Ci sono molte declinazioni possibili del doppio: un tema che, come è noto, ha avuto e continua ad avere un successo straordinario nella letteratura e ancor più nel cinema. Personalmente, per evitare un uso troppo metaforico del termine che spesso si incontra nella critica letteraria, preferisco parlare di doppio quando in un unico mondo possibile coesistono due incarnazioni di un unico personaggio, come nel William Wilson di Edgard Allan Poe; quando un io incontra se stesso, un uno diventa due, come indica il termine tedesco ‘Doppelgänger’, letteralmente ‘che cammina accanto’, coniato da Jean Paul, che ne dava una definizione molto precisa: “persone che vedono se stesse”. Distinguerei dunque questo uso ristretto, che si identifica in fondo con l’incontro con il proprio sosia, dagli innumerevoli casi in cui due personaggi presentano un certo tasso di specularità (sulla falsariga di coppie celebri come Don Chisciotte e Sancho Panza, Otello e Jago, Don Giovanni e Leporello), che spesso nella critica letteraria vengono definiti tout court doppi, e che forse è meglio chiamare sdoppiamenti. Non è una questione di puro nominalismo: è una necessità di chiarezza in un universo, come quello tematico, assai magmatico ed eterogeneo, fatto comunque di innumerevoli intersezioni. Lo possiamo notare con particolare evidenza proprio a proposito del doppio, che si incrocia con temi paralleli come il ritratto, l’automa, i gemelli, l’ombra: tutte forme di perturbamento dell’identità.
Per leggere in parallelo una tragedia greca densa e ambigua, capolavoro postumo di Euripide, con un dramma di successo della scena contemporanea e con le sue riscritture cinematografiche e narrative, ci rivolgeremo anche noi a un’intersezione tematica: quella fra sdoppiamento e seduzione, meno ovvia ma di grande interesse. La seduzione è infatti un tema che ha attirato l’attenzione di vari pensatori, da Kierkegaard a Baudrillard, configurandosi sempre più come una strategia retorica, legata al mondo infinito della possibilità, secondo il paradigma mitico di Don Giovanni. Sedurre significa far emergere io latenti e potenziali dell’altro, far esplodere contraddizioni e scissioni. Se questo avviene fra due figure di antagonisti e rivali, come è nel caso dei nostri testi, il meccanismo speculare si fa più intenso e ambiguo, incrinando sempre di più le differenze: l’Altro, il nemico, lo straniero, diventa una parte (nascosta) di sé. La seduzione implica così sdoppiamento, e viceversa. Sulla falsariga di questi nuclei tematici si possono quindi rintracciare echi dionisiaci in un testo contemporaneo che non nasce come riscrittura delle Baccanti, e che non ha il mito fra le sue componenti primarie: ma alle volte, soprattutto nel cinema, questa è la maniera più vitale con cui il mito trasmigra e rivive nell’immaginario; sono tracce mnestiche, motivi pregnanti che accomunano opere distanti nel tempo.
Il fulcro drammaturgico delle Baccanti non è la presunta presa di posizione ideologica di Euripide sul culto dionisiaco, come per lungo tempo ha pensato una critica inutilmente divisa fra chi vi scorgeva una conversione tardiva di un illuminista pentito, e chi invece l’ultima critica alla religione di un ateo coerente. Il nucleo è in fondo altrove: è il rapporto a due fra Dioniso e Penteo, sviluppato in una chiave di reversibilità e di rovesciamento simmetrico che scompagina l’identità dei personaggi. Se infatti nella scena clou della tragedia Penteo appare convertito al dionisismo e travestito da Baccante, per effetto della leggera follia ispiratagli dal dio, Dioniso sembra invece assumere nel finale i tratti del suo antagonista, dato che esercita il suo potere con spietata freddezza, parlando dall’alto come un deus ex machina, senza più traccia di quel contatto gioioso con i suoi adepti che traspariva dalla prima parte. Ma vediamo un po’ più nel dettaglio la contrapposizione fra i due personaggi, che è al centro anche delle messinscene contemporanee e di varie forme di riscrittura o riecheggiamento, come Sleuth. All’inizio dell’azione Penteo incarna una visione rigida e oppressiva del potere: è terrorizzato dal contagio dei riti bacchici, e mostra una chiara ossessione sessuofobica, dato che attribuisce alle Baccanti una promiscuità di cui il testo di Euripide invece non parla. Nello stesso tempo il suo comportamento svela un’attrazione latente per Dioniso, che affiora già nella litote con cui gli si rivolge durante il primo incontro: “Certo il tuo aspetto fisico non è privo di fascino (ouk amorphos), straniero” (trad. mia), subito controbilanciata da un’espressione di distanza, autentica negazione freudiana che proietta su altri il proprio interesse erotico: “almeno così penserebbero le donne, per cui sei venuto qui a Tebe” (vv. 453-454). Un interesse che trapela anche dalla descrizione fisica che viene subito dopo:
Hai riccioli molto lunghi, si vede che non ti dedichi alla lotta libera: ti scendono fino sulle guance, e sono pieni di desiderio. Sei molto attento a conservare la pelle chiara: vai a caccia di amori con la tua bellezza non alla luce del sole, ma nella tenebra (vv. 455-459).
Nel trittico di scene a due che scandiscono la tragedia, Dioniso mette in opera una strategia maieutica, quasi terapeutica, che fa esplodere la latenza di Penteo e culmina in una “leggera follia”: elementi che le regie moderne valorizzeranno e amplificheranno, soprattutto in termini di nevrosi e di omoerotismo represso. Tutto l’arco dell’azione è comunque improntato a un contrappunto fra i due antagonisti: se il secondo episodio termina con l’incarcerazione del dio e con l’ostentazione del potere del re, in quello successivo Dioniso scatena la sua logica confusiva, splendidamente visualizzata dal terremoto che scardina la reggia, evocato non a caso in un canto lirico accompagnato dalla musica e da una danza convulsa del coro: in quanto linguaggi non verbali, dell’emozione e del corpo, musica e danza hanno infatti una forte connotazione dionisiaca. In questa stessa occasione Dioniso mette prima al proprio posto un toro, e poi crea un doppio, un fantasma (phasma) sempre al fine di ingannare Penteo, che lo insegue invano; è un motivo che risale all’Iliade, dove gli dèi usano questa tecnica per salvare gli eroi prediletti (anche il doppio di Elena, nell’omonima tragedia, è un fantasma). Leggiamo come Dioniso racconta al coro delle Baccanti l’episodio, attribuendo le iniziative al dio di cui si finge un semplice seguace, con un ulteriore effetto di sdoppiamento, e usando espressioni di distanza rispetto agli eventi prodigiosi:
Mi sono preso gioco di lui anche in questo. Credeva di legarmi, ma non mi ha toccato, non è riuscito a prendermi: si nutriva di illusioni. Mi ha portato e mi ha rinchiuso in una greppia dove ha trovato un toro. Iniziò a mettere i lacci attorno alle sue zampe e ai suoi zoccoli: spirava rabbia, grondava sudore, si mordeva le labbra. Accanto a lui io me ne stavo tranquillo, seduto, e guardavo. Proprio in quel momento arrivò Bacco: scosse la reggia fin dalle fondamenta, e appiccò il fuoco dal sepolcro di sua madre [...] Allora Bromio, il dio Fremente (così mi pare, è una mia opinione) plasmò un fantasma in mezzo al cortile; Penteo si mise a inseguirlo, e assaliva e trafiggeva l’aria, convinto di sgozzare me. Inoltre Bacco lo danneggiò in un altro modo: fece crollare al suolo la casa. Tutto è in rovina per Penteo, che può solo osservare quanto siano amare le catene che mi voleva mettere. Sfinito dalla fatica, lascia cadere la spada: lui, un uomo, ha osato fare guerra a un dio! (vv. 616-622 e 629-636).
Non ha molto senso chiedersi fino a che punto l’incendio e il terremoto siano eventi reali, o pure allucinazioni di Penteo. È vero che più oltre nella tragedia la reggia appare ancora in piedi, ma è anche vero che qui si parla di una distruzione del suo interno, non visibile sulla scena; distruzione che rientrava fra l’altro nella tradizione dei miracoli dionisiaci. Non c’è dubbio che, secondo le convenzioni del teatro antico, questi eventi spettacolari dovevano essere solo evocati dalla musica e dai movimenti stilizzati del coro, non direttamente rappresentati. Il nucleo della scena è comunque il rovesciamento paradossale per cui il re aggressivo e arrogante, che ha voluto incatenare il dio del molteplice e della metamorfosi, si trova vittima di una beffa che gli fa vacillare ogni senso della realtà, e che lo fa precipitare in una vertigine di forme mutevoli e ingannevoli.
Con queste reazioni all’aggressione di Penteo (incendio, terremoto, metamorfosi in toro, doppio) Dioniso mette dunque in crisi l’idea di spazio e il principio di identità, due elementi cardinali della logica aristotelica dominante, “asimmetrica”, e impone una sua logica confusiva. Né questa serie di eventi perturbanti sulla scena, né il racconto del messaggero sugli eventi prodigiosi che accadono fuori scena sulle montagne del Citerone (lo stato di comunione miracolosa con la natura in cui vivono le Baccanti e la violenza distruttiva che sanno scatenare quando vengono aggredite), scalfiscono la rigidità di Penteo, che rimette in opera di lì a poco la sua aggressività.
È il grido disarticolato di Dioniso (uno dei momenti del testo di scardinamento del linguaggio, altra costante dionisiaca), un “Ah” che spezza il ritmo regolare della sticomitia, a creare una cesura netta: Penteo ha appena dato ordine di portare le armi e ha appena intimato il silenzio al dio, ma dopo il grido appare trasformato, in preda al desiderio voyeuristico di spiare le Baccanti. In questa seconda scena a due che chiude l’episodio più lungo della tragedia – una scena che Ingmar Bergman considera fra le più belle del teatro di tutti i tempi – Dioniso convince quasi completamente Penteo a travestirsi da donna e ad andare sul Citerone, dove troverà una terribile morte per mano della madre Agave. Quando Dioniso fa affiorare quell’attrazione repressa di Penteo per i riti delle Baccanti bersaglio della sua persecuzione maniacale, il rapporto fra i due personaggi inizia ad assumere tonalità sadomasochistiche:
DIONISO: Ah! Vuoi vederle tutte insieme sui monti?
PENTEO: Tantissimo! Darei tutto l’oro del mondo.
D: E come mai ti è venuto questo gran desiderio (erota)?
P: Vederle ubriache sarebbe uno spettacolo doloroso.
D: Eppure vedresti con piacere cose che ti faranno soffrire?
P: Certo, ma restando seduto in silenzio tra gli abeti (vv. 810-814).
Tutto il brano è impregnato di un erotismo latente: Dioniso lascia trapelare che il desiderio violento da cui Penteo è stato preso sia vedere proprio quella scompostezza sessuale che ha tanto perseguitato, mentre il re mostra un piacere masochistico all’idea di vedere l’oggetto della sua ossessione. Ovviamente, nell’espressione “cose che ti faranno soffrire” si avverte anche un’anticipazione del finale, e della morte tragica a cui Penteo sta andando incontro: la prolessi diventa più esplicita nella battuta con cui Dioniso, sempre nella veste di un seguace del culto, chiude l’episodio, rivolgendo un appello al dio in cui anticipa l’esito (“vado a far indossare a Penteo la veste con cui se ne andrà all’Ade, sgozzato dalle mani di sua madre”: vv. 857-58), e terminando con una definizione ossimorica molto efficace, che ricorda la visione di Eros dei frammenti di Saffo: “il più terribile e il più dolce” (vv. 860-61).
Alla fine di questo episodio Penteo mostra ancora resistenze al travestimento femminile, che rappresenta per lui una degradazione totale, anche se rientra in una diffusa prassi dei rituali di iniziazione. Quando, nell’episodio successivo, Penteo ricompare in scena travestito da Baccante, è in preda ad allucinazioni e alterazioni mentali: a forme di emersione della logica altra dell’inconscio, che colpiscono innanzitutto la sua percezione della realtà. In quanto linguaggio non verbale, la vista gioca un ruolo importante nel mondo dionisiaco: basta ricordare, nelle Baccanti, il verso con cui Dioniso, fingendosi sempre un adepto del dio, ricorda la sua iniziazione: “Io guardavo lui e lui me. Così mi affidò i suoi riti” (molto secca l’espressione greca con lo stesso participio in due casi diversi: horòn horònta) (v. 470). Inoltre, in tutto questo episodio il tema dello sguardo gioca un ruolo primario: Dioniso esercita il suo potere sadico intimando a Penteo di farsi guardare, sottolineando che solo ora la sua visione è quella autentica (“ora vedi ciò che devi vedere”: v. 924), e ritornando più volte sul tema del desiderio di spiare. Alla fine, dopo avergli aggiustato il trucco e insegnato i passi di danza, quando il ritmo regolare del dialogo si frantuma ulteriormente in mezzi versi e il testo evoca di nuovo, con agghiacciante ironia tragica, la morte a cui sta per andare incontro Penteo, Dioniso insiste ancora sulla componente esibizionistica e spettacolare del suo piano di vendetta: “tutti ti staranno a guardare” (v. 967).
Leggiamo il brano pronunciato da Penteo appena entrato in scena travestito da Baccante, che presenta diversi motivi di interesse:
Mi sembra di vedere due soli, e una doppia Tebe, una doppia città dalle sette porte. E tu che mi guidi mi sembri un toro: sul tuo capo sono spuntate delle corna. Ma sei mai stato una bestia selvaggia? No, solo ora sei diventato toro (vv. 918-921).
È un passo che condensa in pochi tratti l’incrinamento di alcune polarità primarie tipico dell’esperienza dionisiaca, e che ritroveremo anche in Sleuth: innanzitutto quella fra io e altro, dato che lo sdoppiamento percettivo mette in crisi il principio di identità e non contraddizione; quella fra uomo e animale, dato che, agli occhi allucinati di Penteo, Dioniso appare metamorfizzato in toro, secondo quindi una delle sue epifanie più tipiche (come nota Dodds, anche ai satanisti medievali il maestro appare con corna taurine); e quella fra maschile e femminile, dato che il re difensore e detentore del potere maschile si è travestito da donna. Questa densità di antinomie rappresenta l’emersione più netta della logica altra e perturbante che Penteo voleva negare: il culmine di una frenesia “simmetrica” (per richiamarci alle categorie di Matte Blanco) che investe tutto il cuore drammaturgico del testo, e anima tutta la seduzione dionisiaca di Penteo da parte di un dio metamorfico, profondamente duplice.
Pubblicato nel 1977, Sleuth è uno dei drammi di maggior successo di Anthony Shaffer, autore di numerosi lavori per la scena e per la televisione, e sceneggiatore di thriller tratti da Agatha Christie e di Frenzy di Hitchcock. Siamo dunque all’interno di un genere ben individuato e molto fiorente nella cultura britannica: il thriller ambientato nelle splendide dimore di campagna dell’aristocrazia. Un genere che mira a un’assoluta efficacia drammaturgica, qui potenziata anche dalla passione del protagonista per i giochi, e da una sottile vena ironica e parodica.
Già il titolo Segugio (reso in genere in Italia con L’inganno), tratto dal mondo della caccia, evoca però una dimensione più arcaica, che affiora infatti più volte nel complesso e concitato confronto a due fra l’anziano aristocratico e il giovane amante della moglie. Troviamo infatti alcune delle polarità primarie che l’esperienza dionisiaca tende sempre a incrinare e smontare: quella fra vecchiaia e gioventù, evidente nelle Baccanti nel primo episodio con i vecchi Cadmo e Tiresia desiderosi di danzare; quella fra nativo e straniero, che nelle Baccanti si concretizza nella finzione con cui Dioniso si presenta come un adepto proveniente dall’Oriente, dalla Lidia; d’altronde Dioniso è il dio nomade per eccellenza, che viaggia fino in India e mescola nel suo culto le diverse identità etniche; in Sleuth il giovane parrucchiere Milo Tindle è non a caso di origini italiane (il suo vero cognome è Tindarelli), il che evoca tutti gli stereotipi sulla sensualità mediterranea, mentre il padrone di casa, Andrew Wyke, proviene da un’antichissima famiglia della più pura aristocrazia inglese; e veniamo così alla polarità che spicca di più, quella sociale: va ricordato infatti che il potenziale scandaloso e sovversivo del culto dionisiaco proveniva in gran parte dall’abolizione al suo interno di tutte le gerarchie sociali, compresa quella fra schiavo e padrone.
I due protagonisti di Sleuth sono dunque profondamente differenti per età, provenienza etnica e classe sociale, ma, come ci insegna la teoria del desiderio mimetico di René Girard, il loro essere rivali in amore, il loro condividere lo stesso oggetto di desiderio, li trasforma inesorabilmente in doppi, cancellando tendenzialmente le differenze. Tutto il complesso gioco di lotta e di aggressione si rivela ben presto sintomo di un’attrazione latente, che diventa sempre più seduzione reciproca.
C’è un altro elemento che accomuna Sleuth al paradigma delle Baccanti, ed è l’elemento metateatrale e metalinguistico; nella tragedia di Euripide il dio del teatro, per sconfiggere il suo antagonista Penteo, mette in scena una complessa finzione che implica anche il più classico dei procedimenti teatrali: il travestimento, motivo che da Odisseo in poi è sempre legato alla destabilizzazione dell’identità, a una sua infinita flessibilità. In Sleuth troviamo prima un travestimento da clown, a cui Andrew obbliga il giovane Milo con la promessa di un arricchimento facile, provocandone la morte alla fine del primo atto. All’inizio del secondo atto compare in scena l’ispettore Doppler, e solo dopo un lungo dialogo serrato lo spettatore viene a sapere che la morte di Milo era solo apparente, e che il travestimento da ispettore è una nuova mossa con cui il ragazzo rilancia il gioco. Nel momento in cui sta per togliersi il travestimento, leggiamo una chiara allusione metaletteraria al tema del doppio, che rende esplicito un meccanismo finora rimasto fra le righe di ogni momento del dramma:
DOPPLER: Yes Sir. You see, we real life detectives aren’t as stupid we are sometimes portrayed by writers like yourself. We may not have our pipes, ot orchid houses, our shovel hats or deer-stalkers, but we tend to be reasonably effective for all that.
ANDREW: Who the hell are you?
D: Detective Inspector Doppler, spelt as in C. Doppler 1803-1853 whose principle it was that when the source of any wave movement, the frequency appears greater than it would to an observer moving away. It is also not unconnected with Doppler meaning double in German - hence Doppelgänger or double image. And of course, for those whose minds run to these things, it is virtually an anagram of the word Plodder. Inspector Plodder becomes Inspector Doppler, if you see what I mean, sir!
A: (a shriek) Milo!
Il fatto che il protagonista anziano sia anche un famoso scrittore di gialli di successo aumenta ovviamente la carica metaletteraria: Poddler è fra l’altro il nome del suo eroe, che ha una chiara assonanza con il termine plotter e quindi con l’ideazione dell’intreccio. Sleuth è infatti anche la storia di uno scrittore avvolto nella solitudine, che ama esercitare il proprio controllo mentale attraverso il gioco (pronuncia infatti una lunga battuta in cui teorizza la superiorità di giochi e di paesaggi rispetto al contatto umano), e che resta affascinato dalla carica vitale del suo rivale, trattato come una propria creazione letteraria, fino al colpo di scena finale e a un ambiguo omicidio catartico. In questo caso a trionfare non è dunque l’energia indistruttibile di Dioniso, ma la chiusura orgogliosa di Penteo.
Il valore e il successo di Sleuth sono stati amplificati grazie a due interessantissime versioni filmiche: la prima ha avuto come sceneggiatore lo stesso Shaffer, ed è stata realizzata in Inghilterra da uno dei registi più classici di Hollywood, Joseph Mankiewicz, come è noto affascinato dalle dinamiche attoriali e dalle rivalità generazionali, se si pensa al suo capolavoro All about Eve. I due ruoli sono infatti ricoperti da due attori che rappresentano al meglio il divario fra mondi e livelli sociali: Laurence Olivier, mostro sacro della scena inglese più classica e canonica, e Michael Caine, giovane di origini proletarie più legato alla nuova drammaturgia.
Per le nostre tematiche dello sdoppiamento va ricordato il ruolo fondamentale, realmente da protagonista, che ha l’ambientazione: gli innumerevoli automi, nelle forme più svariate di bambole, orologi, e giochi vari, visualizzano perfettamente le ossessioni mentali e sessuali di uno scrittore solitario, e danno al gioco sottile e violento di seduzione reciproca una dimensione ancor più perturbante, anche tramite movimenti di macchina rapidi e improvvisi che sembrano animare l’inanimato.
Trent’anni dopo un regista e attore britannico di grande risonanza internazionale, Kenneth Branagh, famoso, come Olivier, soprattutto per le sue interpretazioni di Shakespeare, autore anche di un riuscito apologo sulla vita degli attori, Nel bel mezzo di un gelido inverno, gira un remake di Sleuth, affidando la sceneggiatura a un grandissimo drammaturgo inglese, Premio Nobel della letteratura in quello stesso anno, nel 2005, che ha avuto con il cinema un rapporto lungo e intenso (celebre la sua collaborazione con Joseph Losey, e particolarmente riuscita la sua sceneggiatura di The Last Tycoon di Kazan).
Grazie allo stile frammentario e paradossale di Harold Pinter il gioco di sdoppiamento e seduzione fra i due antagonisti si fa ancora più ambiguo e complesso, dando alla componente omoerotica una presenza più corposa.
Con una scelta efficace e simbolica, il ruolo del protagonista anziano è affidato questa volta a Michael Caine, diventato a sua volta attore canonico, mentre il ruolo del giovane è impersonato dall’attore che oggi può incarnare al meglio la seduttività dionisiaca, Jude Law. Anche in questo caso l’ambientazione gioca un ruolo fondamentale: non più la ronda spettrale di automi, ma una serie di sculture contemporanee che producono una dimensione astratta e puramente mentale.
Fra questi due episodi si interpone un’altra riscrittura forse meno nota, ma di grande interesse: il romanzo Cinéma di Tanguy Viel.
È un romanzo che rientra in quella tendenza della narrativa postmoderna a raccontare e descrivere il cinema, a farne il proprio tema primario, come ha mostrato Vincenzo Maggitti nel suo Lo schermo fra le righe. Si tratta di una forma del tutto inedita di ekphrasis, che non evoca il rito caldo della sala buia, ma affronta forme di ricezione più frammentarie e casuali, come la visione in videocassetta o in TV. In particolare Viel racconta una ossessione maniacale per il primo Sleuth, frutto di innumerevoli visioni solitarie o collettive; in questo caso la seduzione è in primo luogo quella del film di culto nei confronti dello spettatore cinefilo, mentre lo sdoppiamento coinvolge una forma perversa di ricezione, un’autentica perdita di identità da parte del narratore, che accumula in un quaderno tutte le osservazioni e i commenti sul film (compresa un’interpretazione rivoluzionaria del finale come suicidio programmato di Milo, concepita alla quarantatreesima visione), classifica i propri amici sulla base delle loro reazioni e giudizi, e in fondo organizza tutta la propria vita in funzione del film. Un vero e proprio caso di possessione estetica: una magnifica ossessione filmica.
Con questa lettura dionisiaca di Sleuth nelle sue varie versioni non si intendeva certo suggerire che il play di Shaffer sia una riscrittura più o meno nascosta delle Baccanti: le due opere mantengono la loro assoluta autonomia e differenza di epoca e di genere. La lettura in parallelo sulla base di due importanti nuclei tematici può però gettare una certa luce in entrambe le direzioni: mostrare come la tragedia greca abbia formalizzato dinamiche psichiche complesse, che trascendono il loro contesto pur essendo fortemente radicate nella propria cultura; e mostrare allo stesso tempo come drammi e film contemporanei possano evocare in vario modo modelli mitici e temi di lunghissima durata.
Riferimenti bibliografici
- Baudrillard [1979] 1997
J. Baudrillard, De la seduction, Paris 1979; trad. it., Della seduzione, Milano 1997. - Dodds [1957] 1959
E.R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley 1957; trad. it., I Greci e l’irrazionale, Firenze 1959. - Fusillo 2006
M. Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le “Baccanti” nel Novecento, Bologna 2006. - Girard [1999] 2002
R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque (1961), Paris 1999; trad. it., Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano 2002. - Magitti 2007
V. Magitti, Lo schermo fra le righe. Cinema e letteratura del Novecento, Napoli 2007. - Matte Blanco [1975] 1981
I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, London 1975; trad. it., L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino 1981. - Shaffer 2009
A. Shaffer, Sleuth (1971), London-New York 2009. - Viel [1999] 2002
T. Viel, Cinéma, Paris 1999; trad. it. a cura di G. Bompiani, Roma 2002.
filmografia
English abstract
The theme of the “double” has been developed in many different ways in litterature, since the Classic antiquity, and it includes many shades of meaning. The essay starts with a fine enquiry on the mechanism and functions of the doubling in the Baccanti of Eurypides, to which the concept of seduction is linked – in the meaning of a precise rethorical strategy which reveals the hidden selves of the other. Along the lines of such reflections, the analysis continues with the verification of the paradigm doubling-seduction in the theatrical production of Anthony Shaffer – Sleuth – and in the two movies it inspired. The parallel interpretation of Baccanti and Sleuth shows how the Greek tragedy managed to represent complex psychological dynamics, and at the same time how contemporary dramas and movies can ambiguously portray the phantoms of the myth.
keywords | Doubling; Bacchae; Sleuth.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Fusillo, Sdoppiamento e Seduzione. Baccanti e L’inganno (Sleuth), “La Rivista di Engramma” n. 82, luglio/agosto 2010, pp. 15-27 | PDF