Attrito: teatri resistenti al Novecento
Recensione al LXII Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
Andrea Porcheddu
English abstract
Guardando l’ammirevole architettura del Teatro Olimpico di Vicenza, lo scrittore e drammaturgo Vitaliano Trevisan – che in quella città vive come Thomas Bernhard viveva a Vienna – dice che se dovesse fare uno spettacolo lì, in quel tempio palladiano, coprirebbe tutto con un telo nero. È un bel problema, l’Olimpico, per chi fa teatro. “Uno spazio malato”, lo definisce Giuseppe Emiliani, che vi ha appena diretto Baccanti. Malato perché freddo, umido, dotato di pessima acustica, scomodo…
Eppure all’Olimpico si fa teatro, e si fa teatro ‘classico’ perché il luogo – evidentemente – impone classicità. Proprio prendendo come spunto, come caso indicativo, il teatro di Vicenza, possiamo fare qualche riflessione sul binomio spazio classico-teatro classico, affrontando una questione che ha attraversato tutto il Novecento e che si ripropone immutata in questo inizio secolo. Il problema è articolato e, anche se in questa sede ne daremo una esposizione grossolana, necessita di una introduzione. Prima di parlare degli ‘spazi classici’, e del loro rapporto vincolato e vincolante con la rappresentazione – spazi tanto ostili quanto obbliganti – occorre infatti chiarire come i nostri artisti si sono accostati ai classici, in particolare al tragico. Insomma, prima che agli edifici, ossia ai contenitori, dobbiamo portare la nostra attenzione ai contenuti. Dunque come si fanno i ‘classici’ nel teatro italiano e, soprattutto, ha ancora senso parlare di ‘tragedia’?
La prima risposta possibile, la più frequente, è rendere i classici “nostri contemporanei”. Va detto che, dal punto di vista ‘pratico’ ossia della frequenza scenica, del teatro ‘fatto’, lo sono a tutti gli effetti, anzi: la scena contemporanea italiana vive prevalentemente (se non esclusivamente) di classici. Sono ‘titoli’ che vendono, che fanno cassetta: “usato sicuro”, direbbe un qualche rivenditore di macchine. Quindi il teatro o è classico oppure (molto probabilmente) semplicemente non è. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che la ‘moda’ del classico è vecchia e andata imponendosi già durante il secolo scorso: il Novecento teatrale, con l’avvento e la presa di potere del regista, è stato proprio il tempo del classico e il regista – questa figura sempre più ambigua ma mai del tutto superata – non può prescindere dal confronto con Eschilo o Shakespeare o Molière o Euripide. Nel rispetto del testo classico (o dello spirito, dell’atmosfera), già la regia ‘critica’ del Dopoguerra investigava tra le righe, creava percorsi paralleli, narrazioni metatestuali che parlavano direttamente al pubblico in sala e toccavano l’animo sensibile dell’artista. La tragedia, infatti, è sovente terreno elettivo per registi giunti o meno alla cosiddetta maturità artistica: prima o poi una tragedia è ‘necessaria’. Anche se infarciti da retoriche estetizzanti e forti di presunte visioni più o meno espressive, prima o poi i registi italiani devono allestire una tragedia. Qui vi trovano materia privilegiata per far esplodere le proprie immagini e tensioni teatrali, rendendo, di volta in volta, il classico sempre più ‘contemporaneo’. Scriveva a questo proposito Cesare Garboli nel 1975:
Come fare i classici? Uggiosa questione. I classici si fanno come uno li vuole fare. È dubbio intanto e comunque opinabile, che i classici esistano: è stato il romanticismo a inventarli. In secondo luogo, il teatro ha sempre vissuto di tombe scoperchiate, di cimiteri saccheggiati. Ha vissuto di saccheggi a non finire e ha sempre coltivato con perfetta allegria di cuore, con forbici e vanghe, quel genere di cultura che oggi si chiama pomposamente ‘dissacratoria’. Non risulta che Sofocle inventasse processi ideologici ai rifacimenti di Euripide, né che Molière si torturasse la coscienza nel riscrivere un copione spagnolo o un altro plautino. Ma… C’è un ma. Spesso si rende irriconoscibile un classico per ‘attualizzarlo’, come se un testo classico appartenesse al passato. Ma è solo una questione di date. Chi ha detto che gli Edipi di Sofocle, che un copione del Seicento vengono prima di noi? Spesso non possiamo renderli attuali, questi copioni, perché dobbiamo ancora raggiungerli: così come sono. (Garboli [1975] 1998)
Ma il classico – ricordava Bernard Dort nel 1970 – è un’opera:
[...] che si distacca più o meno dal proprio ambiente. È per la distanza che (certe opere) vanno definite classiche, la distanza che le separa da noi, ma che ci permette però di utilizzarle per i nostri scopi. (Dort 1971)
Abbiamo, allora, una legittimazione all’uso: sembrerebbe proprio, infatti, che nella pratica è il testo classico a sedurre, ad invitare direttamente, addirittura apertamente, allo sfruttamento. Si dà – liberamente e generosamente – proprio per essere consumato. Tanto che un regista come Marco Martinelli, creativo dramaturg del Teatro delle Albe di Ravenna, arriva ad affermare che “i classici sono lì per essere violentati, e se non li violenti non sono contenti” (Porcheddu 2008). Insomma, una volta allargato (geograficamente e temporalmente) il concetto di ‘classico’, grazie all'attività indefessa di scavo e reinvenzione della regia, quei ‘copioni’ sono tornati prepotentemente alla ribalta e continuano a sfidare le insidie del tempo e le incursioni dei teatranti. Eppure quel che si nota, contemporaneamente, è lo scrupolo pseudo-filologico, il rifare il classico, soprattutto tragico, ‘esattamente’ com’era. Con gran dovizia di pepli e corone d’alloro, di cori che marciano inquadrati e gesti ieratici. Tutto è possibile, anche la presunta aderenza alla ‘tradizione’. Viene da chiedersi, allora, se davvero li ‘violentiamo’ questi classici, oppure – come stigmatizzava Garboli – cerchiamo disperatamente di attualizzarli. Insomma, si sposta il baricentro della domanda: le risposte possibili sono tante, e ambigue…
L’opinione che generalmente si fa lo spettatore medio, di fronte a certi allestimenti, è di conferma, di ‘rassicurazione': ecco un classico, si dice, ‘ben fatto’; ecco com’era una tragedia. La prospettiva filologica, dunque, è quella che tende a dare allo spettatore ciò che cercava: confusi ricordi delle scuole, un’idea di classicità ellenica ed estetizzante diffusa, una accessibilità a testi ritenuti sì ‘importanti’, ma troppo spesso incomprensibili. Laddove un allestimento riesce a far passare i contenuti di una tragedia (almeno ad un livello di lettura basico) buona parte del risultato è ottenuto.
Ma torniamo allora, con fare investigativo, al nostro punto di partenza, ossia all’Olimpico di Vicenza dove, recentemente, abbiamo visto due ‘classici’ di Euripide: Andromaca e Baccanti. E interroghiamoci su quanto abbiamo visto. Attualizzati? Forse, ma non solo. Intanto i due lavori sono legati dal fatto di essere presentati con traduzioni nuove, commissionate per l’occasione: non è poco, dal momento che anche nell’aggiornare il linguaggio delle traduzioni vi è un indubbio merito. Pensiamo dunque ad Andromaca: è un bel problema metterlo in scena. Qualche anno fa, un giovane attore performer come Andrea Cosentino, diretto da Massimiliano Civica, dette una sua personalissima versione dell'Andromaca di Euripide. Ne fece un monologo, qualcosa a metà tra la telenovela e la chiacchiera di paese, un'eterna rincorsa al tragico che non arriva mai. E in effetti, questa tragedia è tra le più complicate e di difficile catalogazione tra le euripidee a noi pervenute. È un articolato ‘algoritmo’, come lo definisce Monica Centanni presentando il suo percorso di traduzione (che ha avuto un esito di complessa e felice funzionalità): un tessuto intrecciato e sfuggente, la cui varietà di registri e lingue la rende opera scomoda, che dietro l'apparente impalpabilità nasconde però un afflato tutto novecentesco, fatto di identità sfuggenti e caduche, di eroi sconfitti e meschinità palesi, di ansie di sopravvivenza e vigliaccherie, di nevrosi femminili e patriarcali autorità. Insomma, Andromaca è una macchinetta esplosiva, sospesa come sembra tra avanspettacolo e dissacrante ironia, tra morte incombente e invettive addirittura blasfeme. Per Euripide, lo ricordava in un lucido scritto il critico Gerardo Guerrieri, la giustificazione del male come mistero divino non è più sufficiente. Si stacca da Eschilo, si allontana da Sofocle: con lui prevale la legge eraclitea degli opposti coincidenti, in un continuo divenire. Non crede più che il destino sia un disegno degli dei: esistono, anzi, morali diverse, ragioni diverse, e i personaggi sembrano farsi sempre più individualisti, egoisti. Euripide mette in scena uomini e donne alle prese con le passioni e le paure, con la voglia semplice di tirare a campare, nonostante tutto. Tante cose, in quel testo: difficile agguantarle. Lo spettacolo vicentino, allora, diretto con mano troppo incerta da Alessandro Maggi, viveva a corrente alternata. E indispettiva soprattutto proprio per l’uso dello spazio: la posticcia scenografia, tutta canneto e plasticosi rilievi, firmata da Leonardo Scarpa – piazzata là come si fosse in un teatrone di periferia – aveva il demerito non solo di obbligare gli attori ad un continuo saliscendi, ma anche di coprire alla vista la prospettiva scamozziana dell'Olimpico senza nulla aggiungere. Lo spettacolo, nel suo insieme, risultava ondivago: slittava, si avviluppava, ma non prendeva posizione. E quando il coro si lanciava in canzoni che evocavano più Venditti che Kurt Weill non sono mancate perplessità. La dialettica tra ironia e tragedia si smonta, si svuota, la critica feroce di Euripide si smussa. E l'apparizione di Teti, a mo’ di deus ex machina, sembrava più che altro una prorompente e gaudente comparsata di un film di Fellini. Per ricompattare le cose, ecco allora un finale interpolato, un'aggiunta al testo originale che richiama in scena Andromaca (la brava Mascia Musy) con il figlioletto: un finale che risultava toccante, di serena e dolente umanità, e che riporta tutto ad un piano più intimo, certo più compatto, forzando un senso laddove il senso sembrava essersi smarrito. Insomma, il nodo era, per riassumere brutalmente, la sospensione, il non scegliere tra quella ‘violenza’ e quella ‘attualizzazione’ cui si è fatto cenno.
Stessa cosa si può dire per Baccanti, forse più calibrato, che il regista Emiliani spinge sulla questione di genere (di gender si direbbe oggi) e che ha il merito – quanto meno – di utilizzare lo spazio dell’Olimpico in tutte le sue possibilità. Con la traduzione di Caterina Barone, dopo un raffinato lavoro sulle musiche composte da Christian Cassinelli nell'ambito dei Laboratori creativi della Biennale Musica - impregnate di arcaicismi e storture ipercontemporanee - il regista si impossessa bene dello spazio ‘malato’ dell'Olimpico e affonda, dunque, il coltello proprio sulla questione sessuale. Gioca una carta sorprendente (per quanto annunciata): affida il ruolo di Dioniso a una statuaria Laura Marinoni, che scende con incedere regale dagli spalti dell'Olimpico, sembrando una di quelle ambigue creature in pietra che adornano il teatro palladiano. Marinoni tesse il suo divino personaggio con una trama tutta sua di alterigia e astuzia: è un Dioniso sensuale e seduttivo eppure respingente, duro, violento. Ma la questione gender, al di là di alcuni episodi efficaci, sembra non approfondita: quasi un pretesto che resta come anima sottotraccia, mentre avrebbe potuto portare a ben altri estremi. È vero: nella tragedia di Euripide non ci sono danze sfrenate né follie omicide se non nel racconto dei ‘testimoni’ come il contadino o il servo, eppure quei toni troppo enfatici e quella staticità del coro e di alcuni protagonisti raggelano troppo la narrazione e danno un sapore eccessivamente distante all'allestimento.
Il problema di fondo, con questi ‘copioni’ che vengono dal passato remoto, non è dunque cosa farne in scena – dal momento che, si è visto, se ne può fare e se ne fa di tutto – quanto, piuttosto, di definizione. Quel che sfugge non è la pratica teatrale, il teatro fatto più o meno bene, in modo più o meno efficace, ma trovare risposte adeguate alle domande profonde, essenziali, che queste opere ci pongono, soprattutto nel caso delle tragedie greche. Insomma: si tratta di capire se la tragedia è ancora definibile e riconoscibile come tale oppure no. Quel che facciamo e vediamo sulle scene ‘classiche’ è tragedia ‘classica’ o altro?
C’è chi dice che la tragedia, oggi, non è più possibile. Lo sostiene, come è noto, Luca Ronconi, sicuramente il maggior regista italiano in attività. Dal 1972 – anno della sua celebre Orestea – Ronconi va dicendo che è inutile pensare in termini di ‘tragico’. In quella Orestea racchiusa in un’enorme scatola lignea (presentata al Festival di Belgrado e poi alla Biennale di Venezia), uno spazio rarefatto eppure claustrofobico, l’afflato non escludeva la parodia anche politica, soprattutto nelle Eumenidi: ma Ronconi, già allora, individuava i prodromi della sua freddezza nei confronti della materia tragica. È impossibile, diceva, ricostruire la polis, per l’evidente mancanza di valori condivisi ed è inutile affannarsi in presunte letture filologiche. Ci sono ‘materiali’ scenici, di alta qualità, che possono essere allestiti, ma solo sotto il filtro di quella ‘ironia’ che tutto raffredda, pure nella abituale assoluta fedeltà al dettato del testo. Distanza, poi, che viene suggellata e anzi amplificata dalla recitazione ‘ronconiana’ che risuona chiaramente antinaturalista e antitragica: azione del regista è definibile in termini di decostruzionismo, uno scavo dall’interno, uno svuotamento dal pathos che sublima in forme ‘astratte’ eppure teatralissime ogni possibile ‘catarsi’, negando al tempo stesso immedesimazione e proiezione. Per fare un esempio eclatante: come ‘credere’ a Franco Branciaroli quando, nel 1998, presta voce e possente corpo a Medea? Dove era il ‘tragico’ in quel coro di ‘donnette’ che assistevano alle crisi isteriche di Medea di fronte a un Giasone in canottiera?
Questo continuo slittamento, questo scivolamento demistificante, non ha certo tenuto lontano il regista dai testi tragici, su cui, anzi, è tornato ripetutamente. Basti pensare a Baccanti. Ronconi lo affronta già nel 1973 a Vienna, vi torna poi durante l’esperienza del Laboratorio di Prato (nel 1978), con la splendida Marisa Fabbri che dava voce a tutti i personaggi e il pubblico-voyeur costretto a visioni parziali, rubate, sfilacciate all’interno del secentesco Istituto Magnolfi. Poi vi torna nel 2002, nello spazio ‘consono’ del teatro di Siracusa: ma anche qui lavora per sottrazione, per disincanto ironico, come in un “osservatorio elettivo della ‘vita delle forme’ del tragico e del comico” (Ronconi 2002), puntando tutto su una emblematica distruzione, su resti che (evidenti soprattutto nella versione ‘al chiuso’ dello spettacolo) raccontano meglio di qualsiasi cosa il nostro rapporto con la tragedia:
Un cumulo di rovine, frammentario e maestoso, di cui è impossibile ritrovare il senso autentico ma che dobbiamo tuttavia continuare a interrogare. Così come una serie di domande a proposito del nostro fragile rapporto con il divino lo pone anche il Dioniso di Massimo Popolizio, così ambiguamente sospeso, appunto, tra umano e divino (anche nella sua irrazionale, ingiusta vendicatività), tra uomo e donna... (Ponte di Pino 2004)
Eppure vi è anche una scena teatrale contemporanea che non si è sottratta al confronto armato con i classici, che non ha smesso di ‘violentarli’, ossia di fare i conti profondamente, visceralmente e non solo strutturalmente, con la tragedia. Di rapportarsi, cioè, a quelle “immagini che fanno piangere”, come le chiama Romeo Castellucci, regista della Socìetas Raffaello Sanzio, sicuramente la compagnia italiana più conosciuta al mondo. Per fare i conti con la tragedia, Castellucci ha creato un’opera monstre, un lavoro complesso, in undici tappe, scandito geograficamente dalle creazioni originali realizzate in altrettante città europee. Partito da Cesena, e lì concluso, in una ciclicità che non ha escluso piccoli episodi marginali chiamati ‘crescite’, il complesso progetto è stato raccolto sotto il titolo indicativo di Tragedia Endogonidia. Il lavoro è una investigazione continua attraverso le immagini:
Come ha dimostrato Warburg nella sua ricerca – ha affermato il regista – le immagini scorrono e hanno una loro autonomia, una loro indipendenza, una loro storia (…). Perché un’immagine ci tocca più di altre? Questo è tutto da scoprire […]. In questo riconosco l’importanza che ha avuto il pensiero di Warburg, che appunto individuava delle Pathosformeln: è una teoria direi per certi tratti psicanalitica applicata alla storia dell’arte, con dei movimenti profondi, con dei rimossi e dei ritorni di fantasmi. Nel mio caso si tratta di aspettare e di evocare un’immagine. Creare uno spazio, creare un varco ed essere una soglia perché questo avvenga.
Dunque, per la nuova scena italiana, nei suoi momenti d’eccellenza, il legame con il tragico sembra porsi su altri piani: non solo e non più con rimandi testuali, ma con una tensione immaginifica che poggia però su basi archetipiche, di quell’immaginario (collettivo e inconscio) che ancora genera comunità in chi fa e in chi assiste al teatro. Esempi, nel novero di quella che potremmo definire con formula ormai consolidata ‘drammaturgia scenica’, in cui l’immagine ha funzione emotivamente rilevante e drammaturgicamente sostanziale, se ne possono fare anche altri: basti pensare al teatro di Emma Dante che non a caso il critico Renato Palazzi accosta al lavoro di Tadeusz Kantor; o al lavoro sulle marginalità (fisiche e sociali) di Pippo Delbono.
Siamo arrivati al nodo, al centro del problema. Riassumiamo dunque la tesi che qui si vuol esporre: assodato che certi testi sono reputati ‘classici’, non possiamo non notare la proliferazione di allestimenti appunto ‘classici’ sulle scene italiane. Allestimenti che oscillano tra rara ‘violenza’, banali attualizzazioni, presunta filologia e radicali reinvenzioni. Ci sono, poi, spazi che impongono il tragico e con questi volentieri ci si confronta, non solo per ragioni di mercato. Ma quale tragedia vi si rappresenta?
Sino ad oggi, se non erro, sembrano essere prevalse letture di impianto ‘filologico’, con rare aperture ‘critiche’ o ‘attualizzanti’ e con la luminosa eccezione demistificante di Ronconi. Il ragionamento che sottende a tali allestimenti è dunque legato allo spazio: l’edificio classico vorrebbe allestimenti altrettanto ‘classici’, anche se a teatro – si è visto, almeno per quel che riguarda gli allestimenti delle tragedie – la parola filologia suona falsa e vuota. Si avverte dunque il bisogno di rivalutare la prospettiva contemporanea, quel lavoro sulle ‘immagini tragiche’ (mi si conceda la definizione grossolana) che sta affiancando sempre più – e forse superando in prospettiva – il lavoro tradizionale sul testo classico tragico.
Quel che è in gioco, infatti, è la ‘sincerità’ di una prospettiva rispetto a percorsi che risultano falsi, seppur spacciati per filologici. Appaiono pressoché risibili i tentativi di ‘corretta’ filologia applicati ai testi greci: risibili tanto più nel loro presunto rigore, o quanto meno opinabili al pari di tanti “attraversamenti” o “riscritture”. Servono esempi? Il teatro del Novecento è (forse incosapevolmente) portato a rapportarsi alla tragedia secondo schemi improntati a chiavi di lettura psicoanalitiche, non discostandosi così dal dramma borghese del XIX secolo. Anche di fronte alla tragedia attica, così, parliamo di ‘personaggi’, delle loro contraddizioni, del loro ‘carattere’, delle ambiguità, facendo di un teatro d’azione (in cui i ‘personaggi’ erano funzioni dell’azione) un teatro psicoanalitico. Ideologicamente parlando, è un errore madornale, di cui nessuno però, sembra accorgersi più. A chi parla di filologia basta far notare che l’idea di fare la tragedia “com’era dov’era” è francamente impraticabile: non solo perché normalmente i testi vengono recitati tradotti, ma perché i ruoli femminili sono affidati ad attrici, perché nulla sappiamo delle coreografie del coro, perché le musiche non possono che essere contemporanee, perché salvo rarissime eccezioni non si usano maschere, perché il numero degli interpreti è sempre superiore a tre, eccetera eccetera.
E dunque dobbiamo chiederci seriamente se i teatri storici, in altre parole gli spazi classici, abbiano bisogno di quel teatro ‘mascherato’ da tragedia, se bastano quelle blande attualizzazioni, oppure se il bisogno profondo di tragico evocato da certi spazi non sia qualcosa di diverso e più profondo.
Ecco, allora, la questione degli spazi. L’Italia gode di un funesto primato: possiede una miriade di teatri classici (greci, romani, rinascimentali), ossia edifici per lo spettacolo che presumono forme diverse da quelle del cosiddetto “teatro all’italiana” ottocentesco. Basti pensare (in ordine sparso) a Siracusa, Taormina, Segesta, Verona, Nora, Pompei, Ostia Antica, Aosta, Lecce, Sabbioneta, Vicenza… Un’infinità. Che farne dunque? Continuare con le riletture psicoanalitiche o proporre Euripide come “nostro contemporaneo”?
Il discorso su questi teatri e sul loro possibile uso è dunque intrigante in quanto ancora irrisolto. Ne abbiamo fatto cenno: sono spazi che sembrano resistenti, recidivi, al contemporaneo, invocando per natura (storica, architettonica) il classico. Insomma, viene da chiedersi se e quanto sia giusto portare Baccanti all’Olimpico di Vicenza, o quanto sarebbe più opportuno allestirvi La Calandria o, meglio ancora, la Tragedia Endogonidia.
Quel che mi sembra caratterizzi simili edifici è la preponderanza strutturale che sottomette – o vincola – il piano drammaturgico. Una delle conquiste del teatro del Novecento è stata proprio quella di diversificare l’approccio allo spazio scenico inteso non solo e non più come ‘scenografia’ o come ‘palcoscenico’, ma nella sua complessità di luogo di creazione e di incontro. Insomma, l’edificio diventa oggetto e soggetto drammaturgico: non è più indifferente dove si fa spettacolo, al punto che il luogo, ossia il ‘contesto’, arriva a determinare anche il ‘testo’. Per fare un esempio banale ma indicativo: realizzare, che so, Persiani al Piccolo di Milano o in un teatro bombardato di Sarajevo cambia la natura stessa dell’opera. I Padri Fondatori della regia novecentesca hanno dunque privilegiato la riflessione sul luogo come determinante: non a caso Wagner, Appia, Reinhardt, Craig e altri hanno operato proprio nella prospettiva di una profonda reinvenzione dello spazio teatrale come primo codice di rinnovamento della prassi teatrale. Da qui la creazione di spazi ‘diversi’, alternativi, che non escludevano un posizionamento diverso dello spettatore: nel suo teatrino delle 13 file, Grotowski faceva agire gli attori a stretto contatto con il pubblico, addirittura in mezzo ad esso, ottenendo una vicinanza non solo fisica, ma anche sentimentale ed emotiva. Così, il teatro cosiddetto di ricerca o di regia ha spinto verso la sistematica creazione di ambienti diversi: dalle “cantine romane” care a Carmelo Bene e Leo de Berardinis, alla nuova Schaubühne voluta da Peter Stein, la fruizione del teatro si è fatta, per lo spettatore, logisticamente articolata. Ma non solo: si è fatta, come detto, drammaturgicamente rilevante. E i teatri classici? Ecco, dunque, il problema: sono – sembrano – impermeabili alle fratture novecentesche. Anzi, si alzano a baluardo di una incontestabile resistenza. Sono là, imponenti e difficili, ‘malati’ e inafferrabili, e non sembrano adattarsi minimamente alle ansie o alle smanie del teatro contemporaneo. Fanno attrito al cambiamento della nuova scena: i nostri teatri greci, romani, rinascimentali sono fortini, baluardi inespugnabili.
Ma di cosa? Cosa difendono? La ‘classicità’ si è detto. Quando assistiamo allo scempio fatto al Teatro Romano di Ostia Antica, dove si programmano con disinvoltura musical, concerti, comici e cabaret, restiamo inorriditi: quel teatro invoca altro. Invoca la tragedia, ossia un teatro che è di parola e di funzione e di tensioni, ossia di mito. Possiamo concludere che lo spazio teatrale classico, deputato al tragico, sia tale perché ha bisogno del mito? Forse. Allora dobbiamo fare un altro passo, prendere il fiato e interrogarci anche a proposito del mito. Se oggi chiediamo a chiunque non si occupi di teatro, cosa sia – ad esempio – l’Olimpico, la risposta è immediata: uno stadio.
Allora, l’amara conclusione salta agli occhi: quell’altro che si imporrebbe sulle scene classiche, quei miti e quelle tragedie ormai non esistono più. Inutile tentare futili inseguimenti a colpi di pretesa fedeltà alla tradizione o a scrupolose adesioni formali. Il mito e il tragico esistono in vite e possibilità diverse. Ma non li ritroviamo certo, come abbiamo visto, nel teatro ‘fatto’ né però nel teatro che ‘abbiamo in mente’ giacché la nostra idea di tragedia (di quella tragedia) è ormai evanescente o stereotipata, carica di luoghi comuni o di cliché. Dunque siamo di fronte a una impossibilità: lo spazio classico invoca il mito e il tragico, ma il mito e il tragico non sono più possibili, se non nelle forme, nei modi, nelle strutture del nostro tempo. Sono poche le strade percorribili per (ri)dare effettiva vita a quei teatri: o li si tratta alla stregua di qualsiasi altro contenitore di pubblico (per intenderci come avviene a Ostia Antica), oppure si obbligano spazi e teatranti ad un confronto serrato proprio sul terreno minato del tragico e del mito.
Forse occorre liberarsi definitivamente dalla sudditanza psicologica del teatro del nostro tempo nei confronti di questi edifici e smetterla definitivamente con la presunta filologia: attaccare i classici, metterli con le spalle al muro e spingerli al confronto serrato con le estetiche contemporanee, così immaginifiche e tese verso orizzonti ancora inesplorati. Loro, quei teatri, quegli spazi, sono là, aspettano: che ci si decida, che si superi il nostro imbarazzo di spettatori, che si tolgano di mezzo contraddizioni e scrupoli. Ne potrebbero uscire rinvigoriti sia gli spazi stessi – finalmente alle prese con una tragedia nuovamente condivisa, con spettacoli capaci di far piangere, di smuovere l’immaginario e l’interiorità del singolo spettatore su contenuti, forme, ambienti che siano tragici del nostro tempo – sia gli artisti, che non potranno più celarsi dietro ai pretesi vincoli della struttura tragica attica.
Altrimenti continuiamo con gli esercizi di stile, con le variazioni sul tema, con le letture e le riletture. Altrimenti ci troviamo con un teatro per scolaresche in gita, per impettite professoresse del liceo. Altrimenti quelle tragedie saranno solo stanche eco di parole ormai svuotate di senso. Altrimenti quei teatri saranno solo un parco Disney dove giocare agli antichi greci…
Meglio, allora, quel telo nero invocato da Vitaliano Trevisan per l’Olimpico?
Riferimenti bibliografici
Dort 1971
B. Dort, in G. Bartolucci et al. (a cura di), Tradizione e tradimento dei classici nel teatro contemporaneo, Atti della tavola rotonda internazionale del 26 e 27 settembre 1970. Venezia. Sala degli specchi di Ca’ Giustinian, Venezia 1971.
Garboli [1975] 1998
C. Garboli, Chiniamoci sulla stagione passata (articolo del 14 agosto 1975); ora in Id., Un po’ prima del piombo, Milano 1998.
Ponte di Pino 2004
O. Ponte di Pino, Che cosa mi aspetto dal teatro, in “Ateatro - webzine di cultura teatrale” (22 febbraio 2004).
Porcheddu 2008
A. Porcheddu, “Abbiamo dovuto sedare tante risse...”. Intervista a Marco Martinelli, in “MyWord.it - Teatro” (5 giugno 2008).
Ronconi 2002
L. Ronconi, Prometeo, Baccanti, Rane, programma di sala Piccolo Teatro di Milano, 2002.
English abstract
In this essay, Andrea Porcheddu reviews the LXII cycle of Classical Drama at the Teatro Olimpico in Vicenza, observing the relationship between the staged plays and the architecture of the Teatro.
keywords | Teatro Olimpico; Vicenza; LXII Ciclo di Spettacoli Classici.
Per citare questo articolo / To cite this article: Andrea Porcheddu, Attrito: teatri resistenti al Novecento. Recensione al LXII Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, “La Rivista di Engramma” n. 77, gennaio-febbraio 2010, pp. 65-76. | PDF