tutte le cave sono da più o meno lungo tempo abbandonate (essendo state effettuate in qualche località una trentina di anni fa), e nella maggior parte dei casi ampiamente rinaturalizzate, cioè ricoperte più o meno completamente da detriti e vegetazione (piante e muschi), e quindi difficilmente rintracciabili e comunque non databili. Tra le più importanti sono quelle nei dintorni di San Vitale (fig. 8), piccolo paese che ha dato il nome alla valle omonima dove forse sono state aperte le cave più antiche, presso Roveré Veronese e nella vicina località Pianette, in Val Squaranto, presso il Monte Pastello, presso Badia di Calavena, nei progni di Bellori e Grezzana, a Cadine e Sardagne, e in località Remul poco lontano da Castion di Rovereto.

Fig. 8 - Localizzazione dei paesi di San Vitale e Roverè Veronese a NO di Verona.
Fig. 9 - Un piccolo fronte della cava di lumachella di San Vitale a SO di Roverè Veronese.
Fig. 10 - Due grandi blocchi di lumachella abbandonati presso la cava di cui alla fig. 9.

Le cave di Roverè Veronese sono site presso il locale Vajo a Sud-Ovest del paese poco dopo il cosiddetto “Ponte Grande”, a un’altitudine di 690 m s.l.m. (N 45° 35.476’, E 011° 03.255’). Esse si snodano lungo affioramenti a quote diverse, ma ben visibili dalla mulattiera che sale verso contrada Arzare; la potenza massima delle bancate con banchi fossiliferi è stimabile in circa un centinaio di metri. La lumachella qui è della varietà più comune grigio-scura (fortemente ossidata ed erosa superficialmente, con i fossili in rilievo), ed è stata estratta in aree di media (alcune decine di metri di fronte) e piccola estensione: le prime sono quasi del tutto ricoperte da detriti e arbusti, le seconde meglio visibili (fig. 9). Della lumachella sono presenti numerosi blocchi, alcuni perfettamente squadrati (fig. 10); altri semilavorati sono abbandonati lungo la mulattiera stessa, o presso gli affioramenti. Uno dei blocchi più grandi e regolari ha forma triangolare, e dimensioni di 3 x 1,8 x 1,10 m.

La cava forse di maggior dimensioni tuttora visibile si trova poco lontano dalla prima, in località Pianette, e si raggiunge scendendo da S. Vitale sino a San Rocco di Piegara, poco lontano dall’incrocio per Monti di Sopra e dall’abitazione della famiglia Guglielmini proprietaria della cava stessa. La cava si trova a 500 m s.l.m. ed è localizzabile al GPS con N 45° 32.934? E 011° 04.495. Presenta ancora un fronte alto circa 8-10 m (fig. 11) con banchi fossiliferi spessi 2 m (fig. 12) e lunghi circa una dozzina di metri con ancora ben evidenti tracce estrattive moderne mediante “fioretto”, risalenti agli anni ’90 del secolo scorso. La lumachella qui estratta è di un bel colore da grigio a giallino, a luoghi tendente al rosso o al verdognolo.

Fig. 11 - Il principale fronte di cava di lumachella di San Vitale alle Pianette.
Fig. 12 - Particolare del banco più spesso della cava delle Pianette, con in rilievo i gusci fossili delle Lithotis.
Fig. 13 - Un particolare della cava di lumachella di San Vitale a Remul di Castion di Rovereto, con ampio piazzale antistante.
Fig. 14 - Blocchi squadrati e abbandonati a Remul.

Nel roveretano, più precisamente in località Remul di Castion, sono presenti piccole cave che, come a Roverè Veronese, sono state impostate su affioramenti di spessori limitati (5-10 m, fig. 13) con bancate al massimo di un metro. Ne sono stati estratti principalmente blocchi, molti dei quali perfettamente squadrati e sicuramente cavati in antico (a giudicare dal forte deterioramento della pietra), che sono tuttora abbandonati nel bosco, poco lontano dalle cave (fig.14). In generale, in tutte le cave l’estrazione di queste lumachelle avveniva soprattutto al verso, cioè parallelamente alla stratificazione e al naturale orientamento (deposizione) in strati isoparalleli delle conchiglie fossili, sia per la maggiore facilità estrattiva, sia per valorizzarne l’aspetto decorativo. Le valve delle Lithiotis, infatti, nelle colonne appaiono allineate proprio in verticale con il fusto delle colonne, creando un bellissimo effetto decorativo.

Le lumachelle occhio di pernice

Fig. 15 - Aspetto tipico della lumachella occhio di pernice.

È una lumachella che prende il nome (anche dialettale: “ocio de pernise”) dalla somiglianza delle piccole (millimetriche) conchiglie fossili bivalvi (Terebratule) che la compongono, di colore grigio scuro e forma spesso circolare, con l’occhio della pernice (fig. 15). Dette conchiglie sono abbondantissime, per lo più integre, anche se in valve quasi sempre separate, e si stagliano più o meno nettamente su un cemento/matrice di colore beige-marroncino, talora decisamente bruno, o rossastro (a luoghi) e solcato da vene biancastre di calcite secondaria, creando un bell’effetto decorativo.

Fig. 16 - Colonnina di lumachella occhio di pernice all'ingresso del Palazzetto Stern, Venezia.

Questo calcare fossilifero è molto compatto, tanto da resistere alla compressione fino a 460 kg/cmq (Carraro 1967), e quindi utilizzabile come pietra da taglio, ed è ben lucidabile. L’occhio di pernice iniziò a essere estratto pressoché contemporaneamente alla lumachella di S. Vitale, e ad essere impiegato in rare colonnine, ma soprattutto in lastre per tondi e specchi di altari, per specchi parietali e per rivestimenti pavimentali, oltre che in ancor più rare opere scolpite come il famoso gobbo reggi-acquasantiera della Chiesa di Sant’Anastasia a Verona.

Questa lumachella arriva a Venezia agli inizi del Cinquecento: si ritiene di avere una data precisa, il 1508, quando si misero in opera due colonnine (alte circa 2,5 m, con un diametro di circa 25 cm) sull’altar maggiore della Chiesa di San Giovanni Grisostomo, ai lati della Sacra Conversazione di Sebastiano del Piombo. Sempre a Venezia essa si può vedere in numerose mattonelle, talora sagomate a formare figure geometriche o elementi floreali nei pavimenti della Basilica dei Santi Giovanni e Paolo (Cappella Invernale), nella Chiesa di S. Giorgio Maggiore e in quello della Sala Grande della Scuola di S. Rocco. Frequente è anche il suo impiego in disegni a commesso di pale d’altare, come a S. Maria del Giglio, dove spesso viene utilizzata specialmente per rendere (non a caso?) il piumaggio di uccellini. Il più recente esempio d’uso a Venezia è nell’ingresso del già citato proto-novecentesco Palazzetto Stern, ove è presente una bella colonnina di circa 3 m di altezza per 25 cm di diametro (fig. 16). Anche questa lumachellina è frequentemente presente in litoteche ottocentesche, ed è stata esportata in varie regioni italiane: essa è ad esempio presente nel Duomo di Monza, e in quello di Ravenna (in uno stemma nel pavimento della seicentesca cappella del transetto a sinistra dell’altar maggiore).

Le cave antiche

Le cave note della lumachella occhio di pernice non sono numerose, anche per la piccola potenza (attorno al metro) degli strati fossiliferi della relativa formazione. Tra quelle note vengono descritte le cave di Val Pernise (nel comune di Lugo di Valpantena), il cui nome si riferisce proprio alla pietra che vi era estratta, che sono senza dubbio le più grandi e più facilmente raggiungibili trovandosi quasi all’imboccatura della valle, sul fianco sinistro. Esse hanno un fronte di cava lungo una trentina di metri (fig.17) per un’altezza di una ventina (fig. 18): una estrazione moderna piuttosto caotica, e il cattivo stato di conservazione delle superfici lapidee ora parzialmente invase dalla vegetazione, hanno cancellato ogni traccia di cavatura antica, tanto che si fa fatica a individuare e distinguere i livelli fossiliferi da quelli del calcare grigiastro che li ingloba. La lumachella si rinviene ora solo in piccoli pezzi nei resti del vecchio ravaneto antistante il fronte di cava: ha il classico colore grigiastro-beige di massa, con i fossili, al massimo centimetrici, di colore grigio scuro. Altre cave, sempre di piccola dimensione, sono sul Monte Novelé (Stallavena) e nel Vajo del Paradiso (Grezzana) (Carraro 1967).

Fig. 17 - Scorcio del fronte basso della cava di occhio di pernice in Val Pernise (Verona).
Fig. 18 - Il fronte alto della stessa cava di cui alla fig. 17.

L’astracane veronese

Il nome di questa lumachella deriva dalla sua notevole somiglianza con l’astracane (o castracane) antico usato dai romani e di origine numidica, più precisamente dai pressi dell’antica città di Thuburbo Maius in Tunisia (Lazzarini, Mariottini 2012, 448). Questo a sua volta prende il nome dal somigliare le sue piccole (centimetriche) conchigliette fossili ricurve al pelo arricciato della pelliccia di Astrakan (Gnoli 1988, 203-204). Dell’astracane antico esistono due varietà, una dorata (giallo-bruniccia), con fossili di molluschi bivalvi (tra cui ostree) (fig. 19) e più rari gasteropodi, alla quale é riconducibile la veronese (fig. 20), e una rossa, molto più rara e pregiata, con maggioranza di piccoli gasteropodi, ambedue probabilmente facies diverse di una stessa formazione geologica (Lazzarini, Mariottini 2012). La pietra tunisina è rarissima nei monumenti romani, e solitamente in piccole pezzature rinvenendosi solo sottoforma di massi fluviali: è stata quindi usata solo per altrettanto piccoli manufatti del I sec. d.C., ad esempio in alcune mattonelle pavimentali ancora in posto nella Casa dei Cervi di Ercolano (fig. 19), e per un’urna cineraria a cassetta di Tiberio Claudio Malitone, medico dell’imperatore Germanico, conservata nel Museo Nazionale Romano (Museo delle Terme di Diocleziano, inv. 20). Essa è comunque spesso presente nelle più complete litoteche ottocentesche, ad esempio nelle collezioni Belli (1842), De Meester De Ravenstein (1884), Grassi (Dolci, Nista 1992) e Feliciani, ora a Berlino (Mielsch 1985).

L’astracane veronese si presenta come una lumachella a gusci grigi (o bianchi, quando sostituiti da calcite secondaria) del brachiopode Terebratula rotzoana generalmente di dimensione pluricentimetrica, ben conservati e abbondanti, mostranti spesso sezioni cuoriformi, con valve quasi sempre separate che si stagliano su un fondo giallo-bruniccio, talora con fiammature rossicce, ben compatto e a grana finissima (fig. 20). Non manca una varietà a matrice/cemento nero su cui si stagliano terebratule biancastre (fig. 21), talora in letteratura erroneamente denominata ‘occhio di pavone bianco o bigio’ (Sironi 1989), che dovrebbe piuttosto essere chiamata ‘astracane nero’. Price (2007) riunisce sotto il termine astracane veronese anche la lumachella ‘occhio di pernice’.

Fig. 19 - L'astracane giallo antico in una mattonella esagonale di opus sectile nella Casa dei Cervi a Ercolano.
Fig. 20 - Aspetto macroscopico dell'astracane giallo veronese.
Fig. 21 - Aspetto macroscopico dell'astracane nero veronese.

Questa lumachella è ricordata da Agostino del Riccio nel 1587 (Gnoli, Sironi, 1996) come proveniente dalle montagne vicine a Verona. In generale, è relativamente più comune dell’astracane antico, sia in natura che in opere dell’uomo, pur essendo gli affioramenti sui monti veronesi anch’essi di limitate dimensioni, tanto da consentire la cavatura di blocchetti utili solo per balaustri, acquasantiere, cornici e specchi di altari. Dei primi, e dell’esportazione di questa pietra veronese in età barocca, vi è importante testimonianza a Roma nell’altare maggiore della Chiesa di Sant’Andrea della Valle (Gnoli 1988, 203, nota 2; Price 2007, 161), ciò che ha portato a un altro nome con cui questa pietra è nota, e cioè “lumachella di Sant’Andrea”, secondo la consuetudine dei marmorari romani dell’800 di denominare le pietre di provenienza incognita in base all’esempio più notevole a loro noto nei monumenti della Capitale. Questo nome è quello solitamente riportato nelle litoteche ottocentesche confezionate a Roma, ove la nostra pietra è frequentemente presente. L’astracane vero, spesso denominato “dorato” (Price 2007), e quello veronese infatti, come detto, sono quasi sempre presenti nelle più importanti collezioni di pietre antiche formate nell’Ottocento (sul collezionismo storico di pietre antiche si veda Mariottini 2004). L’astracane di Verona è ben rappresentato in una collezione (tardo ottocentesca?) di pietre veronesi conservata nel Museo di Mineralogia dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Per quanto riguarda la varietà nera di astracane veronese, forse più comune della dorata, una bellissima lastra costituisce un paliotto d'altare settecentesco nella Parrocchiale di Roverè Veronese (fig. 22); specchi e balaustri sono presenti nella Chiesa di Castion di Rovereto, e mattonelle della stessa pietra si possono vedere accoppiati in un bel contrasto a broccato rosso di Verona in una pedana d'altare nella Chiesa di S. Martino a Chioggia (fig. 23).

Fig. 22 - Lastra del paliotto di un altare della Chiesa di Roverè Veronese.
Fig. 23 - Mattonella in pedana di altare della Chiesa di San Martino a Chioggia.

Le cave antiche

Affioramenti della varietà classica di colore beige di questa lumachella sono piuttosto comuni in varie località dei Monti Lessini e fin sulle propaggini orientali del Lago di Garda. Essi sono, come detto, per lo più di modeste dimensioni, al massimo di pochi decimetri fino a circa un metro di potenza, e quindi poco adatti alla cavatura di blocchi, cosa che ha influito sulla dimensione, in genere piuttosto ridotta, dei manufatti da essi ricavabili. In generale tali affioramenti sono spesso associati a quelli di lumachella di San Vitale, essendo ambedue le formazioni di età liassica. Piccoli affioramenti, forse sfruttati in antico, sono presenti tra Torri del Benaco e San Zeno di Montagna. Non si è riusciti ad oggi di identificare sul terreno alcuna vera e propria cava antica o moderna di questa pietra.

Ringraziamenti

Si ringrazia vivamente la dott.ssa Anna Maria Ferrari per la preziosa collaborazione nella ricerca e individuazione di molte delle cave antiche e moderne delle lumachelle qui studiate. Questo lavoro è stato in buona parte eseguito nell’ambito del progetto IUAV_ LAB “Laboratori di innovazione per l’Architettura” cofinanziato da Regione del Veneto POR, parte FESR, 2007-2013, azione 1.1.1, WP 4 “Tecnologie, processi di intervento e prodotti per la conservazione dei materiali lapidei e litoidi nei manufatti storici”.

Note

[1] Si citano in ordine alfabetico i principali nomi dei litotipi ancora in commercio: biancone, broccato, broccatello, bronzino, giallo reale, giallo Torri, giallo-turchino di Torri, nembro, rosa corallo, rosso magnaboschi, verdello, cui andrebbe talora aggiunto “di Verona”. Su questi v. Albertini 1991, 33-43.

[2] I nomi di tali calcari si rifanno alle località d’origine. Un litotipo ben noto appartenente agli stessi livelli eocenici è la pietra gallina, su cui v. Nicolis 1900, 12-13.

[3] Nella pur nutrita letteratura scientifica relativa all’architettura dell’Ateneo Veneto, sorto come noto due secoli fa in quella che era la Scuola di San Fantin (v. da ultimo Zucconi 2012), non si parla del sontuoso rivestimento marmoreo delle pareti dell’Aula Magna, un unicum per la tipologia dei materiali, sicuramente coevo al resto della fabbrica che si colloca alla fine del XVI secolo (le fonti documentarie indicano che essa era completata nel 1604).

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English abstract

Three important lumachelle (fossiliferous limestones) from the Veronese mountains (North-East Italy), namely the lumachella di San Vitale, the occhio di pernice and astracane Veronese, all dating to the Lower-Middle Lias and largely used as decorative stones from the 15th to the 19th c., have been here described and their geographic distribution discussed. Their origin and geological features have been determined with new data for the ancient quarries exploited in the provinces of Verona and Trento.

 

keywords | Lumachelle; Mountains; Fossiliferous limestones; Verona; Trento.

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Lazzarini, Le lumachelle veronesi: storia d’uso e diffusione dal XV al XX secolo, geologia, cave antiche e moderne, “La Rivista di Engramma” n. 117, giugno 2014, pp. 151-168 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.117.0002