Ritorno ad Alessandria: archeologia e sceneggiatura nella classical fiction, da Cleopatra a Ipazia
intervista a Valerio Massimo Manfredi a cura di Lorenzo Bonoldi
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lorenzo bonoldi – Nel corso degli ultimi anni, dopo la grande stagione dei film ‘peplum’, Hollywood vive un’incredibile recrudescenza di ‘febbre greca’: da Troy (W. Petersen, 2004) a Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo (C. Columbus, 2010) le figure del mito e della storia antica tornano ad incarnarsi in celluloide. Con che occhio uno storico del mondo antico si pone davanti a questo revival?
valerio massimo manfredi – Scettico. Non c’è nessuna febbre. Se qualche anno fa uno avesse proposto a uno studio di Hollywood uno “sword and sandals”, come li chiamano, gli avrebbero tirato dietro il copione. Solo un grande regista avrebbe potuto imporre loro una scelta di quel tipo: accadde con Ridley Scott che volle girare Gladiator. Il film guadagnò 400 milioni di dollari e da allora molti altri ci hanno provato. Con alterne vicende. Troy comunque ha fatto parecchi soldi nonostante la scandalosa rappresentazione del grande tema omerico, poi c’è stato Three Hundreds che ne ha fatto più di altrettanti con una spesa produttiva di non oltre 40 milioni di dollari. Insomma: è una questione di gradimento dimostrato dal pubblico, e quindi di soldi.
l. b. – Nel celeberrimo film Cleopatra con Elizabeth Taylor (J.L. Mankiewicz, 1963), l’ingresso trionfale della regina d’Egitto in Roma rappresenta uno dei più celebri esempi di ricostruzione storica errata. Rispetto a quanto accadeva in passato, oggi si assiste ad una più attenta cura nella ricercatezza delle citazioni archeologiche e nella ricostruzione del mondo antico. Lei stesso è stato chiamato a supervisionare più volte il set del film L’ultima legione (D. Lefler, 2007), tratto da uno dei suoi romanzi. Quando e come il rigore archeologico si impone, e quando, invece, è lecito scendere al compromesso?
v.m. m. – Se uno leggesse i titoli di coda di Cleopatra scoprirebbe che il consulente storico e archeologico era Michael Grant, nome di tutto rispetto. Perchè mai allora errori così marchiani? Perché il set designer voleva una Roma riconoscibile soprattutto dal pubblico americano. Se l’esattezza della riproduzione va a scapito della comprensione del (grosso) pubblico o dell’imponenza ed efficacia scenografica, è ovvio che chiunque sceglierà la seconda opzione e non la prima. In realtà nemmeno Gladiator fu granché rigoroso nella resa dell’ambiente antico, ma ebbe un merito: per la prima volta i Romani non erano i 'nazisti' del passato, ma semplicemente un popolo con una diversa cultura e una diversa mentalità dalla nostra. Insomma era il primo film 'laico' sull’antica Roma.
Io penso che se fare una rappresentazione giusta costa quanto farne una sbagliata, tanto varrebbe fare quella giusta; ma ci sono casi in cui per esigenze di budget si riutilizzano materiali e addirittura scenografie che non sono propriamente adatte al soggetto del film, e altri casi in cui il budget è abbondante (come in Troy) ma viene speso soprattutto per un cast di grande impatto, per gli effetti speciali etc. Quando andai sul set de L’ultima legione in Tunisia, notai che le piante nel giardino della casa di Oreste erano tutte esotiche di recente importazione, ma visto che non c’era alternativa raccomandai al regista di sfuocare in modo da non renderle distinguibili. Ma non tutti si fanno di questi scrupoli. In una delle prima versioni della sceneggiatura trovai un confessionale, un campo di girasoli e addirittura una pianta di pomodori.
l. b. – Partendo dal caso specifico de L’ultima legione, come si passa dal romanzo alla sceneggiatura?
v.m. m. – È molto difficile. Abbiamo da un lato un romanzo di quasi cinquecento pagine, dall’altra una sceneggiatura che deve ridursi a un centinaio, anzi molto meno se consideriamo gli spazi. È chiaro che bisogna reinventarsi la storia. Oltre a questo, mentre nel romanzo ho tutto lo spazio per dare risalto ai personaggi, il film ha meno di due ore, per cui si deve ricorrere a caratterizzazioni molto forti e contrastate. Di solito prima si passa attraverso un trattamento, ossia un adattamento del romanzo al soggetto cinematografico che è la parte più difficile e faticosa: tagli dolorosi, semplificazioni drastiche e quant’altro. Poi nella sceneggiatura si può in parte recuperare qualcosa. Purtroppo al momento del montaggio le esigenze del principale distributore si fanno ancora sentire. Nel caso de L’ultima legione quasi un’ora di girato con scene bellissime è stata sacrificata a un montaggio velocissimo, tale da compiacere un pubblico soprattutto giovanile. La stessa scelta di un’attrice come Aishwaria Ray, che non si spoglia e non bacia, caratterizza il classico film ‘per tutti’, il che significa per ragazzi.
Quando scrissi la sceneggiatura de Le Memorie di Adriano di M. Yourcenar la sfida era ben più ardua, perché si trattava di rendere cinematica un’opera letteraria fondata soprattutto su riflessioni filosofiche e politiche. Mi presi delle libertà per creare suspence e potenziare le scene d’azione, ma sempre compatibili con il contesto e il carattere del romanzo e mai in contrasto con le caratteristiche culturali e materiali dell’epoca in cui era stato ambientato. Fu apprezzata da tutti, compreso il regista designato, J. Boorman. Poi cominciarono i dubbi e le perplessità nel timore che diventasse un film di nicchia. Il cinema è uno spettacolo costoso e il problema è sempre quello del rientro di un grosso investimento.
l. b. – Tempo fa le è stata richiesta una consulenza storica anche per la trasposizione cinematografica della sua trilogia Alexandros, in un progetto ancora in cantiere. Nel frattempo Oliver Stone ha portato a termine il suo Alexander (2004). Prima ancora era stata la volta del film di Robert Rossen (1956): come fecero in antico i Diadochi, oggi sono quindi registi e produttori cinematografici a contendersi la figura del Grande Macedone [sul tema v. in questo numero di Engramma Alexanders. Due adorabili infedeli]. A suo avviso, cosa rende così speciale la vicenda di Alessandro? E quali sono gli aspetti che, rispetto a quanto già fatto, andrebbero portati sulla scena questa volta?
v.m. m. – Si tratta di una storia molto curiosa: quindi anni fa il produttore Thomas Schueli (Il nome della rosa, Il barone di Munchausen) mi affidò la consulenza per un film su Alessandro che doveva essere diretto da Oliver Stone, incarico che svolsi per sette-otto mesi. Quando però il progetto fu portato all’attenzione degli studios, si arenò. Stone però continuò a lanciare di tanto in tanto dei comunicati d’agenzia in cui affermava di essere ancora interessato a realizzarlo. Poi io scrissi la mia trilogia, che subito conquistò l’entusiasmo di un produttore italiano che lavorava a Los Angeles, ma non fu possibile trovare un accordo con la Warner. Quindi i diritti del mio romanzo furono acquistati dalla Universal. In sostanza si è trattato dello stesso progetto che poi si è spezzato in due tronconi concorrenti. Devo dire che Baz Luhrman, il nostro candidato regista, lo considera ancora il suo dream film. A parte tutto questo, Alessandro è il tipo perfetto di eroe: bello, giovane, invincibile, carismatico, ambiguo, e il fatto di essere morto giovane e la culmine del successo lo ha reso immortale nella sua perfezione. Penso sia in questo il fascino che esercita sul mondo del cinema, anche se il fenomeno non va enfatizzato più di tanto. Gli amori di Hollywood sono spesso molto effimeri.
La figura di Alessandro non è semplice da rappresentare e il rischio è quello di un grande documentario di lusso sulla sua vita. Stone ha cercato di umanizzarlo ma ha preso un eroe e lo ha rappresentato come il paziente ideale di uno psicanalista o di uno psichiatra. È comunque difficile trovare nell’ambiente hollywoodiano un regista con la sensibilità necessaria per rappresentare il più grande degli antichi. Penso che Baz Luhrman sarebbe adatto a valorizzare gli aspetti visionari e onirici della sua personalità, e forse anche la sua ambiguità che è parte del suo fascino.
l. b. – A differenza di quanto è successo per Alessandro – la cui figura mai ha conosciuto l’oblio – altre figure storiche sono state invece a lungo dimenticate. È il caso di Ipazia, protagonista del recente film Agorà di Alejandro Amenàbar (2009). Il cinema può quindi rappresentare una sorta di ‘seconda opportunità’ per le pagine dimenticate della storia?
v.m. m. – Sì, a volte succede che un regista, scavando in situazioni periferiche o poco conosciute, le porti all’attenzione del grande pubblico e in quel caso molti sono tentati di tornare sui libri a confrontarsi con gli eventi documentati storicamente. Il caso di Ipazia, ben noto agli studiosi, è uno dei più inquietanti, perché l’oscuramento della sua vicenda personale viene da una sorta di congiura del silenzio nei confronti di uno scandalo che riguardò la stessa Chiesa Cattolica. Il massacro di questa donna, di grande intelligenza e di costumi integerrimi, fu motivato solo dalla sua orgogliosa indipendenza intellettuale e dalla sua autonomia dal potere maschile in un ambiente di fervente fanatismo religioso e di accesa misoginia. Sono molto curioso io stesso di vedere questo film.
l. b. - La distribuzione in Italia di Agorà ha avuto un iter difficile, che ha portato addirittura a petizioni e alla creazione di gruppi di supporto su Facebook. Tempo fa anche la serie tv Roma, prodotta da HBO, BBC e Rai FICTION (2005), non ha avuto vita facile e si è trovata al centro di polemiche che ne hanno portato alla censura. Il mondo antico può ancora scandalizzare? O, a suo avviso, il più delle volte si tratta di casi di provocazione consapevole, all’insegna del motto ‘purché se ne parli?’
v.m. m. – Certo che il mondo antico può scandalizzare. Nel caso di Ipazia perché vediamo gli ex perseguitati e seguaci di un Dio che perdona i suoi carnefici trasformarsi in feroci e sadici massacratori di un’innocente. Nel caso della serie Roma per la cruda riproduzione del linguaggio e per le scene di una sessualità scatenata quando, fino a ora, si era sempre ricorso alla classica foglia di fico.
Era un mondo che ignorava il senso del peccato, in cui gli dei erano fatti a immagine e somiglianza degli uomini, in cui non c’erano limiti all’oscenità almeno in certi ambienti. Un campione significativo dai graffiti erotici di Pompei è stato raccolto qualche anno fa da Antonio Varone e vi sono espressioni che potremmo definire estreme. Non si può escludere che gli autori della serie Roma, sotto la copertura della rappresentazione di una cultura perduta, abbiano insistito soprattutto sull’oscenità del linguaggio e dei comportamenti per destare la curiosità e l’interesse dei media e del pubblico. E questo anche a costo di forzature storiche del tutto ingiustificate.
l. b. – Si narra che l’ispirazione per il film Gladiator di Ridley Scott (2000) sia nata dal dipinto Pollice Verso di Jean-Leòn Gérome (1872); gli abiti, le acconciature e le pose di Rachel Weisz in Agorà sembrano derivare direttamente dai dipinti di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912) e di altri pittori di epoca vittoriana; nell’harem di Dario nell’Alexander di Oliver Stone si aggirano odalische che ammiccano a quella di Ingres (1814). Spesso quindi il cinema non guarda direttamente all’antico, ma piuttosto alle sue rievocazioni romantiche e vittoriane. Quando e se voluto, tale gioco erudito di rimandi incrociati, anacronismi, contaminazioni e suggestioni rappresenta a una stratificazione interessante o è piuttosto un’inutile sofisticazione?
v.m. m. – Penso che il cinema possa essere libero di ispirarsi e anche di citare interpretazioni artistiche e decorative precedenti se ritenute suggestive. Lo hanno fatto anche registi del calibro di Pasolini e Visconti. L’importante è di stare attenti a non cadere nel grottesco. È proprio una stampa liberty che ha tradito gli scenografi di Gladiator che hanno riprodotto materialmente anche la scritta che vi campeggiava sul Colosseo “Dum stabit Coliseum stabit et Roma”, che in realtà è tratta dagli scritti del Venerabile Beda e dunque non poteva esistere ai tempi di Marco Aurelio.
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Internationally best-selling author and ancient world historian Valerio Massimo Manfredi presents in this conversation his point of view on the recent fortunes of ‘sword and sandal’ films in Hollywood. Manfredi has been historical consultant for Oliver Stone’s Alexander (2004), screenwriter for Memoirs of Hadrian (2010), and his novel The last legion has been adapted for the homonymous film in 2007. Manfredi points out that the archaeological discipline is a difficult one to be imposed in movie business, due to the problem of the return of big investments for historical reconstructions, and that adaptation from novel to screenplay is as well a hard work. Nonetheless, according to Manfredi, the scholarly game of cross references, anachronisms, contaminations, is sometimes a valid element of evocative power in movies. The novelist stresses the fact that the ancient world transposed into films is not only a fascinating world of escape, with its heroic figures (like Alexander or Gladiator), but it can still shock and arise debates, as in the case of Hypatia, the main character of the recent film by Alejandro Amenabar, Agora (2009).
keywords | Alexander the Great; Oliver Stone; Valerio Massimo Manfredi; Classical fiction.
Per citare questo articolo / To cite this article: V. M. Manfredi, Ritorno ad Alessandria: archeologia e sceneggiatura nella classical fiction, da Cleopatra a Ipazia, “La Rivista di Engramma” n. 79, aprile 2010, pp. 49-55 | PDF