La dimensione specchiata di Edipo a Colono: riflessioni sulla dialettica scenica
Recensione a Edipo a Colono di Sofocle (regia di Daniele Salvo) XLV Ciclo di Rappresentazioni Classiche presso il Teatro greco di Siracusa*
Nella Sudano
English abstract
Al Museo Paolo Orsi di Siracusa è conservato un cratere a calice siceliota, attribuito al pittore di Capodarso, rinvenuto nella Necropoli del Giardino Spagna, databile fra il 350 e il 325 a.C., e raffigurante Edipo. La peculiarità del vaso sta nel fatto che su esso non è semplicemente raffigurato il mito di Edipo, ma la messa in scena dello stesso, come si evince dalla connotazione dimensionale (colonnette, travi del palco) e fisiognomica (Edipo si tocca mesto la barba).
La rappresentazione dell’Edipo a Colono, in occasione del XLV Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro greco di Siracusa, si inserisce, dunque, su un fertile substrato ed evidenzia la necessità di trattare la storia drammatica di un personaggio mitico del quale Siracusa ha sempre positivamente subito la carica evocativa e la fascinazione.
Ripercorrendo la storia delle rappresentazioni organizzate dall’INDA emerge un relativo bilanciamento della fortuna di Edipo Re (messo in scena sei volte) e di Edipo a Colono (rappresentato quattro volte). Tuttavia, allontanandoci dal contesto siracusano, si denota una maggiore difficoltà della messa in scena dell’ultimo dramma sofocleo; ciò probabilmente deriva, oltre che da un ritmo drammaturgico meno serrato, dall’inarrivabile fascino del precedente Edipo Re, dramma universalmente spendibile, che per il suo continuo portato si impone nettamente su una tragedia più legata al contemporaneo, ovvero all’esaltazione della 'democratica' Atene.
L’Edipo a Colono, commiato di Sofocle dalle scene e dalla vita, interpretato da un superbo Giorgio Albertazzi, è una tragedia d’atmosfera in cui il protagonista non ha ancora trovato una conciliazione, non ha ancora fatto i conti con il suo destino. Edipo è un ἄπολις che non introietta più la sua colpa, ma la proietta all’esterno; diventando nuovamente ἔμπολις, non per vivere, ma per morire, lo sventurato figlio di Laio e Giocasta potrà trovare una riconciliazione nella scoperta di una nuova dimensione: quella eroica. Il suo corpo acquisterà una vis salvifica che si alimenterà della maledizione che si scaglia contro la sua casata contaminata e contro Tebe che, avendolo cacciato, non potrà averne beneficio, mentre la benedizione di Edipo si poserà su Atene, la città 'giusta', l’unica in cui il suo corpo potrà giacere e conferire la potenza di una tremenda energia finalmente convertita al bene.
La scenografia, firmata da Massimiliano e Doriana Fuksas, si presta mirabilmente alla messa in scena dell’Edipo a Colono. La quinta di metallo specchiato col suo abbraccio concavo accoglie dentro sé la scena e gli spettatori, ed è in grado, con i suoi giochi di riflesso, di creare atmosfere diverse che scandiscono, in una climax ascendente, le varie fasi del dramma: ora crepuscolare, ora lunare, ora infernale. Lo specchio nega il limite certo dell’identità che in Edipo è estremamente oscillante, in bilico fra la condizione di reietto e di eroe; plurifica inoltre le immagini, prospettando varie chiavi interpretative e sottolineando l’intrinseca contraddittorietà della tragedia. Al centro della scena è sito il bosco sacro alle Eumenidi, collinetta di sale, del quale Fuksas ha evidenziato la sacralità separando il rialzo del santuario dal resto della scenografia e attribuendogli una diversa consistenza materica.
La scelta dei costumi rivela un preciso intento di movimento scenico, la stratificazione di tessuti e fibre diverse dona agli abiti una suggestiva dinamicità; interessante appare la scelta di Nicola Luccarini di creare una semantica dei colori: la gamma dei toni del nero e del grigio per i personaggi questuanti o forieri di pace, sfumature del rosso o marrone per i personaggi bellicosi, in particolare spicca Creonte, di rosso vestito, in contrasto cromatico segnico col contesto. Le Eumenidi, spiriti pacificati in Atene (secondo la lezione dell’Orestea eschilea), ma sempre pronti a rivelare la loro essenza demonica, la loro potenza negativa, con gli occhi iniettati di sangue, la fronte mostruosamente stempiata, e i lunghi capelli anguiformi, indossano poco più che la loro stessa pelle; tuttavia, una fra loro è nera, come monito per lo spettatore affinché non si faccia ingannare dai loro corpi tonici e armonici, ma ricordi il loro indissolubile carattere ctonio. La scelta di Luccarini, l’esibita dialettica dei contrasti cromatici, si rivela così un mirabile elemento espressivo della cifra che il regista impone al dramma.
L’apparente staticità della tragedia è stata del tutto superata dalle scelte registiche. Daniele Salvo ha colto bene i contrasti sui quali si snoda il dramma, ha profondamente compreso la frattura tra la dimensione arcaica, dominata dalla logica della vendetta (lo ieri di Tebe), e quella politica (l’oggi di Atene), in cui l’antica legge dell’ospitalità si coniuga alla nuova etica politica. La dinamicità è conferita al dramma anche dai due livelli temporali che gli sono pertinenti: il tempo di Edipo, già parzialmente fuori dal tempo, e il tempo degli altri personaggi; questo doppio registro è reso magistralmente nella regia di Salvo in una dialettica scenica di movimento-staticità. Il regista ha contrapposto un Edipo immobile e per la maggior parte del dramma seduto, al coro, sempre presente sulla scena, in preda a sussulti e rantoli da invasamento. Si è dunque mantenuto fedele alla scrittura drammaturgica sofoclea in cui, a differenza di Eschilo, si riscontra un imperfetto synagònisma tra coro e attore. Interessante appare anche il modo in cui il regista ha messo in luce la valenza antinomica di Creonte. Il re di Tebe ( “ὦ λῆμ’ ἀναιδές” lo apostrofa Edipo) strumentalizza la fiducia che ripone nell’Areopago e nella giustizia, di cui Atene è vessillifera, per giustificare la sua venuta ad Atene a riprendere Edipo; ed è proprio quando sta per portar via Antigone ed Ismene che il regista fa calpestare a Creonte il bosco sacro alle Eumenidi, collinetta di sale inviolabile, svelando il segno della sua hybris .
Una rappresentazione capace di toccare alti livelli di spettacolarità, a volte quasi spaziale, soprattutto per l’uso che fa del suono e delle luci. Alcuni espedienti non possono non conquistare lo spettatore, come l’ingresso in scena di Teseo a cavallo, che strappa ogni volta un fragoroso applauso e che accentua il segno di civilizzazione portato dall’eroe.
Infine si inscena la morte di Edipo: d’effetto certo è l’apertura della botola sulla scena intesa come porta dell’Ade; tuttavia sarebbe stato preferibile asciugare la congerie di elementi scenici per dare, con linearità, più evidenza all’immagine che lo spettatore porta via con sé alla fine dello spettacolo: Edipo disteso, coperto dalle Eumenidi, mosaico ricomposto di corpi purificati.
Contro una facile prospettiva attualizzante, il regista ha affermato che la sfida della sua messinscena si misura con la 'classicità' del linguaggio sofocleo. Tuttavia molti possono essere gli spunti di riflessione che il paradigma classico porge ai contemporanei, aiutandoli a decriptare la crisi attuale, che, citando Santo Mazzarino, proprio “per la sua contemporaneità più difficilmente si presta a una diagnosi e valutazione precisa”.
*I documenti e i materiali riprodotti in questo saggio sono conservati presso l'Archivio Fondazione Inda - AFI - di Siracusa
This essay examines the production of Sophocles'Oedipus atColonus at the Greek Theatre in Syracuse, focusing on the themes of exile, identity and the search for redemption. The production was informed by the rich archaeological context of Syracuse, as evidenced by the discovery of a Sicilian goblet krater depicting Oedipus. The essay analyses the visual elements of the production, including set design, costumes and lighting, and explores how these elements contributed to the overall interpretation of the play. In addition, the essay examines the director's approach to the play, in particular his focus on the contrast between the archaic and the contemporary and the themes of fate and free will. Ultimately, the production offered a powerful and thought-provoking exploration of Sophocles' last play.
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