"… noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell'animale": con simili accenti di devastante malessere il pittore britannico Francis Bacon denuncia il proprio disagio esistenziale. (Sylvester 2003, 42)
Questo esergo sarà la traccia per delineare un percorso figurativo topico, in cui si cela l’allusione sinistra alle lame dell’Appeso e della Morte, che ha attraversato temporalmente l’intero secolo appena trascorso. L’archetipo iconografico risale al XVI secolo, ai quadri “di genere” dei nostri manieristi e dei fiamminghi: ai quarti di bue delle macellerie bolognesi apparecchiate da Bartolomeo Passarotti [fig. 1] o Annibale Carracci [fig. 2], con quei tagli di carne esibiti come trofei da garzoni caricaturali e grotteschi. Ma è soprattutto al rembrandtiano animale squartato – drammaticamente affiorante dalla penombra di una bottega nei Paesi Bassi [fig. 3] – che rimanda l’inquieta e inquietante variazione sul tema concertata da numerosi artisti europei del Novecento.
È una vertigine nichilista: l’horror vacui dell’uomo contemporaneo che si affaccia a strapiombo sul perché dell’Essere. Le prime crepe nelle certezze del razionalismo illuminista e positivista si aprono con le allucinate veggenze nietzscheane e il paradosso è il codice di accesso alla soluzione degli enigmi formulati dalla sfinge tebana. Riconoscere i greci “superficiali per profondità” (Nietzsche [1882] 2003, 35) sottintende il guizzo sapienziale di una cultura che ha conosciuto lo smarrimento del nulla, il buio dell’abisso e che, per autodifesa, per scongiurare il naufragio ha scelto di arrestarsi alle increspature del mare in superficie. Questo pessimismo ha radici più antiche; narra il mito che il vecchio saggio Sileno, catturato dal re Mida per carpirgli il segreto della felicità, rispose: “Perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non udire? La cosa migliore è per te totalmente irraggiungibile: non essere nato, non essere, non essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te – è morire presto” (Nietzsche [1872] 1991, 126). L’assillante interrogativo sull’Essere e l’incombenza della morte, sono brusii di fondo che aleggiano sull’intero pensiero heideggeriano. Liaison tra i due termini, per il pensatore della Selva Nera, diviene: Sein Zum Tode, “essere per la morte”, racchiusa in una fulminante citazione da Der Ackermann aus Böhmen: “L'uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire” (Heidegger [1927] 2005, 295). Del resto questo è il filo conduttore che da Soutine si snoda lungo tutto un secolo (devastato da due guerre mondiali, catastrofi, terrorismo, globalizzazione della paura) e porta, fatti i dovuti distinguo, ai concettualismi di Hirst.
Apripista della rivisitazione del bue macellato di Van Rijn è il piemontese Lorenzo Delleani che negli anni Ottanta del XIX secolo, folgorato dal viaggio per le pinacoteche del nord Europa, ne ripropone l’impianto in una tavoletta del 1881 [fig. 4] preparatoria al quadro dell’anno successivo Sotto Natale (o La macelleria), conservato al fiorentino Palazzo Pitti. Più noto è l’episodio del 1925 quando il bielorusso Soutine – a Parigi dal 1913 e che ammira Rembrandt al Louvre – acquista al mattatoio una carcassa di bue e la porta nel suo atelier. Preso da furore creativo, resta chiuso quattro giorni e altrettante notti a dipingere senza posa quel modello ormai putrescente, irrorandolo di tanto in tanto con sangue fresco che ne ravvivi il colore illividito. I vicini protestano inutilmente per i miasmi che si propagano dalla stanza appestata; deve intervenire la gendarmeria per farsi aprire la porta e trascinare via l’animale. Chaïm Soutine riesce a farne addirittura quattro versioni, sparse fra Europa (Amsterdam, Grenoble [fig. 5]) e Stati Uniti (Buffalo, Minneapolis). I colori grumosi, sfatti, quasi purulenti come la carne già guasta che viene rappresentata in quelle tele, ci raccontano di una personalità devastata dall’inquietudine, solitaria e ipocondriaca, graffiata dal “male di vivere”. Negli anni Trenta, anche alcuni pittori del panorama italiano si accostano al medesimo tema, allo stesso input iconico di ascendenza rembrandtiana: con identico titolo di Bue squartato si annoverano infatti le tele di Mario Mafai [fig. 6], Renato Guttuso [fig. 7], Bruno Cassinari [fig. 8], quest’ultimo però meno cruento, quasi elegante nelle nuances cromatiche, se confrontato con i suoi omologhi. In Mafai e in Guttuso balenano alcune accensioni espressioniste, eppure anche per loro sembra quasi trattarsi di esercitazioni di stile.
Ben altro imbarazzo caratterizza l’approccio all’arte dell’irlandese Bacon, che già nei primi anni di dopoguerra [fig. 9] accosta la propria condizione umana – questo suo sentirsi “carne da macello” (v. esergo) – alla messa in scena di laceri brandelli di bestie squartate e inchiodate, in una sorta di parallelo tra il marcire della materia ed i guasti interiori di un’anima ferita. Il tema sarà riproposto anche a distanza di qualche anno [fig. 10], quasi metafora di una immonda crocefissione laica. Ebreo e bielorusso come Soutine è Marc Chagall, anch’egli a Parigi negli anni Venti e Trenta del secolo scorso: è lui che ha fatto scoprire Rembrandt al pittore suo conterraneo e correligionario. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale emigra negli Stati Uniti e qui, nello spaesamento spazio-temporale che lo stile di vita americano può produrre, riaffiorano i ricordi dell’infanzia, del villaggio d’origine, delle tradizioni giudaiche. Riemerge così, dalla vasca di decantazione della memoria, il bue agganciato a testa in giù [fig. 11] per far colare, dalla giugulare recisa con un taglio netto, tutto il sangue sino all’ultima stilla, come prevede il rituale “kosher” conforme alla Torah e come aveva visto fare dal nonno, macellaio a Vitebsk (Misiano 2009, 36). Appena un anno dopo il nostro de Chirico – che nel secondo dopoguerra ripercorre le tappe del barocco – ce ne dà una virtuosistica reinterpretazione, con l’occhio rivolto alle febbricitanti nature morte dei fiamminghi, nel goyesco Abbacchio macellato [fig. 12] del 1948, ove i rimandi all’Aragonese sembrano qualcosa di più che una fortuita coincidenza [fig. 13].
Siamo alle soglie degli anni Cinquanta, anni in cui l’Esistenzialismo, nella sua declinazione francese che fa capo a Sartre, oltre che movimento filosofico è un filone letterario-culturale che va dalla narrativa alla musica, dal cinema alla moda. In Italia Curzio Malaparte suscita scandalo e accende polemiche con il romanzo La pelle pubblicato nel 1949, nel quale racconta i devastanti orrori della guerra da poco lasciata alle spalle, mescolando le storie individuali con il dramma collettivo di un intero continente.
“In mezzo alla strada, lì, davanti a me, giaceva l’uomo schiacciato dai cingoli di un carro armato […] Era un tappeto di pelle umana e la trama era una sottile armatura ossea, una ragnatela d’ossa schiacciate. Pareva un vestito inamidato, una pelle d’uomo inamidata. Quando il tappeto di pelle umana fu del tutto staccato dalla polvere della strada, uno di quegli ebrei lo infilò dalla parte della testa sulla punta della vanga e con quella bandiera si mosse […] E io dissi a Lino Pellegrini che mi sedeva accanto: “E’ la bandiera dell’Europa, quella, è la nostra bandiera […] Una bandiera di pelle umana. La nostra patria è la nostra pelle” (Malaparte [1949] 2007, 284-285).
Ancora in quegli anni Cinquanta, due artisti diversi per nascita e per formazione, l’italiano Leonardo Cremonini [fig. 14] e l’ellenico Panayòtis Tetsis [fig. 15], attingono all’archetipo rembrandtiano nella variante rivisitata da Soutine. Tetsis si forma ad Atene alla scuola della cosiddetta “Generazione del Trenta” che in Grecia elenca nomi di rilievo come Ghykas, Moralis e Tsarouchis, e con loro aderisce al gruppo artistico “Armòs”. Decisivo sarà il lungo soggiorno parigino tra il 1953 e il 1956 (Tetsis 2003), periodo cui data la tela della Ethnikì Pinakotiki qui presentata. Suo coetaneo è il bolognese Cremonini, che dopo il viaggio di formazione nella capitale francese nel 1951 si apre al mercato internazionale più aggiornato. Valsecchi, nel recensirlo, riconosce nelle sue “carene di tori e bovi uccisi in prospettive di vertigine, gelide e insanguinate” la concretezza e la forza “delle sculture di Marino” col quale “hanno in comune l’origine gotica” (Cremonini 1960). Tutt’altro vento soffia oltreoceano. La Pop Art degli anni Sessanta riesce a dare del tema una lettura sdrammatizzata, con lievità da fumetto ma con sguardo irridente al consumismo e all’industrializzazione americani, utilizzando gli stessi meccanismi subliminali della cartellonistica pubblicitaria. La carne messa sul piatto da Roy Lichtenstein [fig. 16] è solo un “prodotto” pronto per essere “consumato”, ultimo anello della catena commerciale, asettico e plastificato, ove non c’è quasi più traccia o tossina dell’animale macellato, di cui è solo un derivato alimentare.
Negli anni Ottanta del secolo scorso, attraversati dalla elettrizzante corrente delle nuove avanguardie sperimentaliste, Jannis Kounellis, artista greco trapiantato a Roma, capofila dell’Arte Povera, arrischia uno sfacciato aggancio alla brulicante materia in disfacimento con il suo Senza titolo del 1989 [fig. 17], allestito quell’anno a Barcellona. La sua non è più“rappresentazione” ma provocatoria presentazione di una cruda, offensiva verità. Infine è Damien Hirst – controverso e discusso ex Young British Artist, ormai affermato e milionario, finito nel tritacarne dello show-business – negli anni Novanta del XX secolo, a riproporre il tema della morte, questa volta interpretato come shock irriverente e provocatorio, come spettacolarizzazione “pop” della morte, in una società dei consumi che tutto consuma, anche se stessa. Con le sue installazioni (animali morti immersi in formaldeide, sigillati in teche di cristallo e acciaio), con quell’autentico agnello sacrificale in croce [fig. 18], inscena più il disgusto che il terrore della morte, nel tentativo di scuotere una società edonista tesa a rimuovere, ad allontanare da sé ogni sgradevolezza, ogni accenno al dolore dell’esistenza. E’ ciò che Hirst definisce: L'impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo (Hirst 1992). Il conterraneo e quasi coetaneo – ma non altrettanto famoso – John LeKay gli ha mosso l’accusa di plagio (Alberage 2007), vantando un preteso ma oppugnabile copyright da parte del suo Questo è il mio corpo, datato 1987 [fig. 19], visto che entrambi sono, in qualche modo, debitori nei confronti di illustri precedenti come Bacon e Rembrandt; ed entrambi palesano sincronicità (per usare un sostantivo caro a Jung) con suggestione figurative in ordine sparso, caratteristiche delle avanguardie di quegli anni. Basti pensare all’eclettico Jodorowsky della Montagna sacra (film underground del 1973) e a quello sfilare di macabre carogne scuoiate, infilzate come martiri crocefissi [fig. 20].
Del resto anche per lo stesso Rembrandt esistono indiscutibili richiami al Suino macellato del manierista belga Joachim Beuckelaer risalente al 1563 [fig. 21], cioè antecedente di molti decenni, quasi a voler chiudere un itinerario figurativo a secolare svolgimento concentrico, in quell’eterno ritorno della paura dell’ignoto che indusse i Latini a sentenziare: Deos fecit Timor (Pianezzola 1974, 235-253).
Come la Baubo evocata da Nietzsche (Nietzsche [1882] 2003, 35) l’artista alza impudicamente le vesti e mostra una realtà che l’uomo contemporaneo preferisce non vedere; che è “oscena” solo per chi ha perduto i contatti – per dirla heideggerianamente – con l’autenticità dell’essere e finge di aver dimenticato che la dualità del mondo e del divenire si regge in equilibrio funambolico sull’asse del vivere-morire. Gli interrogativi aurorali di sempre circa l’essere e il nulla riverberano l’incalzante partita a scacchi tra il cavaliere crociato e la Morte nel Settimo sigillo di bergmaniana memoria (Bergman 1994). Quasi ekphrasis della immaginaria galleria appena ricostruita per associazioni visive alla maniera di Warburg, vengono in soccorso i versi di un esordiente Borges nell’Argentina di primo dopoguerra, il cui titolo, Carnìcerìa, si pone come vera e propria epigrafe di questo nostro excursus.
Macelleria
Più vile di un lupanare
la macelleria sigilla come un affronto la strada.
Sopra l’architrave
una cieca testa di vacca
presiede il sabba
di carne sgargiante e marmi finali
con la remota maestà di un idolo.
Jorge Luis Borges, Fervore di Buenos Aires,1923
(Borges [1923-76] 2004, 62-63)
Galleria
Bartolomeo Passarotti o Passerotti |
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Annibale Carracci |
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Rembrandt van Rijn |
Lorenzo Delleani |
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Chaïm Soutine |
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Mario Mafai |
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Renato Guttuso |
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Bruno Cassinari |
Francis Bacon |
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Francis Bacon |
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Marc Chagall |
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Giorgio de Chirico |
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Francisco Goya |
Leonardo Cremonini |
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Panayòtis Tetsis |
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Roy Lichtenstein |
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Jannis Kounellis |
Damien Hirst |
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John Lekay |
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Alejandro Jodorowsky |
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Joachim Beuckelaer |
Riferimenti bibliografici
- Alberege 2007
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D. Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003
English abstract
“…we are meat, we are potential carcasses. If I go into a butcher's shop I always think it's surprising that I wasn't there instead of the animal.”
With similar accents of devastating discomfort, British painter Francis Bacon exposes his own existential inconvenience.
This header is the track to define a figurative topical path, in which is hidden the sinister allusion to the blades of the Hung and Death, that temporary crossed the whole century just past. The iconographic archetype goes back to XVI century, to paintings of genre of our mannerists and of Flamish: to pieces of ox of Bolognese butcheries set by Bartolomeo Passarotti or Annibale Carracci with those slices of meat shown like trophies by grotesque and ridiculous errand boys. But the creepy theme variation planned by many European artists of XVIII century recalls in particular the rembrandtian ripped animal – dramatically coming out the semi-darkness of a shop in the Netherlands.
It’s a nihilistic vertigo: the horror vacui of contemporary man overlooking above the why of the Being. The first chinks in the certainties of Enlightened and Positivistic Rationalism come with nietzschean hallucinated palmistries and the paradox is the access code to the solution to the riddles made by the Teban Sphynx. Assuming the Greeks as “superficial by deepness” means a sapient leap of a culture who knew the dismay into Nothing and the darkness of the abyss and, to avoid the wreck, chose to stop for self-defence into the dimples of a superficial sea. This essay retraces in an ideal gallery the operas of painters such as Soutine, Chagall, Guttuso, Cassinari, Bacon, to the most recent like Kounellis, Lichtenstein and Damien Hirst.
keywords | Francis Bacon; Hung and death; Iconography; Sixteeth Centurury; Painting; Bartolomeo Passarotti; Annibale Carracci; Meat; Grotesque; Horror Vacui.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Santoro, Carne da macello:rivisitazione di un topos figurativo, “La Rivista di Engramma” n. 118, luglio/agosto 2014, pp. 7-21 | PDF di questo articolo