"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

90 | maggio/giugno 2011

9788898260355

Dinamiche del subconscio e del sottinteso nella coreografia del Filottete

Emanuele Pulvirenti

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Dopo il suo importante contributo alla Medea di Euripide del 2009 – diretta da Krzysztof Zanussi – e all’Aiace di Sofocle del 2010 – diretto da Daniele Salvo – Vasiliy Lukianenko torna a collaborare con la regia di turno a Siracusa: oggi, nel 2011, è Gianpiero Borgia al timone del Filottete. Come nei due spettacoli precedenti, anche la coreografia del Filottete, che definirei polymetis, sapientemente orchestrata da Lukianenko e dal team di regia, esprime più che un semplice atto di riempimento scenico: diventa accompagnamento armonioso, integrante e coinvolgente dei meccanismi del subconscio, delle trame dei pensieri dei personaggi, alla cui complessità psicologica riesce a dare forma estetica. Il logos sofocleo rivive, dunque, attraverso il filtro di una nuova messa in scena, ma in più si rinnova, perché dal testo teatrale, nella somma ricchezza antropologica che custodisce, ad ogni nuova rappresentazione si può estrapolare molto più di quello che esso esplicitamente dice: attraverso la gestualità e i movimenti sulla scena si può veicolare anche quello che il poeta lascia sottinteso. Ed è questa la sfida e al tempo stesso l’opportunità più interessante per il drammaturgo moderno.


Filottete entra in scena con il suo arco

Filottete: un barbaro?

L’entrata in scena di Filottete – introdotta da un duplice, lungo ritardo (prima la sua assenza fisica dalla scena, poi i lamenti, lugubre corteo canoro che precede e accompagna la sua ‘trista figura’ per tutta la rappresentazione) – non è che l’emblema della condizione psicologica del reietto: Filottete compare dall’alto del suo complesso cavernicolo – podio scenografico rispettoso della simbologia sofoclea della grotta amfityron, – che lo colloca sin dal principio in una condizione di emarginazione totale. Filottete, l’uomo-isola, vive in una caverna, lontano dai contesti abitativi usuali (un’altra isola, se vogliamo), dentro l’isola di Lemno: una triplice forma di isolamento che lo pone vicino agli dei e lontano dagli uomini.
Ma se nell’immaginario greco l’isolamento è di per sé simbolo dell’alterità, l’esclusione e l’estraneità al mondo civile, in una parola del ‘barbaro’, non si può dire che il Filottete borgiano rappresenti uno spazio ‘altro’ nel senso di ‘barbaro’. Egli non è nemmeno, come si è detto spesso, un personaggio indefinito e ‘neutro’ a metà tra la civiltà e l’inciviltà: il Filottete borgiano è integralmente greco, perché dei Greci ha la lingua, l’aspetto (sebbene abbrutito), la cultura. Mentre nel Filottete del 1984 il protagonista della vicenda era rappresentato come una sorta di Ben Gunn, in quello del  2011 si presenta in scena un Filottete speculare ai Greci, un greco ‘in negativo’, se vogliamo, ma pur sempre un greco: gli abiti che indossa sono sbrindellati e logori, e il loro bianco è sporco, ma esibiscono unità cromatica e stilistica con quella degli altri personaggi del dramma. Quei vestiti, che per il loro deterioramento potrebbero sembrare il perno della segregazione di un’alterità incivile, costituiscono, invece, il sintomo di un’alterità malata, espulsa per un insolito miasma, estranea alla normalità ‘sana’ di cui sono portatori Neottolemo e Odisseo.


Filottete nel 2011 (a sx) e nel 1984 (a dx)

L’alterità di Filottete è dunque un’alterità solo millantata dai suoi nemici: volutamente la regia ha trasmesso di Filottete un’immagine coreografica che parla di un uomo ancora greco, il quale, nonostante gli anni di esilio, si esprime ancora attraverso valori culturali – per dirla con Max Weber – appartenenti al ‘sapere nomologico’ greco. Ed è la lettura del testo sofocleo stesso che legittima tale interpretazione coreografica: che Filottete esulti per la lingua greca di chi gli parla, orchestri rheseis di difesa capaci di tener testa a quelle dello scaltro Odisseo, gioisca per la presenza di altri uomini al suo cospetto e resti attonito alla notizia della morte dell’amico Achille è già evidente dal testo di Sofocle, del quale la coreografia non fa che rendere espliciti i sottintesi. La sporcizia, l’immagine fatiscente, la fisionomia barcollante, i capelli untuosi e disordinati, le bende incancrenite da un lato e il vestiario evidentemente greco dall’altro proiettano sulla scena il concetto che Filottete è, sì, una scoria della grecità, ma pur sempre della grecità.

La visione del subconscio

E proprio un elogio a quella grecità è il fatto che il Coro canti in greco. Questa scelta registica si combina con quella ardita, ma felice, dello schema canoro polifonico, che nella sua molteplicità è un elemento coreografico determinante per trasmettere un messaggio anch’esso non esplicito nel testo, ma per nulla estraneo al mondo concettuale di Sofocle: la contemperanza di voci diverse può non essere un fattore disgiuntivo; che lo sia o meno dipende dalla volontà di incontro o di scontro tra gli interlocutori. La diversità non può prescindere da uno strato di sottofondo che ci rende uguali in quanto uomini, e questa è la grande acquisizione a cui Neottolemo perviene alla fine della tragedia. Il modulo corale polifonico, con la sua flessibilità, fluidità e pluralità, suggerisce, accompagna e infine esalta questa conquista gnoseologica di Neottolemo, che non è un eroe monolitico! Infatti, il saluto al termine dello spettacolo coincide con il canto finale del Coro, che gioisce apertamente per questa metamorfosi.


Il Coro di Filottete

Un soggetto dalle tante risorse, il Coro: tutti i percorsi dialettici, logici e lessicali dei personaggi sono ingegnosamente illustrati dalla sua gestualità, gravida di significato, in un complesso di movimenti partecipativi che sfruttano i canali dell’analogia e della metafora per semantizzare visivamente una serie di concetti. Ad esempio, quando il Corifeo invita a gesti i Coreuti a partecipare dell’indignazione di Neottolemo; oppure quando un Coreuta passa la lancia-remo al mercante, simboleggiando la complicità nel progetto disonesto ai danni di Filottete; o ancora quando i Coreuti partecipano emotivamente alle disgrazie di Filottete e usano la lancia come se fosse una gogna: in questa circostanza due di loro reggono quattro fiaccole, suggerendo la speranza che Filottete cambi idea e scelga di salpare per Troia; e davvero Filottete sembra voler avviarsi, dai movimenti scenici che compie…ma mentre il Corifeo gli tende la mano, esita, ci ripensa, e le fiaccole vengono spente.


Il Coro di Filottete

Ma il Coro si offre anche come voce dell’incerto e della possibilità: quando oscilla, nei suoi tempi e nei suoi movimenti, tra queste due alternative, più che come gruppo di uomini si configura come un insieme di piccoli eidola della coscienza, e davvero, a quel punto, diventa una “cassa di risonanza emotiva”, come ben afferma il regista (cfr. Conversazione con Gianpiero Borgia, regista di Filottete a cura di Mattia De Poli, in Numero Unico XLVII CICLO DI RAPPRESENTAZIONI CLASSICHE). Manifesto del subconscio, dunque, il Coro è sempre voce dell’interiorità, nella rappresentazione di Borgia: se Neottolemo è vicino a Filottete mentre questi soffre per il dolore lancinante, i Coreuti tengono le lance puntate contro di lui, come se tutti insieme fossero degli anticorpi contro la terribile infezione e il rischio del contagio. E quando Filottete supplica Neottolemo di custodirgli l’arco, mentre lui dà sollievo al proprio male con il riposo, il Coro continua a tenere le armi puntate su di lui. E il Coro, ancora, incitando Neottolemo ad agire, simula l’atto di remare, proponendo di fuggire via con l’arco, e uno dei Coreuti, durante quest’azione esorta Neottolemo: “Hai il vento in poppa, figliolo!”. E ad un certo punto, i componenti del Coro si affrontano a coppie, riproducendo il confronto delle opinioni divergenti di Neottolemo: qui i dissoi logoi acquistano cittadinanza scenica non con due podi a forma di barca, come accade nella scenografia dell'Andromaca - l'altra tragedia messa in scena quest'anno a Siracusa - dai quali parla ora un’Andromaca, ora un Menelao o una Ermione, ma con i Coreuti che si azzuffano, quasi fino a strozzarsi reciprocamente, per poi riappacificarsi e accogliersi l’un l’altro, fantasmi del dibattito che avviene nel dettato interiore di Neottolemo.

Il Corifeo, invece, sembra avere un ruolo autonomo, nello svolgimento scenico dell’azione. Spesso si limita ad osservare, e mentre il Coro, almeno nella fase iniziale del dramma, si trova sempre più indietro di Neottolemo, rispetto a Filottete, il Corifeo è, addirittura, sempre alle spalle dei Coreuti, o a lato, mantenendo una posizione defilata. Egli rappresenta l’ethos della convenienza e dell’utilità. “Portami con te!” supplica inizialmente Filottete rivolgendosi a Neottolemo, quando non sa ancora dell’inganno ordito: “mi metterai dovunque possa dare meno noia ai tuoi compagni di viaggio”. I Coreuti in questo istante sono lontani dal centro della scena, dove ci sono solo Neottolemo e Filottete, ma il Corifeo, che nelle battute precedenti era stato tanto accomodante nei gesti e nelle parole, quasi fosse l’unico a voler soccorrere il povero Filottete, nell’istante del bisogno si trova addirittura in un’area liminale rispetto al centro dell’orchestra, ma anche alla posizione occupata dagli altri Coreuti. È un personaggio del tutto indipendente, con proprie logiche drammaturgiche.

Ma neanche Coro e Corifeo agiscono con ruoli immutabili sulla scena: in un preciso momento del dramma, il Coro si divide nettamente, ed è l’istante di maggiore dubbio di Neottolemo, nel quale il tì dràso? diventa una domanda rivolta a tutti i suoi ‘compagni’. La divisione sull’orchestra diventa una questione etica: aiutare Filottete o no? Restituirgli l’arco? Solo dopo che Neottolemo decide definitivamente sul da farsi, divenendo comandante di fatto, oltre che di nome, ogni Coreuta lo appoggia e anzi, simbolicamente, depone l’elmo sul terreno: i membri dell’equipaggio, di nuovo reali, scelgono di rinunciare alla loro opinione e seguono quella di Neottolemo, che intende perseguire “giustizia e convenienza insieme”.


Il Coro si divide

Nel quadro coreografico generale si inserisce, poi, un personaggio solo in apparenza meteorico: il suonatore di tamburo; è delizioso immaginarlo come una sorta di satiro armato di tamtam, il quale (figura del tutto inventata dal regista) introduce un tocco a metà tra il buffo e il fatato nello svolgimento della recitazione, a seconda che funga da musico o da segmento vero e proprio del Coro. È un personaggio presente ma anche assente, al pari di tutti gli altri Coreuti: presente quando partecipa dei movimenti dei suoi ‘commilitoni’; simbolicamente etereo, invece, pur essendo in scena, quando dà ritmo a colpi di grancassa ai momenti più incisivi dei discorsi di Filottete, o a quelli più ricchi di pathos. E mentre per quasi tutto lo svolgimento della tragedia il Coro e questo suonatore hanno scandito momenti e movimenti diversi, quando Neottolemo restituisce l’arco a Filottete finalmente essi concertano insieme l’accompagnamento musicale. E la solennità di questo istante non è più marcata dall’innalzarsi delle lance in un’esaltazione eroica, ma dal loro poggiarsi sulla spalla dei guerrieri, i quali, rivolgendone la punta dietro la schiena, rinunciano alla difesa preventiva.

La ‘non-etica’ del mercante

Odisseo, entrando in scena, interrompe il momento cardine in cui Neottolemo sta per restituire l’arco a Filottete. Odisseo, il quale indossa sul capo (anche nell’Aiace del 2010) una sorta di fascia dell’intelletto, che lo qualifica come figura esperta della vita e dei discorsi, incarna la parola disonesta e truffaldina, che persegue un determinato interesse senza curarsi degli effetti che produce su altri. Odisseo/Zanoletti interpreta perfettamente, in tutta la sua gestualità altezzosa e sprezzante, questo costume etico. Ma c’è un momento, più di altri, in cui il rifiuto di Filottete a questo comportamento sleale e sofistico riceve concretezza coreografica: egli si ribella dall’alto della sua grotta alla non-etica di Odisseo, e frattanto i Coreuti fanno fatica a trattenerlo con le corde che lo legano, e, metaforicamente, non riescono a trattenere le sue parole contro l’ingiustizia, ben più potenti della sua prestanza fisica.

Controfigura di Odisseo, che lo segue come un’ombra dal suo secondo ingresso in scena in poi, è un mercante, il quale indossa una maschera rossa di sapore carnascialesco; il suo colore non può non risentire dei moderni influssi che provengono dal concetto di ‘diabolico’. Questo oggetto distintivo (tutti i personaggi, in scena, ne hanno uno: Neottolemo la spada; Odisseo la fascia; Filottete l’arco; i Coreuti elmo e lancia; il Corifeo una spada corta) viene adoperato dal mercante come mezzo per ammiccare al Coro, manovrandolo come fosse la palpebra che strizza l’occhio: è il simbolo dell’impostura che viene macchinata ai danni di Filottete, e infatti il mercante se la toglie temporaneamente quando deve ricordare a Neottolemo che essi operano all’interno di una finzione (una finzione nella finzione). Sembra che il regista abbia voluto dare una lettura meno tragica all’intera vicenda, attraverso la costruzione di questo personaggio come fosse un attore da commedia dell’arte, il quale si fa strumento di un inganno che già nel testo sofocleo era cinico senza essere completamente tragico.


Il Mercante dialoga con Neottolemo (Daniele Nuccetelli e Massimo Nicolini)

Il personaggio dell’arco

Un soggetto al quale il regista ha attribuito potente identità scenica è l’arco di Filottete. Strumento eloquente delle dinamiche che manovrano l’animo umano, l’arma costituisce la linea di demarcazione non tanto tra mondo ferino e mondo civilizzato, quanto tra il mondo della brama di potere e quello dell’umanità e dell’amicizia. L’arco ha una voce propria nello spettacolo: unico aspetto di Filottete impregnato di una perfezione incontaminata, rivela tutta la sua concretezza scenica quando viene puntato minacciosamente contro Odisseo, al punto da volgerlo in fuga; ma aveva conquistato quest’autonomia protagonistica già quando Filottete stesso, entrando in scena, lo teneva saldamente in mano, come un’estensione inseparabile del suo stesso braccio. Non ci sono indicazioni didascaliche nel testo sofocleo che accennino alla presenza scenica o meno dell’arco prima dei vv. 651-655, quando Filottete raccoglie i suoi pochi averi dalla caverna. Quindi è una precisa suggestione del regista che Filottete, piuttosto che afferrarlo per la prima volta a metà tragedia circa, si muova sin dalla sua prima battuta insieme all’arco, compagno indispensabile di un decennio di sofferenza. L’arco riceve così semantizzazione autonoma: non sancisce un passaggio di potere, come sembrerebbe quando Filottete lo dona a Neottolemo, ma una dimostrazione di fiducia: nel cederlo, è come se Filottete cedesse sé stesso, e ciò fornisce a Neottolemo la misura del torto che stava commettendo.

La conclusione del dramma

Coro e protagonisti si allontanano avvolti dal fumo che ha accompagnato l’ingresso in scena di Eracle (emerso dalla stessa roccia su cui è stato Filottete per così lungo tempo). Quest’ultimo sottinteso coreografico suggerisce che mentre lo svolgimento del dramma ha rappresentato una vicenda umana, inquadrata entro i contorni della verosimiglianza della quotidianità, l’ingresso di Eracle conduce i personaggi entro una cornice più nebulosa, quella mitica: ciò che faranno d’ora in poi conta poco per gli uomini, e molto per gli dei, di cui per tutta la tragedia, tranne che nel finale, si avverte il profondo distacco.

English Abstract

Emanuele Pulvirenti
Subconscious dynamics and understood in the Philoctetes choreography

Sophocles’s Philoctetes by Gianpiero Borgia makes the Chorus an indispensable character of the tragic scene: it doesn’t exist simply to fill a physical space, but to spread ideas by making them concrete and visible. The polymetis choreography dialogues in a fascinating way with all the mechanisms of subconscious, becoming the visual weave of thoughts and giving them an aesthetic form. Each dialectical and logical reasoning of the characters is cleverly suggested through a combination of movements pregnant with meaning, which exploits the channel of analogy and metaphor.

 

keywords | Philoctetes; Syracuse; INDA; Theatre; Gianpiero Borgia; Choreography; Dramaturgy; Sophocles; Subconscious.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Pulvirenti, Dinamiche del subconscio e del sottinteso nella coreografia del Filottete (Siracusa 2011), “La Rivista di Engramma” n. 90, maggio/giugno 2011, pp. 55-63 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.90.0017