"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

74 | settembre 2009

9788898260195

“Vera incessu patuit dea”. Fabula e finzione nella storiografia di Michel de Certeau

Note a margine di Sulla "traccia" di Michel de Certeau. Interpretazioni e discorsi, a cura di Barnaba Maj e Rossana Lista

Giuseppe Cengiarotti

Lo storico […] assomiglia di più al cameraman o al pittore: egli monta una scena (una cornice di ipotesi e di attese) che possa impressionare l’ignoto. Con la meticolosità stessa della sua pazienza prepara un luogo di inscrizione per ciò che egli non sa e la cui singolarità sposta un ordine del pensabile. Questo effetto di inscrizione è la prima forma di ciò che chiamerò ‘la storicità’ di questi documenti antichi: è la maniera in cui la loro storia inizia a imprimersi nella nostra, mostrando l’apparato scientifico con il quale noi produciamo i nostri saperi.
Michel de Certeau, Historicités mystiques, 1985

Wilhelm Van Haecht, L’atelier di Apelle (ca. 1630)

Una delle ragioni dell’attualità dell’opera di Michel de Certeau va individuata nel “bord de la falaise” in cui ormai da tempo versa la disciplina storica, e nell’attenzione con grande anticipo riservata alla soggettività dello sguardo dello storico di fronte all’oggetto di studio e alla narratività inerente alla forma di scrittura storiografica e alla dimensione di finzione che le è propria; di lì, al problematico rapporto tra “discours” della storia e letteratura. L’opera dello storico francese consente di riposizionare tali dimensioni anche alla luce delle dispute intorno allo statuto della storia e della storiografia, uno dei temi su cui si sofferma Barnaba Maj in una recente pubblicazione miscellanea, Sulla “traccia” di Michel de Certeau. Interpretazioni e percorsi (numero monografico di "Discipline filosofiche", XVIII, I, 2008), che in una serie di “interpretazioni” e “percorsi” (si spazia da Blumenberg a Gramsci e da Conrad a Celan) tocca alcuni dei grandi temi che questa figura propone al secolo che si apre.

Fino a poco tempo fa ancora poco noto (o poco frequentato) in Italia, Michel de Certeau (1925-1986) è ora quanto mai attuale, e la sua opera è divenuta oggetto di dibattito. Solo di recente l’editoria italiana se ne occupa davvero, dopo un lungo periodo di silenzio. Perché? Certo de Certeau è figura poliedrica: gesuita, direttore di ricerca alla École des hautes études, professore di storia a Paris VII, professore di letteratura francese a San Diego, California, ma anche leader radicale nel ‘68, psicanalista e primo membro della scuola freudiana fondata da Jacques Lacan. Per sua esplicita ammissione fu, tuttavia, innanzitutto uno storico che fa ricerca sul campo intorno alla storia religiosa francese tra Cinque e Seicento, riflettendo nel contempo sullo statuto della disciplina. Tra i suoi titoli tradotti in italiano, spiccano L’operazione storica (1973), L’invenzione del quotidiano (1974), Culturale nel plurale (1974), Politica e mistica (1975), La scrittura della storia (1977), Fabula mistica (1987), Il parlare angelico (1989), Storia e psicanalisi e ora anche La presa di parola (2007).

Come ricordano i curatori nella presentazione, la fortuna di de Certeau è tardiva, sostanzialmente successiva alla morte, avvenuta nel 1986, anche a causa della stroncatura che venne riservata da Emmanuel Le Roy Ladurie – esponente delle "Annales" e fautore del modello statistico-quantitativo della ricerca storica – al suo primo lavoro storiografico, dedicato a La possession de Loudun, apparso nel 1972. La pubblicazione, che si apre con Storicità mistiche, originariamente apparso nel 1985, ospita anche un intervento di Hayden White intitolato per l’appunto Storia mistica, in cui lo storico americano chiarisce che “l’esperienza con i mistici francesi aveva preparato de Certeau, attraverso la sua partecipazione agli eventi del maggio ’68, all’ingresso in quell’inebriante mondo dell’attività intellettuale francese”; è da lì che matura un originalissimo percorso intellettuale culminato in un nuovo orientamento, che lega indissolubilmente gli approcci pratico e teorico: “il contributo di de Certeau a questo movimento è stata una filosofia post-strutturalista della storia” nel segno del decentramento e del rovesciamento dei “paradigmi di struttura e processo prediletti dalla scuola degli storici delle 'Annales' guidata da Fernand Braudel” (Hayden White in Maj, Lista 2008, p. 40).

Le “interpretazioni” e i “percorsi” che vengono offerti a partire dalla “traccia” sviluppano il tema di un’epistemologia storica che – scrive Andrew Baird – “ingloba direttamente l’elemento letterario come alterità irriducibile nella teoria del discours de l’histoire” e “tende a un radicale superamento della dicotomia fra ‘discorso vero’ (scientifico) e finzione” alla luce di un passato inteso come “alterità assente”, assumendo la psicanalisi come modello in relazione al montaggio del tempo storico. Secondo de Certeau:

Ogni ordine autonomo si costituisce in virtù di ciò che elimina, producendo un residuo condannato all’oblio. Ma ciò che viene escluso s’insinua nuovamente all’interno di questo luogo ‘puro’, ne prende di nuovo possesso, lo turba, rende illusoria la consapevolezza del presente di essere ‘a casa propria’, si nasconde nella sua dimora; e questo ‘selvaggio’, questo ‘osceno’, questo ‘rifiuto’, questa ‘resistenza’ della ‘superstizione’ inscrive in quel luogo, a insaputa del – o contro il – suo proprietario (l’io) la legge dell’altro (de Certeau 2006, p. 103).

Fanno da sfondo i dibattiti sul post-strutturalismo e l’egemonia dei modelli statistici e quantitativi in campo storiografico. Riferimenti polemici sono dichiaratamente il “post-strutturalismo”, il “relativismo” e il “postmoderno” (Jameson 1989), tutti temi che recentemente ha discusso anche Carlo Ginzburg in riferimento a Hayden White, stigmatizzando la deriva del senso promossa da Metahistory in nome di un’etica della responsabilità, forse pensando anche al contesto statunitense in cui le posizioni di White sono maturate (sia de Certeau sia Ginzburg hanno insegnato in California, dove forte è l’influenza esercitata da White così come dalla lettura di Derrida). “Rispetto al grande modello di storiografia ‘filosofica’/filosofia ‘storiografica’ di Foucault – si legge nella presentazione alla miscellanea – ciò rende l’analisi del discorso storico più aperta insieme alla dimensione narrativa e – proprio per questo – all’articolazione storica, sociale e linguistica della dimensione ‘soggettiva’ (punctum dolens della teoria foucaultiana)” (Maj, Lista 2008, p. 7). Come ricorda Baird, “negli anni Settanta e Ottanta, la storia era una delle molte discipline accademiche i cui presupposti epistemologici furono messi in discussione”, in particolare la nozione di “obiettività storica” (Andrew Baird in Maj, Lista 2008, p. 50). A testimonianza di ciò, cito a mo’ di esempio un numero della rivista "Quaderni storici", apparso nel 1979 (40, aprile/gennaio) – è l’anno di Spie – significativamente intitolato Questioni di confine, in cui nella rubrica Discussioni si trovano ospitati, in sequenza: C. Ginzburg, C. Poni, Il nome e il come: scambio ineguale e mercato storiografico; un dibattito a più voci sul Montaillou di Le Roy Ladurie; e infine un altro dibattito dedicato a La fine del mondo di Ernesto De Martino, con lo stesso Ginzburg, C. Gallini, C. Cases, G. Jervis e L.M. Lombardi Satriani.

Ethical turn

È possibile dunque un’etica della responsabilità, assumendo fino in fondo le prospettive variamente poste da White e de Certeau? È da qui che deriva il cosiddetto Ethical Turn, risposta al Linguistic Turn. Al centro del contributo di Andrew Baird (Etica e luogo della storia) sta innanzitutto l’idea dell’attività storica intesa come 'luogo' che ha evidenti implicazioni politiche, in quanto, indubbiamente:

L’ethical turn della storia può certamente essere compreso come parte di una preoccupazione culturale più larga circa la memoria e la commemorazione, e parimenti come un tentativo di contribuire al compito immenso e forse insuperabile di ‘elaborazione compiuta’ dell’oscura eredità della schiera di catastrofi perpetrate dall’uomo nel XX secolo (Andrew Baird in Maj, Lista 2008, p. 49).

D’altro canto, tuttavia:

L’ethical turn va comunque compreso anche come risposta alle diverse critiche, e in certi casi come reazione contro di esse, rivolte alla disciplina storica e alle sue pretese epistemologiche, che tanta attenzione hanno attirato nel corso delle ultime decadi del secolo scorso (Andrew Baird in Maj, Lista 2008, p. 49).

L’Olocausto diveniva così una sorta di cartina al tornasole, argomenta Baird, “in base alla quale dovrebbe essere valutato il pregio – o più precisamente la responsabilità morale ed etica – di ogni teoria della rappresentazione storica”, assumendo via via “la forma di un’ingiunzione normativa, piuttosto che di un argomento di discussione epistemologica” (Andrew Baird in Maj, Lista 2008, p. 50). In base a tale ingiunzione “non si dovrebbe abbracciare o sottoscrivere nessuna teoria della rappresentazione storica che possa avallare la ‘relativizzazione’ o negazione dell’Olocausto – o impedire la capacità di dichiararla ‘non vera’:

Molti di coloro che hanno elaborato tale associazione avevano la tendenza a rispondere alle critiche mosse alle fondamenta epistemologiche della storia non già difendendo queste stesse fondamenta, ma limitandosi ad affermarne appassionatamente l’auspicabilità e la necessità. Naturalmente ciò che è stato messo in discussione nella critica postmoderna della storia non è stata l’auspicabilità della fondazione epistemologica ma la sua possibilità (Andrew Baird in Maj, Lista 2008, p. 51).

È in questo scenario che è venuta emergendo la peculiarità delle posizioni anticipatrici di de Certeau, il cui lavoro, forse per il fatto di essere uno storico 'praticante' e non solo un teorico della storiografia, è stato decisamente dispensato dalle accuse di ‘irresponsabilità’. In una lettera di Vidal Naquet riportata da Luce Giard, si fa menzione del turbamento provato da de Certeau in relazione al caso Faurisson:

Michel de Certeau fu profondamente scosso da questo perverso delirio e mi scrisse una lettera in proposito […]. Ero convinto che esisteva un discorso riguardante le camere a gas, che tutto doveva passare attraverso le parole, ma che al di là, o per meglio dire al di qua di questo, c’era qualcosa di irriducibile che, in mancanza di meglio, continuerò a chiamare realtà. Senza questa realtà, come si fa a distinguere tra romanzo e storia?

L’intervento di Baird si segnala inoltre per il fatto di cogliere nell’approccio dello storico francese una modulazione peculiare per cui “mentre l’ethical turn tende a collocare l’etica della storia ‘dopo Auschwitz’, de Certeau la colloca ‘dopo il Maggio '68’”, ossia alla luce dell’esame di una “architettura sociale della conoscenza” capace di dar luogo a una ricerca di trasformazione radicale, il cui esito fu tuttavia la “chiusura quasi immediata – attraverso la storicizzazione – di qualunque possibilità di trasformazione” pur apertasi con i fatti del Maggio, e subito sfociata nel dogmatismo, ossia “l’imposizione di leggi in nome del ‘reale’”. Come ha colto Hayden White, “il maggio ’68 sembra aver cristallizzato la sua visione di una nuova storiografia, che intende concentrarsi sull’’assente della storia’ e le ‘voci’ messe a tacere dai discorsi propri del potere” (Hayden White in Maj, Lista, p. 40).

Linguistic Turn?

Talune letture hanno visto in de Certeau sostanzialmente uno dei rappresentanti francesi del Linguistic Turn, rinchiudendolo pertanto dentro un approccio meramente retorico del discorso storico, nell’ambito cioè di una visione eminentemente discorsiva della disciplina. In realtà, in de Certeau – come del resto in Ricoeur – la storia non va intesa come una mera tropologia, come una delle varianti della fiction, sulla scia di Hayden White. Al contrario, a giudizio di François Dosse, de Certeau insiste:

Sur l’ouverture par l’histoire d’un espace inédit autour de la quête d’une vérité qui la distingue fondamentalement du simple “effet de réel”, selon les termes de Roland Barthes. L’objet de l’histoire comme l’opération même de l’historien renvoient à une pratique, à un faire qui déborde les codes discursifs. L’écriture de l’histoire se situe donc dans  un entre-deux, toujours en déplacement, dans une tension entre  un dire et un faire: “Ce rapport du discours à un faire est interne à son objet”. Le texte de l’historien, sans se substituer à une praxis sociale ni en constituer le reflet, occupe la position du témoin et celle du critique (Dosse 2006, p. 27).

La scrittura della storia non si esaurisce dunque nella narratività, dimensione che pure indubbiamente le appartiene. Ma come intendere tale “espace inédit”? Operando mediante le pratiche che sono proprie alla disciplina, la dimensione soggettiva fa ingresso in uno “spazio inedito” mediante un “fare” che eccede la dimensione discorsiva. Lo scarto rispetto a Barthes o a White sembra consistere nel fatto che “se abbandona il suo luogo specifico – il limite che pone e che riceve – la storia si scompone, per diventare o mera finzione (il narrato di quello che è accaduto), ovvero riflessione epistemologica (la chiarificazione delle proprie regole di lavoro)”. Infatti:

Anche lo storico, respinto verso il suo presente e verso un passato, fa l’esperienza di una prassi che inestricabilmente è la sua e quella dell’altro (un’altra epoca o la società che oggi lo determina). Il suo lavoro verte sull’ambiguità stessa che il nome della sua disciplina indica. Historie e Geschichte: ambiguità, in ultima istanza, ricca di senso. La scienza storica non può infatti disgiungere completamente la propria pratica da quello che essa coglie come oggetto, e deve incessantemente precisare le forme successive di tale articolazione (de Certeau 2004, p. 57).

Come ha notato ancora Dosse in riferimento alle posizioni espresse da Paul Veyne nel volume del 1971 Come si scrive la storia:

Si l’introduction du "je" comme fondatrice de l’opération historiographique est considérée avec faveur, Certeau ne cache pas ses réserves devant l’orientation de Veyne lorsque ce dernier laisse en suspens la question du rapport entre le traitement du discours historique et les pratiques d’une discipline, invitant à ne pas délaisser un des pôles constitutifs de l’écriture historienne (Dosse 2006, p. 27).

In effetti, pur condividendo il rilievo da dare alla dimensione retorica propria del discorso storico, de Certeau si discosta da talune posizioni, come per l’appunto quella di Hayden White, laddove intende la scrittura della storia fondamentalmente come una pratica, una 'produzione', in questo richiamandosi esplicitamente al magistero di Michel Foucault. De Certeau cita White in riferimento a Michel Foucault (cit. in White 1979) e al concetto di soggetto inteso come effetto di pratiche e in relazione al rapporto storia-struttura.

Robinson e la traccia

Un altro nucleo presente nel volume miscellaneo è costituito dalle modalità in cui si struttura il rapporto tra realtà e finzione, tra storia e racconto, tematizzato da Barnaba Maj in riferimento alla “eterologia” delle pratiche discorsive del misticismo seicentesco ("Les traces de l’autre": Robinson Crusoe e il problema della storia). Il fictitious “non dissolve la realtà storica riducendola all’operazione discorsiva della storiografia. Al contrario, mettendo in luce il carattere di finzione (nel senso istituzionale del termine) di questa operazione, le pone sempre di fronte il problema dell’alterità irriducibile della realtà storica” (Maj, Lista 2008, p. 134). La questione era già stata affrontata da de Certeau in La storia: scienza e finzione, ma soprattutto ne L’assente della storia, e si fonda sull’assunto che:

La storia implica una relazione con l’altro in quanto assente, ma un assente particolare, che, come si dice nel linguaggio comune, “è passato”. Qual è dunque lo statuto di questo discorso che si costituisce nel parlare dell’altro da sé? In che modo funziona questa eterologia che è la storia, logos dell’altro? [...] L’aspetto altro del reale riemerge nella finzione, si ripresenta nell’irrealtà del fantastico, riappare sotto le spoglie della figura letteraria del fictitious, dopo essere stato eliminato dalle pratiche produttrici di ‘fatti oggettivi’ (de Certeau 2006, pp. 184 e 188).

Credo opportuno riprendere per esteso una sequenza tratta da La storia: scienza e finzione in quanto particolarmente esplicita:

La storiografia occidentale è in perenne lotta contro la finzione […]. Non che con ciò essa dica la verità […] piuttosto, per mezzo della critica dei documenti, lo studioso elimina l’errore della fabula. Il terreno che guadagna rispetto a questa, lo conquista diagnosticandone il falso. Egli scava […] come se […] cercasse di eliminare il falso piuttosto che stabilire il vero, quasi che gli fosse concesso di produrre la verità soltanto determinando la menzogna.

Da ciò deriva una serie di implicazioni che travalicano le questioni di metodologia per attestarsi su un piano eminentemente teoretico. Infatti:

Il discorso tecnico capace di individuare gli errori che determinano la finzione si ritiene autorizzato a parlare in nome del reale. Stabilendo a partire da criteri propri il gesto che determina i due discorsi – l’uno scientifico e l’altro di finzione – la storiografia si ritiene dotata di un rapporto con il reale per il semplice fatto che il suo contrario viene posto sotto il segno del falso. [...]Essa implica un duplice scarto che consiste, da un lato, nel rendere plausibile qualcosa come vero dimostrando un errore e, al tempo stesso, nel far credere qualcosa come reale smascherando il falso. Essa suppone dunque che ciò che non è falso debba per forza essere reale. [...]A partire da questo momento, la finzione viene confinata nel regno dell’irreale, mentre al discorso tecnicamente predisposto per determinare l’errore viene attribuito il privilegio supplementare di rappresentare il reale. I dibattiti fra ‘letteratura’ e storia permetterebbero di illustrare agevolmente tale suddivisione (de Certeau 2006, pp. 51-52).

Barnaba Maj si sofferma allora su alcune figure utilizzate da de Certeau, quali la teoria delle finzioni di Jeremy Bentham e di Robinson Crusoe, definito uno degli ultimi miti occidentali prima di Totem e tabù. Segnatamente, la scoperta della traccia per eccellenza, l’orma di Venerdì, “vestige humain d’un pied nu parfaitement empreint sur la sable”. Infatti, “come Robinson, anche lo storico è stato bouleversé (sconvolto) dalle tracce dell’assenza marcate sulle spiagge che delimitano la società e ne ritorna "alteré, mais non pas silencieux". La traccia è inquietante perchè ambivalente, in quanto “mostra soprattutto come due modalità di relazione con l’altro vengano alla luce: la razionalità (economica) e la finzione (onirica)”. Maj riprende qui la distinzione tra real e fictitous in Bentham, in relazione con l’eterologia di de Certeau, per cui “l’aspetto altro del reale riemerge nella finzione, si ripresenta nell’irrealtà del fantastico, riappare sotto le spoglie della figura letteraria del fictitious, dopo essere stato eliminato dalle pratiche produttrici di ‘fatti oggettivi’” (Maj, Lista 2008, pp. 145, 147).

In un altro contributo (Immagini-traccia e scrittura. Storio-grafia ed etno-grafia in Michel de Certeau) Silvana Borutti vede nell’impronta una traccia inquietante, perché “svelandogli il proprio ‘desiderio dell’altro’, rivela il carattere estraneo della sua identità più propria”, ragione per cui “l’inscrizione dell’orma sul suolo dell’isola (il luogo proprio) non racconta semplicemente l’altro, ma svela, nella presenza dell’altro, il fantasma che ci ‘rimorde’, che parla cioè di noi” (Silvana Borutti in Maj, Lista 2008, p. 74). Si tratta di commenti che rimandano all’importante Assente della storia, in cui de Certeau dichiarava che:

La scrittura storiografica dà vita a delle atopie: apre dei non-luoghi, delle assenze all’interno del presente. A volte organizza sistematicamente dei punti di fuga nell’ambito delle riflessioni e delle pratiche contemporanee. Essa si colloca così nelle regioni del sogno. Già Jeremy Bentham lo ricordava, e l’analisi freudiana ce lo ha fatto capire meglio: l’aspetto altro del reale riemerge nella finzione, si rappresenta nell’irrealtà del fantastico, riappare sotto le spoglie della figura letteraria del fictitious, dopo essere stato eliminato dalle pratiche produttrici di ‘fatti oggettivi’. A causa del residuo di oniricità che conserva, la narrazione storica non cesserebbe dunque di mettere in scena il carattere ‘perturbante’ dell’altro; e la componente ‘letteraria’ della storia contribuirebbe a conservare l’ambivalenza del reale, altro e stesso a un tempo (de Certeau 2006, p. 188).

Un paradigma indiziario?

Il tema della traccia nel Robinson Crusoe si ritrova anche in un volume dedicato al paradigma indiziario di Carlo Ginzburg, che raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Lille dal 13 al 15 ottobre 2005 (Thouard 2007). Intendendo saggiare la bontà e i limiti del “paradigma indiziario” come proprio delle scienze umane alla luce di diverse prospettive disciplinari (L’idée d’un ‘paradigme indiciaire’, Le procédé indiciaire, Signes et indices, Traces et signes naturels, De l’indice au récit de l’enquête), Denis Thouard introduce così il tema:

Une trace est l’indication que quelqu’un a passé par là. Elle indique une direction, non une signification. La trace est l’indice purement local d’un événement passé, alors que le texte est dejà la concrétion, la synthèse propre d’une formation de sens dans un médium qui peut le conserver suffisamment pour en permettere la reproduction avec suffisemment de sûreté dans un temps ultérieur. Le texte est à cet égard déjà un appareil d’enregistrement, quand la trace n’est qu’un indice fragmentaire. [...] C’est pourquoi les détectives de la tradition classiques sont, outre de fins déducteurs, des esprits encyclopédiques” (Thouard 2007, p. 16).

In un altro contributo Alexis Tadié ricorda come, posto di fronte alla traccia, Robinson sia in preda all’immaginazione: “Nor is it possibile to describe how many various Shapes affrighted Imagination represented Things to me in, now many wild Ideas were found every Moment in my Fancy, and what strange unaccountable Whimsies came into my Thoughts by the Way”. Insomma, la facoltà dominante cessa di essere la memoria “sur la quelle s’appuie l’histoire”. La imagination, che Bacone intendeva come “histoire feinte”, presenta la caratteristica aristotelica: “comme la poésie n’est pas liée par la réalité des événements, elle peut, contrairement à l’histoire, introduire de la grandeur dans les actions des hommes”. Qui un mito fondativo del moderno viene letto alla luce della opposizione storia/poesia, per cui quest’ultima si afferma in quanto storia vera; tuttavia, nella prefazione a Robinson Crusoe Defoe dichiarava che “il s’agit là d’une histoire et non d’une fiction” (Thouard 2007, p. 232). La figura di Robinson, studiato anche da Peirce, “montre comme notre culture [...] guide notre interprétation de l’empreinte. Mais ceci n’est possibile que parce que les indices peuvent contenir et peuvent être contenus par d’autre types de signes, à savoir une image” (Helmut Pape, cit. in Thouard 2007, p. 119). A partire dall’attenzione per il dettaglio che caratterizza la lezione di Aby Warburg, Marco Bertozzi ha affrontato in un altro contributo il tema dell’indizio nel romanzo poliziesco, riconducendolo alla pratica della venatio, che lo stesso Ginzburg ravvisava come spia del moderno nel celebre saggio del 1979, quando i contorni del paradigma indiziario si andavano delineando nell’Italia degli anni Settanta, emergendo da ‘luoghi equivoci’ della città industriale: i gialli comprati frettolosamente alle edicole delle stazioni ferroviarie, per venire poi abbandonati negli scompartimenti. Si tratta, come è stato osservato, di “saperi minori” i cui emblemi sono figure di outsider, irregolari, e in ogni caso marginali: da Poe a Gaboriau, da Sherlock Holmes al cattolico Father Brown di Chesterton.

Nel volume L’interprétation des indices non si fa menzione di Michel de Certeau, che tuttavia al paradigma indiziario si riferisce ne La fable mystique notando che “chaque terme connoté par 'mystique' devient en effet un roman policier en réduction, une énigme; il oblie à chercher autre chose que ce qu’il dit; il induit mille détails qui ont valeur d’indices”. Quella sorta di originale assente che è la voce dei mistici, grazie alla pratica storiografica consente che:

S’effectue un ‘travail du négatif’ dans la double ‘fiction’ des images du passé et des modèles scientifiques: il y creuse, il y sculte une historiographie. Il faut que les documents, accumulés et correlés, acquièrent la capacité d’altérer, par leur résistance, le corpus d’hypothèses et des codifications à partir duquel nous essayons de les interpréter (de Certeau 1982, p. 19).

Quando affronta il tema della finzione in relazione alla scrittura storica Michel de Certeau tocca dunque, inevitabilmente, la questione della verità in relazione al reale, anche in riferimento ai modelli quantitativi in base ai quali, “in virtù del tributo che essa paga all’informatica, la storiografia fa credere di non essere finzione”, e in cui “l’omaggio reso al computer nasconde l’antica ambizione di far passare il discorso storico come discorso del reale” (de Certeau 2006, p. 68), tanto più alla luce delle posizioni di Le Roy Ladurie, secondo cui “per quanto riguarda la storia quantitativa […] lo storico di domani dovrà essere un programmatore, o non sarà affatto”, e “solo il quantificabile può essere oggetto di una storia scientifica” (Le Roy Ladurie 1976, pp. 7, 18).

Le fantastique littéraire du XIXe siècle s’installe dans l’entre-deux qu’a constitué le clivage moderne entre le ‘réel’ et l’irréel. Il suppose, entre real and ficticious, la coupure qu’a instaurée une épistémologie de l’objectivité. En faisant jouer l’un sur l’autre ces deux termes (ce bruit, cette ombre, est-ce une ‘illusion’ ou quelque chose de ‘réel’?), il trouble progressivement l’opposition sur la quelle s’appuie l’affirmation positiviste de réalité (de Certeau 1982, p. 83).

E se è auspicabile una “ricomposizione, che separi il récit puramente narrativo (la fiction), da quello funzionale e specifico degli storici, insistendo sulla clausola – che è anche una pratica e una professione – della ricerca della verità […] lo storico è inevitabilmente costretto a cercare delle ragioni teoriche che lo difendano dall’invasione del narrativo” (Ricuperati 2005, p. 120).

Etica dello storico ed etica della psicanalisi

L’urgenza dell’interrogazione sul rapporto tra realtà e finzione segna l’intero campo del moderno: nello spazio di confine che vede il venir meno di quella che Giorgio Agamben ha chiamato “epoca emblematica”, Cartesio dichiarava: “per metodo io intendo […] delle regole certe e facili […] osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso”, ma è curioso che proprio quel metodo sia stato formulato in forma di discours autobiografico, “come in un quadro”: “sarò lieto di mostrare in questo discorso quali sono le vie che io ho seguite e di rappresentare la mia vita come in un quadro”. Non basta: “io però, presentando questo scritto soltanto come una storia o, se preferite, come una favola…”. La dimensione narrativa propria delle “forme di storia” (Hayden White) appare inestricabilmente connessa, sin dalle parole del suo fondatore, proprio alla definizione dello statuto della scienza.

Nel De Pictura (1435) Alberti parlava del quadro come finestra aperta sulla “historia”: taglio, inquadratura, che sola permette che una “historia” si dia. La finestra appare come la condizione perché vi sia qualcosa da raccontare e descrivere. Tale quadro, che fa del mondo una scena, si configura come condizione della storia stessa, finestra che inquadra il tempo. Nel suo mirabile studio dedicato all’invenzione del quadro, Victor I. Stoichita ricorda che ancora nel 1629 Cartesio così scriveva a Mersenne a proposito de Le Meteore: “quanto al resto, Vi prego di non parlarne con nessuno al mondo; giacché ho stabilito di esporlo al pubblico, come un campione della mia Filosofia, e di restar nascosto dietro il quadro per ascoltare quel che se ne dirà […]. Del resto Apelle […] esponeva le sue opere finite in una loggia ai passanti, e, nascosto dietro il quadro (post tabulam), ascoltava le critiche che gli venivano fatte…” (Stoichita 1998, p. 201). Se la storia presuppone dunque l’instaurazione di una campitura dello spazio e suppone un teatro del mondo, “l’histoire chrétienne, entée sur la Passion, suppose et emporte une passion de l’image” (Wajcman 2000).

È a questo livello che l’etica dello storico viene sollecitata a un’esplicita relazione con l’etica della psicanalisi; de Certeau si riferisce infatti esplicitamente all’unico seminario di Jacques Lacan inteso per una pubblicazione, il settimo, dal titolo L’etica della psicanalisi. Come emerge in particolare dal contributo di Silvana Borutti in Sulla “traccia” di Michel de Certeau, la questione dell’etica della responsabilità dello storico si affronta assumendo la questione dello statuto della verità e del soggetto. Infatti, se il soggetto non è univoco, alla luce della freudiana Ich-spaltung, come si pone la questione del vero?

De Certeau designa con il termine ‘denegazione’ (dénégation), che possiamo leggere attraverso il concetto freudiano di Verneinung, questo rapporto con l’alterità passata, a significare che si tratta di un rapporto ontologico. La storia instaura una frattura col passato, ma questa frattura è continuamente rimessa in causa: il passato, che si vorrebbe ridurre ad oggetto, ritorna come un revenant a formare l’identità presente (Borutti, in Maj, Lista 2008, p. 70).

Vale la pena ricordare che sia Carlo Ginzburg sia Giorgio Agamben si sono riferiti al saggio che Jean Hyppolite – maestro di Michel Foucault e interprete di Hegel sulla linea di Alexandre Kojève (e Jean Wahl) – ha dedicato alla Verneinung freudiana e che è contenuto negli Scritti lacaniani. La questione della fiction nella pratica storiografica appare strettamente connessa a un soggetto diviso:

Di questa verità Lacan poneva le basi fin dal 1936, attraverso l’analisi di quello che egli chiama ‘lo stadio dello specchio’. Questa scena infantile non rappresenta per lui solamente una fase dello sviluppo (compresa fra i sei e i diciotto mesi), ma una ‘funzione esemplare’. Mentre il bambino sviluppa soltanto delle esperienze corporee frammentarie, successive e mutevoli, dallo specchio egli riceve quell’immagine che lo rende uno, ma attraverso una finzione [...]. In virtù dell’alienazione che lo identifica con quella cosa altra da lui: un’immagine speculare. Un’esperienza che si potrebbe formulare così: io sono quello. L’Io si forma solo attraverso un’alienazione (de Certeau 2006, pp. 221-2).

Se indubbiamente lo studio della mistica – oggetto privilegiato della pratica storiografica di de Certeau – si mostra come polo d’attrazione tra il lavoro storiografico e la ricerca psicoanalitica, già ne La scrittura della storia emergeva la rilevanza del tema della “scissione del soggetto” e l’idea che il soggetto non possa essere considerato come una realtà psichica determinata, “piena”, coincidente con se stessa e priva di faglie, ma si trovi sempre spiazzato, dislocato. Ancora una volta, se il soggetto non è univoco, come si pone la questione del vero nella ricostruzione del passato? E come si configura la relazione tra storia e memoria? Nel Seminario 1965-1966, L’objet de la psycanalyse, seduta del 1 dicembre 1965, si dice:

C'est assez dire au passage que dans la psychanalyse l'histoire est une autre dimension que celle du développement, et que c'est une aberration que d'essayer de l'y résoudre; l'histoire ne se poursuit qu'en contre-temps du développement. Peindre l'histoire comme science a peut-être à faire son profit si elle veut échapper à l'emprise toujours présente d'une conception providentielle de son cours.

Dopo Freud è ancora possibile assumere univocamente l’aurea formula di Ranke: “wie es eigentlich gewesen”? Essa sembra non potersi più separare dall’aforisma freudiano, di sapore eracliteo, “wo Es war soll Ich werden”, laddove l’univoco e definitivo “gewesen” (stato, ac-caduto) di Ranke incessantemente dialoga con il movimento inscritto nel “werden” di Freud (avvenire), destinato a sovrapporsi fino a sostituire – nel “disagio della civiltà” – l’originario e apodittico “war”. Sia come sia, la concezione della storia di Michel de Certeau, espressa anche nella citazione virgiliana (Eneide I, 405) riportata nel titolo, pare generata da questi corto-circuiti, come quando dichiara che “ce qui est d’abord en cause, c’est la formalité du discours et un tracer (un marcher, Wandern) de l’écriture: la première circonscrit un lieu; le second montre un ‘style’ ou un ‘pas’, au sense où, d’après Virgile, ‘la déesse se reconnaît à son pas’” (de Certeau 1982, p. 28). Per esempio, laddove, parlando di “allegoria historiae”, dichiara – nel segno della Nachträglichkeit freudiana e della prospettiva “anacronostica” recentemente offerta da Georges Didi-Huberman (2007) – che “l’herméneutique a elle aussi forme historique: il faut attendre le second événement pour que le premier devienne sa figure”. Se ne può vedere un esempio nella congettura di James Frazer, ripresa da Edgar Wind, della crocifissione di Aman che, alla luce di alcuni documenti rinvenuti da Franz Cumont, trova il suo senso in quella di Cristo (James George Frazer, La crocifissione di Cristo, [1900; 1913] a cura di Andrea Damascelli, Macerata 2007), ovvero, ancora, nello studio che apre La fable mystique, dedicato a Bosch, figura studiata dallo storico francese che costituì oggetto d’interesse per Enrico Castelli ne Il demoniaco dell’arte (ne ha parlato, in "Engramma", Corrado Bologna in Innamorarsi lentamente di una Categoria). Del resto, a proposito della tensione insita nell’immagine, scrive Freud in un celebre passo:

La sua fantasia [di Norbert Hanold] non cessa di occuparsi di questa immagine. Egli vi trova un che di ‘moderno’, come se l’artista l’avesse intravista per la strada e ritratta ‘dal vero’. Attribuisce alla ragazza raffigurata nell’atto di camminare un nome: Gradiva, ‘l’avanzante’ (Freud [1907] 1991, p. 463).

De Certeau e dintorni

Quel che nella presente miscellanea rimane implicito sullo sfondo, e che credo andrebbe invece approfondito, è il dichiarato debito dello storico francese nei confronti non solo di Foucault, ma soprattutto di Jacques Lacan, che non per caso proprio le figure di Bentham e di Robinson aveva proposto nel suo "Seminario". La storiografia di de Certeau ruota in effetti dichiaratamente attorno a due perni, due fuochi di un’ellisse: la 'pratica' di Michel Foucault e l’insegnamento di Jacques Lacan intorno alla questione del soggetto. Si tratta di un punto teorico che è opportuno esplicitare.

Infatti, se il ficticious di Bentham è stato oggetto di riflessione nel "Seminario VII", citato da Barnaba Maj, Lacan ha discusso Robinson Crusoe anche nell’inedito "Seminario VI", Le désir et son interpretation, in cui, affermando che la traccia diventa significante nella sua cancellazione che dà luogo a una iscrizione (la freudiana Niederschrift), tocca una delle radici teoriche della questione, in quanto investe lo sguardo dello storico alla luce dello statuto del soggetto:

Cette sorte de ne du "je ne dis pas" qui fait que précisément en disant que l'on ne le dit pas, on le dit – chose qui paraît presque une sorte d'évidence par l'absurde – c'est quelque chose à quoi il faut nous arrêter en rappelant ce que je vous ai déjà indiqué comme étant la propriété la plus radicale si l'on peut dire, du signifiant et, si vous vous souvenez, j'ai déjà essayé de vous porter sur la voie d'une image, d'un exemple vous montrant à la fois le rapport qu'il y a entre le signifiant et une certaine espèce d'indice ou de signe que j'ai appelé la trace que déjà lui-même porte, la marque de je ne sais quelle espèce d'envers de l'empreinte du réel (Lacan, "Le Séminaire VI", Le désir et son interpretation [inedito], seduta del 5 dicembre 1958).

Traccia dunque da intendersi come sorta di "indizio" o "segno," marchio di un rovescio dell’impronta del reale connessa con la funzione significante in quanto possibile cancellazione della traccia, residuo:

Je vous ai parlé de Robinson Crusoé et du pas, de la trace du pas de Vendredi, et nous nous sommes arrêtés un instant à ceci: est-ce déjà là le signifiant ? Et je vous ai dit que le signifiant commence non pas à la trace, mais à ceci qu'on efface la trace, et ce n'est pas la trace effacée qui constitue le signifiant, c'est quelque chose qui se pose comme pouvant être effacé qui inaugure le signifiant; autrement dit, Robinson Crusoé efface la trace du pas de Vendredi mais que fait-il à la place? S'il veut la garder, cette place du pied de Vendredi, il fait au minimum une croix, c'est-à-dire une barre et une autre barre sur celle-ci: ceci est le signifiant spécifique. Le signifiant spécifique est quelque chose qui se pré¬sente comme pouvant être effacé lui-même et qui justement dans cette opération de l'effacement comme tel subsiste. Je veux dire que le signifiant effacé, déjà se présente comme tel, avec ses propriétés propres au non-dit. En tant qu'avec la barre j'annule ce signifiant, je le perpétue comme tel indéfiniment, j'inaugure la dimension du signifiant comme telle. Faire une croix c'est à proprement parler ce qui n'existe dans aucune forme de repérage qui soit permise d'aucune façon. Il ne faut pas croire que les êtres non-parlants, les animaux, ne repèrent rien, mais qu'ils ne laissent pas intentionnellement avec le dit, mais avec les traces des traces (Lacan, "Le Séminaire VI", Le désir et son interpretation [inedito], seduta del 5 dicembre 1958).

Sul tema della traccia si veda ancora "Le Séminaire livre XVI", D’un Autre à l’autre, dove la re-iscrizione configura lo spazio della soggettività sulla base di un originale perduto “da sempre”:

Un être qui peut lire sa trace, cela suffit à ce qu’il puisse la réinscrire ailleurs que là où il l’avait d’abord porté. Cette réinscription, c’est là le lien qui fait dès lors dépendant d’un Autre dont la structure ne dépend pas de lui. Tout s’ouvre à ce qui est du registre du sujet défini comme celui qui efface ses traces (Lacan 2006, p. 314).

Certo, la connessione de Certeau-Foucault-Lacan va stabilita tenendo conto della ricezione di questi autori in Italia. Nadia Fusini, recensendo il "Seminario V", Le formazioni dell’inconscio ("La Repubblica", 18 febbraio 2005), ha osservato che da noi Lacan non è stato ancora letto in modo adeguato. Si citano spesso gli Scritti, ma non il Seminario, che in effetti è stato solo parzialmente tradotto in italiano e ancora solo parzialmente pubblicato in francese. Fusini nota lo scarto tra la scrittura nei primi e nel secondo, dato che:

Lacan pratica un insegnamento ‘orale’ in cui la psicoanalisi non è tanto materia di insegnamento, quanto, piuttosto, un modo di tenere in tensione permanente e perenne il ‘discorso’, sì che l’energia discorsiva muova insieme la domanda di chi insegna interrogando e di chi ascolta interpretando […]. Si è detto di Lacan che è un grande manierista, che pratica un’arte consumata del trompe l’oeil, che è un prezioso, che più che un ritorno a Freud abbia operato una proliferazione bizantina del suo discorso. Non è così per me. Per me Jacques Lacan è l’autore di certi libri che ho letto e rileggo perché in essi trovo qualcosa che dà nutrimento alla mia ricerca di senso.

Negli anni Settanta Lacan è stato discusso quasi esclusivamente da teorici e critici della letteratura, e quasi mai dagli storici. Salvatore Settis ha curato la pubblicazione del carteggio tra Sebastiano Timpanaro e Francesco Orlando, che non è stato solo un attentissimo lettore di Lacan e insigne teorico della letteratura, ma ha anche operato in contiguità con Carlo Ginzburg (per esempio nel volume Crisi della ragione del 1979). Da esso emergono utili esempi, come quando Timpanaro esordisce dichiarando:

Mi rendo ben conto, infatti, che sulla psicanalisi, su Lacan, su tutta l’odierna cultura francese la mia preparazione è lacunosissima, sicché c’è voluto davvero del ‘coraggio’ (anche in senso deteriore!) per arrischiarmi a trinciare tanti giudizi, molti dei quali, senza dubbio, saranno inesatti o errati (Timpanaro, Orlando 2001, p. 7).

Ciononostante, la “preparazione lacunosissima” non impedisce di affermare che:

A Lacan ho riservato un trattamento peggiore che agli altri perché mi è sembrato (e non credo di essere il solo a pensarlo) che in lui gli aspetti ‘ciarlataneschi’ sopravanzassero gli aspetti ‘scientifici’ ancor più che in Levi-Strauss e in Foucault: fino a farmi dubitare se gli aspetti scientifici vi siano effettivamente (Timpanaro, Orlando 2001, p. 8).

Non molto diverso è il caso della ricezione di Foucault, come ha notato Mauro Bertani e al quale rimando (Foucault 2001). Ritornando recentemente sulla questione («La Repubblica», 5 dicembre 2008) Fusini ha auspicato di:

Demolire le false resistenze di chi si protegge dall’incontro con Lacan invocando a pretesto difficoltà astruse, impervi concettismi. Non c’è niente di astruso qui, provare per credere. C’è invece la straordinaria impresa di qualcuno che legge il mistero della nostra esistenza di uomini e donne ora e sempre nel mistero della lingua, nella dimensione creativa della parola umana. Per questo Lacan riconosce che la cultura classica gli è essenziale.

Se è vero che “la lezione aperta da Michel de Certeau” riguarda “il suo modo originale di trasformare in grande storia le pratiche del quotidiano” insegnando “a una nuova generazione di storici di approfondire il rapporto con le pratiche, con le arti del fare, con le cose della vita quotidiana, già in qualche modo presenti nella vie matérielle braudeliana” (Ricuperati 2005, pp. 74, 117), la sua opera non può esser letta dagli storici in modo monco, deprivata dell’istanza teorica che la pervade, e questo anche al fine di evitare che la sua ricezione possa subire un destino analogo a quello toccato ad Aby Warburg che, all’indomani dell’Olocausto, è stato inteso – anche da figure grandissime quali Gombrich, Wittkover o da noi Eugenio Garin – senza la dimensione metodologica della sua lezione, che si concreta nel progetto Mnemosyne, e che insegna a leggere l’immagine come sintomo rivelatore di una tensione che investe il rapporto storia-memoria. Del resto, in una lettera alla moglie del 2 novembre 1928, Warburg stesso scriveva che “senza Hegel è impossibile comprendere la Biblioteca Warburg” (cit. in Stimilli 2004, p. 5).

Michel de Certeau intende il discorso lacaniano alla luce dei rapporti con la tradizione letteraria e con quella mistica e l’interesse nei confronti di quest’ultima (da intendersi non tanto come un tipo di esperienza religiosa quanto come configurazione di un discorso), concretatosi in alcuni ben noti lavori, si sviluppa a partire da qui, subendo peraltro le critiche di Jacques-Alain Miller, che accuserà La fable mystique di parlare “misticamente della mistica”. Una “guida” dichiarata di Lacan, Alexandre Koyré, aveva studiato la mistica come interfaccia della cosiddetta rivoluzione scientifica in una serie di lavori giovanili che non hanno mai avuto una versione italiana (anche qui si pone la questione della sua ricezione italiana alla luce di una politica editoriale che ha privilegiato solo alcuni aspetti della produzione di autori rilevanti del Novecento). Sarà un altro russo a Koyré vicinissimo, Kojève, a indirizzare la cultura francese in direzione di una nuova lettura di Hegel. Sollecitazioni come queste discusse sopra, insieme alle tante altre presenti nel volume Sulla “traccia” di Michel de Certeau e che sarà opportuno riprendere, vanno nella direzione della “rivoluzione copernicana” auspicata da Didi-Huberman in Devant le temps (Didi-Huberman 2007) al fine di togliere la storiografia dal “bord de la falaise”. 

Riferimenti bibliografici

Per citare questo articolo / To cite this article: Giuseppe Cengiarotti, “Vera incessu patuit dea”. Fabula e finzione nella storiografia di Michel de Certeau. Note a margine di Sulla “traccia” di Michel de Certeau. Interpretazioni e discorsi, a cura di Barnaba Maj e Rossana Lista, “La Rivista di Engramma” n.74, settembre 2009, pp. 36-55 | PDF dell’articolo