Indomita Psyche
La nostra anima di Alberto Savinio (1944) e Can’t Be Tamed di Miley Cyrus (2010)
Stefania Rimini
English abstract
“Grazie alla memoria, noi nel mirare le immagini, vediamo ciò che furono e ciò che saranno: è la poesia dello sguardo”.
Alberto Savinio
“Triforme come le arti che esercita Savinio è carico di mani e di occhi, questi occhi galleggianti e aerei che si affacciano dall’altra parte del visibile e del presente. Si affacciano sull’anima”.
Raffaele Carrieri
“La canzone resiste e ha resistito al cambiamento dei media, anzi dentro il cambiamento, perché i media continua ad attraversarli tutti, o quasi”.
Peppino Ortoleva
Il frastagliato mondo della popular music ha definitivamente consacrato nell’olimpo delle star l’intraprendente Miley Cyrus, figlia d’arte (suo padre è il noto cantante e attore Billy Ray Cyrus) e precoce talento made in USA, acclamata per un insolito mix di determinazione, carisma e insospettato sex appeal. Avvezza ai set fin dai nove anni, la sua stella comincia a brillare grazie all’interpretazione della fortunata serie televisiva Hannah Montana – targata Disney Channel – in cui dà prova di spiccate doti canore e interpretative. Il successo della serie le consente di diventare in fretta idolo dei teenager e le spalanca le porte del cinema, prima con Hannah Montana: The movie, poi con un ruolo drammatico in The Last song di Nicolas Sparks, per giungere poi a un piccolo cammeo comico in Sex and the City 2. Nonostante abbia solo 17 anni, la Cyrus vanta già, oltre a guadagni stratosferici, una serie di riconoscimenti internazionali legati alla doppia carriera di cantante e attrice. Lo scorso 24 maggio è stato distribuito in Italia il video del title track dell’ultimo album, Can’t be Tamed, che ha subito scalato le hit parade raggiungendo la prima posizione della classifica di iTunes Italia.
Se per i fans di tutto il mondo il nuovo look mostrato nel video ha segnato inequivocabilmente la raggiunta maturità fisica e mentale della Cyrus, per noi cultori delle trasmigrazioni del classico il travestimento piumato della protagonista rappresenta invece una sorprendente variazione sul mito di Psiche. Ad alimentare il nostro stupore è la forte analogia dell’ambientazione del video con il racconto lungo di Savinio La nostra anima, in cui la favola di Amore e Psiche narrata da Apuleio viene rovesciata in un ironico e straniante apologo. Naturalmente non ci sono notizie che attestino una possibile filiazione da Savinio, o comunque dalla tradizione iconografica del mito, ma l’idea warburghiana di traccia mnestica, di engramma, ci spinge ad azzardare una lettura in parallelo dei due testi. Al di là di legittime riserve, vale la pena sottolineare come ormai anche la mediastoria consideri i mezzi di comunicazione “motori di una dinamica evolutiva ‘a spirale’” (Ortoleva 2009, 221), in cui convergono eredità materiali e mentali di varia provenienza e declinazione.
Savinio e il “classicismo di domani”
Il “doppio talento” di Alberto Savinio, scrittore e pittore di straordinaria sensibilità immaginativa, ha sempre affondato le proprie radici in un sostrato culturale di chiara derivazione greca, da cui sono scaturite nel tempo alcune delle visioni più affascinanti. È lo stesso Savinio a sottolineare con insistenza l’appartenenza al mondo greco: “grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori” (Savinio 1942, 247). Si tratta di un’importante dichiarazione poetica, se solo si pensa alla centralità del mistero dello sguardo nell’opera dello scrittore; sono proprio gli “occhi trasformatori” lo strumento con cui l’autore rivisita, sul foglio e sulla tela, l’arcaico orizzonte del mito. La fenomenologia del classico, grazie alle prodezze stilistiche di Savinio, entra con energia dirompente nella galassia del contemporaneo, attraverso continue rimodulazioni, accordi imprevisti, combinazioni inattese. Nonostante un costante processo di dissacrazione delle forme, l’arte di Savinio mantiene intatto il rapporto con la tradizione, come del resto si evince da questo passaggio:
S’intende per Grecia un modo di pensare, di vedere, [...] una mente portatile e nei modelli più alti tascabile [...] la facoltà consentita a taluni di intelligere la vita nel modo più acuto e assieme più astuto, più lirico e assieme più frivolo (Savinio 1979, 9).
L’idea di una Grecia “portatile” e “tascabile” ci pare davvero rivoluzionaria, soprattutto se la si pone a confronto con la nostra era ipertecnologica in cui la comunicazione è scandita da miti e riti “a bassa intensità”, schematiche riproduzioni di formule, situazioni e tipi, quasi sempre privi dello spessore culturale dell’antico. Da perfetto conoscitore dei meccanismi e delle dinamiche della significazione mitica, Savinio riesce a trasferire i segni del classico dentro un immaginario pienamente novecentesco, attraversato da laceranti contraddizioni filosofiche e da ferite storiche sconvolgenti. Ciò che più colpisce delle sue re-visioni dell’antico è la capacità di raggiungere la profondità del dramma guardando le favole del passato “con amore leggero, amore ‘vaporizzato’” (Savinio 1950, 1266). Il disincanto ironico del suo stile produce continui effetti di straniamento, calcolate intermittenze del cuore e dello sguardo, così da inchiodare il lettore alla pagina – o alla tela – e costringerlo a ricercare il senso di tali epifaniche reviviscenze.
Non sfugge a queste atmosfere surreali il racconto La nostra anima, apparso nel 1944, in cui tre personaggi “mentre la guerra infuria nelle cinque parti del mondo, entrano tranquillamente nel museo dei manichini di carne” (Savinio 1991, 11). Nivasio Dolcemare, il dottor Sayas e la signora Perdita sono i visitatori di tale enigmatico edificio, “una specie di Museo Grévin, con questo in più che le figure non sono di cera ma di carne” (Savinio 1991, 14): la scelta della location è già indicativa del processo di riscrittura compiuto da Savinio, dal momento che tutto si svolge al riparo dalla furia del mondo, dentro uno spazio insieme reale e metafisico, vibrante di corrente elettrica e impulsi motori. È proprio la carne l’elemento stilisticamente più rilevante del racconto (soprattutto se si tiene conto dello scarto fisiologico rispetto agli amati manichini di tanti dipinti), per il continuo ammiccare della lingua a doppi sensi e lapsus di chiara matrice erotica (sasso per sesso, genitali per genitori) che scardinano la consueta rappresentazione dell’anima in termini di “soffio” e “alito”.
La contraffazione di Psiche è l’invenzione classicamente nuova del testo, la ragione stessa dell’opera: la tanto declamata beltà della fanciulla ha mutato segno e si è trasformata in una magrezza impressionante, accompagnata da oscure incisioni sulla pelle e testa di pellicano. La complessa iconografia della Psiche di Savinio merita uno studio approfondito che qui non possiamo permetterci; quel che più ci interessa è la degradazione fisica dell’anima, o meglio il recupero di una corporeità solitamente esclusa a vantaggio di una favolosa intimità di cuore e sospiri. L’anima che si mostra nel racconto di Savinio, infatti, è avvolta da un fetore di pollaio e di gabbia di conigli, gioca con “ulive escremenziali” ed è condannata all’eternità del riso, dietro cui si cela in verità un pianto senza fine. Questa generale “impressione di zoo” obbedisce a una precisa strategia semantica, che porta Savinio a ibridare i confini tra umano e animale, tra oggetti e visioni, e così viene fuori il ritratto di creature sospese a mezz’aria fra impulsi carnali, stupore e disinganni. Se la lunga confessione di Psiche smentisce categoricamente “le menzogne di uno spudorato romanzatore” (Savinio 1991, 61) ribaltando l’idillio d’amore, l’ultima provocazione del testo è la descrizione della lenta estinzione della fanciulla-anima:
Il corpo difosforeggia debolmente nel buio, come la resistenza di un apparecchio elettrico dopo il distacco della corrente.
Perdita si spaventa. Grida:
“La nostra anima!… La nostra anima!…”.
Ma Psiche a poco a poco si spegne.
Si è spenta. (Savinio 1991, 67)
Siamo già oltre la fine dei modelli: il ‘doppio sguardo’ dell’artista ha trasformato il mito in sostanza e forma del ‘classicismo di domani’.
Miley Cyrus e l’abbaglio del pop
Da quando il video killed the radio star, la pop music ha assorbito le istanze e le frequenze della società di massa, veicolandole nella doppia articolazione di parola e immagine.
La canzone è, unitamente all’immagine fotografica, il prodotto più ubiquamente diffuso dell’industria culturale. La sua onnipresenza è di per sé un segno ambiguo: può essere considerata un indice della sua rilevanza per l’intero sistema dei media; oppure un segnale della sua banalizzazione, cosa che conduce a trattare la canzone come un puro “sfondo”: la tappezzeria sonora della vita contemporanea. La sua onnipresenza è insieme conseguenza e concausa del suo carattere proteiforme (Ortoleva 2009, 297).
Ortoleva insiste nel ribadire il carattere centripeto della canzone, la sua “natura onnivora”, per cui il genere “si nutre di tutte le forme, musicali e letterarie”. Se a questo aggiungiamo l’idea di Savinio secondo la quale “soltanto l’ieri e il domani danno valore al presente” (Savinio 1921), può avere senso commentare il video di Miley Cyrus come possibile caso di engramma, tanto più che ormai “la canzone è la poesia di chi non legge poesia, ed è una delle ultime forme sopravvissute di narrativa in versi” (Ortoleva 2009, 303).
Il testo di Can’t be Tamed, scritto dalla stessa Cyrus in collaborazione con John Shanks e Rock Mafia, è una vera e propria rivendicazione libertaria, l’inno a un’identità personale inseguita ventiquattro ore al giorno, contro pressioni e condizionamenti esterni. È chiaro che questo grido di libertà coincide con la svolta artistica della cantante, desiderosa di inaugurare una nuova fase della sua carriera dopo i successi e gli stereotipi di Hannah Montana. Naturalmente ciò che conta è il ritmo incalzante della musica, la stridente furia del refrain (I can’t be tamed, I can’t be saved / I can’t be blamed, I can’t, can’t / I can’t be tamed, I can’t be changed / I can’t be saved, I can’t be (can’t be) / I can’t be tamed), manca invece un concreto spessore poetico, ma era difficile aspettarselo. Il video, diretto da Robert Hales – ormai un veterano della regia musicale – traduce quest’ansia di libertà in un’immagine folgorante: quella di una fanciulla piumata, rinchiusa dentro una gabbia, che finalmente fugge dalle maglie della cattività. A rendere ancora più interessante l’operazione di messa in scena è una sorta di prologo, in cui un elegante presentatore annuncia a un pubblico tra il glamour e il kitsch la vista di uno spettacolo insolito e conturbante: un animale in via d’estinzione, eccezionalmente a portata di sguardo. La novità dell’evento viene marcata da energici movimenti di camera, che evidenziano le proporzioni sensazionali del luogo in cui si svolge lo show e rendono visibile lo stupore degli astanti. Prima che partano le note della canzone, si ha modo di partecipare freneticamente all’attesa della rivelazione: dietro le spalle del presentatore, infatti, viene ripetutamente inquadrata un’enorme gabbia, coperta da un telo bianco con ai lati due imponenti manifesti, su cui sono stampate due piume di pavone, a mo’ di larghi occhi. Sebbene il museo dei manichini di carne non possa vantare un pubblico tanto chic e numeroso, stupisce la coincidenza della situazione fra i due testi, l’identica declinazione di uno spazio (il museo) come set di enigmatiche esposizioni.
Appena si odono i primi accordi del brano ecco che la macchina da presa si avvicina alla gabbia, inquadrando un grande nido dentro cui si agita una accigliata donna-arpia: Miley Cyrus, stretta in un vestito attillato, ha la schiena coperta da due imponenti ali nere, mentre sulle mani campeggiano grossi artigli. Questa strana creatura è inizialmente sola dentro le sbarre, si solleva appena dal fondo del nido finché non si accende una danza sfrenata, animata da un nutrito corpo di ballo variamente abbigliato. Le scatenate coreografie del video creano un’atmosfera di smaniosa carnalità, la voglia di volare della protagonista, di non lasciarsi domare, viene mimata da una serie di pose estremamente sensuali, sostenute da un montaggio vertiginoso che alterna riprese di gruppo a piani in cui Miley è di nuovo sola dentro il nido. Dalla seconda strofa assistiamo poi a una sorprendente metamorfosi: oltre all’orgiastico balletto lungo i corridoi del museo (finalmente fuori dalla gabbia), la protagonista compare sdraiata su una scintillante coda di pavone, segno di una possibile rinascita. Questo continuo slittamento di piani obbedisce alle regole ritmiche dell’intrattenimento musicale ma vale anche a sottolineare la determinazione di un’anima indomita.
Certo alla Psiche saviniana manca l’energia seducente della arpia pop, il suo destino è inchiodato a una teca puzzolente, solo a tratti illuminata da qualche curioso visitatore. Eppure ci viene il dubbio che tutto lo scintillio di luci, suoni, passi e abiti esibiti dalla Cyrus sia solo un abbaglio, dal momento che il videoclip si chiude sulla desolata immagine della fanciulla alata che torna ad acquattarsi dentro il nido, mentre le decorazioni del museo cadono giù per una specie di corto circuito. La moderna società dello spettacolo sembra somigliare alla surrealtà stravagante descritta da Savinio, in fondo l’esperienza del postmoderno ci insegna che non esistono più confini fra cultura alta e bassa: può succedere che i fantasmi del classico tornino ad abitare sotto le insegne del kitsch.
Scriveva Edgar Morin molti anni fa che non si può studiare la cultura di massa se non si ama, o almeno non si è amata, Dalida. Scriveva Robert Warshow che al fondo di ogni progetto critico ci dovrebbe essere una persona che guarda un film, o legge un libro. O ascolta una canzone. Per studiare oggetti umili occorrerebbero studiosi umili (Ortoleva 2009, 307).
Riferimenti bibliografici
- Crillo 1997
S. Cirillo, Alberto Savinio. Le molte facce di un artista di genio, Milano 1997. - Ortoleva 2009
P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, Milano 2009. - Savinio 1921
A. Savinio, Saggi di Filosofia delle Arti, III, in “Valori Plastici”, n. 5, settembre-ottobre 1921. - Savinio 1941
A. Savinio, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano 1942. - Savinio 1979
A. Savinio, Vita di Enrico Ibsen, Milano 1979. - Savinio [1947] 1989a
A. Savinio, Fine dei modelli [1947], ora in Opere, Milano 1989. - Savinio [1950] 1989b
A. Savinio, L’inquietante sbaglio di una macchina calcolatrice [1950], ora in Opere, Milano 1989. - Savinio 1991
A. Savinio, La nostra anima. Il signor Münster, Milano 1991. - Usai 2005
A. Usai, Il mito nell’opera letteraria e pittorica di Alberto Savinio, Roma 2005. - Warshow 1954
R. Warshow, The Immediate Experience, New York 1954. - Zingone 2002
A. Zingone, Alberto Savinio. Il classico nel segno del contemporaneo. Testi e immagini, “Bollettino ‘900”, nn. 1-2, giugno-dicembre 2002.
English abstract
In the video Can’t be Tamed, Miley Cyrus appears dressed as a mythical bird locked in a cage. This strange disguise has a striking analogy with the representation of Psyche in the novel of Alberto Savinio entitled La nostra anima. The paper analyzes the similarities between the two texts and try to see if it may be a case of engramma.
keywords | Cyrus; Savinio; Comparison.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Rimini, Indomita Psyche. La nostra anima di Alberto Savinio (1944) e Can’t Be Tamed di Miley Cyrus (2010), “La Rivista di Engramma” n. 82, luglio/agosto 2010, pp. 37-44 | PDF