Lo sguardo di Perseo
Il lavoro dello storico tra scrittura e dimensione etica in Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Huberman, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005
Gianmario Guidarelli
English abstract
“Malgrado tutto”: è questa, per Georges Didi-Huberman, la condizione necessaria per tentare un approccio storiografico all’evento estremo della Shoah che, mettendo alla prova gli strumenti dello storico, possa testarne, a un grado estremo, le potenzialità euristiche.
Nel suo libro pubblicato in Francia nel 2003, le “immagini malgrado tutto” sono i quattro fotogrammi che il membro di un Sonderkommando riesce a scattare nell’agosto del 1944 all’interno di Birkenau, nascosto nel Crematorio V. “Brandelli strappati a un mondo che li considerava impossibili”, prove frammentarie raccolte “malgrado” le difficoltà tecniche nell’effettuarle e il rischio di essere scoperti, uscite da Auschwitz grazie alla Resistenza polacca e sopravvissute fino a noi “malgrado la nostra incapacità di guardarle come meriterebbero”: malgrado la distanza tra la volontà di testimoniare da parte del fotografo e la nostra difficoltà nel raccogliere la sfida etica a interpretarle.
La principale difficoltà nell’interpretare e, dunque, nell’utilizzare come fonte storica l’immagine fotografica è la sua natura complessa, per cui la 'verità' che (in quanto mezzo 'immediato' e meccanico di ripresa della realtà) essa indubitabilmente rappresenta è offuscata dall’oscurità dovuta alle sempre diverse condizioni in cui ogni ripresa fotografica è scattata. Lo storico che faccia ricorso alle fotografie come fonte è, insomma, costretto ad affrontare tutte quelle scorie che le reali ed effettive modalità di realizzazione di un’immagine (ma anche le interpretazioni che su di esse si sono accumulate fino ad oggi) frappongono, come distanza, alla loro 'leggibilità'.
Questo 'doppio regime' delle immagini è la causa, secondo Didi-Huberman, di due tipi di disattenzione da parte degli storici. Da un lato, sottovalutandone la natura lacunosa e imperfetta, si chiede troppo alle immagini fotografiche, imponendo loro di dire più di quello che possono; le manipolazioni, necessarie per l’utilizzo della fotografia come fonte storica, trascurano in tal caso quella parzialità e impurità che è dovuta alle effettive condizioni in cui è stato scattato ogni fotogramma. Dall’altro, si chiede troppo poco all’immagine, riducendola a un astratto simulacro della realtà. È questa la posizione di Gérard Wajcman e di Elizabeth Pagnoux, che non a caso hanno accusato Didi-Huberman e gli organizzatori della mostra parigina in cui i quattro fotogrammi furono esposti nel 2002 di sovrainterpretare le immagini fino a una loro feticizzazione. Grazie alla loro forza di suggestione, le immagini, secondo i due studiosi, toglierebbero spazio alle testimonianze dei sopravvissuti, annullando di fatto la memoria della Shoah. A loro giudizio non esiste (perché non può esistere) un’immagine ripresa in una delle camere a gas; ogni immagine è poi, per sua stessa natura, parziale, spuria ed estemporanea, inadatta (perché falsificante) a rendere l’idea di Auschwitz nel suo carattere 'assoluto'. La realtà dei campi di sterminio nazisti è di conseguenza irrappresentabile, dunque inimmaginabile; e, dal canto suo, l’immagine fotografica non può che ridursi a una sorta di velo che relativizza e, in definitiva, falsifica una realtà estrema e, appunto, assoluta.
In tali contestazioni, secondo Didi-Huberman, è in gioco la natura stessa dell’immagine d’archivio, che per la sua natura parziale, nella prospettiva di Wajcman e di Pagnoux, non può che limitarsi ad alludere alla totalità del fenomeno Auschwitz. In realtà, i quattro fotogrammi scampati alla distruzione testimoniano per Didi-Huberman la capacità del documento visivo di accennare, proprio grazie alla loro natura frammentaria, a un fenomeno di inusitata vastità. Soltanto distinguendo tra il valore d’uso delle immagini (in cui può anche esercitarsi il feticismo visivo) e il loro valore ontologico di resti archeologici, esse possono essere intese come indizi, o come prove, di realtà.
Il doppio regime delle immagini d’archivio, per cui il frammento rimanda alla totalità, carica di responsabilità lo storico, che raccoglie la loro “supplica ad essere guardate”, che le coglie non come un velo ma come uno “strappo” sulla realtà, come “un sintomo, un disagio” nei confronti di una tradizione interpretativa (per dirla con le parole di Walter Benjamin), cioè come un’irripetibile occasione di conoscenza. Il senso di responsabilità nel maneggiare l’immagine-frammento-documento richiama inoltre il paradigma indiziario di Carlo Ginzburg e la sua polemica con Hayden White riguardo il ruolo della narrazione nel processo storiografico (sul tema si veda in "Engramma" n. 55 il saggio di Daniele Pisani Vero Falso Finto. Sul metodo della ricostruzione storica). Secondo Ginzburg, lo scetticismo di White ha come esito l’inconoscibilità della realtà. In questo contesto, una certa posizione critica nei confronti dell’immagine come fonte storica favorisce indirettamente lo scetticismo di White: è il caso delle riflessioni di Gerard Wajcman e di Elizabeth Pagnoux, affidate a due saggi pubblicati nel 2001 nella rivista "Les Temps Modernes". Il primo, maître de conférences all'università di Paris VIII e psicanalista, sostiene l’irrappresentabilità del Lager, contro un eccesso di rappresentazione che sfiorerebbe il voyeurismo. Eccesso che viene ulteriormente stigmatizzato da Elizabeth Pagnoux, docente all’Università di Paris XIII, secondo la quale negando la natura frammentaria e puntuale del documento e le relative lacune che potrebbero oscurare la perfetta e 'assoluta' conoscenza della realtà, se ne riduce la potenzialità indiziaria a un’irrimediabile opera di mistificazione.
Dinanzi a questo rischio, Didi-Huberman suggerisce allo storico di raccogliere tutti gli indizi, che non riempiono (come afferma Wajcman) un vuoto documentario ma vi rimandano inevitabilmente. Queste prove erratiche, proprio in quanto 'reali' frammenti archeologici giunti avventurosamente dal passato, non possono né portare ad una conoscenza assoluta, né giustificare il silenzio di fronte ad una Verità inimmaginabile. Tra questi due assoluti esiste invece, secondo lo studioso francese, una terza via: la ricerca incessante e sempre parziale dello storico che, ricostruendo di volta in volta l’archivio da cui trarre il corpus dei documenti, parte proprio dalle lacune per riconnettere i nuovi dati a un flessibile e mai definitivo tessuto di interpretazioni.
In questa operazione incessante di scavo nelle stratificazioni dell’archivio, il rischio peggiore è quello di perdere di vista il rapporto tra la frammentarietà del documento e la realtà cui esso allude. Infatti, se la realtà ci appare interrotta da quelle discontinuità, quei 'salti' che ci sembrano strappare il continuum della sua percezione da parte nostra, è soltanto per un problema di sproporzione tra il visibile e l’intelleggibile, una distanza che soltanto l’immaginazione dello storico può superare. Per questo, dice Didi-Huberman, “per sapere occorre immaginare”. Così, nel rischioso tragitto tra visibile e intelleggibile, l’immaginazione è come un filo sospeso sull’abisso che lo storico non può far altro che percorrere confidando nel suo senso di equilibrio. Ma l’immaginazione, in quanto strada obbligata, per non diventare una falsa percezione non può “contenere” l’oggetto; al contrario, può soltanto “prenderlo di mira”. L’immaginazione, insomma, non può essere una presa di possesso della fonte d’archivio (altrimenti sterilmente documentaria) ma la sua dinamica messa in relazione con altri dati, altre fonti di diversa natura, altre speculazioni.
Proprio il montaggio di fonti storiche è, secondo Didi-Huberman, l’unico modo per superare l’impasse stigmatizzato da Claude Lanzmann nel suo film Shoah. In questa opera-fiume, realizzata tra il 1974 e il 1985, Lanzmann cerca di rendere la realtà dei campi di concentramento tramite la semplice esposizione di nove ore di testimonianze di sopravvissuti, trascritte successivamente in un libro uscito nel 1985 per i tipi del Livre de Poche. La tesi di Lanzmann è che nessuna immagine d’archivio potrà rendere l’assoluto del campo di sterminio come queste testimonianze verbali. A questa posizione Didi-Huberman contrappone proprio la forma storiografica dell’accostamento di immagini e parole, che realizza quella dialettica storiografica che rende efficace la potenzialità frammentaria del documento; la tecnica del montaggio, insomma, come esito interpretativo della decostruzione del documento visivo ottenuto grazie al paradigma indiziario, e come definitivo superamento del pregiudizio della indicibilità dello sterminio nazista. “Temporalizzare senza posa” le immagini, decostruire nei loro elementi queste stesse immagini e “costruire” in questo modo una loro leggibilità: tali sono, infatti, le operazioni che consentono l’assemblaggio di immagini e parole, di immagini e immagini, di fonti di diversa natura e contesto spazio-temporale. In particolare, parlando del montaggio tra parola e immagine come unico momento possibile di richiamo alla verità, Didi-Huberman si richiama alla lezione di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Il montaggio è necessario per confrontare la veridicità di una fonte con tutte le altre, ma anche per far scaturire da ogni documento quella potenzialità conoscitiva che la sua singolarità altrimenti renderebbe inespressa. Ignorare la necessità di costruire un dispositivo dialettico comporta “il rischio di non capire nulla e di confondere ogni cosa: confondere il fatto con il feticcio, l’archivio con l’apparenza, il lavoro con la manipolazione, il montaggio con la menzogna, la somiglianza con l’assimilazione [dell’immagine che si] dispiega secondo quel minimo di complessità che presuppongono due punti di vista che si affrontano sotto lo sguardo di un terzo”. Nel saggio Ouvrir les camps, fermer les yeux, pubblicato successivamente sugli "Annales" (settembre-ottobre 2006), Didi-Huberman fornisce un esempio particolarmente efficace di montaggio con documenti d’archivio. Si tratta della riedizione ad opera di Emil Weiss, del documentario girato da Samuel Fuller sulla apertura del campo di sterminio di Falkenau nel 1945. L’azione del cineasta americano è stata quella di “porter le regard” e di “trouver le point de vue […] sans penser le mal”, cioè di porsi in una condizione di “innocenza visiva” che affida al meccanismo della macchina da presa tutta la dimensione etica della testimonianza. Soltanto temporalizzando e contestualizzando questa condizione in cui le immagini, ottenute da un montaggio con un commento sonoro, sono state inizialmente girate, Weiss può “s’assoir à la table de montage pour donner a ce tournage originel sa valeur de lisibilité historique”. In tal modo, si realizza quel benjaminiano “cristallo” di frammenti, che appaiono “come lampi” dal passato, che costituisce il presupposto per l’opera redentrice dello storico.
È a questo proposito che nel ragionamento di Didi-Huberman scaturisce quella istanza etica del lavoro storiografico che attraversa tutto il libro. Riprendendo un’immagine di Giorgio Agamben, lo studioso francese ricorre al mito di Perseo e della Gorgone per descrivere il difficile compito dello storico. Nello scudo dell’eroe antico si riflette l’immagine della Gorgone, simbolo in Immagini malgrado tutto della realtà 'inimmaginabile' di Auschwitz. Soltanto facendosi carico di questa immagine, Perseo può usarla per sconfiggere l’indicibilità del Male. Ma il vero atto di coraggio, per Didi-Huberman, non è quello di affrontare la Gorgone con l’astuto mezzo 'tecnico' fornito da Atena, quanto di rivolgersi a guardare l’immagine riflessa nello scudo, che è l’unico modo per poter guardare in faccia il Male. Per questo, per raccogliere l’atto disperato del fotografo di Auschwitz, “noi dobbiamo […] imparare a maneggiare il dispositivo delle immagini, per sapere che farcene del nostro vedere e della nostra memoria. Dobbiamo imparare, insomma, a maneggiare lo scudo [di Perseo]: l’immagine-scudo”, quella immagine che Perseo ha il coraggio di guardare, “malgrado” il rischio di rimanere pietrificato.
In his 2003 book Images in Spite of Everything, Georges Didi-Huberman presents a historiographical approach to the Shoah, emphasizing the essential tension between fragmentary historical evidence and the ethical responsibility of historians to interpret these traces. Focusing on four photographs taken by a member of the Sonderkommando at Auschwitz in August 1944, Didi-Huberman contends that these images—"shreds snatched from a world that considered them impossible"—present both an epistemic challenge and a call for moral engagement. These images, imperfect and lacunal as they are, must not be treated as mere documentary fragments but as "tears" in reality that require careful, imaginative interpretation. Didi-Huberman critiques both the historical tradition that demands too much from such fragmentary evidence and the skepticism of scholars like Hayden White, who deny the possibility of accessing a deeper historical truth. For Didi-Huberman, imagination is crucial in bridging the gaps of knowledge; historiography must engage in a dynamic interplay between images, texts, and speculation. In contrast to Claude Lanzmann's argument in Shoah that no image can capture the full horror of the extermination camps, Didi-Huberman advocates for the montage of words and images to construct a more nuanced and effective historical narrative. Drawing on the myth of Perseus and the Gorgon, he argues that historians must courageously face the "unimaginable" reality of the Holocaust, not by avoiding the image of Evil, but by confronting it directly through the juxtaposition of visual and textual sources.
keywords | Georges Didi-Huberman, Holocaust, Shoah, Sonderkommando, Claude Lanzmann, Giorgio Agamben, Perseus, Gorgon.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Guidarelli, Lo sguardo di Perseo. Il lavoro dello storico tra scrittura e dimensione etica in Immagini malgrado tutto di Georges Didi-Huberman, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, “La Rivista di Engramma” n. 64, maggio 2008, pp. 60-65 | PDF