Un inedito del Pintoricchio (e qualche spunto di metodo)
Lionello Puppi
English abstract
La straordinaria fototeca assemblata dal grande storico dell'arte olandese Raimond van Marle (L'Aia 1887 – Perugia 1936), sovrattutto nel corso della stesura dei volumi dell'opera capitale The Development of Italian School of Painting, dopo aver corso il rischio dello smembramento, si trova oggi al riparo, presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia. Un'iniziativa tanto piu altamente benemerita, in quanto si associa a quella del recupero della biblioteca dello stesso van Marle, suggerita da Giuseppe Fiocco, e sottrae un compatto patrimonio inestimabile di referenze visive alla dispersione nei mille rivoli di un mercato antiquario irresponsabile. Mentre si apprende con conforto che son stati avviati l'inventariazione e la digitalizzazione delle immagini, questo breve saggio illustra uno degli usi possibili – l'ideale restituzione di polittici smembrati – del materiale riordinato.
Inedito, e mai sinora oggetto di studio, neppur in funzione di privata perizia, il bel dipinto a olio e tempera su tavola di cm 72 x 53.5, che qui per la prima volta si presenta con qualche opportuna annotazione di commento, è emerso di recente dal mercato antiquario con un generico riferimento, già alla prima evidenza incongruo, a "Scuola toscana" (mentre siamo inoppugnabilmente – a voler, per adesso, mantenere il richiamo ad un’area regionale di produzione – al cospetto di un manufatto riconducibile a "Scuola umbra"), e senz'alcuna indicazione relativa alla sua provenienza.
Ora, se l'indeterminatezza e la svista attributive possono venir liquidate agevolmente dall'identificazione, all'interno dell'ambito linguistico e stilistico, di una più congrua e convincente matrice d'appartenenza, della paternità possibile – e che argomenteremo qui più avanti – di Bernardino di Betto Betti detto Pintoricchio o Pinturicchio (Perugia 1454 – Siena 11 dicembre 1513), un tentativo di restituire i lineamenti della storia esterna del dipinto non poteva venir eluso. A suggerirlo, ed anzi ad imporlo, al di là della stessa rimarchevole qualità dell'opera, era, per dir così, la sua stessa quantità originaria che, pur non escludendo una destinazione a spazio di devozione privata, postulava quella di un pubblico luogo di preghiera, come una chiesa o una cappella aperta ai fedeli.
La tavola, infatti, a noi pervenuta è il frammento, ovviamente centrale, di una composizione più ampia: a suggerirlo sono non tanto l'esame attento dei suoi bordi laterali ed inferiore alla ricerca del taglio subito, quanto lo sguardo della Vergine rivolto verso il basso alla sua destra cui si rivolge anche il gesto di benedizione del Fanciullo, nonché il frammento d'aureola che spuntava nitidamente prima del restauro dal fianco laterale inferiore del dipinto. Possiamo pertanto, e con incontestabile plausibilità, immaginare non più che lo schema tradizionale di una pala d'altare largamente divulgato, non solo nell'area regionale cui la nostra ipotesi di lavoro ha ritenuto d'assegnare il dipinto qui in discussione, imperniato sulla figura della Vergine reggente il Figlio in braccio e dominante quelle di Santi e/o esponenti della committenza. La flessibilità della concreta realizzazione di uno schema siffatto, in rapporto agli indizi di cui disponiamo (la direzione dello sguardo di Madonna e Figlio; il frammento d'aureola), non ci permette di trarre conclusioni, sia pur come approssimazione di manica larga, intorno alle dimensioni (larghezza e altezza) originarie della pala, ma autorizza il sospetto che – quand'anche avesse adottato un'interpretazione minimalista dello schema succitato, introducendo alla venerazione delle Madonna col Figlio due sole altre figure (certamente un Santo, destinato a restar innominato ma, forse eponimo del Committente, sulla destra; forse l'offerente, sulla sinistra) – la grandezza del dipinto originario non fosse irrilevante, implicitamente ribadendo la sua destinazione ad un altare pubblico.
È tuttavia lapalissiano prender atto che un approdo siffatto resta inutilizzabile ai fini di una ricerca teoricamente promettente tra le antiche descrizioni, tuttora manoscritte ed a stampa, dei luoghi sacri dell'Umbria e loro arredo mobile[1], essendo stato amputato il nostro dipinto proprio degli ingredienti la cui descrizione avrebbe potuto fornire gli indizi per una identificazione, perdipiù fornendo appiglio al perseguimento, ove mai fossero sopravviste, delle parti amputate. Si pensi, al proposito, a quanto occorre mutatis mutandis alle rocambolesche peripezie della ricerca della primitiva dislocazione del frammento d'affresco del Bambin Gesù benedicente e sarà il caso di segnalare sin d'ora la stretta affinità tipologica e stilistica con il Fanciullo del dipinto qui ragionato, emerso dal mercato antiquario nel 2004 e acquisito dal Gruppo Margaritelli che lo ha affidato alla Fondazione Guglielmo Giordano di Perugia, che tuttora lo custodisce: com'è noto, il frammento è stato riconosciuto come parte incredibilmente sopravvissuta dell'immagine di Madonna col Bambino e Papa Alessandro VI dipinta dal Pintoricchio tra 1492 e 1493 per il cubicolo degli appartamenti Borgia in Vaticano, dove l’avevano veduta, e ammirata, il Rabelais sin dal 1536 e, poco dopo, il Vasari[2].
Se il ricorso alle antiche fonti letterarie si annunciava tutt'affatto vano per le ragioni sopra esposte, una circostanza peculiare del destino nel tempo del patrimonio pittorico dell'Umbria, suggeriva, tuttavia, il ricorso ad un tentativo di indagine in linea teorica (verificata però, da chi qui scrive, anche sul piano pratico) abbastanza promettente, e, in ogni caso, non oziosa e tale insomma da non poter essere elusa.
È ben noto come la vicenda pittorica umbra tra Quattro e Cinquecento abbia sollecitato – in risposta conseguente alla straordinaria fortuna ottocentesca delle figure del Perugino e di Raffaello – un'applicazione particolarmente agguerrita, dapprima da parte di studiosi di provenienza germanica e anglosassone, i quali, peraltro, intrecciavano al rigore severo dello studio la disponibilità ad un servizio al mercato comportante la segnalazione agli agenti per l'acquisto, la rimozione e la consegna ai grandi Collezionisti in specie britannici e nordamericani, di opere esposte nelle piccole chiese e cappelle, soprattutto disperse nell'universo rurale emarginato o nelle private raccolte di famiglie locali (che, magari, avevano attinto a quelle stesse fonti) in declino di fortuna. Atteggiamento e attività palesemente ambigui, di cui, in questa sede e in quest'occasione, non s'intende tentar di spiegare e comprendere l'etica che soggettivamente li consentiva e giustificava, ma si vuol soltanto constatare come l'efficace esercizio di entrambi poggiasse anzitutto su una capillare documentazione fotografica dei reperti via via individuati, schedati e classificati.
Ora, se un Walter Bombe, ai fini della costruzione della fondamentale monografia apparsa a Berlino nel 1912, s'era potuto giovare degli spogli archivistici accumulati da Adamo Rossi (patriota, prete spretato e direttore della Biblioteca Augusta di Perugia), due singolari figure di studiosi, un americano e un olandese, Frederick Mason Perkins e Raimond van Marle, all'avvio dello scorso secolo si erano trasferiti a Perugia[3] (il primo spostandosi poi ben tosto ad Assisi) per render più continua e fruttuosa la propria attività di ricerca sul campo, la quale prevedeva la riproduzione fotografica, e quindi la classificazione delle fotografie, dei reperti incontrati e analizzati[4].
Un impegno serio, quindi, volto ad una compiuta restituzione ideale del patrimonio, frattanto umbro e pittorico (prima della falcidia, diaspora e imbalsamazione museale, spesso remotissima dalla sua originaria insistenza territoriale), non può prescindere dal controllo meticoloso – per tentar di rintracciare l’immagine integra di reperti poi smembrati e dispersi, apprendervi ubicazioni di provenienza e ristabilire tracce di concreti contesti storici poi devastati – di siffatti documenti, la cui confezione, per la verità, aveva conosciuto l'attivo contributo di studiosi locali dello stampo di Umberto Gnoli, con la grande mostra del 1908 sull'arte umbra, affiancata da una corposa monografia nella collana nazionale delle "Raccolte d'arte" di Corrado Ricci, e con la fondazione di periodici tematici, quali "Augusta Perusia" e "Rassegna d'arte umbra", alla lor volta miniere di documentazione fotografica di realtà artistiche in seguito aggredite e impoverite[5], non meno preziose delle fototeche del Mason Perkins e del van Marle; l'una legata dallo studioso americano alla Diocesi di Assisi (con l'archivio personale) non ancor consultabile; l'altra – scampata al saccheggio, da parte di contingenti dell'esercito nazista allo sbando nel giugno del 1944, della villa Tocchi di Solomeo di Corciano dove la figlia dello storico dell'arte, Ilona, aveva tentato di metterla al sicuro, traslocandola dalla residenza perugina nel sobborgo di San Marco, ma finita in un circuito mercantile di dubbia probità –intercettata e, con iniziativa d'altissima benemerenza, acquisita dalla "Fondazione Giorgio Cini" di Venezia. Dove, appunto, ne è or ora iniziato il riordinamento e, molto cortesemente, me ne è stata consentita la consultazione[6].
Purtroppo, la paziente disamina – che, per le ragioni di una metodologia della ricerca storica che aspira a fondarsi quando possibile sulla disponibilità del documento obiettivo, s'è ritenuta ineludibile e preliminare – di una tal messe di materiali (dal corredo illustrativo dei periodici regionali ai dossiers fotografici assemblati dal van Marle) nel riferimento al Pintoricchio e alla sua cerchia, nel momento stesso in cui consentiva di verificare, per eloquenti coincidenze d'ordine iconografico e stilistico, la correttezza dell'ipotesi attributiva assegnata supra esordendo alla tavola qui in discussione, riferendola a quell'area di cultura figurativa, negava la possibilità di rilegarla al suo originario assetto compositivo, e l’eventualità di sorprenderla ad una tappa dei suoi trascorsi spostamenti nel tempo: che dovettero essere burrascosi quanto basta solo a far caso alle mutilazioni patite (laddove non è affatto da escludere in via teorica che possano, comunque, emergere, chissà dove e chissà quando, vestigia dei brani amputati) e allo stato di conservazione precario che, peraltro, è stato brillantemente risarcito dall'eccellente lavoro di restauro effettuato dal Laboratorio Nicola. I cui preliminari esami hanno individuato, di un'esecuzione tutt'affatto compatibile con i procedimenti materiali specifici di Pintoricchio e cerchia, momenti di lieve squilibrio qualitativo che suggerisce di ammettere, accanto all'impegno del Maestro, l'intervento, comunque ben sorvegliato, di una bottega la cui compagine – su indizi vasariani e alle verifiche concrete del recente ravvivarsi dell'attenzione alla Scuola umbra, culminato nella grande mostra di Perugia e Spello per il 550° anniversario della nascita di Bernardino (2008) – il pittore tendeva a formare (in obbedienza ad un modus operandi ben colto e descritto dallo Scarpellini), nei particolari contesti in cui via via si trovava ad agire[7].
Nella fattispecie del dipinto qui in esame, è convinzione di chi scrive che si tratti di frammento superstite di una pala d'altare dipinta nel momento, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del Quattrocento, di attività abbastanza intensa nella produzione di opere devozionali, il cui profluvio sollevava le perplessità del Pascoli e della storiografia settecentesca[8], ma che vien intesa oggi nella squisita eleganza delle sue manifestazioni, tra le quali spicca, a nostro giudizio, il dipinto qui commentato. La cui temperie formale, ancorché con toni più dimessi e sia pur in rapporto ad una committenza che l'impiego dell'oro zecchino nelle aureole invoglia a ritener di condizione sociale nient'affatto modesta, sembra annunciare, con l'anticipo suppergiù di un lustro, il polittico di Santa Maria dei Fossi (oggi nella Galleria Nazionale dell'Umbria a Perugia) commissionato a Bernardino il 14 febbraio 1495[9].
Note
1. Pur senza entrare nei dettagli e limitandosi ad una affermazione generica in funzione di un giudizio sostanzialmente poco benevolo ("ebbe … molto maggior nome che le sue opere non meritarono"), già il Vasari insisteva sulla prolificità del Pintoricchio: "ancor che facesse molti lavori e fosse aiutato da diversi"; "tenne di continvo molti lavoranti nelle sue opere" (Vasari, Vite, III, 333). Tra i repertori descrittivi, si son esplorati con particolare attenzione: Siepi 1822; Siepi, Descrizione di Perugia; Guardabassi 1872; Crowe, Cavalcaselle 1866; Crowe, Cavalcaselle 1903-1914.
2. Sul frammento – il contesto originario, la provenienza, il significato – si veda la circostanziata monografia di Franco Ivan Nucciarelli (Nucciarelli 2006).
3. Bombe 1912. Degli spogli archivistici del Rossi, che non ne pubblicò mai alcun campione, il Bombe si servì sistematicamente nel corposo contributo Dokumente und Regesten zur Geschichte der peruginer Malerei (Bombe 1910). Di fatto, il Rossi e il Bombe esemplificano a livello rispettivamente locale e internazionale un fervore d'attenzioni di vasto raggio di cui varrebbe la pena indagare le ragioni profonde. Ma vedasi qui ultra la nota 5.
4. Un succinto ma eloquente profilo della figura di van Marle è costituito dal necrologio dettato da Arthur Mayger Hind (Hind 1937), mentre l'originalità del suo approccio alla storia dell'arte è stata ben illustrata di recente da Edward Grasman (Grasman 2001).
5. Del Ricci sarà il caso d'annotare l'ostinazione dell'impegno sulla figura del Pintoricchio, volto a riscattarlo dai limiti cui l’aveva costretta il giudizio vasariano, e si vedano in particolare le monografie edite tra 1902 e 1915 (Ricci 1902; 1912; 1915). Quanto a Umberto Gnoli, se ne veda l'eccellente profilo pubblicato nel Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem.
6. Le peripezie del Nachlass non sono ancora state integralmente ricostruite e narrate, e aspetti oscuri permangono sovrattutto per quel che concerne il ruolo giocato da settori, non proprio solo di sottobosco, del mercato antiquario, anche nel rapporto con le Autorità istituzionali di competenza sicché, per quel che concerne il patrimonio librario e fotografico, tanto più encomiabile appare il salvataggio realizzato dalla Fondazione Cini e pungente il rammarico per la perdita delle collezioni artistiche (per qualche spunto di informazione al riguardo, si veda Puppi 2014, ancora in stampa).
7. Pintoricchio 2008: cfr. ivi Scarpellini 2008, laddove, alla fin dei conti restituendo credibilità al passo vasariano qui supra riportato alla nota 1, viene felicemente colto un modus operandi fondato sull'uso di botteghe già insediate e attive nei luoghi della propria attività, anziché di un proprio stabile atelier i cui aiutanti fissi accompagnassero il Maestro nei suoi spostamenti. Ciò, tra l'altro, consente di cogliere, in ispecie nelle opere non soltanto d'affresco dei primi lustri d'attività autonoma, accanto al prevalere di una cifra stilistica connotante e inconfondibile, variazioni di estro e sbalzi di qualità che propongono in ultima istanza esiti – quali la Madonna qui in discussione – distinti e ben riconoscibili rispetto a quelli sfoderati, pur nell'uso di un linguaggio comune, da una miriade di pittori, ad alcuni dei quali, ai fini della classificazione, è stato forza affibbiar nomi di comodo, e alludo, in riferimento alle meticolose distinzioni di Filippo Todini (Todini 1989): ai vari Pier Matteo d'Amelia (pp. 284-285), Fiorenzo e Bernardino di Lorenzo (pp. 30-33 e 290-297), Maestro di Toscofusano (pp. 199-200), ecc.
8. Il virage, rispetto alla tradizione di matrice vasariana, può essere legittimamente colto nel libello di Francesco Fabi Montani (Fabi Montani 1832): con la citazione del quale van Marle apre il sostanzioso capitolo dedicato al Maestro nel suo The Development of the Italian School of Painting (Van Marle 1934). Si veda inoltre il catalogo delle opere assegnabili, a giudizio dello studioso, al Pintoricchio, tra le quali spiccano i ritratti e le opere devozionali mobili). È doveroso precisare che l’attuale fase di riordinamento della Fototeca van Marle non ha consentito una puntuale collazione tra le illustrazioni del capitolo su Pintoricchio in Van Marle 1934 e le immagini in quella radunate.
9. Per una sintesi su codesto caposaldo stilistico basti il rinvio alle puntuali pagine di Francesco Federico Mancini (Mancini 2008).
Riferimenti bibliografici
- Bombe 1910
W. Bombe, Dokumente und Regesten zur Geschichte der peruginer Malerei, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, 33, 1910, pp. 1-21. - Bombe 1912
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M. Guardabassi, Indice dei monumenti pagani e cristiani riguardanti l'istoria e l'arte esistenti nella provincia dell’Umbria, Perugia 1872. - Mancini 2007
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G. Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori et architettori (1568 ), edizione a c. di G. Milanesi, Firenze 1906, vol. III, pp. 333.
English Abstract
The acquisition and cataloguing of the photographic archive of the art historian Raimond van Marle (The Hague 1887 – Perugia 1936), which is now preserved at the Cini Foundation in Venice, allows the attribution to Bernardino di Betto Betti called Pintoricchio or Pinturicchio (Perugia 1454 – Siena, 11 Dicember 1513) of an unpublished, and not yet studied, painting (oil and tempera on panel), representing a Madonna with Child, recently emerged from the antiquarian market and labelled with a generic and incongruous reference to "Tuscan School".
The eyes of the Virgin facing down at her right hand, the blessing gesture addressed the same way by Child, as well as a fragment of halo appearing on one edge of the painting (clearly visible before the restoration), support the speculation that the panel would be the central fragment of a larger composition, similar to other altarpieces painted by the Umbrian painter and his School.
keywords | Raimond van Marle; Pinturicchio; Madonna with child.
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Puppi, Un inedito del Pintoricchio (e qualche spunto di metodo), “La Rivista di Engramma” n. 118, luglio/agosto 2014, pp. 46-54 | PDF di questo articolo